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RASSEGNA STAMPA giovedì 19 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI E LAICITA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 19/03/15, pag. 2 L’EVENTO L’Arci: «Tutti a Tunisi il 24 marzo» «Un tremendo attentato ha colpito oggi il cuore di Tunisi. Almeno 20 morti per il fuoco aperto dai terroristi contro un pullman parcheggiato davanti e dentro al museo del Bardo, il più antico museo archeologico del mondo arabo, situato nel giardino del palazzo reale e non lontano dalla sede dell’assemblea tunisina. Molti sarebbero gli ostaggi, liberati da un blitz delle forze dell’ordine. Sono stati coinvolti anche numerosi italiani, di cui due, mentre scriviamo, sarebbero feriti. Il nostro cordoglio va alle famiglie di tutte le vittime, la nostra solidarietà alle istituzioni democratiche tunisine e soprattutto alla società civile di quel paese, impegnata a consolidare e difendere la transizione democratica. La Tunisia è la dimostrazione che esiste una terza via tra l’integralismo e l’autoritarismo – e per questo è sotto attacco da parte delle forze del terrore. Il modo migliore per mostrare la nostra vicinanza e solidarietà sarà partecipare in massa al Forum sociale mondiale che si svolgerà a Tunisi dal 24 al 28 marzo. Vi parteciperanno tutte le forze democratiche della regione, insieme a più di 70mila persone provenienti da tutto il mondo. Centinaia arriveranno dall’Italia e fra loro anche una numerosa delegazione dell’Arci». Da Redattore sociale del 18/03/15 Attentato a Tunisi, Arci: partecipare in massa al forum sociale mondiale Il cordoglio dell'associazione: "La Tunisia è la dimostrazione che esiste una terza via tra l’integralismo e l’autoritarismo e per questo è sotto attacco da parte delle forze del terrore" ROMa - "Il nostro cordoglio va alle famiglie di tutte le vittime, la nostra solidarietà alle istituzioni democratiche tunisine e soprattutto alla società civile di quel paese, impegnata a consolidare e difendere la transizione democratica". E' il commento dell'Arci che condanna il "tremendo attentato" che ha colpito oggi il cuore di Tunisi., in cui sono stati coinvolti anche numerosi italiani. "La Tunisia è la dimostrazione che esiste una terza via tra l’integralismo e l’autoritarismo e per questo è sotto attacco da parte delle forze del terrore. - si legge nella nota - Il modo migliore per mostrare la nostra vicinanza e solidarietà sarà partecipare in massa al Forum sociale mondiale che si svolgerà a Tunisi dal 24 al 28 marzo. Vi parteciperanno tutte le forze democratiche della regione, insieme a più di 70 mila persone provenienti da tutto il mondo. Centinaia arriveranno dall’Italia e fra loro anche una numerosa delegazione dell’Arci". 2 Da Repubblica.it del 18/03/15 (Parma) «Lavoro e Diritti» cena-incontro con SUSANNA CAMUSSO, segretario generale Cgil, giovedì 19 marzo al Fuori Orario di Taneto 19 marzo 2015, dalle 20:30 circolo Arci Fuori Orario Giovedì 19 marzo 2015 il circolo Arci Fuori Orario di Taneto di Gattatico (Reggio Emilia) ospita una speciale cena-incontro per parlare di «Lavoro e Diritti» con Susanna Camusso, segretario generale della Cgil nazionale, e Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell'Arci, che dialogheranno con il pubblico. A stemperare un po' un tema così importante, delicato e attuale, interviene anche, con un'introduzione comica alla serata, il cabarettista parmense Rino Ceronte, al secolo Umberto Abbati, rivelazione di alcune edizioni dei programmi tv «Colorado Cafè» e «Zelig Off». La cena comincia alle ore 20.30, seguita alle 21.30 dall'incontro: menù a base di antipasto di salumi e formaggi misti, polenta fritta, goulash di manzo con patate e dolce al cucchiaio. Apertura delle porte del Fuori Orario alle ore 20 e ingresso con tessera Arci, a 15 euro per chi partecipa alla cena (le bevande sono incluse e la prenotazione è obbligatoria allo 0522-671970) oppure gratuito per chi entra dopo le 21.30 per assistere al solo incontro; info www.arcifuori.it. La serata è improntata alla discussione, all'ascolto e alla possibilità di confrontarsi con le due ospiti in modo diretto e informale su temi quanto mai all'ordine del giorno come l'occupazione, le riforme, le condizioni dei lavoratori e i diritti. Segretario generale della Cgil ormai dal 2010, Susanna Camusso è nata a Milano nel 1955. Quando era iscritta alla facoltà di Archeologia dell'Università Statale, ha incontrato il sindacato durante le battaglie per il diritto allo studio e le rivendicazioni delle 150 ore, finalizzate a elevare il livello di istruzione e di conoscenza dei lavoratori. Nel 1975 ha conquistato il ruolo di coordinatrice per Milano delle politiche per la formazione della Flm, allora categoria unitaria dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil. Nel 1977 è entrata nella Fiom, la categoria dei metalmeccanici della Cgil, dove ha assunto diversi incarichi per vent'anni. Nel dicembre 1997 la Camusso è stata eletta segretaria generale della Flai Lombardia, la categoria dei lavoratori del settore agroalimentare, e nel luglio 2001 è diventata segretario generale della Cgil Lombardia. Il 3 novembre 2010 è stata eletta, prima donna nella storia della Cgil, segretario generale, e riconfermata nel maggio 2014. Nell'imminente weekend il Fuori Orario proporrà due serate di musica: venerdì 20 marzo i Rio nella prima data nazionale del tour col nuovo album best of «Mareluce», uscito questo settimana (biglietti a 12 euro), e sabato 21 We Love 2000 Party, la prima festa anni Duemila con tutti gli hit dal 2000 al 2010 e 4 dj ad hoc. http://parma.repubblica.it/agenda/day/2015/03/19/1/laquolavoro-e-dirittiraquo-cenaincontro-con-susanna-camusso-segretario-generale-cgil-giovedi-19-marzo-al/2943369?where=PR&time=2015-03-19T203000 3 del 19/03/15, pag. 5 Fiom, ora la Cgil dialoga con la Coalizione sociale Massimo Franchi Il Convegno. Dopo gli scontri, Landini e il segretario confederale Sorrentino si confrontano con precari e freelance. Due rappresentanti Fiom si occuperanno della coalizione sociale al posto del segretario L’espressione «coalizione sociale» era vietata, tanto che lo stesso Maurizio Landini ci ha scherzato sopra: «Uso la parola organizzazione sociale, sennò creerei dei problemi». Però è vero che quello che andato in scena ieri pomeriggio al piccolo Auditorium di via Rieti a Roma è la prima tappa della coalizione sociale — con freelance e “sciopero sociale” a parlare di Jobs act e nuovo statuto dei lavoratori. E allo stesso tempo è stata la prima occasione di dialogo fra Fiom e Cgil dopo lo scontro di questi giorni — con la segretaria confederale Serena Sorrentino seduta di fianco a Landini a confrontarsi su posizioni vicine sul merito delle questioni e non inconciliabili sul piano del metodo del lancio della coalizione sociale. Un dialogo che va di pari passo alla volontà delle due parti di non dividersi in vista della manifestazione del 28 marzo tanto che lo stesso segretario confederale organizzativo Nino Baseotto ha mandato ai territori una lettera per «favorire la partecipazione». Una volontà che la Fiom dimostra seguendo — o avendo già concordato con lui — la proposta lanciata martedì da Sergio Cofferati nell’intervista al Manifesto: saranno individuati almeno due dirigenti che avranno come compito quello di seguire il progetto di coalizione sociale, togliendo dall’impegno diretto e continuo Maurizio Landini. Lo stesso segretario della Fiom è cosciente che seguire tutto in prima persona è impossibile e — in chiave mediatica — controproducente: meglio far maturare il progetto in maniera più compassata e lontano dalle telecamere lavorando con chi si è già detto interessato — Arci, Emergency, organizzazioni dei precari e freelance — e puntando ad allargare il numero di associazioni fissando obiettivi e azioni precise su questioni ben definite e circoscritte, recuperando ad esempio anche Libera. I nomi dei due rappresentanti ancora non ci sono, ma la decisione è presa e verrà ufficializzata a breve. Come detto l’occasione di confronto è stata data dal convegno dal titolo “Contrasto al Jobs act: proposte e iniziative per un nuovo statuto dei diritti di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori”. Un tema che riuniva una nutrita pattuglia di giuslavoristi da sempre vicini alla Fiom (e facenti parte della consulta giuridica della Cgil) con il mondo del lavoro autonomo e dei free lance. Un incontro quasi storico che ha visto per la prima volta ad un convegno sindacale intervenire la presidente di Acta (l’associazione dei freelance) Anna Soru e il giovanissimo Alessandro Torti, di Clap, le Camere del lavoro autonomo e precario. E se Torti è stato assai applaudito specie quando ha ricordato Occupy Bce a Francoforte o quando ha proposto «un reddito di base incondizionato e la redistribuzione delle ore di lavoro», definita «una politica riformista radicale» oppure «il tasso di ideologia con cui finora il sindacato ha affrontato il tema dei precari e dei lavoratori autonomi», anche Anna Soru ha strappato applausi sebbene non abbia risparmiato attacchi al sindacato: «Abbiamo posizioni diverse, a noi ad esempio la contrattazione non interessa, ma su obiettivi chiari e concreti come l’estensione della malattia o della disoccupazione per tutti i lavoratori si può lavorare assieme». 4 Nel suo intervento Landini ha riecheggiato la coalizione sociale quando ha spiegato i due strumenti per contrastare il Jobs act. Se quello della contrattazione è «molto difficile perché le imprese si stanno organizzando per tenersi quel ben di dio che il governo gli ha dato», la seconda — il referendum abrogativo — «viene votato da tutti e proprio per questo il sindacato deve allargare il suo consenso per portare il paese dalla nostra parte e vincerlo». Il segretario Fiom ha poi ammesso di essersi convertito al reddito di base — «anni fa come tutto il sindacato ero contrario perché non capivo come uno poteva essere pagato per non lavorare» — «una partita che finalmente vogliamo vincere», mentre punta «a definire i minimi salariali nei contratti in modo da usarli come salario minimo orario per tutti i lavoratori, anche autonomi». Il nuovo statuto dei lavoratori deve rimanere «la traduzione dei diritti di cittadinanza presenti nella costituzione» e «deve tenere assieme tutti coloro che per vivere devono lavorare, tante condizioni diverse che sarà difficile riunificare ma che dobbiamo riuscire a fare». Landini non ha sentito le risposte di Serena Sorrentino perché era già partito per Milano per partecipare alle Invasioni barbariche. Ma non si sarebbe sorpreso nel trovarle molto vicine a quelle della Fiom. Il segretario confederale con delega al lavoro ha rivendicato come «sia stato il direttivo della Cgil a lanciare la proposta di un nuovo statuto dei lavoratori». «Uno statuto che deve riunificare lavoro pubblico e privato, lavoratori delle imprese sopra i 15 dipendenti e sotto i 15, che deve ridefinire il concetto di subordinazione e le tipologie contrattuali». Accanto a questo, per Sorrentino servono altri due statuti: «quello del lavoro autonomo e del lavoro professionale». L’accettazione del «salario minimo arriverebbe dall’applicazione dell’articolo 39 della costituzione: l’estensione erga omnes a tutti i lavoratori dei contratti nazionali». L’unico piccolo momento di tensione si è avuto quando Sorrentino ha detto: «Quello che non condividiamo è la trasformazione del soggetto che vuole costruire il consenso nececssario a battere il Jobs act». Dalla platea il segretario nazionale della Fiom Rosario Rappa ha domandato: «E chi l’ha detto?». Al che Sorrentino ha specificato: «Nessuno ha negato la funzione politica del sindacato, l’equivoco che attraversa il dibattito è l’ambivalenza dell’autonomia dai partiti». Un dialogo che conferma come la soluzione del contenzioso tra Fiom e Cgil sta nel legare al livello sindacale l’operazione “coalizione sociale” e nel trovare il modo di cancellare le ambiguità di chi — volutamente e strumentalmente nella grande maggioranza dei casi — ancora continua a sostenere che Landini voglia costruire un partito. Da l’Eco di Bergamo del 19/03/15 (ecodibergamo.it) Gori ribadisce: «La moschea si farà nonostante la nuova legge regionale» «Proprio in questa sala, da candidato sindaco, presi l’impegno di garantire a Bergamo il diritto costituzionale e la libertà di culto, con la promessa di dare una risposta alle necessità dei musulmani di una nuova moschea». «Oggi, da sindaco, non ho cambiato idea.Ma abbiamo un ostacolo in più, ora, che è questa legge sgangherata e pretestuosa sui luoghi di culto varata dalla Regione Lombardia». Giorgio Gori ha parlato chiaro l’altra sera al convegno organizzato dall’Arci di Bergamo (presenti i presidenti provinciale Roberto Mazzetti e regionale Massimo Cortesi, a coordinare il dibattito Paolo Scanzi, responsabile Welfare Arci Bergamo) al teatro Qoelet sul tema «Razzismo, paura e libertà di culto». 5 Un convegno che, oltre a un «focus» sulla tolleranza e le discriminazioni in Italia, non poteva prescindere da un’analisi di quella recentissima legge ( articoli di modifica alle norme del 2005) varata dalla maggioranza di centrodestra al Pirellone e definita «antimoschee», recentemente impugnata davanti alla Corte costituzionale dal governo Renzi, anche su sollecitazioni non solo politiche ma anche della società civile, comunità religiose in primis, dagli evangelici ai buddisti. Nonostante la legge «pasticcio», Gori e la sua giunta andranno avanti nell’iter per la realizzazione di una moschea a Bergamo: « Abbiamo due opzioni: o avviare un percorso che segua passo passo l’attuale normativa, e questo ci rallenterà molto, o contare che l’impugnativa davanti alla Corte costituzionale vada a buon fine. In quest’ultimo caso il nostro iter sarà più agevole. Chiedo però alle comunità islamiche di essere più coese e consapevoli della realtà in cui vivono: la giusta istanza di un luogo di culto non deve sfociare in casi come via Quarenghi o via San Bernardino, dove si mascherano moschee da centri islamici. Si rende difficile il percorso di rispetto reciproco». http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/gori-ribadisce-la-moschea-si-faranonostantela-nuova-legge-regionale_1110968_11/ 6 ESTERI del 19/03/15, pag. 2 Un commando di uomini armati ha tentato l’assalto al Parlamento Poi gli spari contro un bus davanti al Bardo. Prese decine di ostaggi Le forze speciali in azione: un arrestato, due uccisi, almeno due in fuga Tunisi, terrore e sangue attacco al museo 4 italiani tra i 22 morti blitz per liberare i turisti GIAMPAOLO CADALANU DAL NOSTRO INVIATO TUNISI . Gli schizzi di sangue scendono lentamente sulla figura di un antico romano in tunica bianca, come se la ferita fosse del personaggio sul mosaico. Corpi di turisti straziati giacciono per terra, in mezzo alle sale del Museo del Bardo, che racconta la nobiltà del passato tunisino. In un angolo, davanti a una parete bianca crivellata di colpi, c’è un giovane vestito da poliziotto, più avanti un altro in tuta da ginnastica. Tutt’e due sono ancora avvinghiati al kalashnikov con cui dovevano dimostrare che l’unica via verso Allah è quella del loro credo fanatico. Hanno massacrato i turisti, risorsa fondamentale del Paese, senza esitare nemmeno quando davanti al mitragliatore vedevano bambini terrorizzati. Ma se volevano mettere la Tunisia in ginocchio, non ci sono riusciti. A fine giornata, il bilancio del sangue è impressionante: 22 persone uccise, fra cui almeno quattro turisti italiani, e una quarantina di feriti, con due terroristi abbattuti dalle forze speciali, uno arrestato e due o tre in fuga. Il bilancio politico è ben diverso. Più ancora che lo sgomento, per le vie di Tunisi e fra i manifestanti subito raccolti a migliaia davanti al Teatro Nazionale si respirava la rabbia e allo stesso tempo la decisione di andare avanti comunque, a dimostrare che il modello di Bourghiba regge anche davanti all’assalto del fondamentalismo. Niente città blindata: le strade erano piene e le famiglie camminavano tranquille. Non è ancora del tutto chiaro chi abbia organizzato l’attacco: i due terroristi uccisi erano anch’essi tunisini, Jabeur Khachnaoui, di Kasserine, e Yassine Laâbidi, di Ibn Khaldoun. Adesso gli analisti segnalano che i siti jihadisti sono un florilegio di celebrazioni da parte dei militanti del sedicente Stato islamico. Ma per ora un legame diretto con gli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi non è chiarito. La ricostruzione dell’assalto, ancora provvisoria, sembra indicare che qualcosa è andato storto da subito nei piani dei jihadisti. Il commando era composto di cinque uomini, travestiti da poliziotti, e poco dopo mezzogiorno si era diretto verso l’edificio del Parlamento, che sta vicino al museo del Bardo. Sembra probabile che l’attacco fosse stato pianificato in coincidenza con la discussione di una nuova legge anti-terrorismo. Le guardie del Parlamento, però, hanno individuato e respinto i finti poliziotti. A quel punto, il gruppo ha deciso di attaccare il museo del Bardo, pieno di turisti occidentali come sempre. Prima di entrare nell’edifi- cio, i jihadisti hanno aperto il fuoco su un pullman parcheggiato davanti al museo, uccidendo almeno otto persone. Poi sono entrati nelle sale del museo. «Ho sentito una raffica, ho capito che c’era qualcosa che non andava», racconta il romano Alberto Di Porto dal suo letto nell’ospedale Charles Nicolle: «Con mia moglie e un gruppo di altre persone ci siamo nascosti dietro una loggetta, abbiamo fatto proprio come a Parigi, nel market Hyper Kosher. Non si sono 7 accorti di noi. Abbiamo sentito esplodere almeno una granata, e raffiche continue. Ho visto solo un falso poliziotto, per un attimo, so solo che aveva il passamontagna». Il commando ha preso in ostaggio quanti più turisti possibile, bambini compresi, trattenendoli con i mitragliatori e aprendo il fuoco, ma molti sono riusciti a fuggire. A quanto si può capire, non c’è stato nessun tentativo di negoziazione: il blitz delle forze speciali è stato quasi immediato, due terroristi sono rimasti uccisi e gli altri sono fuggiti. La caccia all’uomo è partita immediatamente: un membro del commando è stato catturato, degli altri — due o forse tre — non si sa con certezza, anche se le autorità tunisine parlano di due sospetti già fermati. Per gli ostaggi, il momento di respirare. «I giapponesi che erano con noi sono usciti dal museo con le mani alzate, erano terrorizzati», racconta ancora Di Porto: «Alla fine di tutto, quando siamo usciti, ho visto un corpo in una pozza di sangue. Quando ci hanno portato fuori, temevamo che avessero messo qualche bomba. Non sono ferito, mi sono fatto male a un piede perché sono caduto andando via dal museo». Al Charles Nicolle c’è anche un’altra italiana, la signora B. S., che ieri sera è stata operata per una leggera ferita alla gamba: secondo il rac- conto degli infermieri, la turista è stata colpita di striscio da una pallottola mentre cercava di coprire il figlioletto dalle raffiche dei jihadisti. La reazione della Tunisia è già partita. «Il nostro Paese è in pericolo. E non avremo nessuno scrupolo per difenderlo», ha detto il primo ministro Habib Essid. E il presidente Beji Caid Essebsi gli ha fatto eco in un discorso tv: «Terremo la testa alta. E faremo tutto il possibile per impedire che un fatto come questo si ripeta». I tunisini intanto si commuovono per il cane poliziotto ucciso durante il blitz, ma soprattutto piangono il loro nuovo eroe: è Ajman Murjan, l’ufficiale di sicurezza caduto durante l’attacco. Un tunisino pronto a sacrificarsi per gli altri, un uomo della stessa pasta di Mohamed Bouazizi. del 19/03/15, pag. 1/34 NELLA TRINCEA DEL MEDITERRANEO GAD LERNER LA TUNISIA è l’esile ponte fra le due sponde del Mediterraneo che i jihadisti vogliono far saltare per aria. Stroncando vigliaccamente la vita di tante persone, il fanatismo islamista ha preso di mira l’idea stessa di cultura e interscambio mediterraneo. CIOÈ il flusso da cui trae linfa la nostra civiltà. Fermarli comporta un’assunzione di responsabilità troppo a lungo rinviata. Un rinvio di cui si comprendono le ragioni: siamo turbati dalle implicazioni militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione Europea. Ma che, sia pure con tutte le precauzioni del caso, sarebbe ben più pericoloso rinviare ancora. Quando i nostri concittadini vengono presi in ostaggio a centinaia, e l’Europa viene sospinta con ferocia a considerare zona d’accesso proibito la sponda meridionale del mare in cui si bagna, è evidente che un’azione di polizia internazionale diviene imperativa. E che l’Italia, diretta interessata, viene chiamata dalla geografia a esserne protagonista. Fin troppo chiaro è l’obiettivo della furia criminale dispiegata a Tunisi: aggredire l’unico Paese musulmano che sia riuscito ad avviare una faticosa transizione democratica dopo la cacciata del tiranno a furor di popolo nel 2011. Di più. La resistenza coraggiosa di una società civile tunisina che condivide con noi i valori del pluralismo e della laicità, ha lacerato al suo interno la Fratellanza musulmana, trascinando una parte cospicua degli integralisti a partecipare del processo costituzionale. Fino a provocare una preziosa spaccatura nello stesso fronte islamista. Insopportabile, tutto questo, per gli aspiranti restauratori di un Califfato che da secoli non esiste più e che viene 8 da essi riesumato sotto forma di guerra di religione oscurantista. Vogliono sabotare il laboratorio tunisino per farne un’altra Libia e seminare il caos in tutto il Maghreb, fino a cercare una rivincita perfino in Algeria, il luogo della loro prima sconfitta storica. Perché ce ne siamo dimenticati? L’Algeria vent’anni fa ha vissuto un martirio con oltre centomila morti, interi villaggi massacrati all’arma bianca dai tagliagole del Gia. E quell’ecatombe, anticipatrice della guerra in corso oggi, venne scandalosamente favorita dalla nostra indifferenza. Anche lì donne brutalizzate, anche lì una società civile e una libera stampa umiliate dai diktat integralisti, fino a che l’esercito algerino non è riuscito a debellare i jihadisti in un bagno di sangue. La storia, però, non si ripete. L’attentato di Tunisi fa parte di una strategia militare ben più estesa e calcolata, dalla Mesopotamia all’Africa con diramazioni nel cuore dell’Europa. L’inazione a questo punto sarebbe fatale. Anche perché c’è un secondo fattore che tendiamo a esaminare malvolentieri, magari riducendolo a incognita militare, e rimuovendone (per il disagio) l’enorme portata culturale: di anno in anno sotto i nostri occhi raddoppia — sì, raddoppia — il numero dei guerrieri islamici disposti a suicidarsi, ripudiando ogni logica dettata dall’istinto di conservazione. Ormai sono migliaia di giovani, quando non ricorrono a ignari fanciulli. Incensati come martiri, scelgono la propria morte come scorciatoia provvidenziale, in una visione ottusa del monoteismo che dal loro sacrificio umano trarrebbe linfa vitale. E nella distruzione dell’edificio pagano — che può essere impersonato da un bambino o da una statua o da un mosaico, non importa — adempiono il loro compito rivoluzionario, la realizzazione di una Nuova Epoca. Perché il giacimento di volontari per la mattanza sembra essere inesauribile? Ormai non li contiamo neanche più, e invece per combatterli dovremmo imparare a conoscerli. La proliferazione degli aspiranti terroristi suicidi, la disponibilità a morire pur di scaricarci addosso il loro odio, naturalmente ci risultano talmente estranei da paralizzarci quasi per lo spavento. E così diventano anche il motivo per cui fatichiamo a immaginare un’azione militare che sia davvero efficace, nell’asimmetria fra i combattenti. Si è fatto giustamente notare che un intervento tradizionale sul terreno del Califfato, o nel magma desertico delle tribù libiche, rischia di trasformarsi in una trappola. Si è ipotizzato un blocco navale davanti alla Libia accompagnato da presidi a supporto di forze di resistenza locali e da corridoi umanitari. La scelta militare è imprescindibile, e al tempo stesso ne avvertiamo tutti i limiti, perché è chiaro che in questo conflitto le implicazioni culturali sono altrettanto decisive. Non aiuterà il conclamato irrigidimento di Netanyahu contro la nascita di uno stato palestinese, quando i musulmani per primi sono chiamati a farsi protagonisti di una partnership con le democrazie europee contro il jihadismo. Le insidie di un’azione di polizia internazionale fanno tremare le vene ai polsi. Ma la scelta contraria di asserragliarsi sulla sponda nord del Mediterraneo, nell’illusione di poter interrompere il flusso che da sempre ci lega ai nostri vicini mediterranei, equivarrebbe a un gesto di autolesionismo. Tanto per cominciare, se la minaccia libica non fosse bastata ancora a smuoverci, la difesa della Tunisia come ponte d’unione della democrazia e del Mediterraneo è diventata da ieri, a un secolo dal 1915, una nuova strategica linea del Piave. del 19/03/15, pag. 7 I servizi di intelligence in massima allerta “Possibili azioni in Italia” 9 Gentiloni: “Attacco feroce, risponderemo con fermezza” Arrestato a Brescia un pachistano: “Sospetto jihadista” ROMA . Massima allerta dei servizi per possibili azioni sul territorio italiano, con il ministro dell’Interno Angelino Alfano che riunisce i vertici dell’Antiterrorismo, mentre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni parla di «attacco di una ferocia e gravità senza precedenti al cuore della Tunisia» e conferma fermezza. E l’arresto di un giovane pachistano a Brescia, accusato di far parte di un gruppo con finalità terroristiche, avvicina la tensione dell’altra riva del Mediterraneo all’Italia, da dove tanti dei turisti ieri a Tunisi venivano. Proprio ieri mattina, dopo un incontro con il segretario generale dell’Onu Ban Kimoon, Gentiloni ribadiva l’impossibilità di ogni trattativa con l’Is e i jihadisti. Poche ore dopo, era di nuovo davanti ai microfoni per condannare l’attacco ed esprimere la massima vicinanza al luogo della primavera araba. «La Tunisia è stata in questi mesi il paese della speranza — ha ricordato Gentiloni — ero lì venti giorni fa e ho percepito una grande consapevolezza dei rischi legati all’esperienza politica che è in corso, un governo di laici che ha vinto le elezioni e ha gli islamici moderati nella coalizione. Sono coscienti di essere sotto attacco». In contemporanea, Alfano riuniva l’Antiterrorismo per fare il punto sulle minacce che riguardano l’Italia. Sono molti i tunisini nell’elenco dei quasi 70 cosiddetti foreign fighters diretti in Siria e Iraq passando per l’Italia — e svariati sono quelli espulsi nelle ultime settimane. Stessa sorte che subirà il pachistano Ahmed Riaz, 30 anni, disoccupato, fermato dal Ros dei carabinieri proprio ieri mattina a Brescia. Era stato già colpito da provvedimento di espulsione per l’attività online: fitti contatti sui social network con scambi di materiale jihadista con estremisti. Ora sarà riaccompagnato in Pakistan. Riaz è solo una delle 4.432 persone controllate in Italia da gennaio, quando dopo la strage di Parigi le misure di sicurezza e sorveglianza di fenomeni di matrice jihadista sono state rafforzate. Era sempre ieri quando, in audizione al Comitato Schengen, il capo dell’Antiterrorismo Mario Papa dava cifre e analisi della situazione sul territorio nazionale: quasi cinquemila controllati, appunto, fra cui ci sono 141 perquisizioni domiciliari, 17 arresti e 33 espulsioni. Fra quegli espulsi, i tunisini sono numerosi, si sottolinea ora. E il messaggio dell’Antiterrorismo risulta chiarissimo: massiccio monitoraggio della rete e guardia già alta, anche prima della strage che ha colpito la Tunisia. ( a. bad.) del 19/03/15, pag. 10 Due degli assalitori avevano militato nelle file dell’Is. Il Paese stretto tra bande islamiste che operano ai confini con la Libia e in Siria e gruppi pronti a sovvertire il nuovo ordine faticosamente conquistato Jabeur e Yassine i killer tornati dall’Iraq E il Califfo elogia gli autori del massacro Sono tunisini i due uomini uccisi al Bardo Da qui parte il maggior numero di combattenti ALBERTO STABILE BEIRUT . S’aspettava soltanto una rivendicazione chiara, o l’identificazione certa dei terroristi. A sera ogni dubbio è stato sciolto. I due assalitori che hanno massacrato 17 turisti e due 10 agenti della sicurezza al Museo del Pardo sono giovani tunisini di ritorno da un periodo di militanza nelle terre della jihad: Jabeur Khachnaoui, originario della città di Kasserine e Yassine Laabidi, di Ibn Khaldun. Ma è stato il primo, Khachnaoui, ad offrire inconsapevolmente un chiave per capire le ragioni di quest’attacco: tre mesi fa era scomparso nel nulla, poi, preso forse dalla nostalgia o dai sensi di colpa, aveva chiamato al telefono la famiglia adoperando una scheda irachena. Che il retroterra dei due terroristi di Tunisi fosse in quella galassia jihadista che, oltre a espandersi in tutto il Nordafrica, ha fatto della Tunisia uno dei maggiori fornitori di combattenti votati al martirio in Siria ed Iraq, è apparso chiaro sin dall’inizio. Se mai ce ne fosse stato bisogno è stato lo Stato Islamico, l’organizzazione che si ripromette di riportare il mondo musulmano ai tempi e agli usi del Califfato del Settimo Secolo, a confermare i sospetti iniziali, elogiando i due “martiri”, plaudendo all’attacco e invitando i tunisini a seguire l’esempio “dei loro fratelli”. Una minaccia peggiore non si può immaginare per il paese che, dopo avere dato il via alla Primavera araba, aveva saputo avviarsi sulla nuova strada della democrazia parlamentare e delle libertà fondamentali. Ma, nonostante i risultati ottenuti sul piano politico, oggi la Tunisia appare stretta dalla tenaglia delle bande islamiste che operano ai confini con la Libia e l’Algeria, e corrosa al suo interno dalla presenza di gruppi radicali pronti a sovvertire il nuovo ordine faticosamente conquistato. Non è una novità, questa presenza. Al pari di molti altri paesi arabi, la Tunisia è stata da anni un serbatoio di jihadisti pronti a imbarcarsi come combattenti ovunque, secondo la loro ideologia, il dettame religioso della “guerra santa” potesse assumere la concretezza di una sfida armata quotidiana, contro l’Occidente, contro i “crociati” e contro gli ebrei”. Un’immagine, a riprova. Marzo 2003, vigilia dell’invasione americana dell’Iraq, posto di confine di al Tanaf, tra Siria e Iraq. Un autobus con le tendine allargate per cercare di nascondere l’interno. E’ pieno di giovani che si preparano a combattere contro gli americani. In appoggio a Saddam? No, vanno a compiere la loro jihad dicono alcuni, con quelle quattro parole d’italiano che molti tunisini conoscono. Dieci anni dopo, Settembre 2013, in un grande albergo di Damasco, il regime di Assad ospita le madri, i padri, le sorelle di un centinaio di giovani tunisini presi prigionieri mentre combattevano in Siria a fianco dei ribelli. Assad ha promesso ad una Ong guidata da un avvocato amico del regime di liberarne alcuni, rimandandoli in patria. E’ un dono avvelenato perché si teme già allora che i “foreign fighter”, i combattenti stranieri che affollano i ranghi della rivolta armata, una volta tornati nei loro paesi saranno un problema per la sicurezza. Le storie si somigliano tutte. Famiglie niente affatto povere, giovani che hanno studiato, tutti molto religiosi. Poi, un giorno, la bugia: «Parto, vado a lavorare all’estero » chi in Libia, chi in Algeria. Inutili le proteste dei genitori. Un ragazzo di 20 anni deciso ad agire non lo si può fermare. Silenzio per mesi, poi una telefonata dalla Turchia: «Sto andando in Siria». «Sto andando in Iraq». Un mese per l’addestramento in Libia. Poi sul campo di battaglia. In questo modo la Tunisia è diventata, dicono gli esperti il principale fornitore di combattenti jihadisti nei campi di battaglia iracheno e siriani, circa tremila giovani, molti dei quali, ovviamente, hanno salutato la nascita del Califfato come una manna dal cielo, la motivazione che tutti aspettavano. E non importa se in altri tempi si sarebbe parlato di “carne da cannone”. Naturalmente, tornare a casa è una cosa, tornare per compiere un attentato efferato come quello di Tunisi è un’altra. Ci vogliono basi logistiche, appoggi, armi, complici, che gli inquirenti tunisini stanno cercando. Ma nel Nordafrica ormai in preda ala dissoluzione, alla guerra per bande, non è un problema. Sono almeno cinquecento i jihadisti tornati In Tunisia e a questi bisogna aggiungere quelli che sarebbero stati infiltrati dalla Libia. Poi ci sono le due maggiori formazioni islamiste radicali: la falange, o brigata 11 Okba Ibn Nafaa, legata ad Al Qaeda, attiva alla frontiera con l’Algeria e l’Ansar al Sharia, i sostenitori della Sharia (la legge islamica) legata all’omonimo ramo libico e la cui roccaforte e nel massiccio del Djebel Chambi, nel governatorato di Kasserine al confine con l’Algeria. E da Kasserine proveniva uno dei due terroristi del museo del Bardo. del 19/03/15, pag. 1/2 La rivoluzione tunisina nel mirino del terrorismo GIULIANA SGRENA La rivoluzione tunisina è entrata nel mirino dello Stato islamico. I due terroristi che ieri hanno provocato una strage al Bardo, il più antico museo archeologico del mondo arabo e dell'Africa, hanno compiuto quell'attacco che i tunisini temevano da tempo. Non è bastata una rivoluzione che ha abbattuto una dittatura aprendo le porte a un processo democratico, dove si sono confrontate forze laiche e islamiste, per sventare le velleità del terrorismo globalizzato. Il tema della sicurezza era stato al centro della campagna elettorale che lo scorso autunno aveva segnato la vittoria delle forze laiche a scapito degli islamisti che avevano dilapidato il consenso ottenuto nel 2011, nelle prime elezioni del dopo Ben Ali. Ennahdha, alla prova del potere, ha perso, anche se non ha rinunciato al governo. Ma ora il gioco è passato nelle mani degli estremisti che sono cresciuti all'ombra e con la complicità di Rachid Ghannouchi, il grande vecchio dell'islamismo tunisino. La grande pressione sulla Tunisia arriva dalla Libia e non solo per le ondate di profughi. Non a caso è stata rafforzata la protezione al valico di frontiera di Ras Jedir, spesso chiuso per evitare il passaggio di armi e di jihadisti e per contrastare il contrabbando. I controlli tuttavia non hanno impedito il passaggio dei jihadisti di Ansar al Charia che in Libia hanno la base logistica per coordinare le spedizioni in Siria. Proprio in Libia, a 70 chilometri da Sirte, sabato scorso è rimasto ucciso Ahmed Rouissi, durante gli scontri tra i sostenitori del califfato e la Brigata 166 fedele al governo installato a Tripoli. Ahmed Rouissi, leader di Ansar al Charia, era ritenuto uno dei terroristi tunisini più pericolosi, implicato anche negli assassinii, avvenuti nel 2013, dei leader del Fronte popolare Chokri Belaid e Mohamed Brahmi. Tuttavia finora il maggior numero di vittime - soprattutto di militari - si è registrato sulle montagne di Chaambi alla frontiera con l'Algeria, che ha inviato nella zona ingenti forze che agiscono anche oltre frontiera, con l'accordo di Tunisi. Il terrorismo globalizzato non conosce frontiere e colpendo la Tunisia mira a far fallire l'unica rivoluzione che finora ha avuto un esito positivo con l'avvio di un processo di democratizzazione che peraltro non ha escluso gli islamisti. Finché Ennahdha era al potere proteggeva le azioni dei salafiti che sono arrivati anche ad attaccare l'ambasciata americana. Non solo, proprio dalla Tunisia sono partiti migliaia di jihadisti che sono andati a combattere in Siria con il fronte al Nusra o in Iraq con lo Stato islamico. I tunisini reclutati nelle moschee o nelle associazioni islamiche con il consenso di Ennahdha - sono così diventati il maggiore supporto dei terroristi in Siria. Anche giovani tunisine sono state costrette a dare il loro contributo: sono state spedite in Siria a soddisfare gli appetiti sessuali dei combattenti, dopo aver contratto il matrimonio jihadista, una nuova versione del matrimonio di piacere o temporaneo. Ora i fratelli musulmani non sono più al potere, anche se sostengono il governo al quale partecipano con un proprio ministro, e la via è libera per i sostenitori del califfato, ormai 12 diffusi in tutto il Maghreb. La proclamazione del califfato a Derna, in Libia, ha evidentemente spinto i jihadisti tunisini all'azione. Un attacco sanguinoso anche se con l'impiego di forze limitate, forse anche perché, secondo quanto annunciato dal ministero dell'interno, era stata appena sgominata una cellula terroristica a nord di Tunisi. L'assalto al museo è avvenuto mentre all'assemblea nazionale, che ha sede anch'essa nell'ex palazzo reale, erano in corso colloqui tra il ministro della giustizia ed esperti del suo ministero e di quello dell'interno per elaborare la legge contro il terrorismo (pura coincidenza?) e contro il riciclaggio di denaro. La maggior parte delle vittime sono turisti stranieri (17 su un totale di 19, oltre ai due terroristi), probabilmente l'obiettivo, se calcolato, era quello di colpire il settore trainante dell'economia del paese. Il turismo era ripreso dopo anni di stallo provocato dai timori suscitati dai cambiamenti in corso ed ora rischia di subire una nuova battuta d'arresto. Proprio in questi giorni è difficile trovare posti liberi negli alberghi di Tunisi perché martedì 24 avrà inizio il Forum sociale mondiale e per l'occasione arriveranno esponenti di associazioni, movimenti, partiti da tutto il mondo e soprattutto dai paesi del Mediterraneo. In Tunisia si era svolto il Forum sociale anche due anni fa e proprio il successo di quella edizione aveva determinato la scelta di quest'anno. Anche il Forum è entrato nel mirino dei terroristi? Speriamo di no e solo una grande partecipazione in questa situazione può rappresentare un gesto di grande solidarietà con il popolo tunisino. Certo, un attacco terroristico di queste dimensioni alla vigilia dell'apertura, mentre fervono i preparativi, non è di buon auspicio. Ma forse come nel VII secolo era stata Kahina, la regina berbera, a fermare i califfi ora saranno le donne, già protagoniste della rivoluzione, a bloccare i seguaci di al Baghdadi. del 19/03/15 , pag. 11 QUELLA VOGLIA DI CAMBIAMENTO CHE LA JIHAD CERCA DI SPEGNERE RENZO GUOLO NONOSTANTE sia l’unico paese coinvolto nelle primavere arabe che ha realizzato un passaggio dalla dittatura alla democrazia e un ricambio di governo per via elettorale non traumatici come altrove, la Tunisia non è affatto immune dalla deriva jihadista. Come già mostravano, senza risalire al lontano attacco di Al Qaeda alla sinagoga di Djerba nel 2002, l’assalto all’ambasciata americana del 2012; l’assassinio, nel 2013, di personalità politiche come Chokra Belaïd e Mohamed Brahmi; i continui attacchi negli ultimi due anni contro la Guardia nazionale e l’esercito ai confini con l’Algeria; le stesse, recenti, operazioni antiterrorismo nella capitale; l’attacco suicida al resort di Soussa. Indicatore puntuale della diffusione dello jihadismo è il grande numero di tunisini presenti tra i foreign fighters che combattono, o hanno combattuto, in Siria e Iraq: circa tremila. Combattenti che si sono fatti conoscere dalla popolazione locale per efferatezza e determinazione in battaglia e nel controllo delle città. Così come un altro significativo indicatore è la presenza nelle aree confinanti con l’Algeria, in particolare nella zona del Monte Chaambi, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico. L’Aqmi è, almeno sin qui, l’organizzazione più attiva e pericolosa del fronte jihadista in Tunisia. Il suo ramo militare, la brigata Okba Ibn Nafaâ, attacca frequentemente i soldati tunisini, ai quali ha inflitto numerose perdite. Nonostante sia stato bersaglio di operazioni di aria e di terra da parte delle forze armate tunisine, il gruppo non è ancora stato debellato. 13 Altra organizzazione jihadista è Ansar al-Sharia, fondata nel 2011 e guidata da Abu Iyadh, militante legato a Al Qaeda che ha combattuto in Bosnia e Afghanistan. Iyahd è uscito di prigione con l’amnistia varata da Ben Ali nel 2011, dopo aver scontato otto degli oltre sessanta anni di carcere ai quali era stato condannato. Dopo l’attacco all’ambasciata americana è entrato in clandestinità. Il gruppo, coinvolto anche negli assassini politici di Belaïd et Brahmi, si è però indebolito e parte dei suoi effettivi sono passati prima a Ansar al Sharia libica poi, come buona parte dei militanti di quell’organizzazione, sotto il vessillo nerocerchiato del Califfato. Mentre altri suoi membri sono andati direttamente a combattere nelle file dello Stato islamico in Siria e Iraq. Sin qui, dunque, contrariamente a quanto avvenuto nelle vicine Libia e Algeria, lo Stato Islamico non ha reso noto l’adesione di gruppi organizzati tunisini, mediante l’atto di sottomissione, al Califfato. Anche se il suo effetto gravitazionale si fa ormai sentire anche in Tunisia. Si vedrà, una volta identificati i terroristi uccisi nell’attacco, se questi sono legati all’Aqmi o all’Is. Se l’assalto al Museo è opera o meno di mujahiddin tornati dalla Siria o di militanti mai usciti dal paese. Resta il fatto che la jihad si radica anche in Tunisia e che, come ha affermato il premier Essid, la guerra per sconfiggere il terrorismo sarà lunga. del 19/03/15, pag. 1/31 La guerra totale islamista Domenico Quirico Forse l’unico modo per capire, per rendersi conto sarebbe pubblicare bollettini giornalieri: «Oggi un gruppo islamista ha colpito nel cuore di Tunisi, almeno venti morti… sul fronte di Tikrit nel Sud del Califfato solo scambi di artiglieria, le forze sciite anti-Isis hanno continuato ad arretrare dopo il fallimento dell’offensiva per riprendere la città… Sahelistan: gruppi mobili di Al Qaeda Maghreb fanno razzie a Sud di Kidal… in Nigeria gruppi armati dei Boko Haram hanno bruciato un villaggio ai confini con il Camerun…». Episodi staccati? Guerriglie locali? Terrorismo diffuso? No: un giorno «normale» della Grande Guerra Islamista: perché si combatte dalle montagne afghane al deserto della Mauritania, dallo Uebi Shebeli alle rovine di Aleppo, tomba di un popolo sventurato. Globalità e contemporaneità. Pezzo dopo pezzo, scaglia dopo scaglia il Califfato totalitario disintegra la nostra tattica, vile e furbastra, di tenere gli scenari separati; per non dover ammettere il pericolo e affrontare decisioni scomode. Sì, qualcuno ha dichiarato guerra, e già la combatte, avanza, annette, amministra territori occupati, cancella le nostre frontiere, tiene in scacco fragili e spesso impresentabili alleati dell’Occidente, uccide e destabilizza dove già non maramaldeggia e amministra. Lo Stato che vuole cancellare tutti gli stati con una guerra totale. Non solo per i mezzi che impiega, i carri armati e i commandos suicidi, il petrolio e i video di propaganda. Siria Iraq Libia: creazioni politiche già morte, che non risorgeranno mai più. Il mondo è stato modificato brutalmente. Altri seguiranno, rapidamente. Non sarebbe un urto insostenibile, in fondo l’Occidente resta, ancora, più forte. Ma questa guerra è totale nel senso che i suoi obbiettivi sono mostruosamente e volontariamente dilatati, oltre la ragione e il calcolo: purificare parti intere del mondo, mezza Africa, il Levante l’Asia centrale, i Balcani, la Spagna… Che follia! Eppure: chiedetelo ai morti e quanti ne seguiranno perché, alla fine forse se ne venga a capo. Interessiamoci non alle sigle ma a questi terribili uomini nuovi del jihad con la morte sotto i piedi e l’odio che sale nel petto, credenti a cui non è servito a niente il mondo moderno, ora che tocca a ciascuno farsi strozzare dalla sua morte. Che solco immenso tra i loro mondi insanguinati e le 14 nostre piccole necessità: mettere i sicurezza il petrolio e il gas libico… controllare la partenza dei migranti… difendere i nostri clienti… trovare qualche dittatore di ricambio. Guardate la carta geografica: con zampate feroci, larghissime l’Islam che si è autonominato a sciogliere il nodo escatologico del destino umano, a fondare il regno di dio sulla terra ci esclude da parti intere del mondo estirpate col ferro rovente: il Sahara e la Libia proibite, il Sinai letale, la Siria e la terra tra i due fiumi cancellate… E la Tunisia: ecco la Tunisia. Appena riammessa nel branco dei paesi tranquilli, democratici, legalizzati: hanno votato una due tre volte… hanno vinto i nostri, i laici quelli in giacca e cravatta! esultavano i candides per cui le elezioni da sole hanno funzione scaramantica. La Tunisia scompare di nuovo dalle nostre mappe di viaggiatori sicuri, troppo pericolosa per occidentali, miscredenti, nemici, »kufar»... Il mondo si richiude sugli inventori della globalizzazione. Ne avanza un altro, col ferro, il fuoco il sangue, la guerra. Sempre più numerosi, giovani tentati, brancolanti, in cerca di profeti, si chiedono: è di nuovo il momento islamico della storia del mondo? Come fu ai tempi del primo califfato. Il successo genera successo, adesioni sciagurate, arruolamenti. Il loro viaggio dura secoli, si arruolano volontari in questa storia morta, in questi secoli di cenere solo per incontrare questo sogno feroce. La Storia non si vede purtroppo, come non si vede crescere l’erba. La magia perversa e letale della Parola, sciagurata e perfetta intuizione di Daesh: far risorgere il Califfato, la mitica età dell’oro per ogni musulmano, riavvolgere la Storia al contrario… Perché no? Noi cerchiamo distinguo bizantini tra le sigle dell’Internazionale islamista, e intanto tunisini e europei, siriani e ceceni, nigeriani e afghani fanno evaporare la loro identità precedente entrando nel mondo totale della guerra santa; seguono chi li ha già preceduti nelle vampe dell’odio. Per loro dio è un libro e l’uomo una cosa a cui non pensano più. Un mese fa ero in Tunisia: gente affranta, giovani senza lavoro che presidiavano interminabili caffè, chiassose beghe di mediocri politicanti, la sguaiata volgarità dei soliti ricchi... Tutti ti raccontavano storie sinistre: ragazzi scomparsi a centinaia, a migliaia. «Sono andati laggiù…», mormoravano come di persone che hanno contratto una terribile malattia e che non si rivedranno più... i martiri dello stato del Levante… I miti tunisini che sognano un dio che li accarezzi per fugare in loro il timore dell’universo, che dia loro una casa ove rifugiarsi e non soffrire. Le zone che crediamo sicure, l’Islam moderato su cui siamo pronti a giurare, la Tunisia l’Egitto l’Algeria il Marocco la Giordania hanno piedi d’argilla; la Bestia li rode con la voracità di termite e di colpo crollano, davanti ai nostri occhi stupefatti. Di quanta gente non sappiamo più niente? Ancora pochi mesi e non li nomineremo più, il Califfato li ha ingoiati. Avremo dimenticato cosa c’era prima e non cercheremo di spiegare l’inaudito. L’ordine che subentrerà ci circonderà con la stessa normalità di un bosco all’orizzonte o delle nubi sulla testa. Ci circonderà da ogni parte. Non ci sarà nient’altro. Passano i mesi il cervello e il cuore di tutto questa guerra, Mosul, resta piantato arrogantemente nel centro del vicino oriente. Uno scenario possibile tra dieci anni: lo Stato islamico stabilizzato e saldo nel suo territorio, senza più minoranze religiose, dieci milioni di persone vivono sotto il suo governo, il petrolio estratto da compagnie cinesi lo rende ricco. Il basso Iraq si è salvato grazie a Teheran, l’Arabia Saudita è presa d’assalto… Quegli uomini sono capaci di tutto. Sono una cricca sempre più piena di forza e di sicurezza mentre noi che aspettiamo non abbiamo niente. Viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da un minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tengono ben stretti al morso, gli uomini del califfato, si tengono uniti in quella dannata cricca che il successo aumenta ogni giorno, amministrano il loro sogno sanguinario, amministrano il paradiso, hanno tutto in pugno, loro. 15 del 19/03/15, pag. 14 Israele, governo alla destra è il trionfo di Netanyahu Gelo con la Casa Bianca Il premier uscente lavora a una coalizione con più seggi del 2013 Gli Usa: “Noi sosteniamo ancora la soluzione dei due Stati” FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . L’avevano dato per spacciato perfino alla Casa Bianca e invece Benjamin Netanyahu ha dimostrato ancora una volta di essere “King Bibi”. Una formidabile ripresa, dovuta soprattutto al suo battersi come un leone fino all’ultimo secondo, ha consegnato al Likud una vittoria sorprendente al voto in Israele. Trenta deputati su 120 assicurano al premier uscente la certezza di essere il primo a cui il presidente Reuven Rivlin darà l’incarico di formare il nuovo governo. Nella ventesima Knesset siederanno 24 deputati dell’Unione sionista, l’alleanza di centro-sinistra guidata da Yitzhak Herzog che ieri di buon mattino ha riconosciuto la sconfitta augurando «buona fortuna» all’avversario. «La nostra corsa non finisce qui», ha promesso Herzog ai suoi sostenitori, annunciando che Unione sionista non accetterà di entrare in un governo di unità nazionale — una soluzione caldeggiata dal presidente Rivlin — e farà «un’opposizione dura e rigorosa». L’uomo che parte di Israele ama e un’altra ama odiare, è già al lavoro per tentare di mettere insieme una coalizione di governo che promette «entro duetre settimane». Scontata l’intesa con Focolare ebraico — il partito dei coloni — in discesa con 8 seggi, e i due partiti religiosi che hanno superato lo sbarramento del 3,5%, Shas e Ebraismo unito della Torah (13 seggi), il “falco” nazionalista Avigdor Lieberman, capo di Israel Beiteinu (5 seggi). Ma Netanyahu guarda soprattutto a Moshe Kahlon, il suo ex ministro delle Telecomunicazioni, che con i 10 seggi del partitomatricola Kulanu, di centro-destra, è l’ago della bilancia. Kahlon ha già dato la sua disponibilità a entrare in un governo «focalizzato sugli aspetti sociali» e questa squadra, se concretizzata, assicurerebbe a Netanyahu una maggioranza di 67 seggi. Festeggia la Lista araba congiunta, che nelle urne ha raggiunto un obiettivo ritenuto impensabile fino a pochi mesi fa. È il terzo partito con 14 seggi, subito dopo il Likud e l’Unione sionista. Dopo le bordate delle ultime ore prima del voto — con l’anatema sullo Stato palestinese e la promessa di espandere gli insediamenti colonici — ieri Netanyahu non si è sbilanciato su quelle posizioni che hanno lasciato di stucco la comunità internazionale e messo il Likud su una linea nella quale diversi dei suoi quadri non si riconoscono più. I suoi tre “no” — no al compromesso, no alla cessione dei Territori, no allo Stato palestinese — hanno suscitato forti reazioni dominate dal pessimismo anche a Ramallah. I palestinesi annunciano che le parole di Netanyahu imprimono ancora maggior convinzione nel ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja e nel lavoro alle Nazioni Unite per il riconoscimento della Palestina come Stato. Tra le telefonate di complimenti ricevute da Netanyahu è arrivata anche quella del segretario di Stato americano John Kerry, ma non ancora quella del presidente Barack Obama, che chiamerà nei «prossimi giorni». Il gelo fra i due leader è palpabile da tempo e le parole di Netanyahu sono state uno schiaffo alla Casa Bianca e ai suoi tentativi di rimettere sul binario il negoziato. «Gli Stati Uniti restano impegnati nella soluzione dei due Stati », ha fatto sapere il portavoce presidenziale, ma anche che gli Usa alla luce delle posizioni espresse «stanno rivalutando il loro approccio ». Anche l’Onu e la 16 rappresentante europea per la politica estera Federica Mogherini hanno chiesto a Israele di restare impegnato nel negoziato, un appello più che un invito. del 19/03/15, pag. 14 Coloni e incubo Iran, così Bibi è rinato Ma ora nel mondo sarà più solo BERNARDO VALLI GERUSALEMME LO DAVANO per spacciato. Come primo ministro ci ha stancato, sentivi dire un po’ dappertutto. Nel ristorante kosher la studentessa che fa la cameriera. Nel tassì l’autista “sabra” nato a Gerusalemme, ma di una famiglia originaria di Bassora in Iraq. Strano, un sefardita, un ebreo orientale, dovrebbe essere un elettore di “Bibi”. E invece non lo ama. Non l’ama neppure il cronista nella redazione di un quotidiano moderato come Yediot Ahronot, anzi lo detesta. Senza parlare dell’amico, appesantito dagli anni, che ritrovo in pensione nella German Colony dopo averlo conosciuto dinamico attivista del Likud. Proprio del partito di “Bibi”. Anche noi siamo stufi di lui, mi confessa. E i due figli, uno ingegnere l’altro avvocato, si associano. La lista degli scontenti era insomma lunga, e avvalorava i toni disincantati dei giornali nei confronti del primo ministro in carica da un numero d’anni inferiore soltanto a quello di Ben Gurion, il fondatore dello Stato. Vale a dire da troppi anni. Poi, come in un’allucinazione, martedi notte, Benjamin Netanyahu è apparso trionfante nella sede del suo partito, con la moglie Rosa accanto. Battuto? Spacciato? Estromesso? È l’una quando comincia a parlare. La coppia Netanyahu sprizza energia, dopo un giorno decisivo, pesante, trascorso nell’attesa del risultato di un voto incerto, che poteva segnare una svolta decisiva, la fine di una grande carriera politica o quasi. La sconfitta annunciata dalle indagini d’opinione non c’è stata. Le proiezioni annunciano che dalle urne dovrebbe uscire un pareggio. In Israele invece delle percentuali dei voti si danno i risultati in seggi parlamentari: un 27 a 27 non è un successo strepitoso: ma una bella rimonta rispetto ai sondaggi che aggiudicavano al capo del Likud quattro seggi in meno della coppia Herzog— Livni, alla testa dell’avversaria Unione sionista, la coalizione di centro sinistra. Chi sperava nel tramonto di Benjamin Netanyahu si addormenta un po’ deluso. Inquieto. Gli scontenti dovrebbero essere in tanti, vista l’atmosfera di Gerusalemme. Invece le lunghe ovazioni dedicate dai militanti del Likud a Rosa e a Benjamin, e i sorrisi smaglianti con quali Rosa e Benjamin le accolgono, fanno pensare che i due conoscano la sorpresa annidata nello scrutinio dal quale usciranno i veri risultati soltanto nel primo mattino. Dichiarano la vittoria. Avendo dimestichezza con la mappa elettorale del paese è più facile prevedere dalle proiezioni la conclusione del voto. Forse hanno ragione quando si dicono vincitori in anticipo. Questo vale anche per quelli dell’Unione sionista che, invece, accogliendo la notizia del pareggio hanno un’aria bastonata. Anche loro inneggiano tuttavia al successo. Due vincitori in un solo voto. Due governi e una sola elezione. Il risveglio è brutale per gli uni ed euforico per gli altri. Nella notte il pareggio è sparito. Lo spoglio delle schede dà una chiara vittoria a Benjamin Netanyahu: 30 seggi contro 24 in favore del Likud. Le nostre corrispondenze scritte la sera erano l’effimera verità di un momento che si è dissolto. Benjamin Netanyahu avrà un quarto mandato come primo ministro. Nello spazio di poche ore sono sparite le speranze di una nuova dinamica nella politica mediorientale, e quindi una svolta nell’immobile problema israelo—palestinese. 17 Dopo quasi cinquant’anni (che conto dalla guerra del 1967) di occasioni perdute, è sparito il miraggio di due Stati, il palestinese accanto all’israeliano garantito nella sua sicurezza. È tragicamente sfuggito di mano come un pallone. Si è perduto nel vuoto spinto da un voto democratico. L’occupazione continua e del processo di pace non si vede più traccia. Questo è il prezzo del successo di Benjamin Netanyahu. Riacciuffato in extremis con l’energia e l’abilità riservate a pochi uomini politici. Nel suo ufficio Bibi tiene un ritratto di Winston Churchill, pensando di poterne trarre ispirazione, ed anche po’ di nobiltà. Ne avrebbe bisogno se volesse dare un senso e po’ di dignità al populismo che gli consente di riemergere ogni volta da crisi per altri politicamente fatali. Fino a qualche giorno prima della notte che ho descritto egli è apparso spesso ai collaboratori in preda al panico. I pronostici gli erano ostili. Le indiscrezioni sulle spese eccessive nella residenza di primo ministro erano oggetto di indagini e di indiscrezioni giornalistiche; la sfida lanciata a Barack Obama al Congresso di Washington sul problema nucleare iraniano, presentato come una minaccia diretta per Israele, non aveva avuto grande successo e aveva ferito la preziosa alleanza con la Casa Bianca; gli stessi dirigenti del suo partito gli rimproveravano di avere condotto una cattiva campagna elettorale. Ma lui conosce il suo elettorato. Gli stanchi del suo lungo potere erano soprattutto gente di città, delusi della politica che dopo l’ultima crisi di Gaza non dava più stabilità al paese nel Medio Oriente in tempesta. Molti erano askenaziti, ebrei originari del centro e nord Europa, non particolarmente amati dalle masse sefardite, originarie del Maghreb o del Medio Oriente, da sempre irritate dal ruolo privilegiato che loro, gli askenaziti, hanno nella politica e nella cultura. Bisognava tuttavia estirpare o attenuare lo scontento delle classi meno abbienti, anch’esse per lo più sefardite, per il rincaro dei prezzi, in particolare degli affitti, e per la forte sperequazione dei redditi, in una situazione economica tutt’altro che sfavorevole, con una crescita invidiabile in Europa e una bassa disoccupazione. Per questo lo scontento serpeggiava anche nel tradizionale elettorato del Likud. Benjamin Netanyahu l’ha strappato per il tempo necessario del voto da quelle preoccupazioni. L’ha isterizzato gettando nei comizi argomenti profondi, sensibili, non del tutto irreali, riguardanti la sicurezza. Ha colpito il ventre degli elettori distratti o scontenti. Li ha mobilitati. Ha sfoderato problemi che non aveva mai affrontato con tanta schiettezza. Uno Stato palestinese? Ne aveva accennato, dichiarandolo necessario, nel 2009. Alla vigilia del voto incerto l’ha escluso con fermezza. Quando ha mentito? Sei anni fa o sei giorni fa quando ha sentenziato che non ci sarà mai uno Stato palestinese? Un verdetto che blocca ancor più il paralizzato processo di pace. Se si esclude uno Stato binazionale, ritenuto irrealizzabile anche per la rapidità della demografia palestinese, e se si scarta l’idea di due Stati separati, resta soltanto la gestione normale delle crisi. Vale a dire l’occupazione dei territori palestinesi. Questo significa anche isolarsi dal resto del mondo, che nella sua grande maggioranza, Stati Uniti compresi, chiede che quel diritto, in larga parte già concesso dalle Nazioni Unite, sia riconosciuto al popolo palestinese. Nell’offensiva promossa nelle ultime ore per recuperare i voti che gli stavano sfuggendo, Netanyahu ha accusato i suoi avversari di volere dividere Gerusalemme con i palestinesi. E di voler smantellare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. In poche ore ha riconquistato molti elettori (in larga parte sefarditi e russi) presentando le sue decisioni come irrinunciabili per garantire la sicurezza di Israele. E questa sicurezza assomiglierà sempre più a quella voluta dall’estrema destra con la quale si deve alleare per avere la maggioranza in Parlamento. Un’estrema destra che vorrebbe annettere via via parte della Palestina già presidiata da 350 mila coloni. La procedura concede all’incaricato quattro settimane più due in caso di necessità per formare il nuovo governo. Unendo i seggi del suo partito a quelli dei partiti estremisti (di Bennett e di Liebermann), Netanyahu ne avrebbe a disposizione 44. I restanti dovrebbero 18 darglieli Moshe Kahlon, abile ministro dissidente destinato a rientrare nei ranghi come ministro delle finzanze. Kahlon dispone di dieci preziosi seggi da aggiungere a quelli dei partiti religiosi ortodossi: lo Shass (safardita) e l’Ebraismo unificato della Torah (askenazita). Questa è la coalìzione che Netanyahu cercherà di realizzare. Se ci riuscirà avrà una maggioranza di 67 seggi sui 120 che conta la Knesset. Il prezzo di questo governo, costruito con un abile populismo democratico, rischia di essere molto alto. L’autorità palestinese presenterà al Tribunale penale internazionale una denuncia contro l’occupazione della Cisgiordania. E reclamerà i diritti di dogana dei suoi prodotti gestiti da Israele e non corrisposti da due mesi. Netanyahu dovrà inoltre affrontare un isolamento internazionale, dopo la sfida lanciata al presidente americano e le richieste inattese di riprendere i negoziati di pace avanzati dalle democrazie occidentali. Lo Stato ebraico dovrà usare l’ampio credito che la Storia gli riconosce. del 19/03/15, pag. 1/8 Elezioni israeliane Di male in peggio Zvi Schuldiner Era certo difficile pensare che il cambiamento fosse alle porte; tuttavia, i sondaggi lasciavano spazio a un certo ottimismo: sembrava che la destra, benché in grado di formare una coalizione di governo, avrebbe ottenuto un risultato modesto, in grado di ridimensionare il prestigio di Netanyahu. Ma è andata altrimenti. Netanyahu si è recato a Washington denunciando che l’Iran e Hamas minacciavano l’esistenza dello Stato ebraico. E poi se la sinistra avesse vinto in Israele a quel punto anche Isis avrebbe minacciato l’esistenza dello Stato ebraico e l’unico in grado di affrontare tutti questi Hitler di turno era ovviamente lui, la grande guida. Le opposizioni del fronte anti-Bibi balbettavano timide richieste di riforme in campo economico-sociale e il premier rispondeva che in primo luogo doveva tutelare le nostre vite. Nessuno ha sfidato sul serio la politica della paura. La destra razzista ha ottenuto il minimo necessario per entrare in parlamento; il suo intento era chiaro: lasciare i palestinesi israeliani senza rappresentanza. La risposta è stata una problematica unità fra partiti molto diversi — in risposta a una legge che ha caratteristiche razziste. L’unità fra i partiti arabi ha avuto un forte impatto sulla società israeliana e il leader della lista – e del Partito comunista – è diventato un leader di livello. Ma mentre si votava, il nostro magnanimo grande primo ministro ha pubblicato sulla sua pagina facebook un appello urgente: «Molti arabi stanno votando»; come dire agli ebrei: forza, forza, andate a votare prima che gli arabi ci rubino il paese insieme alla sinistra, traditrice della patria. Andate a votare, appoggiate il Likud perché «quelli» mettono tutto in pericolo. Consegneranno la patria al nemico, divideranno Gerusalemme, e avanti così…Che cosa non si è potuto dire anche contro i timidissimi rappresentanti del moderatissimo centro liberale? La politica della paura ha funzionato. Predominante in Israele negli ultimi decenni, essa promette di infittire le tenebre nelle quali il paese vive. E il primo ministro Netanyahu può ora realizzare una coalizione nella quale la destra predomina con forza. Agli oltre trenta membri del Likud si uniranno i sei deputati dell’ultrarazzista Lieberman e gli otto dell’ultrà dei coloni religiosi nazionalisti, Bennet. Kahlon, che era stato allontantato dal Likud, 19 tornerà alla grande con i suoi dieci deputati. Non rimane che incorporare i tredici o quattordici deputati di partiti ultraortodossi per formare una coalizione di ultradestra. Con la presenza di Livni e di Yesh Atid di Lapid, la coalizione precedente non ha tenuto davvero a bada le iniziative antidemocratiche. A poco a poco sono state introdotte nuove norme che hanno vieppiù limitato le possibilità di una vita democratica reale. Si è accentuata la necessità di trasformare Israele in uno Stato confessionale ebraico, che disconosce la presenza di quel 20% di cittadini palestinesi israeliani, musulmani in maggioranza, e poi drusi o cristiani. Oggi in Israele il razzismo è all’ordine del giorno. Lieberman è solo un esempio estremo, a livello ministeriale, ma a Gerusalemme gli attacchi fisici a cittadini arabi sono una routine settimanale. L’incitamento alla violenza da parte della destra non trova ostacoli nemmeno verbali, e il razzismo più spudorato è criticato solo dal presidente dello Stato Rivlin, una delle pochissime voci che combattono le correnti antidemocratiche ogni giorno più forti. Per anni, il primo ministro ha mimetizzato la sua politica con la «formula di Bar Ilan», due Stati per due popoli. Come dice bene la portavoce del dipartimento di Stato americano, la dichiarazione di Netanyahu che questo è già passato, fa parte delle dichiarazioni elettorali e non deve necessariamente esser presa sul serio. Ma la realtà dei fatti va presa sul serio: negli ultimi sei anni Netanyahu non ha messo alcuna serietà nei negoziati, l’occupazione continua e un intero popolo vive sottomesso con violenza alla supremazia israeliana, privato dei più elementari diritti politici. La destra peggiorerà – non può essere diversamente – la situazione attuale, continuerà a costruire colonie israeliane nei territori occupati e questo primo o poi porterà a nuove crisi violente. Presto o tardi il grande e magnanimo primo ministro provocherà un’altra guerra di «difesa»; l’apartheid è sempre più feroce e solo da fuori è possibile frenare il grande piromane il quale cercherà di nuovo di attaccare l’Iran, con l’aiuto dei falchi statunitensi che vedono in Obama un traditore nero. Israele ha votato. Il razzismo si sviluppa a passi da gigante. L’apartheid fa presa sulle nostre vite e il combustibile aspetta solo la scintilla opportuna per incendiare tutto. La politica della paura domina, rafforzando estrema destra e fondamentalisti. Adesso, senza la copertura «delicata e diplomatica» di alcuni sciocchi «moderati» come Livni, Lapid o simili, che hanno sempre contribuito a migliorare la nostra immagine all’estero, chi continua a blaterare sull’«unica democrazia» dovrà affrontare la realtà di una specie di nuovo Sudafrica, in cerca di una chiara e pericolosa egemonia regionale. del 19/03/15, pag. 15 L’avvocato che ha smosso gli arabi Integralisti, nazionalisti e comunisti si sono raccolti attorno a Ayman Odeh, l’uomo che ha tenuto testa al falco Liberman. Ma la coalizione ha troppe anime Non hanno vinto e non faranno parte di alcuna coalizione di governo. Eppure, i 13 o 14 deputati (da confermare dai risultati dello scrutinio finale) della nuova Lista Unita eletta dagli arabi israeliani rappresentano una delle novità più significative delle elezioni. E’ dalla prima legislatura nel 1949 che gli arabi cercano di creare una coalizione unitaria, ma le divisioni interne avevano sempre prevalso. Il quotidiano Haaretz nota che, se si conteggiano anche i quattro deputati arabi nei «partiti sionisti», la Ventesima Knesset (il 20 Parlamento) dovrebbe avere così in tutto 17 deputati arabi (sui 120 complessivi). Circa il doppio di quelli che erano stati eletti nella precedente legislatura. «La forte presenza araba è figlia dell’effetto boomerang generato dalle dichiarazioni ostili e razziste della destra, a partire da quelle del ministro degli Esteri Avigdor Liberman», notano i commentatori israeliani. Uno dei momenti topici fu durante un dibattito televisivo poche settimane orsono, quando Liberman rivolgendosi al leader del partito comunista Hadash (il cui elettorato è quasi tutto arabo), Ayman Odeh, lo definì «straniero» e «cittadino palestinese». Questi, nato ad Haifa nel 1975, noto avvocato, in ebraico perfetto ricordò a Liberman la sua immigrazione dall’ex Urss nel 1978 aggiungendo: «Io sono molto ben accetto nella mia città natale, sono parte della natura, figlio di questa terra». Da allora Odeh è diventato il motore primo della Lista Unita, che coalizza assieme ai comunisti tre partiti arabi minori: Ta’al, Balad e Lista Araba Unita. Al suo fianco sono state elette figure ben note alla politica locale. Prima tra tutte la 46enne «pasionaria» Haneen Zoabi, araba israeliana figlia di una delle più note famiglie musulmane di Nazareth. Lei, laureata all’università di Gerusalemme, è entrata alla Knesset per la prima volta nel 2009 tra le file del Balad. Venne poi processata per aver partecipato alla spedizione pacifista nel 2010 a favore della popolazione palestinese di Gaza sulla nave turca «Mavi Marmara», quando nove attivisti rimasero uccisi nello scontro con i commando israeliani. Punto centrale della sua politica è oggi la nascita di uno Stato binazionale arabo-ebraico che comprenda Israele e i territori occupati nella guerra del 1967. Altra figura di punta della nuova lista è il 55enne Jamal Zahalka, anch’egli attivista nel Balad impegnato in quella che definisce la «lotta contro l’apartheid». La Lista Unita vorrebbe rappresentare il milione e 658.000 arabi israeliani (circa il 20,7 per cento della popolazione del Paese), di cui l’80 per cento musulmani. Pure, non mancano le difficoltà. Le sue componenti vedono al loro interno profonde differenze. I comunisti, che raccolgono tra l’altro circa 10.000 elettori ebrei, sono propugnatori di istanze socialiste, laiche e femministe. Per contro, i tre partiti arabi raccolgono elementi tradizionalisti islamici, alcuni ispirati al fondamentalismo religioso di Hamas e altri al nazionalismo dell’Olp. Tenerli assieme potrebbe risultare impossibile. Lorenzo Cremonesi del 19/03/15, pag. 15 Entra in scena la politica dei palestinesi Dopo aver deluso le aspettative e le speranze del centro e della sinistra israeliane, il partito di destra del Likud è emerso come il primo partito di Israele, in un Paese contraddistinto da un sistema politico frammentato, al punto tale da poter paragonarsi al Belgio e all’Italia. Malgrado la prospettiva inevitabile e deprimente dell’ennesima coalizione della destra più intransigente guidata da Netanyahu, i palestinesi di Israele, invece di abbandonarsi allo sconforto, appaiono addirittura giubilanti. Nella città di Nazareth al Nord, per esempio, gli automobilisti si sono messi a suonare il clacson, quasi fossero diretti a un matrimonio. Il motivo di tanta, e in apparenza paradossale, esultanza non ha nulla a che vedere con il Likud, ma si cela invece nell’avanzata senza precedenti della Lista Comune, appoggiata dagli arabi. «È un ottimo risultato, perché testimonia il rinnovato sostegno da parte dei cittadini arabi ai loro rappresentanti» ha commentato un amico di Nazareth. Questo «voto di fiducia», assieme alla larga partecipazione elettorale degli arabi, dopo anni di apatia, è dovuto principalmente a due uomini, uno dei quali è Avigdor Lieberman, del partito ultranazionalista Yisrael Beiteinu. Difatti è stato proprio il ministro degli Esteri 21 uscente ad aver voluto innalzare la soglia elettorale, una mossa interpretata come il tentativo di sbarrare la Knesset ai partiti arabi, che tradizionalmente raccolgono meno voti dei loro rivali ebraici. Questa strategia, assieme a una retorica infiammatoria anti-araba, ha spinto i partiti minori a formare un’improbabile alleanza, la Lista Comune, che raccoglie tra le sue file nazionalisti palestinesi, progressisti arabi ed ebraici, ed islamisti. L’altro uomo è un avvocato di Haifa passato alla politica, Ayman Odeh, che è emerso da una relativa oscurità per guidare una campagna carismatica a favore della Lista Comune, e che alcuni osservatori hanno descritto come il più interessante politico arabo del Medio Oriente. «La nostra Lista Comune chiama a raccolta tutti i popoli deboli e oppressi, a prescindere da razza, sesso o religione», ha spiegato Odeh in un’intervista a The Guardian . «Il nostro sarà uno schieramento alternativo, democratico, dove arabi ed ebrei non sono nemici, bensì partner a pari titolo». Tenendo ben presente che gli arabi costituiscono la principale fascia dei poveri e dei diseredati di Israele, la Lista Comune ha elaborato un piano decennale per colmare il divario socio-economico tra questi e i settori più avanzati della società. «Vogliamo fare una marcia su Gerusalemme per sensibilizzare il Paese al nostro programma e reclamare giustizia e democrazia», ha dichiarato Odeh, ispirandosi ai pionieri dei diritti civili, come Martin Luther King. Un altro punto saliente della piattaforma politica è la decisa opposizione all’occupazione, in un Paese che ormai ha dimenticato l’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, per dedicarsi sempre di più alla «gestione» del conflitto. «Noi diciamo che non potrà esservi nessuna reale e sostanziale democrazia in Israele fintanto che continuerà l’occupazione dei territori palestinesi, iniziata nel 1967», nelle parole di Odeh. Non è chiaro, tuttavia, fino a che punto la Lista Comune potrà raggiungere i suoi obiettivi, davanti a una possibile coalizione della destra ultranazionalista o a un governo di «unità nazionale». Ma una cosa è certa: il successo della Lista Comune alle urne ha finalmente, seppur con grande ritardo, segnato l’ingresso dei palestinesi di Israele sulla scena politica del Paese, dove potrebbero diventare il primo partito di opposizione. È un risultato, questo, che potrebbe indicare una svolta sullo scacchiere mediorientale, e i futuri storici forse guarderanno a questa data come il momento in cui la lotta dei palestinesi ha iniziato a trasformarsi in un movimento per i diritti civili. ( Traduzione di Rita Baldassarre ) del 19/03/15, pag. 9 «Con questo voto cadono le maschere, l’Italia boicotti le aziende e chieda l’embargo militare» Geraldina Colotti Palestina. Parla l'intellettuale Omar Barghouti, attivista per i diritti umani «Con questo voto, Israele ha perso la maschera», dice al manifesto Omar Barghouti, ricercatore indipendente laureato all’Università di Tel Aviv e attivista dei diritti umani palestinese. Ingegnere elettronico, filosofo e opinionista – sui articoli sono apparti sul Guardian, New York Times, Bbc, Cnn... – è autore del libro: Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni: La lotta globale per i diritti palestinesi (Haymarket Books, 2011). E’ cofondatore dell’organizzazione Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), proveniente dalla società civile palestinese. 22 Come valuta i risultati delle elezioni parlamentari in Israele? Come una vittoria per l’estrema destra, per i coloni, per il razzismo e l’apartheid. I palestinesi sanno che dovranno soffrire ancora di più. Speriamo almeno che, vedendo il vero volto del regime israeliano, il mondo reagisca e sostenga gli sforzi del movimento Bds per isolarlo, fino al riconoscimento dei nostri diritti inalienabili. Israele, una potenza nucleare bellicosa incurante del diritto internazionale e dei diritti umani fondamentali, ora avrà al governo i peggiori fanatici, con gravi conseguenze per i palestinesi e per la pace nel mondo. I grandi perdenti sono i partiti di destra che indossano maschere di sinistra, come il Labor e il partito di Tzipi Livni. Entrambi sono colpevoli di cementare l’occupazione, gli insediamenti e il regime dell’apartheid, entrambi sono colpevoli di gravi crimini di guerra contro il popolo palestinese. Pur rifiutando il diritto fondamentale alla parità per i palestinesi, sono riusciti a mantenere una falsa facciata di “moderatezza” e persino tendenze “sinistra”. La maschera è caduta. Vi è un consenso sionista, senza eccezioni, contro l’uguaglianza per i palestinesi in Israele, contro il diritto dei profughi di ritornare alle loro terre e alle case da cui sono stati scacciati per via della pulizia etnica, e un’adesione piena al completamento del sistema unico di occupazione, colonizzazione e apartheid. Le Nazioni unite e i governi del mondo devono assumersi una parte di colpa nell’esito di queste elezioni: perché non hanno ritenuto Israele responsabile nei confronti del diritto internazionale e non gli hanno imposto sanzioni com’è stato fatto invece contro l’apartheid in Sud Africa. Hanno rifiutato di appoggiare la pressione dell’opinione pubblica mondiale per fermare l’ultima strage di Israele nella Striscia di Gaza assediata, nell’estate del 2014, e la continua e selvaggia colonizzazione della Cisgiordania, in particolare all’interno e intorno a Gerusalemme est e nella Valle del Giordano. Sono rimasti indifferenti quando Israele ha adottato leggi ancora più razziste che hanno istituzionalizzato quello che l’Onu definisce un regime di apartheid. Nell’opinione pubblica mondiale, Israele non ha più alcun credito, ma i governi mondiali devono ancora far rispettare il dettato delle loro costituzioni per porre fine all’impunità di Israele e imporgli sanzioni significative, a partire da un embargo militare. Quali sono gli obiettivi del movimento Bds? La campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni è stata lanciata nel 2005 da una vasta coalizione di partiti politici, sindacati e organizzazioni di massa nella società palestinese. Il documento storico, che divenne la base per il movimento globale Bds, prevede la fine dell’occupazione israeliana e il ritorno entro i confini del 1967, l’abolizione del sistema israeliano di discriminazione razziale istituzionalizzata, e l’affermazione del diritto dei profughi al ritorno nelle terre e nelle case di cui sono stati espropriati nel 1948. Il movimento Bds si basa sul diritto internazionale e sui principi universali dei diritti umani. Nel suo libro lei parla di “uguaglianza piena”. Cosa significa per il vostro movimento? Il compianto intellettuale palestinese Edward Said, una volta disse: “Uguaglianza o niente”. Per il popolo palestinese, come per tutte le comunità oppresse del mondo, l’uguaglianza è la richiesta fondamentale della lotta: chiediamo di poter esercitare i diritti che ci spettano in base a quello internazionale, com’è per ogni altro popolo. Su questa richiesta fondamentale – pietra angolare di tutti i diritti umani, contemplato nella Carta delle Nazioni unite – non possiamo scendere a patti. Uguaglianza significa che i profughi palestinesi hanno diritto ai diritti che tutti i rifugiati meritano: quello a tornare nelle case e nelle terre da cui sono stati espulsi o che hanno dovuto abbandonare. Uguaglianza significa l’abrogazione di 50 leggi discriminatorie di Israele che sono alla base del suo regime di apartheid e che sono stati criticati anche dal Dipartimento di Stato americano, che ha accusato Israele di “discriminazione istituzionale, legale e sociale” contro i suoi cittadini 23 arabi-palestinesi. Uguaglianza significa non aspettarsi che i palestinesi accettino come un destino il sistema di schiavitù coloniale imposto da Israele: perché non lo faranno mai. In Italia, il boicottaggio accademico e quello culturale che voi proponete hanno suscitato un dibattito acceso anche in certe aree di sinistra che si dicono contrarie all’occupazione. Quali sono le vostre motivazioni? Noi chiediamo il boicottaggio pieno delle istituzioni accademiche e culturali di Israele per la loro documentata complicità con il regime coloniale. Il Bds non prende di mira i singoli accademici e non interferisce con il loro insegnamento, la scrittura, l’editoria, la ricerca, com’è avvenuto contro l’apartheid in Sudafrica che ha sanzionato non solo le istituzioni ma anche i singoli. Noi chiediamo alle accademie e alle istituzioni culturali del mondo di recidere i legami con le università israeliane a causa della complicità nelle violazioni contro i diritti umani di Israele a cui forniscono un abito accettabile. Il boicottaggio accademico di Israele è cresciuto in fretta, ultimamente, soprattutto negli Stati Uniti. Allo stesso modo, il movimento Bds chiede un boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, comprese le bande e orchestre, che fanno parte del sistema di propaganda che Israele usa per mascherare il suo regime di apartheid e colonialismo. Il regime israeliano usa la cultura come propaganda, com’è evidente dalla sue stesse dichiarazioni ufficiali. Per esempio? Un ex vice direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Nissim Ben-Sheetrit, ha spiegato così il lancio della campagna Brand Israel nel 2005: “La cultura è uno strumento di hasbara (propaganda) di prim’ordine, non c’è differenza tra hasbara e cultura. Dopo l’assalto israeliano alla Striscia di Gaza assediata, nel 2009, l’immagine di Israele è andata nuovamente a picco. Questo ha spinto il governo a buttare ancora più soldi nella campagna Brand Israel. Uno dei protagonisti della campagna, Arye Mekel, il vice direttore generale per gli affari culturali del ministero degli Esteri israeliano, ha detto al New York Times: “Invieremo romanzieri famosi e scrittori stranieri, compagnie teatrali, mostre. In questo modo si fa vedere l’aspetto più bello di Israele, e non lo si pensa solo nel contesto della guerra”. Invitare artisti a esibirsi in Israele, e offrendo loro compensi esorbitanti mira inoltre a contribuire a questo sforzo di verniciatura, come un numero crescente di artisti di spicco sta verificando. Nel 2008, il famoso scrittore israeliano Yitzhak Laor ha pubblicato nel quotidiano israeliano Haaretz un contratto che gli artisti israeliani, scrittori e studiosi, tra gli altri, devono sottoscrivere per ricevere finanziamenti dal governo per i loro impegni internazionali (visite, conferenze, proiezioni di film, ecc ). Tale contratto comporta obblighi di propaganda espliciti che il destinatario del Fondo dovrebbe svolgere: “Il fornitore di servizi si impegna ad agire con fedeltà, in modo responsabile e senza sosta per fornire al Ministero le più alte prestazioni professionali. Il fornitore di servizi è consapevole del fatto che la finalità di ordinare servizi da lui è quello di promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele attraverso la cultura e l’arte, e di contribuire a creare un’immagine positiva di Israele”. Subito dopo aver appreso questo contratto, il Pacbi, la campagna palestinese per il boicottaccio accademico e culturale, ha detto che qualsiasi israeliano artista, accademico, poeta, scrittore che accetta di sottoscrivere il presente contratto sta perdendo automaticamente ogni pretesa di libertà accademica e libertà di espressione, perché sta accettando di essere ambasciatore culturale o accademico dello Stato, di servire le sue politiche di propaganda e noi abbiamo il diritto di trattare queste attività per quello che sono e invitare al boicottaggio. A dieci anni dalla fondazione del movimento, cosa avete ottenuto? Forse, il risultato più importante del Bds è stato quello di unire i palestinesi di ogni sponda politica e ideologica su una piattaforma per i diritti umani e in una campagna di resistenza non-violenta contemplata dal diritto internazionale. Pur essendo al culmine della potenza militare, nucleare ed economica, il regime israeliano si sente vulnerabile di fronte al nostro 24 movimento non violento, che Netanyahu ha definito, a giugno del 2013, “una minaccia strategica”. Un sondaggio della Cnn nel gennaio 2015 mostra che i due terzi degli statunitensi oggi preferiscono la neutralità verso il “conflitto” israelo-palestinese. Settimane fa, quasi un migliaio di artisti del Regno unito hanno firmato un impegno a boicottare Israele culturalmente. In un referendum presso l’Università di Londra, facoltà di Studi Orientali e Africani (Soas) che ha intervistato i docenti, il personale e gli studenti, il 73% ha votato per il boicottaggio accademico di Israele. Molte prestigiose università Usa hanno votato per il disinvestimento dalle aziende coinvolte nella occupazione israeliana. Ascoltando gli appelli del movimento Bds per bloccare l’esercizio delle navi israeliane nei porti, i lavoratori portuali e attivisti della comunità di Oakland, in California, sono riusciti a impedire per giorni l’agibilità di una nave israeliana di scarico. Un recente sondaggio da parte di un gruppo di lobby israeliane negli Stati uniti rivela che il 15% degli ebrei americani sostiene il boicottaggio contro Israele. E 327 discendenti di ebrei sopravvissuti all’Olocausto hanno pubblicato un annuncio di mezza pagina sul New York Times con lo slogan, “Mai più per nessuno”, per condannare le atrocità di Israele contro i palestinesi e per chiedere “il pieno boicottaggio economico, culturale e accademico di Israele. ” Oltre 1.200 professori universitari e ricercatori spagnoli hanno aderito al boicottaggio accademico di Israele. Il boicottaggio del consumatore locale palestinese dei prodotti israeliani si è sviluppato enormemente negli ultimi sei mesi, il che comporta grandi perdite per alcuni dei più grandi esportatori di Israele verso il mercato palestinese sotto occupazione. Il governo olandese ha pubblicamente “scoraggiato” aziende olandesi di fare affari con entità israeliane nei Territori palestinesi occupati, portando la più grande impresa di costruzioni olandese Royal Haskoning Dhv, a recedere da un progetto di trattamento delle acque reflue con il Comune israeliano a Gerusalemme Est occupata. Nello stesso contesto, la società pubblica di acqua olandese, Vitens, ha posto fine a un contratto con la compagnia idrica nazionale israeliana Mekorot. Allo stesso modo, il governo britannico ha pubblicato indicazioni sul coinvolgimento delle imprese con insediamenti illegali israeliani. Questi passaggi seguono la pubblicazione di orientamenti dell’Ue contro il finanziamento di progetti e organismi israeliani nei territori palestinesi occupati. Deutsche Bahn, una società ferroviaria tedesca controllata dal governo, ha fatto conoscere un progetto israeliano per invadere territori palestinesi occupati, e funzionari del ministero degli Esteri tedesco hanno informato i rappresentanti della società civile palestinese che hanno consigliato a tutte le istituzioni accademiche tedesche di evitare di trattare con Ariel, una colonia israeliana-college in Cisgiordania. Più di recente, 17 governi europei hanno fornito indicazioni ai loro cittadini e alle imprese ed espresso il loro parere contrario alla partecipazione a progetti israeliani nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est. E dall’Italia, cosa vi aspettate? L’Italia può contribuire in modo significativo alla creazione di una pace giusta e globale nella nostra regione, adempiendo ai suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale, in particolare ottemperando al parere consultivo del 2004, emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia contro il muro di Israele: che ha chiesto di astenersi dal riconoscere la situazione illegale creata da Israele nei Territori Palestinesi Occupati e ha chiesto di garantire il rispetto del diritto internazionale. L’Italia può iniziare a interrompere il suo commercio militare e securitario con Israele, compresa la ricerca militare congiunta, perché questa è una delle peggiori forme di complicità con i crimini di guerra israeliani. Può evitare le aziende che producono o si riforniscono nelle colonie occupate da Israele. Può lavorare con i suoi partner europei per sospendere l’accordo Ue-Israele fino a quando Israele non soddisfa la seconda clausola in materia di diritti umani. Può far pressione sulle aziende italiane come la Pizzarotti e Ceia, Costruzioni Elettroniche Industriali Automatismi, 25 che sono coinvolte nelle violazioni dei diritti umani compiute da Israele: per porre fine alla loro complicità. del 19/03/15, pag. 11 Il gelo di Obama: “La soluzione dei due Stati resta l’obiettivo” La Casa Bianca: il Presidente si congratulerà nei prossimi giorni Paolo Mastrolilli La soluzione dei due stati, israeliano e palestinese, resta la linea americana in Medio Oriente, perché è la migliore per «allentare le tensioni». Alla luce della vittoria di Netanyahu nelle elezioni di martedì, però, gli Usa «riesamineranno» la loro strategia. Il negoziato sul programma nucleare con l’Iran non verrà influenzato, mentre le dichiarazioni del premier sugli arabi che andavano a votare in massa sanno di razzismo, e Washington solleverà il problema alla prima occasione, perché «mina i valori e gli ideali democratici che sono stati importanti per la nostra democrazia, e sono una parte importante di ciò che lega gli Stati Uniti e Israele». I primi contatti Le congratulazioni per il successo di Bibi, che il segretario di Stato Kerry ha già fatto di persona mentre il presidente Obama le porgerà nei prossimi giorni, sono state accompagnate dal portavoce della Casa Bianca Earnest con una serie di precisazioni, che dimostrano quanto sarà complicato ricostruire il rapporto. L’appoggio degli Usa allo Stato ebraico non è in discussione, sul piano economico e della difesa, ma il suo significato sì. La prima dichiarazione della giornata ieri è arrivata dal consigliere di Obama Simas, che si è congratulato con Israele invece che con Netanyahu, e ha invitato ad aspettare «la formazione della coalizione governativa». La speranza delusa Alla vigilia la Casa Banca sperava che a guidarla sarebbe stato il laburista Herzog, e dopo che il suo vantaggio si era assottigliato nei sondaggi, aveva puntato quanto meno sul pareggio e sulla creazione di un esecutivo di unità nazionale. L’ex negoziatore Dennis Ross aveva anche teorizzato che Bibi avrebbe potuto approfittare di questa soluzione, per scaricare su Herzog la responsabilità delle scelte che lui aveva escluso in campagna elettorale, tipo bloccare gli insediamenti, riaprire i rubinetti delle entrate fiscali da girare all’Autorità palestinese, e riprendere il processo di pace. I difficili rapporti Ora questa ipotesi è sfumata, e l’amministrazione deve decidere come riallacciare i rapporti con un governo israeliano che sarà più spostato a destra e più determinato nell’ostacolare le sue politiche di quello precedente. Martin Indyk, ex ambasciatore Usa in Israele, prevede che non si andrà molto lontano perché per farlo serve l’interesse a lavorare insieme, che manca tanto sul negoziato con l’Iran, quanto sul dialogo con i palestinesi. Sull’Iran il neocon Elliot Abrams, ex membro della Casa Bianca di Bush e oggi studioso al Council on Foreign Relations, ha previsto due possibilità durante una conference call con i giornalisti: «Netanyahu può aspettare che l’amministrazione finisca e ne arrivi un’altra nel 2016, oppure può bombardare». Nel frattempo può lavorare col Congresso repubblicano per bloccare qualunque intesa, scontrandosi con Obama già nel giro di qualche settimana. Altri, come Thomas Friedman del New York Times, dicono che il risultato sarà liberatorio per gli Usa, perché potranno smettere di perdere energie con 26 l’inutile negoziato, mentre sul Washington Post Paul Waldman, ha scritto che il danno è di lungo termine: la maschera di Netanyahu è caduta, e il suo radicalismo ne fa un leader di fazione con cui non si può affrontare il futuro dell’intero paese. Washington dovrebbe anche razionare il veto con cui spesso lo protegge all’Onu. Abrams però la vede al contrario. Secondo lui anche i democratici considerano gli attriti come un problema personale di Obama, che svanirà quando lui non sarà più in carica. del 19/03/15, pag. 4 Assedio anti-austerity alla Banca in festa Giuseppe Caccia FRANCOFORTE Blockupy. Decine di migliaia alla manifestazione di Francoforte contro l'inaugurazione della nuova sede della Bce. Forse perché i diciannove selezionatissimi ospiti sono stati costretti a raggiungere la cerimonia inaugurale della Eurotower solo grazie all’elicottero, Mario Draghi ha dedicato il cuore del suo discorso ai «molti che stanno protestando qui fuori. Pensate che questa Europa stia facendo troppo poco. E chiedete un’Europa più integrata con una maggiore solidarietà finanziaria tra i diversi Paesi». Al contrario dei populisti, ha aggiunto il presidente della Banca Centrale, che credono che l’Europa «stia facendo troppo». Entrambi esprimono una radicale e comprensibile «domanda di cambiamento». E ha così difeso il ruolo della Bce, che avrebbe funzionato da «cuscinetto» evitando che la crisi avesse effetti peggiori. La lunga giornata di Blockupy Francoforte era iniziata molto presto: verso le 5 i manifestanti arrivati con pullman e treni da tutta la Germania e da una decina di diversi Paesi europei hanno iniziato a raggiungere le strade di accesso alla nuova Eurotower. Nonostante il massiccio dispositivo di sicurezza e diverse cariche con idranti, la sede Bce è stata cinta d’assedio per tutta la durata dell’inaugurazione. Decine di improvvisate barricate, alcune delle quali date alle fiamme, hanno reso più efficaci i blocchi. Mentre sull’incendio di alcune auto della polizia, che tanto hanno eccitato i media italiani, restano a commento le lapidarie parole rivolte ai banchieri da Naomi Klein: «i veri vandali, i devastatori siete voi, voi non bruciate le auto, ma state bruciando l’intero pianeta!». Non sono mancate in mattinata alcune provocazioni, come il tentativo di procedere al fermo di 250 attivisti italiani, in maggioranza del «rainbowbloc» dei Centri sociali, circondati in una strada laterale dalla polizia. Qui la resistenza passiva degli assediati, insieme all’arrivo di un migliaio di manifestanti solidali e all’intervento dei parlamentari di Sel Fratoianni e Zaccagnini e di Eleonora Forenza della lista Tsipras, ha ottenuto che la polizia tedesca rilasciasse tutti dopo una sommaria identificazione. A partire dalle 14 a migliaia si sono ritrovati nella centralissima Römerplatz per due ore di comizi, che hanno dato voce alle tante anime della coalizione Blockupy: oltre all’applauditissimo intervento della Klein, hanno preso la parola tra gli altri la co-portavoce di «Die Linke» Sahra Wagenknecht, Giorgios Chondros del comitato centrale di Syriza, Miguel Urban di Podemos, Nasim Lomani della rete greca di solidarietà Dyktio, attivisti di movimento tedeschi, italiani e francesi e diversi sindacalisti tra cui Valentina Orazzini della Fiom, Jochen Nagel del sindacato tedesco degli insegnati Gew e un esponente dell’organizzazione dei metalmeccanici che, in mattinata, aveva sfilato insieme alla confederazione Dgb in una marcia di quattromila tra delegati e lavoratori. 27 Proprio ad Hans– Jürgen Urban della segreteria della IG Metall abbiamo chiesto di spiegarci il senso della loro inusuale parteciapazione. «A differenza di gran parte dell’opinione pubblica tedesca – ha affermato – noi pensiamo che il cambiamento della Grecia non rappresenti una minaccia, ma un’opportunità per ripensare a fondo le politiche economiche e sociali dell’Unione e dei Paesi più forti. Per questo chiediamo a Merkel di negoziare sul serio con Atene, e ai vertici della Bce di non tenere comportamenti discriminatori nei confronti della Grecia. Il tanto deplorato ma non ancora superato deficit democratico a livello europeo non può essere aggravato da un’ulteriore limitazione della democrazia negli stati membri, come accadrebbe se continuasse questo ricatto – prosegue Urban – senza dimenticare che le politiche di austerity hanno iniziato a penalizzare anche l’economia manifatturiera tedesca: se continuiamo a strangolare i consumatori del Mediterraneo, lo vogliamo dire ai padroni e al governo di Grosse Koalition, chi comprerà più le auto prodotte a Wolfsburg?» Insomma, conclude l’esponente dei metalmeccanici «il cambiamento in Grecia è una grande occasione per rifondare dal basso un’Europa sociale e democratica. E questo è nell’interesse degli operai tedeschi per primi». Un pensiero convergente con la soddisfazione espressa, al termine di un corteo che ha visto oltre trentamila persone invadere le strade del centro commerciale e finanziario di Francoforte, dagli attivisti della Interventionistische Linke, la rete di movimento tra i protagonisti della costruzione del percorso di Blockupy. «Oggi possiamo dire – insiste Mario Neumann – che la crisi è arrivata anche in Germania, nel cuore della bestia. Sia perché sono cresciuti anche qui fenomeni di impoverimento e precarizzazione di massa, sia perché oggi nelle strade di Francoforte si è espressa con forza la rabbia di tutta Europa. E la domanda di un cambiamento radicale, condiviso da tanti e diversi, fa sì che la paura per una volta non sia solo dalla parte degli indebitati, ma anche da quella delle élite». Certo è che, nell’anniversario della Comune di Parigi, la primavera d’Europa a Francoforte è arrivata con tre giorni di anticipo. del 19/03/15, pag. 4 E ora la troika attacca Atene sugli «aiuti umanitari» Anna Maria Merlo PARIGI Programma di Syriza. Atene accusa Bruxelles di "ricatto" e vota la legge di lotta alla povertà. Per la trojka è un "atto unilaterale", ma Moscovici calma il gioco. La tensione cresce: i creditori temono un Grexident, di fronte alle scadenze di marzo (6 miliardi di rimborsi, 1,2 già regolarmente versati da Atene). Mini-vertice con Tsipras ai margini del Consiglio europeo. Dijsselbloem evoca il Grexit e una soluzione "alla cipriota". Moscovici: "Grecia nell'euro, ma non a qualunque prezzo" La Commissione ha mandato avanti Pierre Moscovici, responsabile degli Affari economici e monetari, per rimediare all’ultimo atto di sfida contro la Grecia venuto da Bruxelles, che rischiava di far precipitare la situazione in un clima già sufficientemente avvelenato, mentre il tempo stringe e la settimana è a rischio per Atene. La vigilia, un giornalista di 28 Channel 4, aveva riportato delle affermazioni inquietanti attribuite a Declan Costello, il Mr. Trojka della Commissione: Bruxelles avrebbe chiesto “formalmente” al governo greco “consultazioni appropriate” prima di far votare dal parlamento la legge sugli aiuti umanitari, perché “fare altrimenti sarebbe agire unilateralmente” in modo “non coerente con gli impegni presi, in particolare con l’Eurogruppo” del 20 febbraio scorso. Moscovici fa un passo indietro di fronte alla reazione di Atene: “sosteniamo completamente l’obiettivo di aiutare i più vulnerabili nella società greca, un veto è fuori questione sul progetto di legge umanitaria”. Per Moscovici è stato fatto un “falso processo” alla Commissione, mentre Costello avrebbe solo voluto “sottolineare che c’è un accordo-quadro e che le autorità greche devono lavorare con le istituzioni, cosa che implica consultazioni” perché “abbiamo bisogno di poter valutare l’impatto sul budget”. L’assalto da parte di Bruxelles contro la prima legge importante presentata al parlamento dal nuovo governo greco illustra bene lo stato delle relazioni in corso tra Atene e la Ue. Il governo greco ha rimandato al mittente la messa in guardia: “se nel 2015 in Europa la lotta per affrontare la crisi umanitaria è considerata una decisione unilaterale, cosa resta allora dei valori europei?”. Syriza ha invitato tutti i deputati ad “opporsi al ricatto” di Bruxelles. La legge sugli aiuti umanitari è sempre stata presente nelle liste di riforme che il nuovo governo greco ha presentato all’Eurogruppo. Il 23 febbraio era stata considerata, del resto, un “buon punto di partenza”, assieme agli altri impegni presi da Atene, per riprendere il dialogo. In Grecia, il 23% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la legge prevede il versamento di un contributo per la casa (tra i 70 e i 220 euro) a 30mila persone più un aiuto alimentare per altri 300mila e il riallacciamento elettrico a chi ha subito tagli perché non poteva pagare. Un intervento che dovrebbe costare intorno ai 200 milioni di euro, una cifra abbordabile. La Grecia ha restituito questo mese 1,2 miliardi di euro ai creditori, principalmente l’Fmi e entro fine mese la fattura crescerà a circa 6 miliardi. A Bruxelles temono che Atene non ce la faccia, visto che la Bce non ha riaperto il rubinetto del finanziamento attraverso l’accettazione delle obbligazioni in garanzia e permette solo l’Ela, il meccanismo di emergenza. La Commissione ha paura che le banche greche restino a secco e che avvenga un Grexident, un incidente di pagamento che porterebbe immediatamente al default. Da lunedi’, ad Atene è di nuovo al lavoro la trojka (tra cui Costello), che accusa: “il lavoro va avanti molto lentamente”. Bisogna stabilire quale è lo stato delle finanze greche, quali riforme stanno per venire applicate: il tempo stringe, c’è tempo fino a fine aprile per determinare se verrà versata l’ultima tranche (7,2 miliardi di euro) del secondo piano di aiuti, sulla carta esteso di 4 mesi (fino a fine giugno) a fine febbraio. Di fronte ai rischi di Grexident, è anche allo studio la possibilità di anticipare almeno una parte di questo versamento, prima di fine aprile: di questo dovrebbero discutere, ai margini del Consiglio europeo di oggi e domani, Alexis Tsipras con JeanClaude Juncker, Angela Merkel, François Hollande e Mario Draghi. Un mini-vertice dal quale Tsipras spera di ottenere un accordo politico. Lunedi’ 23 il primo ministro greco ha appuntamento a Berlino con Merkel, per cercare di calmare i toni dello scontro tra Grecia e Germania, ormai quotidiano anche sui media. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha evocato uno scenario alla cipriota: nel 2013, Nicosia era stata costretta a introdurre il controllo dei capitali, su pressione dell’Eurogruppo. Sarebbe l’ultima spiaggia, per evitare un Grexit, uscita dall’euro negoziata. “L’Eurogruppo ha la ferma intenzione di conservare la Grecia nell’eurozona — ha avvertito Moscovici – ma non a qualunque prezzo”. 29 INTERNI del 19/03/15, pag. 31 Istituzione sociale, sacramento, contratto La metamorfosi della famiglia (e del divorzio) ROMA Il divorzio breve tra poco sarà legge. Ieri il via libera del Senato in un clima più disteso, con la cancellazione dello stralcio del divorzio lampo. Pronunciato il sì della Camera, il divorzio potrà essere richiesto dopo sei mesi dalla separazione in caso di accordo consensuale, e passato invece un anno se con un ricorso al giudice. Continua a cambiare velocemente, nella società italiana e nella nostra cultura diffusa, l’idea di famiglia e di matrimonio, istituzioni citate nell’articolo 29 della nostra Costituzione. Dal Dopoguerra a oggi il mutamento è stato continuo e progressivo, sempre registrato, per esempio, dal grande cinema italiano e dalla fiction. Se Ettore Scola raccontò bellezze e miserie del modello più tradizionale e più praticato in «La famiglia» nel 1987 (ed è davvero un titolo tra i tanti possibili offerti dalla poetica della Commedia all’italiana) bisogna arrivare alla serie tv «Tutti pazzi per amore» a fine 2008 per trovare, in prima serata su Raiuno , la proposta di una famiglia allargata come normalità quotidiana. La frattura di un vero tabù narrativo. Perché la famiglia tradizionale, decantatrice di solidi amori e di violenti contrasti, resta comunque un riferimento incontrastato nelle vite di milioni di italiani. Il lungo cambiamento è cominciato — spiega Luigi Balestra, docente di Diritto privato a Bologna, firma de «Il Mulino» e autore di molti commentari sul Diritto matrimoniale — nel Dopoguerra a tappe serrate: «Il lavoro femminile extradomestico, l’emancipazione progressiva della donna, la fine della separazione per colpa, il venir meno dell’indissolubilità del legame matrimoniale, per non parlare della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, che ha oggettivamente affidato una posizione di forza alla donna: tutti elementi destinati a corroborare le posizioni individualistiche a scapito della comunità familiare. In più pesano i modelli stranieri, soprattutto quelli legati al matrimonio omosessuale». Siamo vicini alla fine della famiglia come l’abbiamo conosciuta? «No. Penso che in una società frammentata e disarticolata ci saranno varie modalità di intendere il concetto, persino all’interno dei membri della stessa famiglia tradizionale». Fiamma Lusanna, professore associato di Storia contemporanea e Storia delle donne in età contemporanea presso l’Università di Sassari sostiene che ai tempi dell’approvazione della legge Baslini-Fortuna nel 1970 la società italiana fosse già pronta alla svolta: «Mi pare che l’ Europeo abbia titolato in quell’anno: “Italia è più matura della sua classe politica”. Loris Fortuna portò, nel 1966, ben 32 mila cartoline firmate da uomini e donne di tutta Italia favorevoli al divorzio. Il mutamento epocale c’era già stato, sullo sfondo del boom economico, attraversando, in una contrapposizione modernità-antimodernità, l’intera società italiana. Fu poi la politica a frenare. Perché da sempre ha altri fini….» Fiamma Lusanna è di cultura laica e un suo collega di area cattolica, Andrea Possieri, contemporaneista all’Università di Perugia, individua il punto di svolta nel 1975 con la riforma del Diritto di famiglia: «Fu un mutamento epocale che cambiò per sempre il modo di vivere in quel nucleo. Sparì il paradigma maschilista, si proclamò la parità tra uomo e donna, vista come soggetto attivo». E adesso, dove stiamo andando? «Direi verso un modello liquido di famiglia, di pluralità di forme. Ora però il legislatore deve decidere se la famiglia sia un contratto come gli altri o se vada, invece, valorizzato. Io penso che vada 30 tutelato anche perché la famiglia assicura una stabilità nei rapporti sociali e anche nei consumi, sostenendo l’economia e quindi portando verso il benessere». Il sociologo Marzio Barbagli da anni studia la famiglia italiana e ne segue i progressivi assestamenti: «L’istituzione matrimoniale era già cambiata ben prima, tra gli italiani, della legge sul divorzio che venne approvata a fatica per la forte influenza della Chiesa cattolica ma anche per la sostanziale debolezza economica delle donne. «E oggi? Naturalmente oggi la situazione è molto diversa e la nuova legge sul divorzio breve interviene su una legislazione unica nei Paesi occidentali. La lunga separazione ha avuto un effetto negativo soprattutto per le donne, sfavorite rispetto agli uomini per l’attesa di una prospettiva di un secondo legame matrimoniale. Infatti l’Italia registra un’altra anomalia, la più alta percentuale di convivenze extramatrimoniali con uno dei partner separato e non divorziato». Ma è possibile immaginare, nel 2015, un nuovo modello di famiglia? «Non credo proprio che arriverà un nuovo modello. Vedremo la progressiva affermazione e organizzazione di una pluralità di concezioni del mondo, sensibilità, etiche, affettività differenti tra loro». Paolo Conti del 19/03/15, pag. 21 “A Roma il Pd è cattivo e pericoloso” Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti” “Molti militanti subiscono senza reagire le scorribande dei capibastone”. Orfini: purtroppo questa è la verità GIOVANNA VITALE ROMA . Un partito «non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini». Un partito che, anche quando funziona, «subisce inane lo scontro correntizio e le scorribande dei capibastone». È impietosa la fotografia che Fabrizio Barca ha scattato al Pd Roma, spedito nei circoli dal commissario Matteo Orfini dopo l’esplosione dell’inchiesta Mafia Capitale. In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo «per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un gruppo, quest’ultimo, che Dante avrebdormiente, be ben inserito fra gli ignavi. All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso 31 nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù. Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma non sarebbe stato commissariato». 32 LEGALITA’DEMOCRATICA del 19/03/15, pag. 18 L’autoassoluzione di Lupi “Ho il sostegno del governo” Anticorruzione, nuovo stop Nel question time M5S all’attacco: troppe bugie, si dimetta Contestato a Milano. Domani informativa sul caso-tangenti EMANUELE LAURIA ROMA . Dice che può spiegare e spiegherà. Maurizio Lupi vuole convincere il Parlamento di avere agito sempre «con la massima correttezza e trasparenza». Ma il Pd fa calare un gelo perfettamente rappresentato dal silenzio del segretario e premier Matteo Renzi. E fa sapere che «valuterà» se sfiduciare il ministro finito nei guai per l’inchiesta di Firenze sulle tangenti per le grandi opere. Lupi, arroccato nella sua posizione e difeso dal leader del suo partito Angelino Alfano, è incalzato dalle notizie sui rapporti — suoi e dei suoi familiari — con alcuni degli arrestati, con il superdirigente Ercole Incalza e con altri protagonisti di quello che i magistrati fiorentini reputano un «sistema» corruttivo. La partita è solo sospesa. Quel che è certo è che, al momento, Lupi non si dimette. Tutto rinviato a domani, quando probabilmente ci saranno le comunicazioni del ministro alla Camera. Solo la prossima settimana potrà invece essere discussa la mozione di sfiducia di 5Stelle e Sel. Un assaggio del clima che troverà a Montecitorio, l’esponente di Ncd l’ha avuto ieri. Quando, dopo avere incassato la contestazione di alcuni concittadini a Milano (a margine di un evento sull’Expo) si è presentato in aula per un question time. Trovando la protesta dei grillini: il deputato M5S Carlo Sibilia viene espulso dopo aver manifestato agitando un orologio. Sintesi di Beppe Grillo sul blog: «Lupi se ne deve andare o gli romperemo i c... «. Ma lui, il grande accusato non molla. Dice di avere il sostegno del governo e nega che Renzi gli abbia chiesto «un gesto autonomo». Dopo il question-time si chiude in un lungo incontro con Alfano al Viminale. Se Lupi andrà avanti, a questo punto, potrebbe però non avere in aula la copertura del Pd. Lo fa capire il presidente Matteo Orfini: «Ascolteremo il chiarimento del ministro e faremo le nostre valutazioni». E lo fa comprendere la minoranza dem che continua a invocare il «passo indietro», paventando una spaccatura in caso di voto. Renzi rimane in attesa. Sapendo che non può permettersi passaggi a vuoto su una materia scottante come la corruzione. Ieri, peraltro, il disegno di legge anti-mazzette ha subito un nuovo stop in commissione giustizia al Senato. È accaduto per un errore materiale: nel testo sul falso in bilancio si fa riferimento all’articolo 131 bis del codice penale, che disciplina la non punibilità per i casi di particolare tenuità del fatto. Ma il decreto che lo introduce non è ancora stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Questione di ore. Però il presidente della commissione, il forzista Francesco Nitto Palma, sospende la seduta. Slitta il termine per gli emendamenti. L’aula non potrà avviare la discussione generale prima della prossima settimana. Il capogruppo Pd Luigi Zanda perde la pazienza: «Basta con l’ostruzionismo delle opposizioni, si riunisca la capigruppo. Perché è necessario chiudere». 33 del 19/03/15, pag. 10 Orte-Mestre salvata dallo sblocca-Italia L’opera faraonica è stata ammessa alla defiscalizzazione grazie alle modifiche volute da Lupi ROMA «La notizia, che anche il vostro giornale ha riportato, che questo Perotti, che io non conosco, sarebbe affidatario della direzione lavori sulla Orte-Mestre non solo è sbagliata, è del tutto falsa. Non c’è nessuna direzione lavori affidata perché l’opera di fatto non esiste ancora, aspettiamo ancora la registrazione della delibera del Cipe e al momento non c’è neanche un progetto approvato. Inoltre si dovrà comunque fare una gara». Al telefono è Antonio Bargone, già sottosegretario ai Lavori pubblici con Antonio Di Pietro (e anche successivamente), inquisito ora dalla procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sulle grandi opere in quanto presidente della società consortile “Ilia Or-Me”, promotore della autostrada Orte-Mestre. Secondo i giudici fiorentini, la società, che fa capo all’ex parlamentare Vito Bonsignore, avrebbe promesso a Ercole Incalza di affidare la direzione lavori a Stefano Perotti. Bargone chiama per dire che l’opera non ha avuto né accelerazioni né trattamenti di favore dal governo. Il Sole 24 Ore considera non da oggi questa opera dal costo di 9,8 miliardi inutile e faraonica e in più occasioni lo ha scritto, criticando aspramente il governo e il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, per averla riproposta tra le priorità. Soprattutto la scorsa estate in occasione dei lavori preparatori dello sblocca-Italia che avrebbe dovuto accelerare opere immediatamente cantierabili, la critica è ricomparsa in più articoli. Per esempio, il 27 agosto, in prima pagina, con il titolo «Numeri, numerini e numeri spaziali»: «Sulla stima reale di quanto valgano queste opere (dello sblocca-Italia, ndr) basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito: l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero». Il decreto legge sblocca-Italia andrà però avanti e conterrà, all’articolo 2, la norma che aiuta la Orte-Mestre a superare l’impasse di quel momento, nonostante non fossero mancati anche pesanti attriti fra Lupi e Palazzo Chigi, tutt’altro che convinto della bontà dell’operazione. L’articolo 2 del decreto sblocca-Italia consente, in sostanza, di applicare la defiscalizzazione anche a opere in Project financing realizzate per stralci. Una novità assoluta perché fino a quel momento la defiscalizzazione era stata prevista nelle lineeguida varate dal Cipe, ai tempi del governo Letta, solo per opere realizzate completamente. Giustamente: lo Stato concede una robusta agevolazione fiscale per la realizzazione di un’opera in concessione proposta da un privato e poi acconsente a realizzarla a pezzi? Un privato vanta (in quanto promotore) una sorta di diritto di prelazione su un’opera faraonica (e in quanto tale inutile e irrealistica) che vale circa 10 miliardi e gode di un periodo di concessione record di 49 anni, incassa un’agevolazione sulla proposta integrale e poi ne realizza solo un pezzetto? 34 L’articolo 2 dello sblocca-Italia in realtà consente gli stralci ma impone che alla fine l’opera sia realizzata per intero: serve comunque a superare le obiezioni con cui la Corte dei conti aveva rifiutato la registrazione della delibera Cipe del 18 novembre 2013. Con quell’atto il governo Letta aveva concesso alla Orte-Mestre (prima opera in assoluto a ricevere questo tipo di agevolazione) una defiscalizzazione da 1,87 miliardi per far quadrare i conti dell’opera. La Corte dei conti, però, aveva bloccato tutto, anche per un’altra ragione: lo sconto fiscale era applicabile – sempre secondo l’interpretazione data dalle linee guida del Cipe – soltanto a opere proposte successivamente al giugno 2013. E la proposta della Orte-Mestre, quella in base alla quale Bonsignore aveva acquisito il titolo di “promotore”, risaliva niente meno che al 2004. Anche su questo secondo punto, quindi, interviene l’articolo 2 del decreto sblocca-Italia, che apre la strada all’approvazione di una seconda delibera Cipe per la Orte-Mestre, l’11 novembre 2014, firmata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ora nuovamente all’esame della Corte dei conti. «Un anno e mezzo quasi per ritrovarsi ancora ad avere il via libera del Cipe: questa la chiamano accelerazione?», commenta Bargone. Fatto sta che la norma dello Sblocca Italia consente la realizzazione dell’opera per stralci, come vuole fare il concedente ministero dei Lavori pubblici con la gara “fase 2”. E che senza quel decreto legge la defiscalizzazione non sarebbe stata mai applicabile a questa opera. Gli sconti fiscali, vale la pena di ricordarlo, sono fondamentali per garantire l’equilibrio economico-finanziario di un’opera che è finanziata da privati per l’intero costo di 9,8 miliardi (7,2 per lavori, il resto per oneri finanziari) ma potrà godere di un «finanziamento pubblico teorico» di 1,87 miliardi di euro, riconosciuto ai concessionari post-gara sotto forma di sconti fiscali Ires, Irap e Iva nell’arco dei primi 15 anni di gestione. Quello di 1,87 miliardi è un valore attualizzato mentre il totale nominale cumulato nel corso del tempo è di 9 miliardi di euro. Lo Stato rinuncia a 9 miliardi di possibili futuri incassi fiscali per realizzare l’opera senza dover stanziare subito il contributo da 1,87 miliardi. Per i sostenitori delle defiscalizzazioni si tratta di introiti fiscali che non ci sarebbero comunque mai stati senza la realizzazione dell’opera. del 19/03/15, pag. 13 di Luca De Carolis ANTICORRUZIONE, I 734 GIORNI DI MELINA SUL DDL GRASSO PRESENTATO DA PIETRO GRASSO DUE ANNI FA, IL DISEGNO DI LEGGE APPRODERÀ NELL’AULA DEL SENATO SOLO LA PROSSIMA SETTIMANA. STORIA DI TUTTI I RINVII Ancora e sempre rinvio. Nonostante gli annunci, gli appelli e gli arresti. Dopo 734 giorni di attesa il disegno di legge anticorruzione slitta ancora. Approderà nell’aula del Senato solo la prossima settimana, causa il combinato disposto tra ingenuità (del governo) e ostruzionismo (di Fi) in commissione Giustizia. Si discuteva degli emendamenti del governo al ddl, quando il forzista Ciro Falanga ha trovato il pretesto: “Un emendamento fa riferimento all’articolo 131 bis sulla tenuità del fatto che non è stato ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale”. Insomma, non si aveva contezza pubblica della norma, contenuta in un decreto legislativo. Il presidente della commissione Nitto Palma (anche lui forzista) ha 35 sospeso i lavori tra proteste incrociate. Il viceministro Enrico Costa (Ap), sorpreso, ha dovuto procurarsi delle copie della Gazzetta ufficiale. Alla fine la commissione ha votato tre dei quattro emendamenti. Ma i lavori sono slittati ad oggi. E per l’approdo in aula del ddl anticorruzione, previsto per stamattina, se ne riparlerà la prossima settimana. L’ennesimo capitolo di una storia di rinvii, qui riassunta. 15 marzo 2013, la mossa dell’ex magistrato Nel suo primo giorno a Palazzo Madama, il neo presidente del Senato Pietro Grasso deposita un ddl contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. “Il Paese non può più aspettare oltre” dice l’ex magistrato. Estate 2013, lettere per perdere tempo Il ddl Grasso arriva nella commissione Giustizia del Senato il 5 giugno, regnante il premier Enrico Letta. Ma si parte subito con rinvio. Il relatore del testo Nino D’Ascola (Pdl, poi Ncd) scrive ai colleghi di Montecitorio, dove si discuteva di un disegno di legge sul voto di scambio, tema incluso nel ddl Grasso. Pone il problema della possibile sovrapposizione tra i due rami del Parlamento. Dalla Camera rispondono che non c’è motivo di fermarsi. In Senato si riparte il 26 giugno, ma con il freno a mano tirato. Da destra criticano il ddl come “ispirato a una logica panpenalistica” (Giacomo Caliendo, Pdl). Mal di pancia anche da Socialisti e qualche dem. Passa l’estate, passa l’autunno. E si arriva al 2014 Primavera 2014, trucchi e promesse Il 2014 in commissione Giustizia si apre come si era chiuso il 2013: rinvii e tempi biblici. A marzo Nitto Palma fa sapere: “Esprimo disappunto per le reiterate critiche circa la presunta lentezza dei tempi di esame”. Il 22 aprile il M 5 S chiede di calendarizzare il ddl. E qualcosa si muove, tanto che il 14 maggio D’Ascola scrive il testo unificato, che raccoglie le varie proposte. Il 27 maggio Grasso annuncia per il 10 giugno l’arrivo in aula del ddl. Ma non ha fatto i conti con il Renzi fresco premier, che in piena campagna elettorale per le Europee aveva promesso: “Fanno il daspo ai tifosi, va fatto il daspo ai politici che prendono le tangenti”. Il 3 giugno 2014 il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (Ndc) si presenta in commissione, e annuncia che il governo “è orientato a presentare un disegno di legge” sulle materie regolate dal testo unificato. Si oppongono solo i 5 Stelle: “Così si ritarderà tutto”. La commissione è costretta ad aspettare 30 giorni. Ma del decreto neppure l’ombra. I Cinque Stelle incontrano più volte il ministro della Giustizia Andrea Orlando, chiedendo che si riparta con il ddl. Rumoreggiano anche i civatiani del Pd, come Felice Casson. Ma sbattono contro un muro. Si arriva all’autunno. E Grasso sbotta: “Mi chiedo quali interessi frenino la legge anticorruzione”. 2015, soglie nascoste, censure evidenti Si parte con il caso della soglia di non punibilità sotto il 3 per cento per il falso in bilancio, nascosta in quell’emendamento che il governo annuncia a vuoto da mesi. Renzi alla fine deve stracciarla. Mentre il ddl anticorruzione continua ad arrancare, tra sedute di poche minuti e altre che vengono vanificate dal centrodestra con valanghe di cavilli. “L’entità dei fenomeni corruttivi è sovrastimata” ghigha Carlo Giovanardi (Ap). Ma si procede. Il 18 febbraio il Pd con Fi e Ap bocciano l’emendamento del M 5 S che prevedeva la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, per i reati contro la pubblica amministrazione. Il 4 marzo invece viene respinto l’emendamento sul Daspo ai corrotti, proprio quello promesso da Renzi. Votano a favore solo 5 Stelle e Lega Nord, tutti gli altri dicono no. Il 16 viene finalmente presentato in commissione l’emendamento governativo al ddl anticorruzione sul falso in bilancio. Grasso commenta: “Alleluja”. Ieri, pasticcio. Con rinvio. 36 del 19/03/15, pag. 15 di Nando dalla Chiesa Un futuro senza clan La madre di don Diana “Renzi ci dimentica” GLI STUDENTI RICORDANO IL PRETE UCCISO DALLA CAMORRA “IL SEGRETARIO DEL PD VENNE DA NOI, MA ORA NON RISPONDE” Mi raccomando, glielo dica a Renzi”. Mamma Jolanda, l’anziana madre di don Peppino Diana, il prete martire della camorra, dà la sua ambasciata davanti ai trenta studenti venuti a Casal di Principe da Milano per il loro progetto di università itinerante. Profumo di caffè per tutti, l’antica gentilezza contadina, il dialetto che fluisce come un fulmine. L’attuale presidente del Consiglio venne qui a trovarla e a rendere omaggio alla memoria del figlio non appena eletto segretario di partito; perché questa città è simbolo di “una priorità” del paese, e perché don Diana era anche lui uno scout. I presenti annuiscono. “Gli ho mandato messaggi, poi, ma non mi ha più risposto. C’è bisogno di lui, glielo dica”. A Casal di Principe tira un’aria strana, tra la prudenza e l’euforia. Per carità non nominate più Gomorra. Il romanzo di Saviano ha avuto il merito della denuncia tonante. Ha acceso i riflettori del mondo su un clan che se l’è spassata tra sangue e complicità per quasi vent’anni. Ma qui è in corso qualcosa di profondo e che l’Italia non conosce. Si sta creando una nuova identità di popolo. Ciò che è stato resistenza alla camorra ora vuole diventare altro: il nuovo marchio del territorio, una nuova forma di società. “Queste sono le terre di don Peppe Diana”. Non è retorica. Chi sa riconoscere le atmosfere e gli stati d’animo, le parole e le persone, capisce al volo di essere finito dentro un passaggio d’epoca che va raccontato. MAGARI PARTENDO dal nuovo sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, un simbolo storico della lotta alla camorra, sin dagli anni Ottanta. L’aula del consiglio comunale dove riceve gli studenti ha le foto del prete-profeta, don Peppe Diana, di cui oggi sarà ricordato l’anniversario dell’assassinio, il ventunesimo. Un autentico spartiacque nella storia e nella memoria collettiva. E ha anche la foto di Salvatore Nuvoletta, il ventenne carabiniere ucciso in pieno giorno dal clan di Schiavone e Bidognetti, venduto ai suoi assassini dal proprio maresciallo. Era il 1982. Natale non dimentica e sogna di fare durante il nuovo mandato almeno un terzo di ciò che è necessario per portare la sua cittadina alla normalità. Sembra poco e invece sarà uno sforzo titanico. Senza soldi, con le strade piene di buche, un terzo delle abitazioni senza acqua, il novanta per cento senza i contatori. L’eredità di una delle forme di potere più brutali e rapaci che la storia nazionale ricordi. Di fronte ai quali c’erano resistenze organizzate, embrioni di società diverse. Per questo, Natale, medico di base anticamorrista, è stato eletto con il 65 per cento dei voti. “Ma so benissimo che se non riuscirò a dare risposte, quel consenso mi si rovescerà addosso”. Sotto il municipio, nella via intitolata al “Dottor Coppola” una scritta rossa dà il segno della difficoltà: “La nostra mentalità si chiama omertà. A morte le spie”. Don Peppe Diana. Quel sangue di un giusto sembra davvero, come nella leggenda, avere fecondato una civiltà intera, averle dato un’anima collettiva. Valerio Taglione, presidente dell’associazione intitolata a don Peppe, racconta con orgoglio le tappe della rivolta. Noi vogliamo dare a questa terra un altro nome, per trasferirci dentro un’identità nuova anche nei fatti. Perché i fatti ci sono. Quelli giudiziari, certamente. I capi di un tempo, quelli che marciavano armati sui cofani delle auto in pieno giorno, se li ricorda bene il giornalista Raffaele Sardo, sono 37 tutti dentro. Dai carabinieri si può andare a fare le denunce sapendo di essere aiutati. Ma anche a scuola. Il liceo Grisé a San Cipriano d’Aversa ha 850 studenti, tra scientifico, classico e linguistico. I ragazzi denunciano i guasti della camorra. L’assenza di posti dove divertirsi, dove trovarsi, città costruite famelicamente, come se i giovani non esistessero. Hanno fatto un giornalino, chiedono di sentirsi sostenuti. Perché nei luoghi dello spreco i soldi per l’istruzione mancano sempre. Scoppiano le aule e così l’anno venturo perderanno anche l’aula magna. “Dove discuteremo?”, chiede una studentessa, “finirà questa possibilità di confrontarsi?”. “Neanche per idea”, irrompe una giovane professoressa, Emilia si chiama, ci accamperemo in corridoio e discuteremo lì”. Nessuno vuol perdere questa spinta magica che si avverte, si sente, perfino nell’ingannevole ritornello che già inizia a serpeggiare sul fatto che si stesse meglio quando si stava peggio. Quando c’era il comando ferreo della camorra, e non c’erano i furti dei rom, e non si spacciava droga per le strade. Brutto a sentirsi, specie da un ragazzo, ma è la conferma: “quando c’era la camorra”. LA QUALE IN EFFETTI c’è, guai a sottovalutarlo. Nella cooperativa “Al di là dei sogni”, ai confini con il Lazio, i ragazzi tributano una standing ovation di cinque minuti a Simmaco Perillo. Bella, trascinante, la sua narrazione. Specie quella della lotta per includere con successo nella cooperativa persone svantaggiate, anche provenienti dall’Ospedale psichiatrico giudiziario, magari definite “socialmente pericolose”. E della storia di Alberto Varone, il commerciante ucciso nel ’ 91 perché rifiutava di cedere le sue attività ai clan, e di cui la famiglia ha dovuto fare trasferire i resti in un cimitero sconosciuto, per fuggire le persecuzioni successive della camorra. “Questa non è terra di camorra”, urla Simmaco, “questa è la terra di Alberto Varone, glielo dobbiamo”. Anche il vescovo fa nascere a Cellole un progetto della legalità, seguito da centinaia di fedeli in una sala strapiena. Ed è festa grande la sera, di canti, di balli, con gli ospiti, e di mozzarella e di falerno come solo avviene nel clima di gioia vera. “Noi non siamo più quella cosa”. È il messaggio che arriva all’Italia da una lotta in pieno corso e che per la prima volta sembra poter vincere. Chi in questi anni è venuto qui per i riflettori, ci torni, respiri questa buona aria di democrazia da nessuno regalata, stringa la mano di Renato Natale, lo ringrazi e gli dia i soldi per vincere la sua sfida in nome dell’Italia. 38 WELFARE E SOCIETA’ del 19/03/15, pag. 27 A Firenze arriva la cannabis dell’Esercito: se ne produrrà un quintale l’anno, ma la richiesta cresce e la serra potrebbe triplicare Tra i militari che coltivano la marijuana di Stato “Così cureremo i malati” MICHELE BOCCI FIRENZE . La serra di 250 metri quadrati di superficie e tre di altezza ormai è pronta. Le lampade a frequenza speciale sono installate, il sistema di irrigazione è collegato ai computer, la terra artificiale è dentro ai vasi di plastica. Già oggi dal Cra-Cin di Rovigo dovrebbe partire un furgone, scortato, con dentro 100 talee di cannabis. La destinazione è Firenze, dove ha sede lo Stabilimento chimico farmaceutico militare. La coltivazione della “marijuana con le stellette”, l’unica autorizzata per l’uso a fini terapeutici nel nostro Paese, inizierà nei prossimi giorni. Per ospitare le piantine è stata ricavata un’ala in una zona che per motivi di sicurezza si è deciso di non rivelare, tra laboratori e uffici. L’ambiente adesso è buio, la luce naturale non può entrare in questa specie di grande container. Saranno le lampade a illuminare la serra agli orari prestabiliti, così da far crescere la canapa più velocemente possibile. Il raccolto si farà ogni tre mesi. Poi ci sarà la fase dell’essiccazione. Il lavoro seguirà standard rigidi, perché i due principi attivi, thc e cbd, devono rappresentare il 5-6% del peso del prodotto. Si tratta di un farmaco e bisogna essere certi dell’efficacia a seconda del dosaggio. I militari produrranno circa un quintale di fiori essiccati all’anno. Per ora, perché il numero di regioni che ha approvato l’uso medico della “canapa sativa” è in crescita. La domanda è destinata a salire anche perché i medici che stanno utilizzando il farmaco osservano quotidianamente la sua efficacia su persone che soffrono di dolori dovuti a malattie gravi come ictus o cancro ma anche a problemi neurologici. A Firenze sono pronti addirittura a triplicare lo spazio adibito a serra. La marijuana è il principio base di un farmaco già autorizzato da tempo, che si presenta in com- presse e viene normalmente prescritto in tutta Italia. Non è di questo medicinale che si occuperà l’istituto farmaceutico militare ma di quello a base di fiori secchi. Oggi chi cerca questa parte della pianta la deve comprare all’estero, soprattutto in Olanda, a 15 euro al grammo. Dallo stabilimento usciranno scatole tonde di plastica con 5 grammi di cannabis, da spedire alle farmacie delle varie Regioni che faranno richiesta, a prezzi non ancora stabiliti ma certamente più convenienti. Per adesso l’uso terapeutico della sostanza è previsto, con diverse sfumature, in Toscana, Puglia, Liguria, Sicilia, Veneto, Marche, Friuli, Abruzzo e Umbria. Il lavoro del farmaceutico fiorentino assicurerà anche regolarità alla fornitura. Tutto in una struttura militare, che fa capo all’Agenzia industrie difesa, e che sembrerebbe distantissima dalla marijuana. «Siamo dei farmacologi, la nostra etica ci dice che nel momento in cui è riconosciuta l’utilità di un principio attivo è giusto produrlo — spiega il direttore dello stabilimento, il colonnello Antonio Medica — E la canapa, se impiegata nel modo giusto, ha effetti benefici. Non ha senso privarsene, perché migliora la vita di persone colpite da malattie gravi». Da queste parti il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere non arriva. La cannabis è considerata soltanto come farmaco. Sono stati il ministero della Salute e della Difesa a coinvolgere la struttura fiorentina nella produzione. «Siamo contenti di dare il 39 nostro contributo, da anni lavoriamo per il Paese — prosegue Medica — non solo per le forze armate ma anche sintetizzando farmaci orfani per le malattie rare, o producendo grandi quantità di vaccini e medicinali “di emergenza” per fronteggiare epidemie». È in mezzo a tutto questo che, tra pochi giorni, cresceranno le prime piantine di canapa made in Italy, da coltivazione pubblica. 40 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 19/03/15, pag. 26 Il party sacrilego finisce in procura Bologna, il cardinale attacca l’iniziativa dei ragazzi che mimano un atto sessuale con la croce Il presidente di GayNet : “Un mese fa erano tutti Charlie Hebdo, oggi tutti come Al Baghdadi Franco Giubilei La foto dello scandalo, scattata durante una festa in tema di superstizioni religiose all’interno del circolo gay Il Cassero di Bologna lo scorso venerdì 13, e prontamente postata sulla pagina Facebook del locale, riprende tre ragazzi seminudi con corona di spine in testa e una grossa croce usata per mimare un atto sessuale. Riferimento esplicito a una delle vignette più hard di Charlie Hebdo, andato in scena durante una serata zeppa di provocazioni anticlericali, compresa la cerimonia dello sbattezzo celebrata fra gli invitati. L’immagine è stata notata dal consigliere comunale di Forza Italia Michele Facci e dalla collega del Pd Raffaella Santi Casali, che l’hanno ripubblicata sui rispettivi profili per protestare, ed è scoppiato il putiferio: azzurri e Ncd hanno promesso che porteranno il caso in procura, ma anche il Pd e lo stesso Comune, nei cui spazi della Salara alloggia gratuitamente una delle associazioni gay più attive d’Italia, hanno preso malissimo il party sacrilego del Cassero, mentre l’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra attacca «l’insulto di inarrivata bassezza e di diabolica perfidia a Cristo in croce. Non si era ancora giunti a un tale disprezzo della religione cristiana e di chi la professa da irridere, tramite l’abominevole volgarità dell’immagine, persino la morte di Gesù sulla croce». Ancora più duro un altro argomento del cardinale: «Ogni ideologia che non riesce a farsi alleata la Chiesa la perseguita ferocemente, sia uccidendo i cristiani sia insultando ciò che essi hanno di più caro». E allora «che dire del tempismo che vede in contemporanea il teatrino del Cassero profanare il dramma del Calvario e, sulle sponde del Mediterraneo, la demolizione delle croci e di ogni simbolo cristiano dalle chiese assaltate dall’Isis?». Infine, il vescovo si chiede come il Comune possa concedere gratis ambienti pubblici a gruppi che ne fanno un uso del genere. Se la curia insorge, i politici rincarano: «Non trovo una sola ragione per cui questa roba debba avere luogo in una sede del Comune e finanziata con i soldi di tutti», tuona la Santi Casali. Imbarazzo e indignazione sono palpabili, così il segretario Pd Francesco Critelli definisce le immagini «volgari e offensive» e chiede le scuse. Sul fronte opposto Franco Grillini, fra i fondatori del Cassero e presidente di GayNet, ribalta le accuse: «La polizia religiosa dei nostri ayatollah va in Procura per chiedere la chiusura per una banale satira contro l’oppressione religiosa. Un mese fa erano tutti Charlie Hebdo, oggi sono tutti come Al Baghdadi». Il direttivo del Cassero critica la levata di scudi dei cattolici «pretestuosa e strumentale», ma poi si scusa «con le persone che per quelle foto si sono sentite offese. Chi invece chiede una sanzione sta solo sfruttando un’occasione non per difendere un credo, ma semmai per colpirci». Si spinge a difendere il gesto ripreso nelle foto, che «rappresenta una liberazione rispetto a un simbolo che viene percepito come oppressivo» e denuncia insulti e minacce piovuti sulla propria pagina Facebook a commento delle immagini della festa: «Fascia rosa al braccio e deportazione», «appena arrivano i vostri fratelli dell’Isis vi buttano dai balconi». 41 BENI COMUNI/AMBIENTE del 19/03/15, pag. 6 La dimora di Calipso minacciata dal petrolio Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti AMENDOLARA (CS) Sblocca Italia. A rischio la Secca di Amendolara, patrimonio di biodiversità. La Global Med Llc è il colosso che ha ottenuto un permesso di ricerca. Entro tre anni partirà la perforazione per il pozzo esplorativo. Sindaci, associazioni e comitati NoTriv si mobilitano. Il 28 saranno in corteo a Corigliano Calabro Ma quant’è bella la Secca di Amendolara, ti vien da dire sporgendoti dalla barca che dal porto di Schiavonea ci porta fin qui ad ammirare una delle perle del golfo di Taranto. «In realtà nelle cartografie è conosciuto come banco di Amendolara», precisano gli abitanti che di questi fondali menano vanto. Se uno poi va a ritroso nel tempo scopre che sin dal 1600 le carte nautiche riportano in questo lembo di mar Jonio una vera e propria isola denominata Insule Febrae. Alcuni storici attribuiscono alla secca l’identità dell’isola di Ogigia, dimora della ninfa Calipso, dove Ulisse in viaggio verso Itaca approdò dopo un naufragio, altri narrano che nel 377 a.c. la flotta di Dionisio il Vecchio qui affondò. Ma questo patrimonio di mitologica biodiversità marina, individuato anche come Sito di importanza comunitaria, ha un alto grado di vulnerabilità a causa della pesca a strascico, per l’inquinamento da scarichi fognari, per l’ancoraggio non su boe fisse. Basta allontanarsi di qualche chilometro, sporgersi nell’entroterra, per imbattersi nelle ferite chimiche inferte al territorio dalla presenza di centrali Enel e dalle scorie provenienti dai siti industriali crotonesi. E oggi un altro spettro, ben più pericoloso, aleggia sulle acque di Calabria: le trivelle delle multinazionali del petrolio. Il governo Renzi con lo «Sblocca Italia-Italia Fossile» ha di fatto sancito la liberalizzazione delle estrazioni petrolifere e la privatizzazione di mari e fondali. Ogni infrastruttura legata agli idrocarburi (gassificatori, stoccaggi di gas nel sottosuolo, sfruttamento di giacimenti) è considerata strategica. Le norme di tutela paesaggistica potranno essere bypassate in nome del superiore interesse delle corporation del petrolio. Il titolo concessorio sarà unico, e non duplice come era stato sinora (permesso di ricerca e concessione di coltivazione). Le multinazionali si fregano le mani: individuato un giacimento, potranno reclamare un diritto acquisito. D’altronde, tutta la procedura di Valutazione impatto ambientale (Via) è stata accentrata nelle mani del governo. Le acque del golfo di Taranto sono quelle nel mirino delle compagnie petrolifere. Ad oggi le istanze di permesso di ricerca estrattiva sono ben 16 insieme a una richiesta di prospezione e a un’istanza di concessione. E coprono un immenso specchio di mare, dal Salento alle acque di Crotone. Il ministero dell’Ambiente ha respinto solo un paio di istanze. Per il resto si tratta di procedimenti in attesa di Via o in fase di approvazione. Le multinazionali si chiamano: Eni, Northern Petroleum, Shell, Enel Longanesi, Appenine Energy, Global Med Llc, Schlumberger Italiana, Ionica gas. Global Med Llc è il colosso petrolifero che ha ottenuto (con decreto di conferimento ministeriale del 9 giugno 2014) un permesso di ricerca nelle acque antistanti Amendolara. Entro tre anni partirà la perforazione per il pozzo esplorativo. La popolazione è in allarme, «le trivelle agiranno sulla secca e andrebbero a sollecitare un’area costiera soggetta a liquefazione e ad erosione come evidenziato dalla relazione geologica del Piano 42 strutturale associato della Sibaritide dalle cui carte risulta molto elevato il rischio inondazione». La secca è a forte rischio e chi se ne importa se sia tra le aree più apprezzate dai subacquei di mezza Europa, una prateria di posidonia oceanica ricca di biodiversità, una grossa fonte di cibo per i pesci. «Qui si rischia una tragedia come quella del golfo del Messico», si infervora Felice Santarcangelo animatore dei comitati NoTriv. Il rischio è lo sversamento in mare di petrolio capace di causare un disastro ecologico. Ma i primi gravi danni all’ecosistema derivano dalle indagini preliminari del sottosuolo e dalla air-gun, micidiale tecnica ispettiva basata sul bombardamento del fondale marino con potenti spari di aria compressa che producono onde riflesse le quali, impattando con i rifiuti depositati sul fondale, ne determinano lo spargimento per chilometri. «Se perforeranno i fondali listerò a lutto la bandiera blu che ogni anno Goletta verde di Legambiente ci consegna», sbotta Antonio Ciminelli, sindaco di Amendolara, e pronipote della brigantessa Serafina Ciminelli che lungo le vallate del Lao e del Mercure spadroneggiava con la Banda Franco a metà del 1800. Il governo sostiene che perforando i fondali, e attingendo dai giacimenti, si risparmierebbero 62 miliardi. «Un’inezia rispetto ai danni prodotti all’ecosistema», rispondono ambientalisti e comitati civici. Due partecipati convegni si sono tenuti nell’ultimo mese sul litorale jonico. Nel primo, promosso dalla Rete Associazioni Sibaritide e Pollino in Autotutela, nutrita è stata la delegazione di attivisti lucani NoTriv. Il geologo Vincenzo Laschera ha esposto i risultati delle sue ricerche, denunciando l’impennata nel tasso di tumori registrati in Basilicata, regione sottoposta da anni a trivellazioni. La Rete ha ribadito «la necessità dell’applicazione del principio di precauzione, un’arma ancora non impugnata dai sindaci in quanto tutori della salute pubblica». Il portavoce della Rete, Tullio de Paola, invoca «una difesa del territorio da ogni tentativo di speculazione e stupro rispondenti alla logica del profitto e a discapito delle popolazioni». All’inizio di marzo, in una conferenza promossa ad Amendolara dal comune, l’Unione Mediterranea e l’associazione Diamoci una Mano, autorevoli esperti hanno sottolineato «la scelta neocolonialista del governo e delle multinazionali». I sindaci presenti hanno ribadito che la ferma opposizione al progetto deve essere convogliata in una mobilitazione di tutte le popolazioni calabresi, lucane e pugliesi. Il 28 marzo a Corigliano Calabro associazioni, comitati e sindaci daranno vita a un corteo che si preannuncia massiccio. La parola passa al presidente calabrese Oliverio. Entro marzo dovrà dire da che parte sta: con le popolazioni o con il governo Renzi. Ovvero il segretario del suo partito. del 19/03/15, pag. 6 Un ecomostro tra mare e terra Serena Giannico Chieti Abruzzo. L'assalto dei petrolieri in Adriatico. Il governo dà il via alle trivellazioni a tre km dalla costa Trabocchi a ridosso del Parco nazionale. Addio al turismo Parco nazionale col panorama delle trivelle? È lo scenario che si prospetta in Abruzzo, in provincia di Chieti. Il ministero dell’Ambiente ha infatti detto sì ad Ombrina Mare, ossia alla realizzazione di pozzi di petrolio off shore, a 3 chilometri e mezzo dalle splendide spiagge della Costa dei Trabocchi. Il progetto è stato approvato dalla commissione Via (Valutazione di impatto ambientale). 43 Sul sito del ministero si precisa che il parere è positivo, anche se con prescrizioni, e che è in preparazione il decreto di compatibilità ambientale. Gli stessi posti – la fascia litoranea — sono interessati dalla perimetrazione del nascituro Parco nazionale: da un lato dunque il ministero porta avanti la tutela dei luoghi, dall’altro ne fa scempio autorizzando le multinazionali del greggio. Idrocarburi in mare e vincoli a terra. «Né – spiega Enzo Di Salvatore, costituzionalista — la nascita del Parco, secondo il Codice dell’Ambiente e secondo le modifiche ad esso apportare dal Decreto Sviluppo del 2012, eviterà le trivellazioni: potrà bloccare le nuove concessioni, ma non i procedimenti in corso». Così i ghirigori dei delfini in acqua e le passeggiate tra valloni e calette, potrebbero essere intervallate dagli sbuffi di petrolio estratto al largo – ma non troppo — dalla società Rockhopper Exploration, che opera presso le Isole Falkland, che ha rilevato la Medoilgas Italia e che, per 24 anni, piazzerebbe una piattaforma e una mega-nave raffineria in una delle zone più caratteristiche dell’Adriatico. Certo, da queste parti, sono decisi, a non far passare lo straniero. È rivolta, soprattutto degli ecologisti. E per il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, Pd, che ha sempre assicurato e rassicurato: «Il nostro sviluppo sarà nel turismo…», è un guaio. Perché il governo, sempre griffato Pd, è evidentemente di altri pareri. E lui deve districarsi tra i malumori dei cittadini, contrari a far trasformare il territorio in distretto minerario, e le stranezze romane, che, con lo «Sblocca Italia», hanno aperto agli ecomostri. D’Alfonso, per primo, e, a seguire, gli altri illustri esponenti del Pd, per questa faccenda, sono nel mirino, anche se la Regione Abruzzo, contro lo Sblocca Italia, ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale. Di «vergogna della politica», parla la ricercatrice e docente universitaria in California, Maria Rita D’Orsogna, di origini abruzzesi e anni spesi in questa battaglia. «Nonostante tutte le balle sulle ’valutazioni transfrontaliere’ con la Croazia e le belle parole di ministri e funzionari sulla democrazia e sull’ambiente, eccoci qui. Trivelle e nave desolforante a pochi chilometri da riva. E la colpa è di tutti. A partire dall’ex governatore di centrodestra Gianni Chiodi che non seppe muovere una mosca contro Ombrina Mare a suo tempo; per seguire con Gianni Legnini (Pd) che invece di darsi da fare per il no, e per far rispettare il rigetto già decretato dello stesso ministero dell’Ambiente, decise di ’rimandare’ le decisioni con questa panzana dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale). E poi le uscite infelici della Stefania Pezzopane, senatrice Pd. E poi ancora Luciano D’Alfonso che avrebbe potuto essere più incisivo nelle sue azioni. E ovviamente a tutti i sindaci che si sono opposti al Parco». «Più che dalla Croazia — commenta il Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua per voce di Augusto De Sanctis -, l’assalto dei petrolieri all’Adriatico parte dall’Italia e dall’Abruzzo. Si tratta della dimostrazione che il governo Renzi ha a cuore esclusivamente le sorti dei petrolieri che frequentano le sue cene di finanziamento». «Insieme al terzo traforo del Gran Sasso, ’Ombrina Mare’ è forse il progetto più contestato che sia mai stato proposto in Abruzzo — denuncia il Wwf -. Come è noto si tratta di un intervento pesantissimo: sono previste la perforazione di 4/6 pozzi e la messa in opera di una nave/raffineria per il trattamento e lo stoccaggio della produzione di olio, oltre alla creazione di infrastrutture di collegamento». E se i 5Stelle parlano di Belpaese petrolifero, Rifondazione tuona: «Ai 40.000 che manifestarono a Pescara il 13 aprile 2013 contro Ombrina, il Pd ha finora risposto con le prese in giro in Abruzzo e con il voto sempre a favore della petrolizzazione in Parlamento». Legambiente, invece, fa i conti: «Dagli studi presentati, si evince l’assurdità del progetto: greggio di pessima qualità e di quantità trascurabili, sufficiente a coprire a fatica lo 0,2% del consumo annuale nazionale; gas in quantità insignificante e sufficiente a coprire appena lo 0,001% del consumo annuale nazionale, con una ricaduta locale (in termini di royalties) equivalente all’importo di mezza tazzina di caffè all’anno per ogni abruzzese». 44 del 19/03/15, pag. 6 Saluggia, la scoria infinita di Sogin Mauro Ravarino TORINO Rifiuti radioattivi. La Sogin chiede di raddoppiare il deposito temporaneo La mappa passa di mano in mano e resta segretissima. L’Ispra, che l’aveva ricevuta da Sogin a inizio gennaio, l’ha consegnata ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo. Sulla carta sono segnate le aree «potenzialmente idonee» a ospitare il deposito nazionale delle scorie nucleari, che dovrà essere operativo dal 2024. Indiscrezioni parlano di 80 o 90 siti, sparsi in una dozzina di regioni italiane. Intanto, la Sogin, la società di Stato incaricata del decommissioning degli impianti nucleari su cui pende lo spettro del commissariamento, cambia piano industriale e chiede al dicastero di via Veneto di raddoppiare il deposito temporaneo D2 di Saluggia, in provincia di Vercelli: il posto più sconsigliato per custodire materiale radioattivo, in quanto l’attuale area nucleare si trova in una zona esondabile, inedificabile e vulnerabile essendo posizionata nella golena della Dora Baltea. Il D2, ora in costruzione a due campate, verrebbe portato a quattro campate, per un totale di 40 mila metri cubi. Tutto succede senza il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, che doveva essere definito entro il 31 dicembre scorso (decreto legislativo 45/2014). Il «piano regolatore» del nucleare prevederebbe un inventario sull’ubicazione e la quantità di scorie. E una discussione partecipata in base alla Convenzione di Aarhus sul diritto dei cittadini alla trasparenza delle decisioni in materia ambientale. La storia dell’atomo in Italia è fatta di silenzi, contraddizioni, ritardi. Le associazioni ambientaliste — Legambiente e Pro Natura — invitano a dire basta alla costruzione di nuovi depositi «temporanei», uno «spreco di denaro e un alibi per rinviare l’allontanamento delle scorie». Secondo Gian Piero Godio di Legambiente «se si continuano a costruire nuovi depositi non andranno più via da siti inidonei, come Saluggia e Trino Vercellese, dove vengono custodite il 96% delle scorie di tutto Paese». E aggiunge: «I motivi sono due, o al deposito nazionale non crede nemmeno la Sogin o si fanno lavori solo per questioni di affari». In ballo c’è anche la realizzazione del deposito D3 che contempla l’impianto Cemex (cementazione dei rifiuti radioattivi liquidi, i più pericolosi), il cui appalto è ora commissariato dopo la vicenda tangenti che ha coinvolto l’azienda Maltauro (impegnata nei cantieri dell’Expo) e dirigenti Sogin. Paola Olivero (Pd), capogruppo dell’opposizione a Saluggia, si chiede quale sia il senso dell’ampliamento «se non di spendere inutilmente soldi pubblici che i cittadini pagano nelle bollette». I depositi temporanei saluggesi e quello permanente nazionale, dove le scorie di Saluggia dovrebbero essere successivamente allocate, «vedrebbero la luce — spiega Olivero — a pochi anni di distanza gli uni dall’altro. E gli attuali lavori del D2 si stanno svolgendo in assenza di Valutazione di Impatto Ambientale». Gli ambientalisti hanno convocato un’assemblea sabato a Saluggia. La preoccupazione è che gli attuali siti italiani rimangano depositi di se stessi e diventino, inoltre, la tappa ultima delle scorie «espatriate» momentaneamente, per il riprocessamento, all’estero. Marco Grimaldi, capogruppo di Sel in Regione Piemonte, chiede, in un documento inviato al 45 presidente Chiamparino e firmato anche da Silvana Accossato e Giovanni Corgnati del Pd, «di non autorizzare alcun ampliamento di volumetrie a Saluggia e di rinnovare la richiesta al governo dell’individuazione in tempi rapidi del sito unico nazionale». Grimaldi spiega: «A settembre il consiglio regionale ha votato una mozione che invitava a cercare una soluzione per disimpegnare il sito di Saluggia, un indirizzo in contrasto con il nuovo piano Sogin». Per la commissione nucleare del comune di Saluggia l’istanza Sogin è «irricevibile». del 19/03/15, pag. 26 Petrini: “Troppo cemento per costruire l’Expo” Giulio Geluardi «L’Expo? Ecco a che cosa dovrebbe servire: invitare a riflettere su come rimediare al disastro ambientale mondiale, alla morte per fame, alle multinazionali che depredano la terra e il mare». Il presidente di Slow Food Carlo Petrini parla senza mezzi termini. E ieri ha toccato questi importanti e delicati ma soprattutto attualissimi argomenti a Genova durante la presentazione della 7a edizione di Slow Fish in programma al Porto E ieri ha voluto toccare questi attualissimi argomenti a Genova durante la presentazione della 7a edizione di «Slow Fish» al Porto Antico dal 14 al 17 maggio di cui parliamo in altra parte del giornale Petrini lo dice con chiarezza: «Non sono contro Expo a priori anche se il cemento usato per farla ha distrutto un pezzo di civiltà agricola lombarda. Spero che si abbia il coraggio di discutere di cose vere: Il pianeta che soffre, la morte per fame. Servono 34 miliardi l’anno per estirpare la fame nel mondo e ne spendiamo 1850 per le armi. Sprechiamo il 40% del cibo per bramosia e avidità. È una grande vergogna». Il presidente di Slow Food è duro: «Il modello di sviluppo è obsoleto e negherà alle generazioni future i privilegi che abbiamo avuto noi . Non mi interessa se a Expo arrivano milioni di turisti. Se l’Italia diventa brutta a causa del cemento questi non torneranno più. Ecco perchè dobbiamo ripartire dalla manutenzione e dal sostegno all’economia primaria». Poi Petrini ha citato anche il Pontefice che, a conferma di quanto sia importante l’ambiente che l’uomo sta distruggendo (mettendo a repentaglio quindi anche se stesso) parla sempre più spesso di ecologia di cui sta per fare un’enciclica: «La Terra non perdona mai come ha ricordato papa Francesco. Potete metterlo in evidenza all’ ingresso di Genova, che con le ultime alluvioni ha subito una sofferenza profonda e non si deve dimenticare. La Terra non perdona nemmeno la cementificazione e la capacità che abbiamo di avvelenarla con prodotti chimici. Questa vale per tutta Italia. L’ultima scoperta nel Bresciano dove hanno trovato veleni sotto terra. Lo stesso è per i mari: Il modello attuale è schizofrenico: puntiamo sul turismo e sul cibo ma distruggiamo l’ambiente che è la risorsa primaria». Lancia l’allarme anche il direttore scientifico di Slow Fish, Silvio Greco: «E’ confermato che nel Mediterraneo ci sono 38,2 milligrammi di catrame pelagico per metro cubo contro lo 0,2 del Giappone. Ma la novità negativa sono i frammenti di microplastica: 100 mila per chilometro quadrato». 46 INFORMAZIONE del 19/03/15, pag. 14 Crisi editoria, 30 mila edicole e 200 testate a rischio chiusura Trentamila edicole “superstiti” e sofferenti, in un mercato in crisi nera. Oltre 200 testate su tutto il territorio nazionale che rischiano di chiudere i battenti, cancellando 3. 000 posti di lavoro. All’Hotel Nazionale di Roma, sindacalisti e imprenditori del settore hanno scattato una fotografia impietosa dell’editoria italiana. Proponendo, contestualmente, gli interventi necessari per invertire il declino. L’iniziativa, promossa dalle tre principali sigle degli edicolanti (Sinagi, Snag e Usiagi), parte dalla domanda che dà il titolo all’incontro: “Editoria, riforma o rivoluzione?”. SECONDO Vincenzo Vita, ex senatore e giornalista, moderatore del dibattito, servirebbe davvero “una piccola rivoluzione copernicana”. In pochi anni, si è passati da 42 mila a 30 mila edicole. Quelle che resistono sono “una rete sociale unica e un patrimonio da conservare a tutti i costi”. Giuseppe Marchica (segretario generale del Sinagi) ha messo in fila una lunga serie di proposte qualificate per la riforma promessa (da tempo) dal governo Renzi. Primo: “Bisogna abolire la distinzione, vecchia e superata, tra edicola esclusiva e non esclusiva (ovvero tra gli esercizi che vivono esclusivamente della vendita di carta stampata e i negozi che invece affiancano giornali e periodici ad altre forme di commercio, come negozi e supermercati). Secondo: “Non possiamo più pensare di uscire dalla crisi con il denaro pubblico. Oggi chiedere soldi a pioggia allo Stato non ha più senso, né possibilità di successo. I fondi residui, piuttosto, siano utilizzati per finanziare un ticket per la cultura a disposizione di giovani e famiglie, per l’acquisto di giornali, libri e riviste al 50 per cento di sconto”. Secondo Armando Abbiati (segretario dello Snag), il primo presupposto di qualsiasi riforma dovrebbe essere la costituzione di “un unico sistema di informatizzazione condiviso tra le tre categorie” (editori, fornitori e venditori). Abbiati è pessimista: “Probabilmente non sarà mai fatto. Editori e fornitori non vogliono trasparenza e controllo: è come avere la finanza in casa”. Ma il più grave e urgente dei problemi dell’editoria italiana, per il sindacalista, è un altro: “Il sistema distributivo è chiuso, blindato, monopolizzato. Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali”. A livello locale la situazione è anche peggiore: “Sul territorio ci sono 90 distributori locali. I contratti di fornitura sono imposti con regole capestro. Si comportano da signori feudali e hanno in mano il rubinetto della carta stampata. Se un’edicola è considerata non profittevole, la chiudono: in Italia 4 distributori locali hanno lasciato interi paesi senza giornali”. La priorità di qualsiasi intervento legislativo, condivisa da tutte le sigle sindacali, è spezzare questa catena. Tra gli interventi anche quello di Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del Fatto Quotidiano. “La riforma deve essere di sistema e deve coinvolgere tutte le parti della filiera. Imprenditori, editori, distributori: ognuno deve mettersi in discussione e rinunciare a qualcosa. Ma in fretta: questa crisi non lascia più tempo”. IN PLATEA, accanto agli operatori del settore, siedono i destinatari delle proposte: l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, gli onorevoli Roberto Rampi (Pd), Giuseppe Brescia (M 5 s), Giovanni Paglia (Sel), Stefano Candiani (Lega). In rappresentanza del governo, c’è Antonio Funiciello, collaboratore di Luca Lotti, titolare della delega all’editoria. 47 Funiciello ha garantito “l’apertura di un tavolo per la riforma del settore entro pochissime settimane”. Trentamila edicolanti attendono il governo al banco. To. Ro. del 19/03/15, pag. 21 Palazzo Chigi. Il governo punta a una riforma di settore entro l’anno In arrivo la convocazione del tavolo per l’editoria MILANO Riforma della Rai, ma non solo. È tempo di grandi manovre a Palazzo Chigi sul tema dell’informazione. A giorni - subito prima o subito dopo Pasqua - sarà convocato il tavolo di sistema per l’editoria (si veda anche Il Sole 24 Ore dell’11 marzo). E sempre a giorni è attesa la direttiva del sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega all’editoria, Luca Lotti, contenente la definizione dei nuovi criteri per i fondi relativi alle convenzioni 2016 per le agenzie di stampa. «Siamo vicini alla riorganizzazione e a breve avremo le novità e le determinazioni conclusive su tale materia», ha detto ieri lo stesso Lotti. Insomma, cantiere informazione in pieno fermento con un tavolo di sistema per l’editoria che sta per partire e che dovrebbe portare a una riforma complessiva del settore programmata, negli auspici del governo, a fine anno. «Il tavolo per l’editoria - ha confermato ieri Antonio Funiciello, portavoce del sottosegretario Lotti - sarà convocato dal governo entro pochissime settimane». Lo ha detto nel corso dell’incontro “Editoria: riforma o rivoluzione? Le edicole motore di sviluppo”, nel corso del quale le tre principali sigle sindacali degli edicolanti, Snag, Sinagi e Usiagi hanno presentato le loro proposte. «La nostra ambizione - ha aggiunto - è riformare il sistema editoriale con strumenti per guardare al futuro in maniera integrata. Vogliamo intervenire sul finanziamento diretto, ma siamo convinti che il mercato lasciato a se stesso produca distorsioni». Si tratterà di un tavolo di sistema in cui, oltre agli editori, ci saranno anche gli edicolanti oltre a tutti gli attori della filiera. Il presidente della Fieg Maurizio Costa, in un’intervista al Sole 24 Ore dello scorso 11 marzo, lo ha citato come passaggio necessario per affrontare il futuro e per lasciarsi alle spalle situazioni di crisi e anni di flessione di business in cui si è innestata, forte, la ritirata degli investitori pubblicitari. I numeri lo confermano: la raccolta a fine 2014 sui soli quotidiani è scesa a 810,5 milioni di euro a fronte degli 1,1 miliardi del 2012. Insomma, 300 milioni di euro mancanti all’appello. La volontà del governo di puntare a una riforma complessiva del settore era stata anche indicata come una delle motivazioni di fondo che hanno portato allo stralcio della liberalizzazione delle edicole dai provvedimenti previsti nel Ddl Concorrenza, al contrario di quanto previsto nelle prime bozze. I nodi da affrontare però non si fermano qui. Il Governo vuole intervenire sui finanziamenti diretti. In aggiunta ci sono vari punti da chiarire. A partire dal rapporto fra editori e giornalisti nella gestione degli stati di crisi, con assunzioni, pensionamenti e prepensionamenti, e con la nuova tornata negoziale del contratto. Altro punto da affrontare sta nei rapporti che intercorrono fra editori e distribuzione. Qui il tema sta nella necessità di ammodernare e informatizzare la rete delle edicole e della distribuzione come richiesto con grande insistenza dagli editori. Dal loro canto gli edicolanti, stando a quanto dichiarato ieri dal presidente di Snag-Confcommercio, Armando Abbiati, auspicano «un miglior lavoro di filiera con l’obiettivo comune di 48 valorizzare il lavoro degli edicolanti e dei giornalisti e vendere di più e meglio i quotidiani e periodici all’interno della rete dedicata». Ultimo, ma non ultimo, il tavolo sarà chiamato a dipanare la matassa del rapporto fra editori e altri soggetti in tema di diritto d’autore. Qui il nodo gordiano da sciogliere sarà senz’altro quello delle società che forniscono rassegne stampa. Al contrario di quanto fatto da 16 società di media monitoring, le due maggiori - Eco della Stampa e Data Stampa, che detengono insieme una quota di mercato attorno al 70% - non hanno aderito al Repertorio Repertorio Promopress (la Srl che fa capo alla Fieg e che ha lo scopo di raccogliere i compensi dello sfruttamento dei diritti di riproduzione). La contesa con la Fieg è finita in tribunale. Prossima udienza ad aprile. 49 CULTURA E SPETTACOLO del 19/03/15, pag. 12 Very Bello, il flop del ministero per i Beni Culturali LA VETRINA della cultura italiana si chiama Very Bello, il sito del ministero dei Beni Culturali. Inaugurato il 24 gennaio scorso, non sembra dare grandi segni di vita. A partire dall’account twitter che non cinguetta. La polemica monta. Tanto che ieri è intervenuto lo stesso ministro Franceschini il quale ha assicurato che i primi cinguettii saranno pubblicati dal primo maggio 2015, giorno dell’inaugurazione dell’Expo milanese. @ verybellò ha su Twitter, a oggi, poco più di 3 mila follower, zero account seguiti e zero tweet. Questi numeri però non spaventano il ministro: “I social network partono il primo maggio, quando comincia l’Expo”, spiega Franceschini a margine di un evento organizzato dagli studenti dell’Università Cattolica a Milano. Insomma, la promessa c’è. È solo questione di tempo. Nel frattempo si fa di conto. Vale a dire il costo sborsato dallo Stato per far partire l’iniziativa: 35 mila euro, questo il valore dell’assegno staccato dal ministero. Il sito raccoglie 1. 300 tra mostre, concerti, musei, spettacoli che si svolgeranno nei sei mesi di Expo. L’esordio fu travolgente (al contrario) con 15 mila tweet di presa in giro per il nome non proprio azzeccato. 50 ECONOMIA E LAVORO del 19/03/15, pag. 5 «Più ricorsi che referendum» Massimo Franchi Jobs Act. I giuristi della Fiom si preparano alla battaglia giudiziaria contro l'abolizione dell'articolo 18, demansionamento e controllo a distanza Ancora molto lontani da individuare testi di possibili quesiti referendari, i giuristi della Fiom stanno però scaldando i motori sui ricorsi da presentare contro il Jobs act. La pattuglia di avvocati che ha rifilato a Marchionne le più grande sconfitte della sua vita — il reintegro degli iscritti Fiom a Pomigliano e la sentenza della Corte costituzionale sull’interpretazione dell’articolo 19 dello statuto usato per escludere la Fiom da tutti gl stabilimenti dell’ex Fiat — è pronta a combattere nelle aule di tribunale italiane ed estere contro i decreti attuativi di Renzi e Poletti. Molti di loro fanno parte anche della consulta Cgil e qui arriva il punto di contatto con la confederazione. Il ricorso a livello europeo sarà fatto a nome della Cgil e si baserà sugli articoli 30 (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato) e 31 («Condizioni di lavoro giuste ed eque» per quanto riguarda demansionamento e videosorveglianza) della carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sul piano interno invece appena arriveranno casi di licenziamenti sarà possibile chiamare in causa «il principio di eguaglianza» fissato dall’articolo 3 della costituzione e l’articolo 2106 del codice civile che prevede come le sanzioni impartite dal datore di lavoro al lavoratore debbano essere proporzionate «all’infrazione» e dunque non possono essere subito il licenziamento, come da abolizione di fatto dell’articolo 18. Sul referendum invece gran parte della Cgil è contraria avendo ancora presente il precedente negativo del 2003 quando il quesito che doveva allargare l’articolo 18 a tutti, appoggiato dall’allora segretario Guglielmo Epifani — e non da Cofferati — non raggiunse il quorum. Ieri però la pattuglia di giuristi si è dedicata di più alla dissertazione sulle storture del Jobs act, dei suoi effetti e sui contorni del nuovo statuto dei lavoratori. Elena Poli ha denunciato «l’abbattimento dell’architrave dei diritti: i diritti non sono tali se non sono rivedicabili senza timore di ritorsione», la «subordinazione del lavoro all’impresa in un’operazione di decostituzionalizzazione del lavoro» con «un ribaltamento della piramide della democrazia economica». Per Franco Focareta invece «il nuovo statuto dei lavoratori deve partire da una nuova definizione delle fattispecie della subordinazione» alla base della quale ci sia «l’organizzazione del lavoro nell’impresa»: «le tutele devono aumentare all’aumentare della subordinazione», in questo quadro «i lavoratori autonomi devono essere tutelati dalle discriminazioni» e «il lavoro precario deve costare di più di quello a tempo indeterminato». Per Alberto Piccinini per smascherare «il trucco e la fregatura del contratto a tutele crescenti» «una via può essere proporre che nel 2017, quando scadranno gli sgravi per le assunzioni e comincerà la caccia grossa ai lavoratori, una legge obblighi le imprese che licenziano a ridare allo Stato i soldi ricevuti». A chiudere il convegno è stato poi il maestro di tutti loro: Umberto Romagnoli. Il suo intervento è stato come al solito spiazzante: «Riscrivere lo statuto dei lavoratori è una sfida da far tremare i polsi, ma sarebbe inutile se nel frattempo il sindacato non cambia, decidendo di rappresentare anche precari e autonomi». 51 del 19/03/15, pag. 5 «Caro Boeri, il nostro welfare è iniquo. L’Inps cambi per partite Iva e precari» Roberto Ciccarelli ROMA Quinto Stato. Nasce la "Coalizione 27 febbraio" tra lavoratori autonomi, professionisti e precari. Il 24 aprile manifesterà alla sede centrale dell'Inps a Roma e invierà una lettera al presidente Tito Boeri per chiedere equità fiscale e previdenziale. Nei prossimi mesi una "Carovana dei diritti" toccherà tutte le casse previdenziali degli ordini professionali Oltre a quella di Landini, c’è almeno un’altra coalizione sociale in campo. Si chiama «Coalizione 27 febbraio» e raccoglie la solidarietà intra-professionale tra categorie come gli avvocati (Mga) e i difensori di ufficio (Adu), i freelance di Acta, i parafarmacisti Fnpi, gli archivisti di Archim, gli architetti di Iva sei partita, il Comitato professioni tecniche (Ingegneri e architetti), i geometri «Geomobilitati», Assoarching, il Comitato per l’Equità fiscale, Inarcassa Insostenibile e No Cassa Edile. Ci sono gli studenti della Rete della Conoscenza; Stampa Romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio; la coalizione dello «sciopero sociale», una rete che raccoglie attivisti e centri sociali. Esperienze eterogenee che formano una coalizione inedita nella storia del lavoro indipendente in Italia: quella tra autonomi e precari. Una pluralità di voci che si sente rappresentata da una parola di uso ormai comune. Tra loro si riconoscono in qualità di attori di una «solidarietà intercategoriale e inter-professionale», «uno strumento decisivo per risolvere problemi comuni». Una «carovana dei diritti» organizzerà iniziative davanti alle rispettive Casse previdenziali per chiedere equità sociale e un «nuovo mutualismo». Il nome della coalizione questi autonomi e precari lo hanno preso dalla data, il 27 febbraio, del primo speakers’ corner indetto a Roma dalla Mobilitazione generale degli avvocati (Mga) contro l’iniquità fiscale e previdenziale della Cassa Forense Nazionale. Insieme, il prossimo 24 aprile, manifesteranno sotto la sede centrale dell’Inps all’Eur a Roma. Scriveranno una lettera aperta, e un incontro, al neo-presidente Tito Boeri chiedendo una previdenza equa, una fiscalità sostenibile e un welfare universale. Tra le rivendicazioni c’è quella della riforma dell’aliquota della gestione separata dell’Inps al 24% per autonomi e freelance; il diritto alla malattia, alla maternità e un reddito di base per tutti; una «pensione minima di cittadinanza» indipendente dal montante contributivo accumulato e lo sblocco delle indennità dei tirocinanti della «Garanzia giovani». «L’Inps è il simbolo delle storture del sistema contributivo che ha fatto saltare ogni logica solidaristica tra le generazioni, i lavori e le professioni, come si può vedere anche nelle singole casse professionali che impongono minimali contributivi inaccessibili per decine di migliaia di autonomi ordinisti. Per questo ci vuole una riforma solidale e mutualistica della previdenza, insieme a un taglio delle super-pensioni e un’imposta progressiva sui patrimoni» sostiene Francesco Raparelli delle Camere del lavoro autonomo e precario di Roma (Clap). Una delegazione della coalizione 27 febbraio ha partecipato sabato scorso all’incontro sulla coalizione sociale proposta da Maurizio Landini. «L’apertura della Fiom è molto interessante – continua Raparelli – È fondamentale che il lavoro autonomo e il precariato siano il centro e non la periferia delle coalizioni. Parliamo di mondi diversi che non hanno 52 bisogno di semplificazioni rappresentative, ma di pratiche politiche che rispettino il loro pluralismo irriducibile». All’incontro con la Fiom c’era anche Davide Gullotta, presidente dei parafarmacisti italiani: «Coalizione sociale mi piace perché rompe gli steccati tra operaio e partita Iva, tra classe operaia e ceto medio. Mi sembra rispecchiare l’immagine di cittadini che si ritrovano davanti ad uno Stato che è diventato nemico di chi vuole lavorare e fare la propria professione». Gullotta vive in Sicilia. «Qui noi non abbiamo fabbriche, i giovani vivono con contratti atipici o con la partita Iva, svolgono lavori molto diversi dal posto fisso o da un impiego al ministero». Quanto ai parafarmacisti si scontrano con una realtà nota a chi ha investito sui saperi, o sul proprio lavoro. «Siamo gli unici professionisti iscritti ad un ordine che non possono esercitare liberamente la propria professione. Le farmacie sono ereditarie o accessibili solo ai grandi capitali. Una situazione che anticipa quello che sta accadendo ad altri professionisti. Oggi è il censo a determinare chi può lavorare in Italia». «Tra le professioni e il precariato le battaglie sono le stesse – sostiene Angelo Restaino, presidente degli Archivisti in movimento — Per il momento siamo gli unici professionisti dei beni culturali, vorremmo che ci seguissero anche gli altri. Le coalizioni esistono già: c’è la nostra, poi lo “sciopero sociale”, adesso quella di Landini. Altre forse verranno. Si tratta ora di capire quali elementi programmatici possono garantire una cooperazione e una convergenza tra ciò che è già attivo». 53