Com` è difficile essere arabo-israeliano»

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Com` è difficile essere arabo-israeliano»
Com' è difficile essere arabo-israeliano» - Massimo Fini
Tel Aviv, gennaioIl vecchio arabo, vestito con logori panni europei, salì sull' autobus portando a
spalla un ammasso di arance raccolte in una reticella verde. Aveva i capelli grigi e un viso largo,
gonfio. Ansimava. Più a gesti che a parole chiese al bimbetto ebreo, con la classica kippà
(papalina) in testa, che era seduto quasi in fondo all'autobus, se poteva appoggiare il sacco
sulle sue ginocchia. Il bimbo prese il sacco aiutando l'arabo a sistemarlo. Immediatamente una
signora che sedeva nella fila dietro lo redarguì con asprezza: «Cosa fai? Sei pazzo? Quelle
potrebbero essere delle bombe». A queste parole, altra gente si alzò, il sacco fu strappato dalle
mani del bambino, rivoltato, frugato, alcune arance caddero e rotolarono sotto i sedili. Il vecchio
arabo guardava in silenzio, passivo. Pareva frastornato da tutte quelle voci che gli parlavano
ebraico e che non capiva. Alla fine fu chiaro che le arance erano proprio arance. La signora
israeliana commentò seccamente, rivolgendosi agli altri passeggeri: «Beh, è sempre meglio
essere prudenti». La corta strada era stata bloccata. La folla, raccolta dietro le transenne agli
imbocchi della via, osservava il militare israeliano che con un telecomando manovrava a
distanza un piccolo robot. Il robot, una cassetta di metallo marrone con due lunghe braccia,
simili alle chele di un enorme ragno, era alle prese con una grossa scatola di cartone
appoggiata al muro, vicino ad un negozio con le saracinesche abbassate (tutte le saracinesche
della strada erano state abbassate). Le chele palparono leggermente lo scatolone, poi lo
presero di forza e lo sollevarono in aria. La folla seguiva, trattenendo il fiato. Il robot sbatté a
terra, violentemente, lo scatolone. Non accadde nulla. Le chele armeggiavano ora furiosamente
con la corda che teneva insieme la scatola. La tranciarono. Il robot sollevò di nuovo lo scatolone
per aria e lo capovolse: un mucchio di stracci sporchi si sparse sul selciato. La folla si sciolse
lentamente. Sulle scale d'una palazzina di Rehov Gordon, un antico quartiere residenziale nel
centro di Tel Aviv, cercavo invano l'appartamento di un vecchio giornalista italiano che mi era
stato raccomandato di contattare. Erano passate da poco le nove di sera, era buio e non
riuscivo a leggere le targhette con i nomi. Sentivo al di là delle porte il rumore della televisione.
Era l'ora del telegiornale. Decisi di suonare a casaccio, con l'intenzione di chiedere se
sapessero dove stava «the old italian journalist», il vecchio giornalista italiano. Ma nessuno
venne ad aprire. Provai ancora, bussando a vari appartamenti. Ogni volta avevo l'impressione
di sentire il fruscio di leggerissimi passi e d'esser guardato da dietro l'occhio di bue (tutte le
porte lo avevano). Dopo molti tentativi mi rispose finalmente una voce di donna, al di là della
porta. Ma prima che potessi spiegarmi disse: «Non posso aiutarvi. Andate via, andate via». Ciò
che si respira oggi in Israele non è un'aria di guerra né rabbia né odio e neanche paura in
senso stretto, ma è diffidenza e sospetto. Non si tratta però d'una diffidenza e d'un sospetto
d'oggi dovuti, come potrebbe pensare chi viene da fuori, allo shock per i recenti attentati
terroristici di Fiumicino e di Vienna o per il sequestro dell' Achille Lauro. «Qui nessuno si
preoccupa delle spacconate di Gheddafi» A queste cose gli ebrei che vivono in Israele hanno
fatto, in qualche modo, il callo, le vivono con un certo fatalismo. E, soprattutto, non se ne
sentono toccati più di tanto perché son fatti che avvengono fuori dei loro confini, lontano. Per lo
stesso motivo, qui, nessuno si dimostra particolarmente preoccupato per le spacconate di
Gheddafi. «Gheddafi» mi dice Yossi Zeira. 35 anni, docente di economia all'università di
Gerusalemme e ufficiale dell'esercito, «Gheddafi è lontano. C'è l'Egitto di mezzo. Caso mai qui
si teme di più la Siria, che è ai nostri confini, che ha gli uomini lì, i missili lì». Ma il problema vero
dei tre milioni e mezzo di ebrei che vivono in Israele, perlomeno della gente comune se non del
governo, gli uomini verso i quali si indirizza il loro sospetto, la loro diffidenza e, a volte, la loro
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paura, la loro rabbia, il loro odio, non sono i terroristi di Abu Nidal, di Abbas o delle altre
squadracce che infestano il Mediterraneo, ma gli arabi che vivono qui, siano essi
arabo-israeliani (cioè i 700 mila arabi che, inglobati nello Stato d'Israele ne11947, hanno la
cittadinanza israeliana) o arabi dei territori occupati (un milione e 200 mila). Mi spiega Gady
Castel, 44 anni, capitano della riserva, regista della Tv isreliana: «Quando c'è un attentato
come quello di Fiumicino certamente qui la gente ne parla, ne discute, ma non più che da voi in
Italia. Non c'è una vera rabbia, una rabbia viscerale. C'è piuttosto una rabbia politica un po'
ipocrita tesa a trarre dei vantaggi politici dalla situazione. Dopo Fiumicino un commento che ho
sentito è: “Così Craxi impara”. Ma quando c'è un attentato qua, in Israele, o anche
semplicemente qualche episodio di violenza minore da parte di arabi locali o di arabi dei
territori occupati, il tono cambia, allora viene fuori la rabbia vera, l'odio tenuto nascosto,
crescono la diffidenza e il sospetto e si sente subito fare la richiesta di condanna a morte». Gli
episodi di violenza nei confronti di ebrei, da parte sia di arabi israeliani sia di quelli dei territori
occupati, sono ormai all'ordine del giorno, da qualche anno a questa parte. Si va dall'abituale
lancio di sassi quando macchine o autobus di ebrei passano nei quartieri arabi agli
accoltellamenti, agli omicidi dei taxisti, ai sequestri di persona (come è accaduto a due maestri
di Afula), allo stupro e all'uccisione di soldatesse, allo stupro e all'omicidio di bambini, agli
attentati con pacchi dinamitardi. Anche il giorno in cui sono partito da Israele, un poliziotto
israeliano, che stava facendo compere a Nablus, una delle cittadine più importanti della
Cisgiordania occupata, è stato ucciso in un attentato. «Non posso sentirmi a casa mia in uno
Stato ebraico» Quello che preoccupa di più, naturalmente, è il montar della rabbia antiebraica
fra gli arabi locali che sono cittadini dello Stato di Israele a tutti gli effetti e che potrebbe portare,
alla lunga, ad uno stato di latente guerra civile, simile, fatti tutti i debiti distinguo, a quella che c'è
oggi in Sud Africa. La situazione fra ebreo-israeliani ed arabo-israeliani è cominciata a
deteriorarsi gravemente dopo «la guerra dei sei giorni» del 1967 che rappresenta un po' un
crinale nella storia d'Israele. Con quella guerra infatti Israele incorporò territori arabi della
Cisgiordania, di Gaza, di Gerusalemme e i loro abitanti. Questo ha messo gli arabi-israeliani in
una posizione difficilissima (mi ha detto un insegnante arabo-israeliano che vive a
Gerusalemme: «Quando vado a Tel Aviv sono un arabo, ma quando vado a Nablus sono un
israeliano») e li ha costretti per forza di cose ad assumere atteggiamenti più estremisti, a
riscoprire una identità palestinese di cui s'erano quasi dimenticati. Quando ho chiesto a
Mahamud, un bel ragazzo arabo che studia sociologia all'università di Tel Aviv, se si sentisse
più arabo o israeliano, mi ha risposto, secco: «Io mi sento prima di tutto un palestinese. Non
posso sentirmi a casa mia in uno Stato ebraico». E Mahamud è tutt'altro che un esaltato.
(Quando gli ho domandato che cosa pensa di Gheddafi ha sorriso divertito: «Penso soprattutto
che dice delle sciocchezze» ). Aggiunge Mahamud: «Come posso sentirmi israeliano se le
stesse persone che mi chiedono di esserlo, i nostri governanti, me lo impediscono, non mi
danno gli stessi diritti degli ebrei? La verità è che noi qui siamo pesantemente
discriminati».Replica Elierzov Pareskyt, tassista di origine polacca che mi porta da Tel Aviv a
Gerusalemme esprimendo un' opinione che è generale fra gli ebrei di Israele: «Ma che cosa
vogliono questi arabi, stanno bene, lavorano, studiano e in più non fanno neanche i tre anni di
servizio militare». Ma in Israele chi non fa il servizio militare è un cittadino di serie B. Gli arabi
non possono accedere a nessuna industria collegata, anche indirettamente, all'esercito (per
esempio quella elettronica), sono esclusi da molti posti direttivi, non hanno nessuna di quelle
agevolazioni (nell'acquisto degli appartamenti, di automobili e, anche, di abituali beni di
consumo) che lo Stato concede ai suoi cittadini che hanno fatto il servizio militare. «Ma privilegi
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a parte» prosegue Mahamud «c'è una discriminazione sociale evidente. Noi siamo il 17% della
popolazione, eppure studia solo il 5%. lo mi rifiuto di credere che l'intelligenza degli ebrei sia
così superiore. Eppoi ci sono le mille, piccole e grandi angherie d'ogni 'giorno. In marzo qui da
noi c'è una festa degli arabi, la festa della Terra. Insieme a degli amici ebrei abbiamo preso un
autobus e ci siamo andati. Ma a Taide c'era un posto di blocco e solo noi hanno perquisito,
spogliato, ci hanno fatto chinare e alzare, alzare e chinare infinite volte. Nel kibbuz si gioca a
riconoscere gli arabi «Non aspettavano altro che reagissimo per pestarci a sangue. Un'altra
volta, sempre insieme a degli ebrei, siamo andati a Ramallah, nei territori occupati, per ragioni
di studio. Ed i soldati israeliani ci han preso i libri ed i registratori, li hanno buttati per terra e li
hanno calpestati. Un mio amico dell'università di Hizeirt, un palestinese dei territori occupati, mi
ha detto: «Di ebraico so solo quattro frasi: mani in alto, perché hai gettato sassi, stai su un
piede solo, chiedi scusa». Dice, con grande amarezza, Moshè Artom, un ebreo torinese che è
qui dal '39 e che, inseguendo la generosa utopia socialista dei pioneri, ha sempre lavorato in
kibbuz (oggi vive a Nezer Sereni, un kibbuz ad una ventina di chilometri da Tel Aviv): «Io ho un
figlio nato nel '39 che, a parte quella del '48, si è fatto tutte le guerre contro gli arabi. E quelli
che sono stati in guerra con gli arabi, tre, quattro, cinque volte non riescono a considerarli come
li consideravamo noi, che venivamo da tutt'altra esperienza, e cioè degli uomini assolutamente
uguali a noi. Per loro sono dei nemici». C'è quindi in Israele una perenne tensione fra ebrei ed
arabi. Ciò finisce per creare una ipersensibilizzazione reciproca anche negli arabi e negli ebrei
non estremisti che sono la maggioranza. Gli arabi si sentono tutti ingiustamente sospettati. Gli
ebrei si sentono minacciati. Al di sotto dei fatti di sangue monta un razzismo incrociato che
diventa una sorta di ossessione generale. Mi dice Sahel, una giovane donna del kibbuz Sereni:
«Fra di noi giochiamo continuamente a chi sa dire se quello è un arabo o un ebreo». È un
gioco significativo. Per questi motivi in Israele si colgono più i segni sottili d'una guerriglia
permanente che le tracce pesanti della guerra. Mezzi corazzati e colonne di soldati, Phantom e
Mirage non si vedono se non nelle zone di confine più calde, come quella col Libano. Della
guerra, della possibilità d' una guerra sono indizi i piccoli aerei da ricognizione che volano in
continuazione su Tel Aviv per controllare che non ci sia uno sbarco dal mare ed è rimasta I'
abitudine a sentire i notiziari radio a tutte le ore, in casa, nei bar, nei ristoranti, nei taxi, in strada.
Ricordo crudele della guerra sono anche i giovani storpi o mutilati che si vedono uscire dalle
grandi macchine americane che il governo ha loro regalato. Il resto sono segni di guerriglia. I
cartelli davanti all' università che invitano a deporre le armi in portineria, le perquisizioni delle
borse all' ingresso dei cinema, dei grandi magazzini. degli uffici più importanti, l' ossessione per
ogni pacco lasciato incustodito. i giovanissimi ragazzi della riserva (il militare si fa dai 18 ai 21
anni, poi entra in riserva fino ai 45) che, con divise approssimative e ciabattone, ogni giubbotto
diverso dall'altro, ma armati di un fucile a canna lunga, il Calil, che sembra una mitragliatrice,
pattugliano di sera Rehov Dizengoff, la via più importante di Tel Aviv (e fanno una certa
impressione perché. con quei giubbotti, con quell' aria indolente, non militare, sembrano i
giovani del nostro '68 improvvisamente armati). Qui c'è la gioventù più bella del mondo Rehov
Dizengoff, di sera, con le sue pizzerie. i ristoranti senza pretese. i venditori di noccioline. i
banchetti di cianfrusaglie e souvenir, le lampadine ancora intermittenti, i negozi modesti, la
musica rock americana che esce da un paio di discoteche insieme a qualche canzone italiana
di anni fa, sembra un incrocio fra il lungomare di Rimini e una città araba della costa, per quelle
sue case bianche e basse e per quell' aria dolce e profumata che è l'aria di Beirut, di Tunisi, di
Famagosta. Sulla Rehov Dizengoff, dì sera, si vede una delle più belle e straordinarie gioventù
del mondo. Sono ragazzi bruni e biondi, solari, abbronzati, aitanti, sorridenti, i lineamenti perfetti
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in volti peraltro singolari, l'aria ribalda, impunita di giovani canaglie in perfetta salute. Sono i
sabra askhenaziti, i giovani vissuti e nati qui da ebrei europei. È una vera ed impressionante
mutazione antropologica rispetto allo stereotipo dell'ebreo del ghetto, piccolo, malfatto, con quel
naso inconfondibile, quei menti sfuggenti, quell'aria di eterna paura addosso e la cui tipologia è
ancora ben presente in Israele, ma nelle generazioni dai trent'anni in su negli ebrei africani e
mediorientali (i sefarditi), marocchini, algerini, egiziani, iracheni, iraniani, yemeniti che sono
arrivati qui più tardi e che vivono nei quartieri poveri di Tel Aviv e di Gerusalemme. Ma questi
sabra sono diversissimi, per spavalderia, gagliardia fisica, atteggiamento psicologico, anche dai
loro coetanei ebrei che vivono a Parigi, a Milano, a Roma, & New York. Sono, mi
dicono qui, gli incroci razziali, in questo crogiolo di nazionalità che è Israele, la vita all'aria
aperta, gli anni di servizio militare, gli allenamenti da riservisti. che rendono questa gioventù
così bella ed aitante. E, dal punto di vista psicologico, a dargli quell' aria spavalda c'è di non
aver conosciuto né ghetti né persecuzioni ma d' essere abituati solo alla vittoria. Sono proprio
questi sabra ashkenaziti (cioè di origine europea) a costituire il nerbo dell' esercito israeliano, a
coprire i ruoli di ufficiali, di piloti, di paracadutisti, di carristi, i reparti scelti e più pericolosi. Sulla
Dizengoff ne avvicino uno che, col fucile in mano e la sacca militare a tracolla, scherza con le
ragazze, si muove agile fra i tavolini di un bar e va a baciare con affettuosa allegria la madre al
bancone. Lo Stato spende per la difesa il 30 per cento del bilancio Si chiama Natan, è un
carrista ed è in licenza perché è sabato. È proprio perfetto nella sua bella divisa di panno verde
aperta sul collo protetto da una immacolata maglia bianca. il ciuffo corvi no e ribelle sulla fronte,
le due dita di barba, il viso solare. Aperto, gli occhiali militari da sole appesi al petto. Assomiglia
a un soldato americano, ma con qualcosa di meno ottuso. Non è Rambo, ha i suoi bravi dubbi
anche lui seppure ad un livello non molto profondo ( «Quando sei in un esercito» dice «impari
ad entrare in una macchina della guerra, impari ad ammazzare, non te ne rendi conto» ). I
ragazzi come Natan entrano nei reparti speciali per vari motivi: perché ne hanno la vocazione,
perché è una promozione sociale e in seguito, nella vita civile, ci saranno delle facilitazioni, «ma
soprattutto perché» mi dice Aldo Baquis, giovane funzionario governativo «se tu vuoi vivere in
questo Paese ad un certo livello bisogna pagare il prezzo in prima persona: cioè rischiare la vita
nell'esercito. È lo stesso motivo per cui al contrario il proletariato formato dagli ebrei dell' Africa
occidentale non sente nessuna attrazione per l'esercito e si limita solo allo stretto dovere del
servizio militare senza dare nulla di più, senza assumersi altra responsabilità che l' obbedienza
(“Le teste piccole” le chiamano qui). È gente che non sente di dover nulla a questo Stato e a
questo establishment che l'ha fottuto, che da trent'anni lo fa vivere in quartieri miserabili, in case
piccole, con scuole e servizi che fanno schifo». Eppure non è quest'ebreo nordafricano, povero,
scazzato, a lasciare il Paese, ma è proprio il giovane sabra ashkenazita. Meta: gli Stati Uniti (da
parecchi anni Israele conosce una drastica caduta dell'immigrazione ed un aumento
dell'emigrazione). Perche? Perché questi giovani hanno ormai modi di pensare americani, gusti
americani, desideri americani. cultura (o, se si preferisce, non cultura) di tipo americano.
Ascoltano sicuramente di più la musica rock di quanto non leggano i sacri testi del sionismo. In
più vivono in un Paese che si è rapidamente tecnologicizzato, modernizzato cioè
americanizzato. Solo che si tratta, in qualche modo, di una americanizzazione senza America.
Nel senso che i miti del successo e del consumo sono americani, ma mancano le possibilità di
successo ed i consumi (la vita che si svolge in Israele è piuttosto spartana, i migliori negozi di
Tel Aviv hanno qualche assonanza, per tipo e povertà di merce, con quelli sovietici, e non
potrebbe essere diversamente per un Paese che spende per la difesa il 30% del suo bilancio).
«Allora» mi dice Gady Castel «ti rendi conto perché quel giovane sabra, sicuro di sé, che a
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diciannove anni è stato ufficiale nell'esercito e sa già come si guidano gli uomini, capisca che il
suo posto è in America, che con il suo tipo di capacità può guadagnare a Los Angeles quanto a
Tel Aviv non si sognerà mai. In più mettici che le ultime guerre, soprattutto quella nel Libano,
sono state poco chiare ed hanno creato molti dubbi anche fra le file dei giovani». «Eh sì»
aggiunge il padre di Gady Castel, il vecchio Calev «oggi il linguaggio del sionismo, della terra
promessa, è incomprensibile ai giovani. Un po' perché questa terra se la sono già trovata sotto i
piedi, non hanno dovuto desiderarla, agognarla, come noi, e molto perché ormai il successo
economico, consumistico è diventato il valore dominante in Israele. Ma se Israele è diventato un
Paese come gli altri, perché restarci?. Il giorno del mio rientro m'ero seduto al bar dell'aeroporto
di Tel Aviv in attesa dell'aereo che doveva riportarmi a Roma. Ma, approssimandosi l'imbarco,
mi alzai per pagare vidi che davanti alla cassa c'era una lunga fila che non si muoveva.
Preoccupato ed incuriosito la risalii per vedere che cosa succedeva. «Sadat ha fatto la pace
perché gli conveniva» Un ebreo di circa trentacinque anni stava discutendo con la cassiera di
questo: lui, al tavolo, aveva ordinato due caffè normali ed invece gliene avevano portati due con
filtro, come usano qui. Poiché costavano di più non intendeva pagarli. La cassiera obiettava che
se aveva bevuto dei caffè con filtro doveva pagare per questi. Si trattava di poche lire di
differenza. Ma i due andavano avanti a discutere, incattiviti, senz'ombra di ironia, impuntandosi
ognuno sulle proprie ragioni mentre l'aereo stava partendo. Mentre ascoltavo, friggendo, quella
discussione assurda, mi venne spontaneo pensare alla contabilità politica altrettanto puntigliosa
e micragnosa che gli israeliani hanno verso i vicini e che avevo potuto riscontrare anche fra i più
aperti. C'è, negli israeliani, una impossibilità quasi patologica a mettersi nei panni altrui, a
vedere anche le ragioni degli altri. Nulla gli va bene se non corrisponde esattamente all'idea che
si sono fatti dei propri diritti. Ai loro avversari non perdonano nulla. Non parlo, naturalmente, dei
terroristi, di Arafat, degli arabi più fanatici. Nemmeno i leader moderati gli vanno bene.
Nemmeno Sadat. Se Sadat ha fatto la pace è perché «aveva la sua convenienza». Che per la
pace sia morto non li commuove. «Evidentemente non aveva fatto bene i suoi conti, credeva di
avere un potere che non aveva», dicono con disprezzo. E così con Mubarak: non gli basta il
fatto che Mubarak abbia condannato all'ergastolo il poliziotto egiziano che ha sparato ed ucciso
sei israeliani in visita alle piramidi (atto dovuto, ma di grande coraggio per un arabo, visto che
quel poliziotto in Egitto è considerato poco meno che un eroe nazionale). Per loro fa premio su
tutto che Mubarak abbia detto, in un'intervista, che l'episodio delle piramidi era «in fondo un
piccolo fatto se rapportato alle relazioni fra due Paesi». Non glielo perdonano, Ho l'impressione,
vorrei sbagliare, che con una contabilità così puntigliosa delle proprie ragioni, Israele perderà
sempre l'aereo della pace, così come quell'israeliano, per questionare su poche lire, ha finito
per perdere il suo aereo per Roma.
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