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RASSEGNA STAMPA
giovedì 19 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 19/03/15, pag. 2
L’EVENTO
L’Arci: «Tutti a Tunisi il 24 marzo»
«Un tremendo attentato ha colpito oggi il cuore di Tunisi. Almeno 20 morti per il
fuoco aperto dai terroristi contro un pullman parcheggiato davanti e dentro al museo
del Bardo, il più antico museo archeologico del mondo arabo, situato nel giardino
del palazzo reale e non lontano dalla sede dell’assemblea tunisina.
Molti sarebbero gli ostaggi, liberati da un blitz delle forze dell’ordine. Sono stati
coinvolti anche numerosi italiani, di cui due, mentre scriviamo, sarebbero feriti.
Il nostro cordoglio va alle famiglie di tutte le vittime, la nostra solidarietà alle istituzioni
democratiche tunisine e soprattutto alla società civile di quel paese, impegnata
a consolidare e difendere la transizione democratica. La Tunisia è la dimostrazione
che esiste una terza via tra l’integralismo e l’autoritarismo – e per questo
è sotto attacco da parte delle forze del terrore. Il modo migliore per mostrare
la nostra vicinanza e solidarietà sarà partecipare in massa al Forum sociale mondiale
che si svolgerà a Tunisi dal 24 al 28 marzo. Vi parteciperanno tutte le forze
democratiche della regione, insieme a più di 70mila persone provenienti da tutto
il mondo. Centinaia arriveranno dall’Italia e fra loro anche una numerosa delegazione
dell’Arci».
Da Redattore sociale del 18/03/15
Attentato a Tunisi, Arci: partecipare in massa
al forum sociale mondiale
Il cordoglio dell'associazione: "La Tunisia è la dimostrazione che esiste
una terza via tra l’integralismo e l’autoritarismo e per questo è sotto
attacco da parte delle forze del terrore"
ROMa - "Il nostro cordoglio va alle famiglie di tutte le vittime, la nostra solidarietà alle
istituzioni democratiche tunisine e soprattutto alla società civile di quel paese, impegnata a
consolidare e difendere la transizione democratica". E' il commento dell'Arci che condanna
il "tremendo attentato" che ha colpito oggi il cuore di Tunisi., in cui sono stati coinvolti
anche numerosi italiani. "La Tunisia è la dimostrazione che esiste una terza via tra
l’integralismo e l’autoritarismo e per questo è sotto attacco da parte delle forze del terrore.
- si legge nella nota - Il modo migliore per mostrare la nostra vicinanza e solidarietà sarà
partecipare in massa al Forum sociale mondiale che si svolgerà a Tunisi dal 24 al 28
marzo. Vi parteciperanno tutte le forze democratiche della regione, insieme a più di 70
mila persone provenienti da tutto il mondo. Centinaia arriveranno dall’Italia e fra loro anche
una numerosa delegazione dell’Arci".
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Da Repubblica.it del 18/03/15 (Parma)
«Lavoro e Diritti»
cena-incontro con SUSANNA CAMUSSO, segretario generale Cgil,
giovedì 19 marzo al Fuori Orario di Taneto
19 marzo 2015, dalle 20:30
circolo Arci Fuori Orario
Giovedì 19 marzo 2015 il circolo Arci Fuori Orario di Taneto di Gattatico (Reggio Emilia)
ospita una speciale cena-incontro per parlare di «Lavoro e Diritti» con Susanna Camusso,
segretario generale della Cgil nazionale, e Francesca Chiavacci, presidente nazionale
dell'Arci, che dialogheranno con il pubblico. A stemperare un po' un tema così importante,
delicato e attuale, interviene anche, con un'introduzione comica alla serata, il cabarettista
parmense Rino Ceronte, al secolo Umberto Abbati, rivelazione di alcune edizioni dei
programmi tv «Colorado Cafè» e «Zelig Off».
La cena comincia alle ore 20.30, seguita alle 21.30 dall'incontro: menù a base di antipasto
di salumi e formaggi misti, polenta fritta, goulash di manzo con patate e dolce al cucchiaio.
Apertura delle porte del Fuori Orario alle ore 20 e ingresso con tessera Arci, a 15 euro per
chi partecipa alla cena (le bevande sono incluse e la prenotazione è obbligatoria allo
0522-671970) oppure gratuito per chi entra dopo le 21.30 per assistere al solo incontro;
info www.arcifuori.it.
La serata è improntata alla discussione, all'ascolto e alla possibilità di confrontarsi con le
due ospiti in modo diretto e informale su temi quanto mai all'ordine del giorno come
l'occupazione, le riforme, le condizioni dei lavoratori e i diritti.
Segretario generale della Cgil ormai dal 2010, Susanna Camusso è nata a Milano nel
1955. Quando era iscritta alla facoltà di Archeologia dell'Università Statale, ha incontrato il
sindacato durante le battaglie per il diritto allo studio e le rivendicazioni delle 150 ore,
finalizzate a elevare il livello di istruzione e di conoscenza dei lavoratori. Nel 1975 ha
conquistato il ruolo di coordinatrice per Milano delle politiche per la formazione della Flm,
allora categoria unitaria dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil. Nel 1977 è entrata nella
Fiom, la categoria dei metalmeccanici della Cgil, dove ha assunto diversi incarichi per
vent'anni.
Nel dicembre 1997 la Camusso è stata eletta segretaria generale della Flai Lombardia, la
categoria dei lavoratori del settore agroalimentare, e nel luglio 2001 è diventata segretario
generale della Cgil Lombardia. Il 3 novembre 2010 è stata eletta, prima donna nella storia
della Cgil, segretario generale, e riconfermata nel maggio 2014.
Nell'imminente weekend il Fuori Orario proporrà due serate di musica: venerdì 20 marzo i
Rio nella prima data nazionale del tour col nuovo album best of «Mareluce», uscito questo
settimana (biglietti a 12 euro), e sabato 21 We Love 2000 Party, la prima festa anni
Duemila con tutti gli hit dal 2000 al 2010 e 4 dj ad hoc.
http://parma.repubblica.it/agenda/day/2015/03/19/1/laquolavoro-e-dirittiraquo-cenaincontro-con-susanna-camusso-segretario-generale-cgil-giovedi-19-marzo-al/2943369?where=PR&time=2015-03-19T203000
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del 19/03/15, pag. 5
Fiom, ora la Cgil dialoga con la Coalizione
sociale
Massimo Franchi
Il Convegno. Dopo gli scontri, Landini e il segretario confederale
Sorrentino si confrontano con precari e freelance. Due rappresentanti
Fiom si occuperanno della coalizione sociale al posto del segretario
L’espressione «coalizione sociale» era vietata, tanto che lo stesso Maurizio Landini ci ha
scherzato sopra: «Uso la parola organizzazione sociale, sennò creerei dei problemi». Però
è vero che quello che andato in scena ieri pomeriggio al piccolo Auditorium di via Rieti a
Roma è la prima tappa della coalizione sociale — con freelance e “sciopero sociale” a
parlare di Jobs act e nuovo statuto dei lavoratori.
E allo stesso tempo è stata la prima occasione di dialogo fra Fiom e Cgil dopo lo scontro di
questi giorni — con la segretaria confederale Serena Sorrentino seduta di fianco a Landini
a confrontarsi su posizioni vicine sul merito delle questioni e non inconciliabili sul piano del
metodo del lancio della coalizione sociale.
Un dialogo che va di pari passo alla volontà delle due parti di non dividersi in vista della
manifestazione del 28 marzo tanto che lo stesso segretario confederale organizzativo Nino
Baseotto ha mandato ai territori una lettera per «favorire la partecipazione».
Una volontà che la Fiom dimostra seguendo — o avendo già concordato con lui — la
proposta lanciata martedì da Sergio Cofferati nell’intervista al Manifesto: saranno
individuati almeno due dirigenti che avranno come compito quello di seguire il progetto di
coalizione sociale, togliendo dall’impegno diretto e continuo Maurizio Landini.
Lo stesso segretario della Fiom è cosciente che seguire tutto in prima persona è
impossibile e — in chiave mediatica — controproducente: meglio far maturare il progetto in
maniera più compassata e lontano dalle telecamere lavorando con chi si è già detto
interessato — Arci, Emergency, organizzazioni dei precari e freelance — e puntando ad
allargare il numero di associazioni fissando obiettivi e azioni precise su questioni ben
definite e circoscritte, recuperando ad esempio anche Libera. I nomi dei due
rappresentanti ancora non ci sono, ma la decisione è presa e verrà ufficializzata a breve.
Come detto l’occasione di confronto è stata data dal convegno dal titolo “Contrasto al Jobs
act: proposte e iniziative per un nuovo statuto dei diritti di tutte le lavoratrici e di tutti i
lavoratori”. Un tema che riuniva una nutrita pattuglia di giuslavoristi da sempre vicini alla
Fiom (e facenti parte della consulta giuridica della Cgil) con il mondo del lavoro autonomo
e dei free lance.
Un incontro quasi storico che ha visto per la prima volta ad un convegno sindacale
intervenire la presidente di Acta (l’associazione dei freelance) Anna Soru e il giovanissimo
Alessandro Torti, di Clap, le Camere del lavoro autonomo e precario. E se Torti è stato
assai applaudito specie quando ha ricordato Occupy Bce a Francoforte o quando ha
proposto «un reddito di base incondizionato e la redistribuzione delle ore di lavoro»,
definita «una politica riformista radicale» oppure «il tasso di ideologia con cui finora il
sindacato ha affrontato il tema dei precari e dei lavoratori autonomi», anche Anna Soru ha
strappato applausi sebbene non abbia risparmiato attacchi al sindacato: «Abbiamo
posizioni diverse, a noi ad esempio la contrattazione non interessa, ma su obiettivi chiari e
concreti come l’estensione della malattia o della disoccupazione per tutti i lavoratori si può
lavorare assieme».
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Nel suo intervento Landini ha riecheggiato la coalizione sociale quando ha spiegato i due
strumenti per contrastare il Jobs act. Se quello della contrattazione è «molto difficile
perché le imprese si stanno organizzando per tenersi quel ben di dio che il governo gli ha
dato», la seconda — il referendum abrogativo — «viene votato da tutti e proprio per
questo il sindacato deve allargare il suo consenso per portare il paese dalla nostra parte e
vincerlo».
Il segretario Fiom ha poi ammesso di essersi convertito al reddito di base — «anni fa
come tutto il sindacato ero contrario perché non capivo come uno poteva essere pagato
per non lavorare» — «una partita che finalmente vogliamo vincere», mentre punta «a
definire i minimi salariali nei contratti in modo da usarli come salario minimo orario per tutti
i lavoratori, anche autonomi». Il nuovo statuto dei lavoratori deve rimanere «la traduzione
dei diritti di cittadinanza presenti nella costituzione» e «deve tenere assieme tutti coloro
che per vivere devono lavorare, tante condizioni diverse che sarà difficile riunificare ma
che dobbiamo riuscire a fare».
Landini non ha sentito le risposte di Serena Sorrentino perché era già partito per Milano
per partecipare alle Invasioni barbariche. Ma non si sarebbe sorpreso nel trovarle molto
vicine a quelle della Fiom. Il segretario confederale con delega al lavoro ha rivendicato
come «sia stato il direttivo della Cgil a lanciare la proposta di un nuovo statuto dei
lavoratori». «Uno statuto che deve riunificare lavoro pubblico e privato, lavoratori delle
imprese sopra i 15 dipendenti e sotto i 15, che deve ridefinire il concetto di subordinazione
e le tipologie contrattuali». Accanto a questo, per Sorrentino servono altri due statuti:
«quello del lavoro autonomo e del lavoro professionale». L’accettazione del «salario
minimo arriverebbe dall’applicazione dell’articolo 39 della costituzione: l’estensione erga
omnes a tutti i lavoratori dei contratti nazionali».
L’unico piccolo momento di tensione si è avuto quando Sorrentino ha detto: «Quello che
non condividiamo è la trasformazione del soggetto che vuole costruire il consenso
nececssario a battere il Jobs act». Dalla platea il segretario nazionale della Fiom Rosario
Rappa ha domandato: «E chi l’ha detto?». Al che Sorrentino ha specificato: «Nessuno ha
negato la funzione politica del sindacato, l’equivoco che attraversa il dibattito è
l’ambivalenza dell’autonomia dai partiti».
Un dialogo che conferma come la soluzione del contenzioso tra Fiom e Cgil sta nel legare
al livello sindacale l’operazione “coalizione sociale” e nel trovare il modo di cancellare le
ambiguità di chi — volutamente e strumentalmente nella grande maggioranza dei casi —
ancora continua a sostenere che Landini voglia costruire un partito.
Da l’Eco di Bergamo del 19/03/15 (ecodibergamo.it)
Gori ribadisce: «La moschea si farà
nonostante la nuova legge regionale»
«Proprio in questa sala, da candidato sindaco, presi l’impegno di garantire a Bergamo il
diritto costituzionale e la libertà di culto, con la promessa di dare una risposta alle
necessità dei musulmani di una nuova moschea».
«Oggi, da sindaco, non ho cambiato idea.Ma abbiamo un ostacolo in più, ora, che è
questa legge sgangherata e pretestuosa sui luoghi di culto varata dalla Regione
Lombardia». Giorgio Gori ha parlato chiaro l’altra sera al convegno organizzato dall’Arci di
Bergamo (presenti i presidenti provinciale Roberto Mazzetti e regionale Massimo Cortesi,
a coordinare il dibattito Paolo Scanzi, responsabile Welfare Arci Bergamo) al teatro Qoelet
sul tema «Razzismo, paura e libertà di culto».
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Un convegno che, oltre a un «focus» sulla tolleranza e le discriminazioni in Italia, non
poteva prescindere da un’analisi di quella recentissima legge ( articoli di modifica alle
norme del 2005) varata dalla maggioranza di centrodestra al Pirellone e definita
«antimoschee», recentemente impugnata davanti alla Corte costituzionale dal governo
Renzi, anche su sollecitazioni non solo politiche ma anche della società civile, comunità
religiose in primis, dagli evangelici ai buddisti.
Nonostante la legge «pasticcio», Gori e la sua giunta andranno avanti nell’iter per la
realizzazione di una moschea a Bergamo: « Abbiamo due opzioni: o avviare un percorso
che segua passo passo l’attuale normativa, e questo ci rallenterà molto, o contare che
l’impugnativa davanti alla Corte costituzionale vada a buon fine. In quest’ultimo caso il
nostro iter sarà più agevole. Chiedo però alle comunità islamiche di essere più coese e
consapevoli della realtà in cui vivono: la giusta istanza di un luogo di culto non deve
sfociare in casi come via Quarenghi o via San Bernardino, dove si mascherano moschee
da centri islamici. Si rende difficile il percorso di rispetto reciproco».
http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/gori-ribadisce-la-moschea-si-faranonostantela-nuova-legge-regionale_1110968_11/
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ESTERI
del 19/03/15, pag. 2
Un commando di uomini armati ha tentato l’assalto al Parlamento Poi gli
spari contro un bus davanti al Bardo. Prese decine di ostaggi Le forze
speciali in azione: un arrestato, due uccisi, almeno due in fuga
Tunisi, terrore e sangue attacco al museo 4
italiani tra i 22 morti blitz per liberare i turisti
GIAMPAOLO CADALANU
DAL NOSTRO INVIATO
TUNISI .
Gli schizzi di sangue scendono lentamente sulla figura di un antico romano in tunica
bianca, come se la ferita fosse del personaggio sul mosaico. Corpi di turisti straziati
giacciono per terra, in mezzo alle sale del Museo del Bardo, che racconta la nobiltà del
passato tunisino. In un angolo, davanti a una parete bianca crivellata di colpi, c’è un
giovane vestito da poliziotto, più avanti un altro in tuta da ginnastica. Tutt’e due sono
ancora avvinghiati al kalashnikov con cui dovevano dimostrare che l’unica via verso Allah
è quella del loro credo fanatico. Hanno massacrato i turisti, risorsa fondamentale del
Paese, senza esitare nemmeno quando davanti al mitragliatore vedevano bambini
terrorizzati.
Ma se volevano mettere la Tunisia in ginocchio, non ci sono riusciti. A fine giornata, il
bilancio del sangue è impressionante: 22 persone uccise, fra cui almeno quattro turisti
italiani, e una quarantina di feriti, con due terroristi abbattuti dalle forze speciali, uno
arrestato e due o tre in fuga. Il bilancio politico è ben diverso. Più ancora che lo sgomento,
per le vie di Tunisi e fra i manifestanti subito raccolti a migliaia davanti al Teatro Nazionale
si respirava la rabbia e allo stesso tempo la decisione di andare avanti comunque, a
dimostrare che il modello di Bourghiba regge anche davanti all’assalto del
fondamentalismo. Niente città blindata: le strade erano piene e le famiglie camminavano
tranquille. Non è ancora del tutto chiaro chi abbia organizzato l’attacco: i due terroristi
uccisi erano anch’essi tunisini, Jabeur Khachnaoui, di Kasserine, e Yassine Laâbidi, di Ibn
Khaldoun. Adesso gli analisti segnalano che i siti jihadisti sono un florilegio di celebrazioni
da parte dei militanti del sedicente Stato islamico. Ma per ora un legame diretto con gli
uomini di Abu Bakr Al Baghdadi non è chiarito. La ricostruzione dell’assalto, ancora
provvisoria, sembra indicare che qualcosa è andato storto da subito nei piani dei jihadisti.
Il commando era composto di cinque uomini, travestiti da poliziotti, e poco dopo
mezzogiorno si era diretto verso l’edificio del Parlamento, che sta vicino al museo del
Bardo. Sembra probabile che l’attacco fosse stato pianificato in coincidenza con la
discussione di una nuova legge anti-terrorismo. Le guardie del Parlamento, però, hanno
individuato e respinto i finti poliziotti. A quel punto, il gruppo ha deciso di attaccare il
museo del Bardo, pieno di turisti occidentali come sempre. Prima di entrare nell’edifi- cio, i
jihadisti hanno aperto il fuoco su un pullman parcheggiato davanti al museo, uccidendo
almeno otto persone.
Poi sono entrati nelle sale del museo. «Ho sentito una raffica, ho capito che c’era qualcosa
che non andava», racconta il romano Alberto Di Porto dal suo letto nell’ospedale Charles
Nicolle: «Con mia moglie e un gruppo di altre persone ci siamo nascosti dietro una
loggetta, abbiamo fatto proprio come a Parigi, nel market Hyper Kosher. Non si sono
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accorti di noi. Abbiamo sentito esplodere almeno una granata, e raffiche continue. Ho visto
solo un falso poliziotto, per un attimo, so solo che aveva il passamontagna».
Il commando ha preso in ostaggio quanti più turisti possibile, bambini compresi,
trattenendoli con i mitragliatori e aprendo il fuoco, ma molti sono riusciti a fuggire. A
quanto si può capire, non c’è stato nessun tentativo di negoziazione: il blitz delle forze
speciali è stato quasi immediato, due terroristi sono rimasti uccisi e gli altri sono fuggiti. La
caccia all’uomo è partita immediatamente: un membro del commando è stato catturato,
degli altri — due o forse tre — non si sa con certezza, anche se le autorità tunisine parlano
di due sospetti già fermati.
Per gli ostaggi, il momento di respirare. «I giapponesi che erano con noi sono usciti dal
museo con le mani alzate, erano terrorizzati», racconta ancora Di Porto: «Alla fine di tutto,
quando siamo usciti, ho visto un corpo in una pozza di sangue. Quando ci hanno portato
fuori, temevamo che avessero messo qualche bomba. Non sono ferito, mi sono fatto male
a un piede perché sono caduto andando via dal museo». Al Charles Nicolle c’è anche
un’altra italiana, la signora B. S., che ieri sera è stata operata per una leggera ferita alla
gamba: secondo il rac- conto degli infermieri, la turista è stata colpita di striscio da una
pallottola mentre cercava di coprire il figlioletto dalle raffiche dei jihadisti.
La reazione della Tunisia è già partita. «Il nostro Paese è in pericolo. E non avremo
nessuno scrupolo per difenderlo», ha detto il primo ministro Habib Essid. E il presidente
Beji Caid Essebsi gli ha fatto eco in un discorso tv: «Terremo la testa alta. E faremo tutto il
possibile per impedire che un fatto come questo si ripeta». I tunisini intanto si
commuovono per il cane poliziotto ucciso durante il blitz, ma soprattutto piangono il loro
nuovo eroe: è Ajman Murjan, l’ufficiale di sicurezza caduto durante l’attacco. Un tunisino
pronto a sacrificarsi per gli altri, un uomo della stessa pasta di Mohamed Bouazizi.
del 19/03/15, pag. 1/34
NELLA TRINCEA DEL MEDITERRANEO
GAD LERNER
LA TUNISIA è l’esile ponte fra le due sponde del Mediterraneo che i jihadisti vogliono far
saltare per aria. Stroncando vigliaccamente la vita di tante persone, il fanatismo islamista
ha preso di mira l’idea stessa di cultura e interscambio mediterraneo.
CIOÈ il flusso da cui trae linfa la nostra civiltà. Fermarli comporta un’assunzione di
responsabilità troppo a lungo rinviata. Un rinvio di cui si comprendono le ragioni: siamo
turbati dalle implicazioni militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione
Europea. Ma che, sia pure con tutte le precauzioni del caso, sarebbe ben più pericoloso
rinviare ancora. Quando i nostri concittadini vengono presi in ostaggio a centinaia, e
l’Europa viene sospinta con ferocia a considerare zona d’accesso proibito la sponda
meridionale del mare in cui si bagna, è evidente che un’azione di polizia internazionale
diviene imperativa. E che l’Italia, diretta interessata, viene chiamata dalla geografia a
esserne protagonista. Fin troppo chiaro è l’obiettivo della furia criminale dispiegata a
Tunisi: aggredire l’unico Paese musulmano che sia riuscito ad avviare una faticosa
transizione democratica dopo la cacciata del tiranno a furor di popolo nel 2011. Di più. La
resistenza coraggiosa di una società civile tunisina che condivide con noi i valori del
pluralismo e della laicità, ha lacerato al suo interno la Fratellanza musulmana, trascinando
una parte cospicua degli integralisti a partecipare del processo costituzionale. Fino a
provocare una preziosa spaccatura nello stesso fronte islamista. Insopportabile, tutto
questo, per gli aspiranti restauratori di un Califfato che da secoli non esiste più e che viene
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da essi riesumato sotto forma di guerra di religione oscurantista. Vogliono sabotare il
laboratorio tunisino per farne un’altra Libia e seminare il caos in tutto il Maghreb, fino a
cercare una rivincita perfino in Algeria, il luogo della loro prima sconfitta storica.
Perché ce ne siamo dimenticati? L’Algeria vent’anni fa ha vissuto un martirio con oltre
centomila morti, interi villaggi massacrati all’arma bianca dai tagliagole del Gia. E
quell’ecatombe, anticipatrice della guerra in corso oggi, venne scandalosamente favorita
dalla nostra indifferenza. Anche lì donne brutalizzate, anche lì una società civile e una
libera stampa umiliate dai diktat integralisti, fino a che l’esercito algerino non è riuscito a
debellare i jihadisti in un bagno di sangue. La storia, però, non si ripete. L’attentato di
Tunisi fa parte di una strategia militare ben più estesa e calcolata, dalla Mesopotamia
all’Africa con diramazioni nel cuore dell’Europa. L’inazione a questo punto sarebbe fatale.
Anche perché c’è un secondo fattore che tendiamo a esaminare malvolentieri, magari
riducendolo a incognita militare, e rimuovendone (per il disagio) l’enorme portata culturale:
di anno in anno sotto i nostri occhi raddoppia — sì, raddoppia — il numero dei guerrieri
islamici disposti a suicidarsi, ripudiando ogni logica dettata dall’istinto di conservazione.
Ormai sono migliaia di giovani, quando non ricorrono a ignari fanciulli. Incensati come
martiri, scelgono la propria morte come scorciatoia provvidenziale, in una visione ottusa
del monoteismo che dal loro sacrificio umano trarrebbe linfa vitale. E nella distruzione
dell’edificio pagano — che può essere impersonato da un bambino o da una statua o da
un mosaico, non importa — adempiono il loro compito rivoluzionario, la realizzazione di
una Nuova Epoca.
Perché il giacimento di volontari per la mattanza sembra essere inesauribile? Ormai non li
contiamo neanche più, e invece per combatterli dovremmo imparare a conoscerli. La
proliferazione degli aspiranti terroristi suicidi, la disponibilità a morire pur di scaricarci
addosso il loro odio, naturalmente ci risultano talmente estranei da paralizzarci quasi per
lo spavento. E così diventano anche il motivo per cui fatichiamo a immaginare un’azione
militare che sia davvero efficace, nell’asimmetria fra i combattenti. Si è fatto giustamente
notare che un intervento tradizionale sul terreno del Califfato, o nel magma desertico delle
tribù libiche, rischia di trasformarsi in una trappola. Si è ipotizzato un blocco navale davanti
alla Libia accompagnato da presidi a supporto di forze di resistenza locali e da corridoi
umanitari.
La scelta militare è imprescindibile, e al tempo stesso ne avvertiamo tutti i limiti, perché è
chiaro che in questo conflitto le implicazioni culturali sono altrettanto decisive. Non aiuterà
il conclamato irrigidimento di Netanyahu contro la nascita di uno stato palestinese, quando
i musulmani per primi sono chiamati a farsi protagonisti di una partnership con le
democrazie europee contro il jihadismo. Le insidie di un’azione di polizia internazionale
fanno tremare le vene ai polsi. Ma la scelta contraria di asserragliarsi sulla sponda nord
del Mediterraneo, nell’illusione di poter interrompere il flusso che da sempre ci lega ai
nostri vicini mediterranei, equivarrebbe a un gesto di autolesionismo. Tanto per
cominciare, se la minaccia libica non fosse bastata ancora a smuoverci, la difesa della
Tunisia come ponte d’unione della democrazia e del Mediterraneo è diventata da ieri, a un
secolo dal 1915, una nuova strategica linea del Piave.
del 19/03/15, pag. 7
I servizi di intelligence in massima allerta
“Possibili azioni in Italia”
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Gentiloni: “Attacco feroce, risponderemo con fermezza” Arrestato a
Brescia un pachistano: “Sospetto jihadista”
ROMA .
Massima allerta dei servizi per possibili azioni sul territorio italiano, con il ministro
dell’Interno Angelino Alfano che riunisce i vertici dell’Antiterrorismo, mentre il ministro degli
Esteri Paolo Gentiloni parla di «attacco di una ferocia e gravità senza precedenti al cuore
della Tunisia» e conferma fermezza. E l’arresto di un giovane pachistano a Brescia,
accusato di far parte di un gruppo con finalità terroristiche, avvicina la tensione dell’altra
riva del Mediterraneo all’Italia, da dove tanti dei turisti ieri a Tunisi venivano.
Proprio ieri mattina, dopo un incontro con il segretario generale dell’Onu Ban Kimoon,
Gentiloni ribadiva l’impossibilità di ogni trattativa con l’Is e i jihadisti. Poche ore dopo, era
di nuovo davanti ai microfoni per condannare l’attacco ed esprimere la massima vicinanza
al luogo della primavera araba. «La Tunisia è stata in questi mesi il paese della speranza
— ha ricordato Gentiloni — ero lì venti giorni fa e ho percepito una grande
consapevolezza dei rischi legati all’esperienza politica che è in corso, un governo di laici
che ha vinto le elezioni e ha gli islamici moderati nella coalizione. Sono coscienti di essere
sotto attacco». In contemporanea, Alfano riuniva l’Antiterrorismo per fare il punto sulle
minacce che riguardano l’Italia. Sono molti i tunisini nell’elenco dei quasi 70 cosiddetti
foreign fighters diretti in Siria e Iraq passando per l’Italia — e svariati sono quelli espulsi
nelle ultime settimane. Stessa sorte che subirà il pachistano Ahmed Riaz, 30 anni,
disoccupato, fermato dal Ros dei carabinieri proprio ieri mattina a Brescia. Era stato già
colpito da provvedimento di espulsione per l’attività online: fitti contatti sui social network
con scambi di materiale jihadista con estremisti. Ora sarà riaccompagnato in Pakistan.
Riaz è solo una delle 4.432 persone controllate in Italia da gennaio, quando dopo la strage
di Parigi le misure di sicurezza e sorveglianza di fenomeni di matrice jihadista sono state
rafforzate. Era sempre ieri quando, in audizione al Comitato Schengen, il capo
dell’Antiterrorismo Mario Papa dava cifre e analisi della situazione sul territorio nazionale:
quasi cinquemila controllati, appunto, fra cui ci sono 141 perquisizioni domiciliari, 17 arresti
e 33 espulsioni. Fra quegli espulsi, i tunisini sono numerosi, si sottolinea ora. E il
messaggio dell’Antiterrorismo risulta chiarissimo: massiccio monitoraggio della rete e
guardia già alta, anche prima della strage che ha colpito la Tunisia.
( a. bad.)
del 19/03/15, pag. 10
Due degli assalitori avevano militato nelle file dell’Is. Il Paese stretto tra
bande islamiste che operano ai confini con la Libia e in Siria e gruppi
pronti a sovvertire il nuovo ordine faticosamente conquistato
Jabeur e Yassine i killer tornati dall’Iraq
E il Califfo elogia gli autori del massacro
Sono tunisini i due uomini uccisi al Bardo Da qui parte il maggior
numero di combattenti
ALBERTO STABILE
BEIRUT .
S’aspettava soltanto una rivendicazione chiara, o l’identificazione certa dei terroristi. A
sera ogni dubbio è stato sciolto. I due assalitori che hanno massacrato 17 turisti e due
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agenti della sicurezza al Museo del Pardo sono giovani tunisini di ritorno da un periodo di
militanza nelle terre della jihad: Jabeur Khachnaoui, originario della città di Kasserine e
Yassine Laabidi, di Ibn Khaldun. Ma è stato il primo, Khachnaoui, ad offrire
inconsapevolmente un chiave per capire le ragioni di quest’attacco: tre mesi fa era
scomparso nel nulla, poi, preso forse dalla nostalgia o dai sensi di colpa, aveva chiamato
al telefono la famiglia adoperando una scheda irachena.
Che il retroterra dei due terroristi di Tunisi fosse in quella galassia jihadista che, oltre a
espandersi in tutto il Nordafrica, ha fatto della Tunisia uno dei maggiori fornitori di
combattenti votati al martirio in Siria ed Iraq, è apparso chiaro sin dall’inizio. Se mai ce ne
fosse stato bisogno è stato lo Stato Islamico, l’organizzazione che si ripromette di riportare
il mondo musulmano ai tempi e agli usi del Califfato del Settimo Secolo, a confermare i
sospetti iniziali, elogiando i due “martiri”, plaudendo all’attacco e invitando i tunisini a
seguire l’esempio “dei loro fratelli”.
Una minaccia peggiore non si può immaginare per il paese che, dopo avere dato il via alla
Primavera araba, aveva saputo avviarsi sulla nuova strada della democrazia parlamentare
e delle libertà fondamentali. Ma, nonostante i risultati ottenuti sul piano politico, oggi la
Tunisia appare stretta dalla tenaglia delle bande islamiste che operano ai confini con la
Libia e l’Algeria, e corrosa al suo interno dalla presenza di gruppi radicali pronti a
sovvertire il nuovo ordine faticosamente conquistato.
Non è una novità, questa presenza. Al pari di molti altri paesi arabi, la Tunisia è stata da
anni un serbatoio di jihadisti pronti a imbarcarsi come combattenti ovunque, secondo la
loro ideologia, il dettame religioso della “guerra santa” potesse assumere la concretezza di
una sfida armata quotidiana, contro l’Occidente, contro i “crociati” e contro gli ebrei”.
Un’immagine, a riprova. Marzo 2003, vigilia dell’invasione americana dell’Iraq, posto di
confine di al Tanaf, tra Siria e Iraq. Un autobus con le tendine allargate per cercare di
nascondere l’interno. E’ pieno di giovani che si preparano a combattere contro gli
americani. In appoggio a Saddam? No, vanno a compiere la loro jihad dicono alcuni, con
quelle quattro parole d’italiano che molti tunisini conoscono.
Dieci anni dopo, Settembre 2013, in un grande albergo di Damasco, il regime di Assad
ospita le madri, i padri, le sorelle di un centinaio di giovani tunisini presi prigionieri mentre
combattevano in Siria a fianco dei ribelli. Assad ha promesso ad una Ong guidata da un
avvocato amico del regime di liberarne alcuni, rimandandoli in patria. E’ un dono
avvelenato perché si teme già allora che i “foreign fighter”, i combattenti stranieri che
affollano i ranghi della rivolta armata, una volta tornati nei loro paesi saranno un problema
per la sicurezza.
Le storie si somigliano tutte. Famiglie niente affatto povere, giovani che hanno studiato,
tutti molto religiosi. Poi, un giorno, la bugia: «Parto, vado a lavorare all’estero » chi in Libia,
chi in Algeria. Inutili le proteste dei genitori. Un ragazzo di 20 anni deciso ad agire non lo si
può fermare. Silenzio per mesi, poi una telefonata dalla Turchia: «Sto andando in Siria».
«Sto andando in Iraq». Un mese per l’addestramento in Libia. Poi sul campo di battaglia.
In questo modo la Tunisia è diventata, dicono gli esperti il principale fornitore di
combattenti jihadisti nei campi di battaglia iracheno e siriani, circa tremila giovani, molti dei
quali, ovviamente, hanno salutato la nascita del Califfato come una manna dal cielo, la
motivazione che tutti aspettavano. E non importa se in altri tempi si sarebbe parlato di
“carne da cannone”. Naturalmente, tornare a casa è una cosa, tornare per compiere un
attentato efferato come quello di Tunisi è un’altra. Ci vogliono basi logistiche, appoggi,
armi, complici, che gli inquirenti tunisini stanno cercando. Ma nel Nordafrica ormai in preda
ala dissoluzione, alla guerra per bande, non è un problema. Sono almeno cinquecento i
jihadisti tornati In Tunisia e a questi bisogna aggiungere quelli che sarebbero stati infiltrati
dalla Libia. Poi ci sono le due maggiori formazioni islamiste radicali: la falange, o brigata
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Okba Ibn Nafaa, legata ad Al Qaeda, attiva alla frontiera con l’Algeria e l’Ansar al Sharia, i
sostenitori della Sharia (la legge islamica) legata all’omonimo ramo libico e la cui
roccaforte e nel massiccio del Djebel Chambi, nel governatorato di Kasserine al confine
con l’Algeria. E da Kasserine proveniva uno dei due terroristi del museo del Bardo.
del 19/03/15, pag. 1/2
La rivoluzione tunisina nel mirino del
terrorismo
GIULIANA SGRENA
La rivoluzione tunisina è entrata nel mirino dello Stato islamico. I due terroristi che ieri
hanno provocato una strage al Bardo, il più antico museo archeologico del mondo arabo e
dell'Africa, hanno compiuto quell'attacco che i tunisini temevano da tempo. Non è bastata
una rivoluzione che ha abbattuto una dittatura aprendo le porte a un processo
democratico, dove si sono confrontate forze laiche e islamiste, per sventare le velleità del
terrorismo globalizzato. Il tema della sicurezza era stato al centro della campagna
elettorale che lo scorso autunno aveva segnato la vittoria delle forze laiche a scapito degli
islamisti che avevano dilapidato il consenso ottenuto nel 2011, nelle prime elezioni del
dopo Ben Ali. Ennahdha, alla prova del potere, ha perso, anche se non ha rinunciato al
governo. Ma ora il gioco è passato nelle mani degli estremisti che sono cresciuti all'ombra
e con la complicità di Rachid Ghannouchi, il grande vecchio dell'islamismo tunisino.
La grande pressione sulla Tunisia arriva dalla Libia e non solo per le ondate di profughi.
Non a caso è stata rafforzata la protezione al valico di frontiera di Ras Jedir, spesso
chiuso per evitare il passaggio di armi e di jihadisti e per contrastare il contrabbando.
I controlli tuttavia non hanno impedito il passaggio dei jihadisti di Ansar al Charia che in
Libia hanno la base logistica per coordinare le spedizioni in Siria. Proprio in Libia, a 70
chilometri da Sirte, sabato scorso è rimasto ucciso Ahmed Rouissi, durante gli scontri tra i
sostenitori del califfato e la Brigata 166 fedele al governo installato a Tripoli. Ahmed
Rouissi, leader di Ansar al Charia, era ritenuto uno dei terroristi tunisini più pericolosi,
implicato anche negli assassinii, avvenuti nel 2013, dei leader del Fronte popolare Chokri
Belaid e Mohamed Brahmi.
Tuttavia finora il maggior numero di vittime - soprattutto di militari - si è registrato sulle
montagne di Chaambi alla frontiera con l'Algeria, che ha inviato nella zona ingenti forze
che agiscono anche oltre frontiera, con l'accordo di Tunisi.
Il terrorismo globalizzato non conosce frontiere e colpendo la Tunisia mira a far fallire
l'unica rivoluzione che finora ha avuto un esito positivo con l'avvio di un processo di
democratizzazione che peraltro non ha escluso gli islamisti. Finché Ennahdha era al
potere proteggeva le azioni dei salafiti che sono arrivati anche ad attaccare l'ambasciata
americana. Non solo, proprio dalla Tunisia sono partiti migliaia di jihadisti che sono andati
a combattere in Siria con il fronte al Nusra o in Iraq con lo Stato islamico. I tunisini reclutati nelle moschee o nelle associazioni islamiche con il consenso di Ennahdha - sono
così diventati il maggiore supporto dei terroristi in Siria. Anche giovani tunisine sono state
costrette a dare il loro contributo: sono state spedite in Siria a soddisfare gli appetiti
sessuali dei combattenti, dopo aver contratto il matrimonio jihadista, una nuova versione
del matrimonio di piacere o temporaneo.
Ora i fratelli musulmani non sono più al potere, anche se sostengono il governo al quale
partecipano con un proprio ministro, e la via è libera per i sostenitori del califfato, ormai
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diffusi in tutto il Maghreb. La proclamazione del califfato a Derna, in Libia, ha
evidentemente spinto i jihadisti tunisini all'azione. Un attacco sanguinoso anche se con
l'impiego di forze limitate, forse anche perché, secondo quanto annunciato dal ministero
dell'interno, era stata appena sgominata una cellula terroristica a nord di Tunisi. L'assalto
al museo è avvenuto mentre all'assemblea nazionale, che ha sede anch'essa nell'ex
palazzo reale, erano in corso colloqui tra il ministro della giustizia ed esperti del suo
ministero e di quello dell'interno per elaborare la legge contro il terrorismo (pura
coincidenza?) e contro il riciclaggio di denaro. La maggior parte delle vittime sono turisti
stranieri (17 su un totale di 19, oltre ai due terroristi), probabilmente l'obiettivo, se
calcolato, era quello di colpire il settore trainante dell'economia del paese. Il turismo era
ripreso dopo anni di stallo provocato dai timori suscitati dai cambiamenti in corso ed ora
rischia di subire una nuova battuta d'arresto.
Proprio in questi giorni è difficile trovare posti liberi negli alberghi di Tunisi perché martedì
24 avrà inizio il Forum sociale mondiale e per l'occasione arriveranno esponenti di
associazioni, movimenti, partiti da tutto il mondo e soprattutto dai paesi del Mediterraneo.
In Tunisia si era svolto il Forum sociale anche due anni fa e proprio il successo di quella
edizione aveva determinato la scelta di quest'anno. Anche il Forum è entrato nel mirino dei
terroristi? Speriamo di no e solo una grande partecipazione in questa situazione può
rappresentare un gesto di grande solidarietà con il popolo tunisino. Certo, un attacco
terroristico di queste dimensioni alla vigilia dell'apertura, mentre fervono i preparativi, non
è di buon auspicio. Ma forse come nel VII secolo era stata Kahina, la regina berbera, a
fermare i califfi ora saranno le donne, già protagoniste della rivoluzione, a bloccare i
seguaci di al Baghdadi.
del 19/03/15 , pag. 11
QUELLA VOGLIA DI CAMBIAMENTO CHE LA
JIHAD CERCA DI SPEGNERE
RENZO GUOLO
NONOSTANTE sia l’unico paese coinvolto nelle primavere arabe che ha realizzato un
passaggio dalla dittatura alla democrazia e un ricambio di governo per via elettorale non
traumatici come altrove, la Tunisia non è affatto immune dalla deriva jihadista. Come già
mostravano, senza risalire al lontano attacco di Al Qaeda alla sinagoga di Djerba nel 2002,
l’assalto all’ambasciata americana del 2012; l’assassinio, nel 2013, di personalità politiche
come Chokra Belaïd e Mohamed Brahmi; i continui attacchi negli ultimi due anni contro la
Guardia nazionale e l’esercito ai confini con l’Algeria; le stesse, recenti, operazioni
antiterrorismo nella capitale; l’attacco suicida al resort di Soussa.
Indicatore puntuale della diffusione dello jihadismo è il grande numero di tunisini presenti
tra i foreign fighters che combattono, o hanno combattuto, in Siria e Iraq: circa tremila.
Combattenti che si sono fatti conoscere dalla popolazione locale per efferatezza e
determinazione in battaglia e nel controllo delle città.
Così come un altro significativo indicatore è la presenza nelle aree confinanti con l’Algeria,
in particolare nella zona del Monte Chaambi, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico. L’Aqmi è,
almeno sin qui, l’organizzazione più attiva e pericolosa del fronte jihadista in Tunisia. Il suo
ramo militare, la brigata Okba Ibn Nafaâ, attacca frequentemente i soldati tunisini, ai quali
ha inflitto numerose perdite. Nonostante sia stato bersaglio di operazioni di aria e di terra
da parte delle forze armate tunisine, il gruppo non è ancora stato debellato.
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Altra organizzazione jihadista è Ansar al-Sharia, fondata nel 2011 e guidata da Abu Iyadh,
militante legato a Al Qaeda che ha combattuto in Bosnia e Afghanistan. Iyahd è uscito di
prigione con l’amnistia varata da Ben Ali nel 2011, dopo aver scontato otto degli oltre
sessanta anni di carcere ai quali era stato condannato. Dopo l’attacco all’ambasciata
americana è entrato in clandestinità. Il gruppo, coinvolto anche negli assassini politici di
Belaïd et Brahmi, si è però indebolito e parte dei suoi effettivi sono passati prima a Ansar
al Sharia libica poi, come buona parte dei militanti di quell’organizzazione, sotto il vessillo
nerocerchiato del Califfato. Mentre altri suoi membri sono andati direttamente a
combattere nelle file dello Stato islamico in Siria e Iraq. Sin qui, dunque, contrariamente a
quanto avvenuto nelle vicine Libia e Algeria, lo Stato Islamico non ha reso noto l’adesione
di gruppi organizzati tunisini, mediante l’atto di sottomissione, al Califfato. Anche se il suo
effetto gravitazionale si fa ormai sentire anche in Tunisia.
Si vedrà, una volta identificati i terroristi uccisi nell’attacco, se questi sono legati all’Aqmi o
all’Is. Se l’assalto al Museo è opera o meno di mujahiddin tornati dalla Siria o di militanti
mai usciti dal paese. Resta il fatto che la jihad si radica anche in Tunisia e che, come ha
affermato il premier Essid, la guerra per sconfiggere il terrorismo sarà lunga.
del 19/03/15, pag. 1/31
La guerra totale islamista
Domenico Quirico
Forse l’unico modo per capire, per rendersi conto sarebbe pubblicare bollettini giornalieri:
«Oggi un gruppo islamista ha colpito nel cuore di Tunisi, almeno venti morti… sul fronte di
Tikrit nel Sud del Califfato solo scambi di artiglieria, le forze sciite anti-Isis hanno
continuato ad arretrare dopo il fallimento dell’offensiva per riprendere la città… Sahelistan:
gruppi mobili di Al Qaeda Maghreb fanno razzie a Sud di Kidal… in Nigeria gruppi armati
dei Boko Haram hanno bruciato un villaggio ai confini con il Camerun…». Episodi
staccati? Guerriglie locali? Terrorismo diffuso? No: un giorno «normale» della Grande
Guerra Islamista: perché si combatte dalle montagne afghane al deserto della Mauritania,
dallo Uebi Shebeli alle rovine di Aleppo, tomba di un popolo sventurato.
Globalità e contemporaneità. Pezzo dopo pezzo, scaglia dopo scaglia il Califfato totalitario
disintegra la nostra tattica, vile e furbastra, di tenere gli scenari separati; per non dover
ammettere il pericolo e affrontare decisioni scomode. Sì, qualcuno ha dichiarato guerra, e
già la combatte, avanza, annette, amministra territori occupati, cancella le nostre frontiere,
tiene in scacco fragili e spesso impresentabili alleati dell’Occidente, uccide e destabilizza
dove già non maramaldeggia e amministra. Lo Stato che vuole cancellare tutti gli stati con
una guerra totale. Non solo per i mezzi che impiega, i carri armati e i commandos suicidi, il
petrolio e i video di propaganda. Siria Iraq Libia: creazioni politiche già morte, che non
risorgeranno mai più. Il mondo è stato modificato brutalmente. Altri seguiranno,
rapidamente.
Non sarebbe un urto insostenibile, in fondo l’Occidente resta, ancora, più forte. Ma questa
guerra è totale nel senso che i suoi obbiettivi sono mostruosamente e volontariamente
dilatati, oltre la ragione e il calcolo: purificare parti intere del mondo, mezza Africa, il
Levante l’Asia centrale, i Balcani, la Spagna… Che follia! Eppure: chiedetelo ai morti e
quanti ne seguiranno perché, alla fine forse se ne venga a capo. Interessiamoci non alle
sigle ma a questi terribili uomini nuovi del jihad con la morte sotto i piedi e l’odio che sale
nel petto, credenti a cui non è servito a niente il mondo moderno, ora che tocca a ciascuno
farsi strozzare dalla sua morte. Che solco immenso tra i loro mondi insanguinati e le
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nostre piccole necessità: mettere i sicurezza il petrolio e il gas libico… controllare la
partenza dei migranti… difendere i nostri clienti… trovare qualche dittatore di ricambio.
Guardate la carta geografica: con zampate feroci, larghissime l’Islam che si è
autonominato a sciogliere il nodo escatologico del destino umano, a fondare il regno di dio
sulla terra ci esclude da parti intere del mondo estirpate col ferro rovente: il Sahara e la
Libia proibite, il Sinai letale, la Siria e la terra tra i due fiumi cancellate… E la Tunisia: ecco
la Tunisia. Appena riammessa nel branco dei paesi tranquilli, democratici, legalizzati:
hanno votato una due tre volte… hanno vinto i nostri, i laici quelli in giacca e cravatta!
esultavano i candides per cui le elezioni da sole hanno funzione scaramantica. La Tunisia
scompare di nuovo dalle nostre mappe di viaggiatori sicuri, troppo pericolosa per
occidentali, miscredenti, nemici, »kufar»... Il mondo si richiude sugli inventori della
globalizzazione. Ne avanza un altro, col ferro, il fuoco il sangue, la guerra. Sempre più
numerosi, giovani tentati, brancolanti, in cerca di profeti, si chiedono: è di nuovo il
momento islamico della storia del mondo? Come fu ai tempi del primo califfato. Il successo
genera successo, adesioni sciagurate, arruolamenti. Il loro viaggio dura secoli, si
arruolano volontari in questa storia morta, in questi secoli di cenere solo per incontrare
questo sogno feroce. La Storia non si vede purtroppo, come non si vede crescere l’erba.
La magia perversa e letale della Parola, sciagurata e perfetta intuizione di Daesh: far
risorgere il Califfato, la mitica età dell’oro per ogni musulmano, riavvolgere la Storia al
contrario… Perché no? Noi cerchiamo distinguo bizantini tra le sigle dell’Internazionale
islamista, e intanto tunisini e europei, siriani e ceceni, nigeriani e afghani fanno evaporare
la loro identità precedente entrando nel mondo totale della guerra santa; seguono chi li ha
già preceduti nelle vampe dell’odio. Per loro dio è un libro e l’uomo una cosa a cui non
pensano più.
Un mese fa ero in Tunisia: gente affranta, giovani senza lavoro che presidiavano
interminabili caffè, chiassose beghe di mediocri politicanti, la sguaiata volgarità dei soliti
ricchi... Tutti ti raccontavano storie sinistre: ragazzi scomparsi a centinaia, a migliaia.
«Sono andati laggiù…», mormoravano come di persone che hanno contratto una terribile
malattia e che non si rivedranno più... i martiri dello stato del Levante… I miti tunisini che
sognano un dio che li accarezzi per fugare in loro il timore dell’universo, che dia loro una
casa ove rifugiarsi e non soffrire.
Le zone che crediamo sicure, l’Islam moderato su cui siamo pronti a giurare, la Tunisia
l’Egitto l’Algeria il Marocco la Giordania hanno piedi d’argilla; la Bestia li rode con la
voracità di termite e di colpo crollano, davanti ai nostri occhi stupefatti. Di quanta gente
non sappiamo più niente? Ancora pochi mesi e non li nomineremo più, il Califfato li ha
ingoiati. Avremo dimenticato cosa c’era prima e non cercheremo di spiegare l’inaudito.
L’ordine che subentrerà ci circonderà con la stessa normalità di un bosco all’orizzonte o
delle nubi sulla testa. Ci circonderà da ogni parte. Non ci sarà nient’altro.
Passano i mesi il cervello e il cuore di tutto questa guerra, Mosul, resta piantato
arrogantemente nel centro del vicino oriente. Uno scenario possibile tra dieci anni: lo Stato
islamico stabilizzato e saldo nel suo territorio, senza più minoranze religiose, dieci milioni
di persone vivono sotto il suo governo, il petrolio estratto da compagnie cinesi lo rende
ricco. Il basso Iraq si è salvato grazie a Teheran, l’Arabia Saudita è presa d’assalto…
Quegli uomini sono capaci di tutto. Sono una cricca sempre più piena di forza e di
sicurezza mentre noi che aspettiamo non abbiamo niente. Viviamo sulla lama del coltello,
ci bilanciamo da un minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tengono ben
stretti al morso, gli uomini del califfato, si tengono uniti in quella dannata cricca che il
successo aumenta ogni giorno, amministrano il loro sogno sanguinario, amministrano il
paradiso, hanno tutto in pugno, loro.
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del 19/03/15, pag. 14
Israele, governo alla destra è il trionfo di
Netanyahu Gelo con la Casa Bianca
Il premier uscente lavora a una coalizione con più seggi del 2013 Gli
Usa: “Noi sosteniamo ancora la soluzione dei due Stati”
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
L’avevano dato per spacciato perfino alla Casa Bianca e invece Benjamin Netanyahu ha
dimostrato ancora una volta di essere “King Bibi”. Una formidabile ripresa, dovuta
soprattutto al suo battersi come un leone fino all’ultimo secondo, ha consegnato al Likud
una vittoria sorprendente al voto in Israele. Trenta deputati su 120 assicurano al premier
uscente la certezza di essere il primo a cui il presidente Reuven Rivlin darà l’incarico di
formare il nuovo governo. Nella ventesima Knesset siederanno 24 deputati dell’Unione
sionista, l’alleanza di centro-sinistra guidata da Yitzhak Herzog che ieri di buon mattino ha
riconosciuto la sconfitta augurando «buona fortuna» all’avversario. «La nostra corsa non
finisce qui», ha promesso Herzog ai suoi sostenitori, annunciando che Unione sionista non
accetterà di entrare in un governo di unità nazionale — una soluzione caldeggiata dal
presidente Rivlin — e farà «un’opposizione dura e rigorosa». L’uomo che parte di Israele
ama e un’altra ama odiare, è già al lavoro per tentare di mettere insieme una coalizione di
governo che promette «entro duetre settimane». Scontata l’intesa con Focolare ebraico —
il partito dei coloni — in discesa con 8 seggi, e i due partiti religiosi che hanno superato lo
sbarramento del 3,5%, Shas e Ebraismo unito della Torah (13 seggi), il “falco” nazionalista
Avigdor Lieberman, capo di Israel Beiteinu (5 seggi). Ma Netanyahu guarda soprattutto a
Moshe Kahlon, il suo ex ministro delle Telecomunicazioni, che con i 10 seggi del partitomatricola Kulanu, di centro-destra, è l’ago della bilancia. Kahlon ha già dato la sua
disponibilità a entrare in un governo «focalizzato sugli aspetti sociali» e questa squadra,
se concretizzata, assicurerebbe a Netanyahu una maggioranza di 67 seggi. Festeggia la
Lista araba congiunta, che nelle urne ha raggiunto un obiettivo ritenuto impensabile fino a
pochi mesi fa. È il terzo partito con 14 seggi, subito dopo il Likud e l’Unione sionista.
Dopo le bordate delle ultime ore prima del voto — con l’anatema sullo Stato palestinese e
la promessa di espandere gli insediamenti colonici — ieri Netanyahu non si è sbilanciato
su quelle posizioni che hanno lasciato di stucco la comunità internazionale e messo il
Likud su una linea nella quale diversi dei suoi quadri non si riconoscono più. I suoi tre “no”
— no al compromesso, no alla cessione dei Territori, no allo Stato palestinese — hanno
suscitato forti reazioni dominate dal pessimismo anche a Ramallah. I palestinesi
annunciano che le parole di Netanyahu imprimono ancora maggior convinzione nel ricorso
alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja e nel lavoro alle Nazioni Unite per il
riconoscimento della Palestina come Stato.
Tra le telefonate di complimenti ricevute da Netanyahu è arrivata anche quella del
segretario di Stato americano John Kerry, ma non ancora quella del presidente Barack
Obama, che chiamerà nei «prossimi giorni». Il gelo fra i due leader è palpabile da tempo e
le parole di Netanyahu sono state uno schiaffo alla Casa Bianca e ai suoi tentativi di
rimettere sul binario il negoziato. «Gli Stati Uniti restano impegnati nella soluzione dei due
Stati », ha fatto sapere il portavoce presidenziale, ma anche che gli Usa alla luce delle
posizioni espresse «stanno rivalutando il loro approccio ». Anche l’Onu e la
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rappresentante europea per la politica estera Federica Mogherini hanno chiesto a Israele
di restare impegnato nel negoziato, un appello più che un invito.
del 19/03/15, pag. 14
Coloni e incubo Iran, così Bibi è rinato
Ma ora nel mondo sarà più solo
BERNARDO VALLI
GERUSALEMME
LO DAVANO per spacciato. Come primo ministro ci ha stancato, sentivi dire un po’
dappertutto. Nel ristorante kosher la studentessa che fa la cameriera. Nel tassì l’autista
“sabra” nato a Gerusalemme, ma di una famiglia originaria di Bassora in Iraq. Strano, un
sefardita, un ebreo orientale, dovrebbe essere un elettore di “Bibi”. E invece non lo ama.
Non l’ama neppure il cronista nella redazione di un quotidiano moderato come Yediot
Ahronot, anzi lo detesta. Senza parlare dell’amico, appesantito dagli anni, che ritrovo in
pensione nella German Colony dopo averlo conosciuto dinamico attivista del Likud.
Proprio del partito di “Bibi”. Anche noi siamo stufi di lui, mi confessa. E i due figli, uno
ingegnere l’altro avvocato, si associano.
La lista degli scontenti era insomma lunga, e avvalorava i toni disincantati dei giornali nei
confronti del primo ministro in carica da un numero d’anni inferiore soltanto a quello di Ben
Gurion, il fondatore dello Stato. Vale a dire da troppi anni. Poi, come in un’allucinazione,
martedi notte, Benjamin Netanyahu è apparso trionfante nella sede del suo partito, con la
moglie Rosa accanto. Battuto? Spacciato? Estromesso?
È l’una quando comincia a parlare. La coppia Netanyahu sprizza energia, dopo un giorno
decisivo, pesante, trascorso nell’attesa del risultato di un voto incerto, che poteva segnare
una svolta decisiva, la fine di una grande carriera politica o quasi. La sconfitta annunciata
dalle indagini d’opinione non c’è stata. Le proiezioni annunciano che dalle urne dovrebbe
uscire un pareggio. In Israele invece delle percentuali dei voti si danno i risultati in seggi
parlamentari: un 27 a 27 non è un successo strepitoso: ma una bella rimonta rispetto ai
sondaggi che aggiudicavano al capo del Likud quattro seggi in meno della coppia
Herzog— Livni, alla testa dell’avversaria Unione sionista, la coalizione di centro sinistra.
Chi sperava nel tramonto di Benjamin Netanyahu si addormenta un po’ deluso. Inquieto.
Gli scontenti dovrebbero essere in tanti, vista l’atmosfera di Gerusalemme. Invece le
lunghe ovazioni dedicate dai militanti del Likud a Rosa e a Benjamin, e i sorrisi smaglianti
con quali Rosa e Benjamin le accolgono, fanno pensare che i due conoscano la sorpresa
annidata nello scrutinio dal quale usciranno i veri risultati soltanto nel primo mattino.
Dichiarano la vittoria. Avendo dimestichezza con la mappa elettorale del paese è più facile
prevedere dalle proiezioni la conclusione del voto. Forse hanno ragione quando si dicono
vincitori in anticipo. Questo vale anche per quelli dell’Unione sionista che, invece,
accogliendo la notizia del pareggio hanno un’aria bastonata. Anche loro inneggiano
tuttavia al successo. Due vincitori in un solo voto. Due governi e una sola elezione.
Il risveglio è brutale per gli uni ed euforico per gli altri. Nella notte il pareggio è sparito. Lo
spoglio delle schede dà una chiara vittoria a Benjamin Netanyahu: 30 seggi contro 24 in
favore del Likud. Le nostre corrispondenze scritte la sera erano l’effimera verità di un
momento che si è dissolto. Benjamin Netanyahu avrà un quarto mandato come primo
ministro. Nello spazio di poche ore sono sparite le speranze di una nuova dinamica nella
politica mediorientale, e quindi una svolta nell’immobile problema israelo—palestinese.
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Dopo quasi cinquant’anni (che conto dalla guerra del 1967) di occasioni perdute, è sparito
il miraggio di due Stati, il palestinese accanto all’israeliano garantito nella sua sicurezza. È
tragicamente sfuggito di mano come un pallone. Si è perduto nel vuoto spinto da un voto
democratico. L’occupazione continua e del processo di pace non si vede più traccia.
Questo è il prezzo del successo di Benjamin Netanyahu. Riacciuffato in extremis con
l’energia e l’abilità riservate a pochi uomini politici. Nel suo ufficio Bibi tiene un ritratto di
Winston Churchill, pensando di poterne trarre ispirazione, ed anche po’ di nobiltà. Ne
avrebbe bisogno se volesse dare un senso e po’ di dignità al populismo che gli consente
di riemergere ogni volta da crisi per altri politicamente fatali.
Fino a qualche giorno prima della notte che ho descritto egli è apparso spesso ai
collaboratori in preda al panico. I pronostici gli erano ostili. Le indiscrezioni sulle spese
eccessive nella residenza di primo ministro erano oggetto di indagini e di indiscrezioni
giornalistiche; la sfida lanciata a Barack Obama al Congresso di Washington sul problema
nucleare iraniano, presentato come una minaccia diretta per Israele, non aveva avuto
grande successo e aveva ferito la preziosa alleanza con la Casa Bianca; gli stessi dirigenti
del suo partito gli rimproveravano di avere condotto una cattiva campagna elettorale.
Ma lui conosce il suo elettorato. Gli stanchi del suo lungo potere erano soprattutto gente di
città, delusi della politica che dopo l’ultima crisi di Gaza non dava più stabilità al paese nel
Medio Oriente in tempesta. Molti erano askenaziti, ebrei originari del centro e nord Europa,
non particolarmente amati dalle masse sefardite, originarie del Maghreb o del Medio
Oriente, da sempre irritate dal ruolo privilegiato che loro, gli askenaziti, hanno nella politica
e nella cultura. Bisognava tuttavia estirpare o attenuare lo scontento delle classi meno
abbienti, anch’esse per lo più sefardite, per il rincaro dei prezzi, in particolare degli affitti, e
per la forte sperequazione dei redditi, in una situazione economica tutt’altro che
sfavorevole, con una crescita invidiabile in Europa e una bassa disoccupazione. Per
questo lo scontento serpeggiava anche nel tradizionale elettorato del Likud.
Benjamin Netanyahu l’ha strappato per il tempo necessario del voto da quelle
preoccupazioni. L’ha isterizzato gettando nei comizi argomenti profondi, sensibili, non del
tutto irreali, riguardanti la sicurezza. Ha colpito il ventre degli elettori distratti o scontenti. Li
ha mobilitati. Ha sfoderato problemi che non aveva mai affrontato con tanta schiettezza.
Uno Stato palestinese? Ne aveva accennato, dichiarandolo necessario, nel 2009. Alla
vigilia del voto incerto l’ha escluso con fermezza. Quando ha mentito? Sei anni fa o sei
giorni fa quando ha sentenziato che non ci sarà mai uno Stato palestinese?
Un verdetto che blocca ancor più il paralizzato processo di pace. Se si esclude uno Stato
binazionale, ritenuto irrealizzabile anche per la rapidità della demografia palestinese, e se
si scarta l’idea di due Stati separati, resta soltanto la gestione normale delle crisi. Vale a
dire l’occupazione dei territori palestinesi. Questo significa anche isolarsi dal resto del
mondo, che nella sua grande maggioranza, Stati Uniti compresi, chiede che quel diritto, in
larga parte già concesso dalle Nazioni Unite, sia riconosciuto al popolo palestinese.
Nell’offensiva promossa nelle ultime ore per recuperare i voti che gli stavano sfuggendo,
Netanyahu ha accusato i suoi avversari di volere dividere Gerusalemme con i palestinesi.
E di voler smantellare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. In poche ore ha
riconquistato molti elettori (in larga parte sefarditi e russi) presentando le sue decisioni
come irrinunciabili per garantire la sicurezza di Israele. E questa sicurezza assomiglierà
sempre più a quella voluta dall’estrema destra con la quale si deve alleare per avere la
maggioranza in Parlamento. Un’estrema destra che vorrebbe annettere via via parte della
Palestina già presidiata da 350 mila coloni.
La procedura concede all’incaricato quattro settimane più due in caso di necessità per
formare il nuovo governo. Unendo i seggi del suo partito a quelli dei partiti estremisti (di
Bennett e di Liebermann), Netanyahu ne avrebbe a disposizione 44. I restanti dovrebbero
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darglieli Moshe Kahlon, abile ministro dissidente destinato a rientrare nei ranghi come
ministro delle finzanze. Kahlon dispone di dieci preziosi seggi da aggiungere a quelli dei
partiti religiosi ortodossi: lo Shass (safardita) e l’Ebraismo unificato della Torah
(askenazita). Questa è la coalìzione che Netanyahu cercherà di realizzare. Se ci riuscirà
avrà una maggioranza di 67 seggi sui 120 che conta la Knesset.
Il prezzo di questo governo, costruito con un abile populismo democratico, rischia di
essere molto alto. L’autorità palestinese presenterà al Tribunale penale internazionale una
denuncia contro l’occupazione della Cisgiordania. E reclamerà i diritti di dogana dei suoi
prodotti gestiti da Israele e non corrisposti da due mesi. Netanyahu dovrà inoltre affrontare
un isolamento internazionale, dopo la sfida lanciata al presidente americano e le richieste
inattese di riprendere i negoziati di pace avanzati dalle democrazie occidentali. Lo Stato
ebraico dovrà usare l’ampio credito che la Storia gli riconosce.
del 19/03/15, pag. 1/8
Elezioni israeliane
Di male in peggio
Zvi Schuldiner
Era certo difficile pensare che il cambiamento fosse alle porte; tuttavia, i sondaggi
lasciavano spazio a un certo ottimismo: sembrava che la destra, benché in grado di
formare una coalizione di governo, avrebbe ottenuto un risultato modesto, in grado di
ridimensionare il prestigio di Netanyahu.
Ma è andata altrimenti. Netanyahu si è recato a Washington denunciando che l’Iran e
Hamas minacciavano l’esistenza dello Stato ebraico.
E poi se la sinistra avesse vinto in Israele a quel punto anche Isis avrebbe minacciato
l’esistenza dello Stato ebraico e l’unico in grado di affrontare tutti questi Hitler di turno era
ovviamente lui, la grande guida.
Le opposizioni del fronte anti-Bibi balbettavano timide richieste di riforme in campo
economico-sociale e il premier rispondeva che in primo luogo doveva tutelare le nostre
vite. Nessuno ha sfidato sul serio la politica della paura.
La destra razzista ha ottenuto il minimo necessario per entrare in parlamento; il suo
intento era chiaro: lasciare i palestinesi israeliani senza rappresentanza. La risposta è
stata una problematica unità fra partiti molto diversi — in risposta a una legge che ha
caratteristiche razziste. L’unità fra i partiti arabi ha avuto un forte impatto sulla società
israeliana e il leader della lista – e del Partito comunista – è diventato un leader di livello.
Ma mentre si votava, il nostro magnanimo grande primo ministro ha pubblicato sulla sua
pagina facebook un appello urgente: «Molti arabi stanno votando»; come dire agli ebrei:
forza, forza, andate a votare prima che gli arabi ci rubino il paese insieme alla sinistra,
traditrice della patria.
Andate a votare, appoggiate il Likud perché «quelli» mettono tutto in pericolo.
Consegneranno la patria al nemico, divideranno Gerusalemme, e avanti così…Che cosa
non si è potuto dire anche contro i timidissimi rappresentanti del moderatissimo centro
liberale?
La politica della paura ha funzionato. Predominante in Israele negli ultimi decenni, essa
promette di infittire le tenebre nelle quali il paese vive. E il primo ministro Netanyahu può
ora realizzare una coalizione nella quale la destra predomina con forza. Agli oltre trenta
membri del Likud si uniranno i sei deputati dell’ultrarazzista Lieberman e gli otto dell’ultrà
dei coloni religiosi nazionalisti, Bennet. Kahlon, che era stato allontantato dal Likud,
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tornerà alla grande con i suoi dieci deputati. Non rimane che incorporare i tredici o
quattordici deputati di partiti ultraortodossi per formare una coalizione di ultradestra.
Con la presenza di Livni e di Yesh Atid di Lapid, la coalizione precedente non ha tenuto
davvero a bada le iniziative antidemocratiche. A poco a poco sono state introdotte nuove
norme che hanno vieppiù limitato le possibilità di una vita democratica reale. Si è
accentuata la necessità di trasformare Israele in uno Stato confessionale ebraico, che
disconosce la presenza di quel 20% di cittadini palestinesi israeliani, musulmani in
maggioranza, e poi drusi o cristiani. Oggi in Israele il razzismo è all’ordine del giorno.
Lieberman è solo un esempio estremo, a livello ministeriale, ma a Gerusalemme gli
attacchi fisici a cittadini arabi sono una routine settimanale.
L’incitamento alla violenza da parte della destra non trova ostacoli nemmeno verbali, e il
razzismo più spudorato è criticato solo dal presidente dello Stato Rivlin, una delle
pochissime voci che combattono le correnti antidemocratiche ogni giorno più forti.
Per anni, il primo ministro ha mimetizzato la sua politica con la «formula di Bar Ilan», due
Stati per due popoli. Come dice bene la portavoce del dipartimento di Stato americano, la
dichiarazione di Netanyahu che questo è già passato, fa parte delle dichiarazioni elettorali
e non deve necessariamente esser presa sul serio. Ma la realtà dei fatti va presa sul serio:
negli ultimi sei anni Netanyahu non ha messo alcuna serietà nei negoziati, l’occupazione
continua e un intero popolo vive sottomesso con violenza alla supremazia israeliana,
privato dei più elementari diritti politici.
La destra peggiorerà – non può essere diversamente – la situazione attuale, continuerà a
costruire colonie israeliane nei territori occupati e questo primo o poi porterà a nuove crisi
violente. Presto o tardi il grande e magnanimo primo ministro provocherà un’altra guerra di
«difesa»; l’apartheid è sempre più feroce e solo da fuori è possibile frenare il grande
piromane il quale cercherà di nuovo di attaccare l’Iran, con l’aiuto dei falchi statunitensi
che vedono in Obama un traditore nero.
Israele ha votato. Il razzismo si sviluppa a passi da gigante. L’apartheid fa presa sulle
nostre vite e il combustibile aspetta solo la scintilla opportuna per incendiare tutto. La
politica della paura domina, rafforzando estrema destra e fondamentalisti.
Adesso, senza la copertura «delicata e diplomatica» di alcuni sciocchi «moderati» come
Livni, Lapid o simili, che hanno sempre contribuito a migliorare la nostra immagine
all’estero, chi continua a blaterare sull’«unica democrazia» dovrà affrontare la realtà di una
specie di nuovo Sudafrica, in cerca di una chiara e pericolosa egemonia regionale.
del 19/03/15, pag. 15
L’avvocato che ha smosso gli arabi
Integralisti, nazionalisti e comunisti si sono raccolti attorno a Ayman
Odeh, l’uomo che ha tenuto testa al falco Liberman. Ma la coalizione ha
troppe anime
Non hanno vinto e non faranno parte di alcuna coalizione di governo. Eppure, i 13 o 14
deputati (da confermare dai risultati dello scrutinio finale) della nuova Lista Unita eletta
dagli arabi israeliani rappresentano una delle novità più significative delle elezioni. E’ dalla
prima legislatura nel 1949 che gli arabi cercano di creare una coalizione unitaria, ma le
divisioni interne avevano sempre prevalso. Il quotidiano Haaretz nota che, se si
conteggiano anche i quattro deputati arabi nei «partiti sionisti», la Ventesima Knesset (il
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Parlamento) dovrebbe avere così in tutto 17 deputati arabi (sui 120 complessivi). Circa il
doppio di quelli che erano stati eletti nella precedente legislatura.
«La forte presenza araba è figlia dell’effetto boomerang generato dalle dichiarazioni ostili e
razziste della destra, a partire da quelle del ministro degli Esteri Avigdor Liberman»,
notano i commentatori israeliani. Uno dei momenti topici fu durante un dibattito televisivo
poche settimane orsono, quando Liberman rivolgendosi al leader del partito comunista
Hadash (il cui elettorato è quasi tutto arabo), Ayman Odeh, lo definì «straniero» e
«cittadino palestinese». Questi, nato ad Haifa nel 1975, noto avvocato, in ebraico perfetto
ricordò a Liberman la sua immigrazione dall’ex Urss nel 1978 aggiungendo: «Io sono
molto ben accetto nella mia città natale, sono parte della natura, figlio di questa terra». Da
allora Odeh è diventato il motore primo della Lista Unita, che coalizza assieme ai
comunisti tre partiti arabi minori: Ta’al, Balad e Lista Araba Unita.
Al suo fianco sono state elette figure ben note alla politica locale. Prima tra tutte la 46enne
«pasionaria» Haneen Zoabi, araba israeliana figlia di una delle più note famiglie
musulmane di Nazareth. Lei, laureata all’università di Gerusalemme, è entrata alla
Knesset per la prima volta nel 2009 tra le file del Balad. Venne poi processata per aver
partecipato alla spedizione pacifista nel 2010 a favore della popolazione palestinese di
Gaza sulla nave turca «Mavi Marmara», quando nove attivisti rimasero uccisi nello scontro
con i commando israeliani. Punto centrale della sua politica è oggi la nascita di uno Stato
binazionale arabo-ebraico che comprenda Israele e i territori occupati nella guerra del
1967. Altra figura di punta della nuova lista è il 55enne Jamal Zahalka, anch’egli attivista
nel Balad impegnato in quella che definisce la «lotta contro l’apartheid».
La Lista Unita vorrebbe rappresentare il milione e 658.000 arabi israeliani (circa il 20,7 per
cento della popolazione del Paese), di cui l’80 per cento musulmani. Pure, non mancano
le difficoltà. Le sue componenti vedono al loro interno profonde differenze. I comunisti, che
raccolgono tra l’altro circa 10.000 elettori ebrei, sono propugnatori di istanze socialiste,
laiche e femministe. Per contro, i tre partiti arabi raccolgono elementi tradizionalisti
islamici, alcuni ispirati al fondamentalismo religioso di Hamas e altri al nazionalismo
dell’Olp. Tenerli assieme potrebbe risultare impossibile.
Lorenzo Cremonesi
del 19/03/15, pag. 15
Entra in scena la politica dei palestinesi
Dopo aver deluso le aspettative e le speranze del centro e della sinistra israeliane, il
partito di destra del Likud è emerso come il primo partito di Israele, in un Paese
contraddistinto da un sistema politico frammentato, al punto tale da poter paragonarsi al
Belgio e all’Italia. Malgrado la prospettiva inevitabile e deprimente dell’ennesima coalizione
della destra più intransigente guidata da Netanyahu, i palestinesi di Israele, invece di
abbandonarsi allo sconforto, appaiono addirittura giubilanti. Nella città di Nazareth al Nord,
per esempio, gli automobilisti si sono messi a suonare il clacson, quasi fossero diretti a un
matrimonio. Il motivo di tanta, e in apparenza paradossale, esultanza non ha nulla a che
vedere con il Likud, ma si cela invece nell’avanzata senza precedenti della Lista Comune,
appoggiata dagli arabi. «È un ottimo risultato, perché testimonia il rinnovato sostegno da
parte dei cittadini arabi ai loro rappresentanti» ha commentato un amico di Nazareth.
Questo «voto di fiducia», assieme alla larga partecipazione elettorale degli arabi, dopo
anni di apatia, è dovuto principalmente a due uomini, uno dei quali è Avigdor Lieberman,
del partito ultranazionalista Yisrael Beiteinu. Difatti è stato proprio il ministro degli Esteri
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uscente ad aver voluto innalzare la soglia elettorale, una mossa interpretata come il
tentativo di sbarrare la Knesset ai partiti arabi, che tradizionalmente raccolgono meno voti
dei loro rivali ebraici. Questa strategia, assieme a una retorica infiammatoria anti-araba, ha
spinto i partiti minori a formare un’improbabile alleanza, la Lista Comune, che raccoglie tra
le sue file nazionalisti palestinesi, progressisti arabi ed ebraici, ed islamisti.
L’altro uomo è un avvocato di Haifa passato alla politica, Ayman Odeh, che è emerso da
una relativa oscurità per guidare una campagna carismatica a favore della Lista Comune,
e che alcuni osservatori hanno descritto come il più interessante politico arabo del Medio
Oriente. «La nostra Lista Comune chiama a raccolta tutti i popoli deboli e oppressi, a
prescindere da razza, sesso o religione», ha spiegato Odeh in un’intervista a The
Guardian . «Il nostro sarà uno schieramento alternativo, democratico, dove arabi ed ebrei
non sono nemici, bensì partner a pari titolo». Tenendo ben presente che gli arabi
costituiscono la principale fascia dei poveri e dei diseredati di Israele, la Lista Comune ha
elaborato un piano decennale per colmare il divario socio-economico tra questi e i settori
più avanzati della società. «Vogliamo fare una marcia su Gerusalemme per sensibilizzare
il Paese al nostro programma e reclamare giustizia e democrazia», ha dichiarato Odeh,
ispirandosi ai pionieri dei diritti civili, come Martin Luther King.
Un altro punto saliente della piattaforma politica è la decisa opposizione all’occupazione,
in un Paese che ormai ha dimenticato l’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania e a
Gaza, per dedicarsi sempre di più alla «gestione» del conflitto. «Noi diciamo che non potrà
esservi nessuna reale e sostanziale democrazia in Israele fintanto che continuerà
l’occupazione dei territori palestinesi, iniziata nel 1967», nelle parole di Odeh. Non è
chiaro, tuttavia, fino a che punto la Lista Comune potrà raggiungere i suoi obiettivi, davanti
a una possibile coalizione della destra ultranazionalista o a un governo di «unità
nazionale». Ma una cosa è certa: il successo della Lista Comune alle urne ha finalmente,
seppur con grande ritardo, segnato l’ingresso dei palestinesi di Israele sulla scena politica
del Paese, dove potrebbero diventare il primo partito di opposizione. È un risultato, questo,
che potrebbe indicare una svolta sullo scacchiere mediorientale, e i futuri storici forse
guarderanno a questa data come il momento in cui la lotta dei palestinesi ha iniziato a
trasformarsi in un movimento per i diritti civili.
( Traduzione di Rita Baldassarre )
del 19/03/15, pag. 9
«Con questo voto cadono le maschere, l’Italia
boicotti le aziende e chieda l’embargo
militare»
Geraldina Colotti
Palestina. Parla l'intellettuale Omar Barghouti, attivista per i diritti umani
«Con questo voto, Israele ha perso la maschera», dice al manifesto Omar Barghouti,
ricercatore indipendente laureato all’Università di Tel Aviv e attivista dei diritti umani
palestinese. Ingegnere elettronico, filosofo e opinionista – sui articoli sono apparti sul
Guardian, New York Times, Bbc, Cnn... – è autore del libro: Boicottaggio, Disinvestimento,
Sanzioni: La lotta globale per i diritti palestinesi (Haymarket Books, 2011). E’ cofondatore
dell’organizzazione Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), proveniente dalla
società civile palestinese.
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Come valuta i risultati delle elezioni parlamentari in Israele?
Come una vittoria per l’estrema destra, per i coloni, per il razzismo e l’apartheid. I
palestinesi sanno che dovranno soffrire ancora di più. Speriamo almeno che, vedendo il
vero volto del regime israeliano, il mondo reagisca e sostenga gli sforzi del movimento Bds
per isolarlo, fino al riconoscimento dei nostri diritti inalienabili. Israele, una potenza
nucleare bellicosa incurante del diritto internazionale e dei diritti umani fondamentali, ora
avrà al governo i peggiori fanatici, con gravi conseguenze per i palestinesi e per la pace
nel mondo. I grandi perdenti sono i partiti di destra che indossano maschere di sinistra,
come il Labor e il partito di Tzipi Livni. Entrambi sono colpevoli di cementare
l’occupazione, gli insediamenti e il regime dell’apartheid, entrambi sono colpevoli di gravi
crimini di guerra contro il popolo palestinese. Pur rifiutando il diritto fondamentale alla
parità per i palestinesi, sono riusciti a mantenere una falsa facciata di “moderatezza” e
persino tendenze “sinistra”. La maschera è caduta. Vi è un consenso sionista, senza
eccezioni, contro l’uguaglianza per i palestinesi in Israele, contro il diritto dei profughi di
ritornare alle loro terre e alle case da cui sono stati scacciati per via della pulizia etnica, e
un’adesione piena al completamento del sistema unico di occupazione, colonizzazione e
apartheid. Le Nazioni unite e i governi del mondo devono assumersi una parte di colpa
nell’esito di queste elezioni: perché non hanno ritenuto Israele responsabile nei confronti
del diritto internazionale e non gli hanno imposto sanzioni com’è stato fatto invece contro
l’apartheid in Sud Africa. Hanno rifiutato di appoggiare la pressione dell’opinione pubblica
mondiale per fermare l’ultima strage di Israele nella Striscia di Gaza assediata, nell’estate
del 2014, e la continua e selvaggia colonizzazione della Cisgiordania, in particolare
all’interno e intorno a Gerusalemme est e nella Valle del Giordano. Sono rimasti
indifferenti quando Israele ha adottato leggi ancora più razziste che hanno
istituzionalizzato quello che l’Onu definisce un regime di apartheid. Nell’opinione pubblica
mondiale, Israele non ha più alcun credito, ma i governi mondiali devono ancora far
rispettare il dettato delle loro costituzioni per porre fine all’impunità di Israele e imporgli
sanzioni significative, a partire da un embargo militare.
Quali sono gli obiettivi del movimento Bds?
La campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni è stata lanciata nel 2005 da una
vasta coalizione di partiti politici, sindacati e organizzazioni di massa nella società
palestinese. Il documento storico, che divenne la base per il movimento globale Bds,
prevede la fine dell’occupazione israeliana e il ritorno entro i confini del 1967, l’abolizione
del sistema israeliano di discriminazione razziale istituzionalizzata, e l’affermazione del
diritto dei profughi al ritorno nelle terre e nelle case di cui sono stati espropriati nel 1948. Il
movimento Bds si basa sul diritto internazionale e sui principi universali dei diritti umani.
Nel suo libro lei parla di “uguaglianza piena”. Cosa significa per il vostro
movimento?
Il compianto intellettuale palestinese Edward Said, una volta disse: “Uguaglianza o niente”.
Per il popolo palestinese, come per tutte le comunità oppresse del mondo, l’uguaglianza è
la richiesta fondamentale della lotta: chiediamo di poter esercitare i diritti che ci spettano in
base a quello internazionale, com’è per ogni altro popolo. Su questa richiesta
fondamentale – pietra angolare di tutti i diritti umani, contemplato nella Carta delle Nazioni
unite – non possiamo scendere a patti. Uguaglianza significa che i profughi palestinesi
hanno diritto ai diritti che tutti i rifugiati meritano: quello a tornare nelle case e nelle terre da
cui sono stati espulsi o che hanno dovuto abbandonare. Uguaglianza significa
l’abrogazione di 50 leggi discriminatorie di Israele che sono alla base del suo regime di
apartheid e che sono stati criticati anche dal Dipartimento di Stato americano, che ha
accusato Israele di “discriminazione istituzionale, legale e sociale” contro i suoi cittadini
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arabi-palestinesi. Uguaglianza significa non aspettarsi che i palestinesi accettino come un
destino il sistema di schiavitù coloniale imposto da Israele: perché non lo faranno mai.
In Italia, il boicottaggio accademico e quello culturale che voi proponete hanno
suscitato un dibattito acceso anche in certe aree di sinistra che si dicono contrarie
all’occupazione. Quali sono le vostre motivazioni?
Noi chiediamo il boicottaggio pieno delle istituzioni accademiche e culturali di Israele per la
loro documentata complicità con il regime coloniale. Il Bds non prende di mira i singoli
accademici e non interferisce con il loro insegnamento, la scrittura, l’editoria, la ricerca,
com’è avvenuto contro l’apartheid in Sudafrica che ha sanzionato non solo le istituzioni ma
anche i singoli. Noi chiediamo alle accademie e alle istituzioni culturali del mondo di
recidere i legami con le università israeliane a causa della complicità nelle violazioni contro
i diritti umani di Israele a cui forniscono un abito accettabile. Il boicottaggio accademico di
Israele è cresciuto in fretta, ultimamente, soprattutto negli Stati Uniti. Allo stesso modo, il
movimento Bds chiede un boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, comprese le
bande e orchestre, che fanno parte del sistema di propaganda che Israele usa per
mascherare il suo regime di apartheid e colonialismo. Il regime israeliano usa la cultura
come propaganda, com’è evidente dalla sue stesse dichiarazioni ufficiali.
Per esempio?
Un ex vice direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Nissim Ben-Sheetrit, ha
spiegato così il lancio della campagna Brand Israel nel 2005: “La cultura è uno strumento
di hasbara (propaganda) di prim’ordine, non c’è differenza tra hasbara e cultura. Dopo
l’assalto israeliano alla Striscia di Gaza assediata, nel 2009, l’immagine di Israele è andata
nuovamente a picco. Questo ha spinto il governo a buttare ancora più soldi nella
campagna Brand Israel. Uno dei protagonisti della campagna, Arye Mekel, il vice direttore
generale per gli affari culturali del ministero degli Esteri israeliano, ha detto al New York
Times: “Invieremo romanzieri famosi e scrittori stranieri, compagnie teatrali, mostre. In
questo modo si fa vedere l’aspetto più bello di Israele, e non lo si pensa solo nel contesto
della guerra”. Invitare artisti a esibirsi in Israele, e offrendo loro compensi esorbitanti mira
inoltre a contribuire a questo sforzo di verniciatura, come un numero crescente di artisti di
spicco sta verificando. Nel 2008, il famoso scrittore israeliano Yitzhak Laor ha pubblicato
nel quotidiano israeliano Haaretz un contratto che gli artisti israeliani, scrittori e studiosi,
tra gli altri, devono sottoscrivere per ricevere finanziamenti dal governo per i loro impegni
internazionali (visite, conferenze, proiezioni di film, ecc ). Tale contratto comporta obblighi
di propaganda espliciti che il destinatario del Fondo dovrebbe svolgere: “Il fornitore di
servizi si impegna ad agire con fedeltà, in modo responsabile e senza sosta per fornire al
Ministero le più alte prestazioni professionali. Il fornitore di servizi è consapevole del fatto
che la finalità di ordinare servizi da lui è quello di promuovere gli interessi politici dello
Stato di Israele attraverso la cultura e l’arte, e di contribuire a creare un’immagine positiva
di Israele”. Subito dopo aver appreso questo contratto, il Pacbi, la campagna palestinese
per il boicottaccio accademico e culturale, ha detto che qualsiasi israeliano artista,
accademico, poeta, scrittore che accetta di sottoscrivere il presente contratto sta perdendo
automaticamente ogni pretesa di libertà accademica e libertà di espressione, perché sta
accettando di essere ambasciatore culturale o accademico dello Stato, di servire le sue
politiche di propaganda e noi abbiamo il diritto di trattare queste attività per quello che
sono e invitare al boicottaggio.
A dieci anni dalla fondazione del movimento, cosa avete ottenuto?
Forse, il risultato più importante del Bds è stato quello di unire i palestinesi di ogni sponda
politica e ideologica su una piattaforma per i diritti umani e in una campagna di resistenza
non-violenta contemplata dal diritto internazionale. Pur essendo al culmine della potenza
militare, nucleare ed economica, il regime israeliano si sente vulnerabile di fronte al nostro
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movimento non violento, che Netanyahu ha definito, a giugno del 2013, “una minaccia
strategica”. Un sondaggio della Cnn nel gennaio 2015 mostra che i due terzi degli
statunitensi oggi preferiscono la neutralità verso il “conflitto” israelo-palestinese. Settimane
fa, quasi un migliaio di artisti del Regno unito hanno firmato un impegno a boicottare
Israele culturalmente. In un referendum presso l’Università di Londra, facoltà di Studi
Orientali e Africani (Soas) che ha intervistato i docenti, il personale e gli studenti, il 73% ha
votato per il boicottaggio accademico di Israele. Molte prestigiose università Usa hanno
votato per il disinvestimento dalle aziende coinvolte nella occupazione israeliana.
Ascoltando gli appelli del movimento Bds per bloccare l’esercizio delle navi israeliane nei
porti, i lavoratori portuali e attivisti della comunità di Oakland, in California, sono riusciti a
impedire per giorni l’agibilità di una nave israeliana di scarico. Un recente sondaggio da
parte di un gruppo di lobby israeliane negli Stati uniti rivela che il 15% degli ebrei
americani sostiene il boicottaggio contro Israele. E 327 discendenti di ebrei sopravvissuti
all’Olocausto hanno pubblicato un annuncio di mezza pagina sul New York Times con lo
slogan, “Mai più per nessuno”, per condannare le atrocità di Israele contro i palestinesi e
per chiedere “il pieno boicottaggio economico, culturale e accademico di Israele. ” Oltre
1.200 professori universitari e ricercatori spagnoli hanno aderito al boicottaggio
accademico di Israele. Il boicottaggio del consumatore locale palestinese dei prodotti
israeliani si è sviluppato enormemente negli ultimi sei mesi, il che comporta grandi perdite
per alcuni dei più grandi esportatori di Israele verso il mercato palestinese sotto
occupazione. Il governo olandese ha pubblicamente “scoraggiato” aziende olandesi di fare
affari con entità israeliane nei Territori palestinesi occupati, portando la più grande impresa
di costruzioni olandese Royal Haskoning Dhv, a recedere da un progetto di trattamento
delle acque reflue con il Comune israeliano a Gerusalemme Est occupata. Nello stesso
contesto, la società pubblica di acqua olandese, Vitens, ha posto fine a un contratto con la
compagnia idrica nazionale israeliana Mekorot. Allo stesso modo, il governo britannico ha
pubblicato indicazioni sul coinvolgimento delle imprese con insediamenti illegali israeliani.
Questi passaggi seguono la pubblicazione di orientamenti dell’Ue contro il finanziamento
di progetti e organismi israeliani nei territori palestinesi occupati. Deutsche Bahn, una
società ferroviaria tedesca controllata dal governo, ha fatto conoscere un progetto
israeliano per invadere territori palestinesi occupati, e funzionari del ministero degli Esteri
tedesco hanno informato i rappresentanti della società civile palestinese che hanno
consigliato a tutte le istituzioni accademiche tedesche di evitare di trattare con Ariel, una
colonia israeliana-college in Cisgiordania. Più di recente, 17 governi europei hanno fornito
indicazioni ai loro cittadini e alle imprese ed espresso il loro parere contrario alla
partecipazione a progetti israeliani nei Territori palestinesi occupati, compresa
Gerusalemme Est.
E dall’Italia, cosa vi aspettate?
L’Italia può contribuire in modo significativo alla creazione di una pace giusta e globale
nella nostra regione, adempiendo ai suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale, in
particolare ottemperando al parere consultivo del 2004, emesso dalla Corte Internazionale
di Giustizia contro il muro di Israele: che ha chiesto di astenersi dal riconoscere la
situazione illegale creata da Israele nei Territori Palestinesi Occupati e ha chiesto di
garantire il rispetto del diritto internazionale. L’Italia può iniziare a interrompere il suo
commercio militare e securitario con Israele, compresa la ricerca militare congiunta,
perché questa è una delle peggiori forme di complicità con i crimini di guerra israeliani.
Può evitare le aziende che producono o si riforniscono nelle colonie occupate da Israele.
Può lavorare con i suoi partner europei per sospendere l’accordo Ue-Israele fino a quando
Israele non soddisfa la seconda clausola in materia di diritti umani. Può far pressione sulle
aziende italiane come la Pizzarotti e Ceia, Costruzioni Elettroniche Industriali Automatismi,
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che sono coinvolte nelle violazioni dei diritti umani compiute da Israele: per porre fine alla
loro complicità.
del 19/03/15, pag. 11
Il gelo di Obama: “La soluzione dei due Stati
resta l’obiettivo”
La Casa Bianca: il Presidente si congratulerà nei prossimi giorni
Paolo Mastrolilli
La soluzione dei due stati, israeliano e palestinese, resta la linea americana in Medio
Oriente, perché è la migliore per «allentare le tensioni». Alla luce della vittoria di
Netanyahu nelle elezioni di martedì, però, gli Usa «riesamineranno» la loro strategia. Il
negoziato sul programma nucleare con l’Iran non verrà influenzato, mentre le dichiarazioni
del premier sugli arabi che andavano a votare in massa sanno di razzismo, e Washington
solleverà il problema alla prima occasione, perché «mina i valori e gli ideali democratici
che sono stati importanti per la nostra democrazia, e sono una parte importante di ciò che
lega gli Stati Uniti e Israele».
I primi contatti
Le congratulazioni per il successo di Bibi, che il segretario di Stato Kerry ha già fatto di
persona mentre il presidente Obama le porgerà nei prossimi giorni, sono state
accompagnate dal portavoce della Casa Bianca Earnest con una serie di precisazioni, che
dimostrano quanto sarà complicato ricostruire il rapporto. L’appoggio degli Usa allo Stato
ebraico non è in discussione, sul piano economico e della difesa, ma il suo significato sì.
La prima dichiarazione della giornata ieri è arrivata dal consigliere di Obama Simas, che si
è congratulato con Israele invece che con Netanyahu, e ha invitato ad aspettare «la
formazione della coalizione governativa».
La speranza delusa
Alla vigilia la Casa Banca sperava che a guidarla sarebbe stato il laburista Herzog, e dopo
che il suo vantaggio si era assottigliato nei sondaggi, aveva puntato quanto meno sul
pareggio e sulla creazione di un esecutivo di unità nazionale. L’ex negoziatore Dennis
Ross aveva anche teorizzato che Bibi avrebbe potuto approfittare di questa soluzione, per
scaricare su Herzog la responsabilità delle scelte che lui aveva escluso in campagna
elettorale, tipo bloccare gli insediamenti, riaprire i rubinetti delle entrate fiscali da girare
all’Autorità palestinese, e riprendere il processo di pace.
I difficili rapporti
Ora questa ipotesi è sfumata, e l’amministrazione deve decidere come riallacciare i
rapporti con un governo israeliano che sarà più spostato a destra e più determinato
nell’ostacolare le sue politiche di quello precedente. Martin Indyk, ex ambasciatore Usa in
Israele, prevede che non si andrà molto lontano perché per farlo serve l’interesse a
lavorare insieme, che manca tanto sul negoziato con l’Iran, quanto sul dialogo con i
palestinesi. Sull’Iran il neocon Elliot Abrams, ex membro della Casa Bianca di Bush e oggi
studioso al Council on Foreign Relations, ha previsto due possibilità durante una
conference call con i giornalisti: «Netanyahu può aspettare che l’amministrazione finisca e
ne arrivi un’altra nel 2016, oppure può bombardare». Nel frattempo può lavorare col
Congresso repubblicano per bloccare qualunque intesa, scontrandosi con Obama già nel
giro di qualche settimana. Altri, come Thomas Friedman del New York Times, dicono che il
risultato sarà liberatorio per gli Usa, perché potranno smettere di perdere energie con
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l’inutile negoziato, mentre sul Washington Post Paul Waldman, ha scritto che il danno è di
lungo termine: la maschera di Netanyahu è caduta, e il suo radicalismo ne fa un leader di
fazione con cui non si può affrontare il futuro dell’intero paese. Washington dovrebbe
anche razionare il veto con cui spesso lo protegge all’Onu. Abrams però la vede al
contrario. Secondo lui anche i democratici considerano gli attriti come un problema
personale di Obama, che svanirà quando lui non sarà più in carica.
del 19/03/15, pag. 4
Assedio anti-austerity alla Banca in festa
Giuseppe Caccia
FRANCOFORTE
Blockupy. Decine di migliaia alla manifestazione di Francoforte contro
l'inaugurazione della nuova sede della Bce.
Forse perché i diciannove selezionatissimi ospiti sono stati costretti a raggiungere la
cerimonia inaugurale della Eurotower solo grazie all’elicottero, Mario Draghi ha dedicato il
cuore del suo discorso ai «molti che stanno protestando qui fuori. Pensate che questa
Europa stia facendo troppo poco. E chiedete un’Europa più integrata con una maggiore
solidarietà finanziaria tra i diversi Paesi». Al contrario dei populisti, ha aggiunto il
presidente della Banca Centrale, che credono che l’Europa «stia facendo troppo».
Entrambi esprimono una radicale e comprensibile «domanda di cambiamento». E ha così
difeso il ruolo della Bce, che avrebbe funzionato da «cuscinetto» evitando che la crisi
avesse effetti peggiori.
La lunga giornata di Blockupy Francoforte era iniziata molto presto: verso le 5 i
manifestanti arrivati con pullman e treni da tutta la Germania e da una decina di diversi
Paesi europei hanno iniziato a raggiungere le strade di accesso alla nuova Eurotower.
Nonostante il massiccio dispositivo di sicurezza e diverse cariche con idranti, la sede Bce
è stata cinta d’assedio per tutta la durata dell’inaugurazione. Decine di improvvisate
barricate, alcune delle quali date alle fiamme, hanno reso più efficaci i blocchi. Mentre
sull’incendio di alcune auto della polizia, che tanto hanno eccitato i media italiani, restano
a commento le lapidarie parole rivolte ai banchieri da Naomi Klein: «i veri vandali, i
devastatori siete voi, voi non bruciate le auto, ma state bruciando l’intero pianeta!».
Non sono mancate in mattinata alcune provocazioni, come il tentativo di procedere al
fermo di 250 attivisti italiani, in maggioranza del «rainbowbloc» dei Centri sociali,
circondati in una strada laterale dalla polizia. Qui la resistenza passiva degli assediati,
insieme all’arrivo di un migliaio di manifestanti solidali e all’intervento dei parlamentari di
Sel Fratoianni e Zaccagnini e di Eleonora Forenza della lista Tsipras, ha ottenuto che la
polizia tedesca rilasciasse tutti dopo una sommaria identificazione.
A partire dalle 14 a migliaia si sono ritrovati nella centralissima Römerplatz per due ore di
comizi, che hanno dato voce alle tante anime della coalizione Blockupy: oltre
all’applauditissimo intervento della Klein, hanno preso la parola tra gli altri la co-portavoce
di «Die Linke» Sahra Wagenknecht, Giorgios Chondros del comitato centrale di Syriza,
Miguel Urban di Podemos, Nasim Lomani della rete greca di solidarietà Dyktio, attivisti di
movimento tedeschi, italiani e francesi e diversi sindacalisti tra cui Valentina Orazzini della
Fiom, Jochen Nagel del sindacato tedesco degli insegnati Gew e un esponente
dell’organizzazione dei metalmeccanici che, in mattinata, aveva sfilato insieme alla
confederazione Dgb in una marcia di quattromila tra delegati e lavoratori.
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Proprio ad Hans– Jürgen Urban della segreteria della IG Metall abbiamo chiesto di
spiegarci il senso della loro inusuale parteciapazione. «A differenza di gran parte
dell’opinione pubblica tedesca – ha affermato – noi pensiamo che il cambiamento della
Grecia non rappresenti una minaccia, ma un’opportunità per ripensare a fondo le politiche
economiche e sociali dell’Unione e dei Paesi più forti. Per questo chiediamo a Merkel di
negoziare sul serio con Atene, e ai vertici della Bce di non tenere comportamenti
discriminatori nei confronti della Grecia. Il tanto deplorato ma non ancora superato deficit
democratico a livello europeo non può essere aggravato da un’ulteriore limitazione della
democrazia negli stati membri, come accadrebbe se continuasse questo ricatto –
prosegue Urban – senza dimenticare che le politiche di austerity hanno iniziato a
penalizzare anche l’economia manifatturiera tedesca: se continuiamo a strangolare i
consumatori del Mediterraneo, lo vogliamo dire ai padroni e al governo di Grosse
Koalition, chi comprerà più le auto prodotte a Wolfsburg?» Insomma, conclude l’esponente
dei metalmeccanici «il cambiamento in Grecia è una grande occasione per rifondare dal
basso un’Europa sociale e democratica. E questo è nell’interesse degli operai tedeschi per
primi».
Un pensiero convergente con la soddisfazione espressa, al termine di un corteo che ha
visto oltre trentamila persone invadere le strade del centro commerciale e finanziario di
Francoforte, dagli attivisti della Interventionistische Linke, la rete di movimento tra i
protagonisti della costruzione del percorso di Blockupy. «Oggi possiamo dire – insiste
Mario Neumann – che la crisi è arrivata anche in Germania, nel cuore della bestia. Sia
perché sono cresciuti anche qui fenomeni di impoverimento e precarizzazione di massa,
sia perché oggi nelle strade di Francoforte si è espressa con forza la rabbia di tutta
Europa. E la domanda di un cambiamento radicale, condiviso da tanti e diversi, fa sì che la
paura per una volta non sia solo dalla parte degli indebitati, ma anche da quella delle
élite».
Certo è che, nell’anniversario della Comune di Parigi, la primavera d’Europa a Francoforte
è arrivata con tre giorni di anticipo.
del 19/03/15, pag. 4
E ora la troika attacca Atene sugli «aiuti
umanitari»
Anna Maria Merlo
PARIGI
Programma di Syriza. Atene accusa Bruxelles di "ricatto" e vota la legge
di lotta alla povertà. Per la trojka è un "atto unilaterale", ma Moscovici
calma il gioco. La tensione cresce: i creditori temono un Grexident, di
fronte alle scadenze di marzo (6 miliardi di rimborsi, 1,2 già
regolarmente versati da Atene). Mini-vertice con Tsipras ai margini del
Consiglio europeo. Dijsselbloem evoca il Grexit e una soluzione "alla
cipriota". Moscovici: "Grecia nell'euro, ma non a qualunque prezzo"
La Commissione ha mandato avanti Pierre Moscovici, responsabile degli Affari economici
e monetari, per rimediare all’ultimo atto di sfida contro la Grecia venuto da Bruxelles, che
rischiava di far precipitare la situazione in un clima già sufficientemente avvelenato,
mentre il tempo stringe e la settimana è a rischio per Atene. La vigilia, un giornalista di
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Channel 4, aveva riportato delle affermazioni inquietanti attribuite a Declan Costello, il Mr.
Trojka della Commissione: Bruxelles avrebbe chiesto “formalmente” al governo greco
“consultazioni appropriate” prima di far votare dal parlamento la legge sugli aiuti umanitari,
perché “fare altrimenti sarebbe agire unilateralmente” in modo “non coerente con gli
impegni presi, in particolare con l’Eurogruppo” del 20 febbraio scorso. Moscovici fa un
passo indietro di fronte alla reazione di Atene: “sosteniamo completamente l’obiettivo di
aiutare i più vulnerabili nella società greca, un veto è fuori questione sul progetto di legge
umanitaria”. Per Moscovici è stato fatto un “falso processo” alla Commissione, mentre
Costello avrebbe solo voluto “sottolineare che c’è un accordo-quadro e che le autorità
greche devono lavorare con le istituzioni, cosa che implica consultazioni” perché “abbiamo
bisogno di poter valutare l’impatto sul budget”.
L’assalto da parte di Bruxelles contro la prima legge importante presentata al parlamento
dal nuovo governo greco illustra bene lo stato delle relazioni in corso tra Atene e la Ue. Il
governo greco ha rimandato al mittente la messa in guardia: “se nel 2015 in Europa la
lotta per affrontare la crisi umanitaria è considerata una decisione unilaterale, cosa resta
allora dei valori europei?”. Syriza ha invitato tutti i deputati ad “opporsi al ricatto” di
Bruxelles. La legge sugli aiuti umanitari è sempre stata presente nelle liste di riforme che il
nuovo governo greco ha presentato all’Eurogruppo. Il 23 febbraio era stata considerata,
del resto, un “buon punto di partenza”, assieme agli altri impegni presi da Atene, per
riprendere il dialogo. In Grecia, il 23% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la
legge prevede il versamento di un contributo per la casa (tra i 70 e i 220 euro) a 30mila
persone più un aiuto alimentare per altri 300mila e il riallacciamento elettrico a chi ha
subito tagli perché non poteva pagare. Un intervento che dovrebbe costare intorno ai 200
milioni di euro, una cifra abbordabile.
La Grecia ha restituito questo mese 1,2 miliardi di euro ai creditori, principalmente l’Fmi e
entro fine mese la fattura crescerà a circa 6 miliardi.
A Bruxelles temono che Atene non ce la faccia, visto che la Bce non ha riaperto il rubinetto
del finanziamento attraverso l’accettazione delle obbligazioni in garanzia e permette solo
l’Ela, il meccanismo di emergenza. La Commissione ha paura che le banche greche
restino a secco e che avvenga un Grexident, un incidente di pagamento che porterebbe
immediatamente al default. Da lunedi’, ad Atene è di nuovo al lavoro la trojka (tra cui
Costello), che accusa: “il lavoro va avanti molto lentamente”. Bisogna stabilire quale è lo
stato delle finanze greche, quali riforme stanno per venire applicate: il tempo stringe, c’è
tempo fino a fine aprile per determinare se verrà versata l’ultima tranche (7,2 miliardi di
euro) del secondo piano di aiuti, sulla carta esteso di 4 mesi (fino a fine giugno) a fine
febbraio. Di fronte ai rischi di Grexident, è anche allo studio la possibilità di anticipare
almeno una parte di questo versamento, prima di fine aprile: di questo dovrebbero
discutere, ai margini del Consiglio europeo di oggi e domani, Alexis Tsipras con JeanClaude Juncker, Angela Merkel, François Hollande e Mario Draghi. Un mini-vertice dal
quale Tsipras spera di ottenere un accordo politico. Lunedi’ 23 il primo ministro greco ha
appuntamento a Berlino con Merkel, per cercare di calmare i toni dello scontro tra Grecia e
Germania, ormai quotidiano anche sui media. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen
Dijsselbloem, ha evocato uno scenario alla cipriota: nel 2013, Nicosia era stata costretta a
introdurre il controllo dei capitali, su pressione dell’Eurogruppo. Sarebbe l’ultima spiaggia,
per evitare un Grexit, uscita dall’euro negoziata. “L’Eurogruppo ha la ferma intenzione di
conservare la Grecia nell’eurozona — ha avvertito Moscovici – ma non a qualunque
prezzo”.
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INTERNI
del 19/03/15, pag. 31
Istituzione sociale, sacramento, contratto La
metamorfosi della famiglia (e del divorzio)
ROMA Il divorzio breve tra poco sarà legge. Ieri il via libera del Senato in un clima più
disteso, con la cancellazione dello stralcio del divorzio lampo. Pronunciato il sì della
Camera, il divorzio potrà essere richiesto dopo sei mesi dalla separazione in caso di
accordo consensuale, e passato invece un anno se con un ricorso al giudice.
Continua a cambiare velocemente, nella società italiana e nella nostra cultura diffusa,
l’idea di famiglia e di matrimonio, istituzioni citate nell’articolo 29 della nostra Costituzione.
Dal Dopoguerra a oggi il mutamento è stato continuo e progressivo, sempre registrato, per
esempio, dal grande cinema italiano e dalla fiction. Se Ettore Scola raccontò bellezze e
miserie del modello più tradizionale e più praticato in «La famiglia» nel 1987 (ed è davvero
un titolo tra i tanti possibili offerti dalla poetica della Commedia all’italiana) bisogna arrivare
alla serie tv «Tutti pazzi per amore» a fine 2008 per trovare, in prima serata su Raiuno , la
proposta di una famiglia allargata come normalità quotidiana. La frattura di un vero tabù
narrativo. Perché la famiglia tradizionale, decantatrice di solidi amori e di violenti contrasti,
resta comunque un riferimento incontrastato nelle vite di milioni di italiani.
Il lungo cambiamento è cominciato — spiega Luigi Balestra, docente di Diritto privato a
Bologna, firma de «Il Mulino» e autore di molti commentari sul Diritto matrimoniale — nel
Dopoguerra a tappe serrate: «Il lavoro femminile extradomestico, l’emancipazione
progressiva della donna, la fine della separazione per colpa, il venir meno
dell’indissolubilità del legame matrimoniale, per non parlare della legge sull’interruzione
volontaria di gravidanza, che ha oggettivamente affidato una posizione di forza alla donna:
tutti elementi destinati a corroborare le posizioni individualistiche a scapito della comunità
familiare. In più pesano i modelli stranieri, soprattutto quelli legati al matrimonio
omosessuale». Siamo vicini alla fine della famiglia come l’abbiamo conosciuta? «No.
Penso che in una società frammentata e disarticolata ci saranno varie modalità di
intendere il concetto, persino all’interno dei membri della stessa famiglia tradizionale».
Fiamma Lusanna, professore associato di Storia contemporanea e Storia delle donne in
età contemporanea presso l’Università di Sassari sostiene che ai tempi dell’approvazione
della legge Baslini-Fortuna nel 1970 la società italiana fosse già pronta alla svolta: «Mi
pare che l’ Europeo abbia titolato in quell’anno: “Italia è più matura della sua classe
politica”. Loris Fortuna portò, nel 1966, ben 32 mila cartoline firmate da uomini e donne di
tutta Italia favorevoli al divorzio. Il mutamento epocale c’era già stato, sullo sfondo del
boom economico, attraversando, in una contrapposizione modernità-antimodernità, l’intera
società italiana. Fu poi la politica a frenare. Perché da sempre ha altri fini….» Fiamma
Lusanna è di cultura laica e un suo collega di area cattolica, Andrea Possieri,
contemporaneista all’Università di Perugia, individua il punto di svolta nel 1975 con la
riforma del Diritto di famiglia: «Fu un mutamento epocale che cambiò per sempre il modo
di vivere in quel nucleo. Sparì il paradigma maschilista, si proclamò la parità tra uomo e
donna, vista come soggetto attivo». E adesso, dove stiamo andando? «Direi verso un
modello liquido di famiglia, di pluralità di forme. Ora però il legislatore deve decidere se la
famiglia sia un contratto come gli altri o se vada, invece, valorizzato. Io penso che vada
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tutelato anche perché la famiglia assicura una stabilità nei rapporti sociali e anche nei
consumi, sostenendo l’economia e quindi portando verso il benessere».
Il sociologo Marzio Barbagli da anni studia la famiglia italiana e ne segue i progressivi
assestamenti: «L’istituzione matrimoniale era già cambiata ben prima, tra gli italiani, della
legge sul divorzio che venne approvata a fatica per la forte influenza della Chiesa cattolica
ma anche per la sostanziale debolezza economica delle donne. «E oggi? Naturalmente
oggi la situazione è molto diversa e la nuova legge sul divorzio breve interviene su una
legislazione unica nei Paesi occidentali. La lunga separazione ha avuto un effetto negativo
soprattutto per le donne, sfavorite rispetto agli uomini per l’attesa di una prospettiva di un
secondo legame matrimoniale. Infatti l’Italia registra un’altra anomalia, la più alta
percentuale di convivenze extramatrimoniali con uno dei partner separato e non
divorziato».
Ma è possibile immaginare, nel 2015, un nuovo modello di famiglia? «Non credo proprio
che arriverà un nuovo modello. Vedremo la progressiva affermazione e organizzazione di
una pluralità di concezioni del mondo, sensibilità, etiche, affettività differenti tra loro».
Paolo Conti
del 19/03/15, pag. 21
“A Roma il Pd è cattivo e pericoloso”
Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni
clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti” “Molti militanti subiscono
senza reagire le scorribande dei capibastone”. Orfini: purtroppo questa
è la verità
GIOVANNA VITALE
ROMA .
Un partito «non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per
i cittadini». Un partito che, anche quando funziona, «subisce inane lo scontro correntizio e
le scorribande dei capibastone». È impietosa la fotografia che Fabrizio Barca ha scattato
al Pd Roma, spedito nei circoli dal commissario Matteo Orfini dopo l’esplosione
dell’inchiesta Mafia Capitale.
In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e
militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità
spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si
vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è
trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una
presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo
«per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da
distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza
alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un
gruppo, quest’ultimo, che Dante avrebdormiente, be ben inserito fra gli ignavi.
All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime
progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle
istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso
stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una
specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dove si intravedono le potenzialità e le
risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso
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nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa,
al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri
interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi
assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere
e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a
prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù.
Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non
intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma
non sarebbe stato commissariato».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 19/03/15, pag. 18
L’autoassoluzione di Lupi “Ho il sostegno del
governo” Anticorruzione, nuovo stop
Nel question time M5S all’attacco: troppe bugie, si dimetta Contestato a
Milano. Domani informativa sul caso-tangenti
EMANUELE LAURIA
ROMA .
Dice che può spiegare e spiegherà. Maurizio Lupi vuole convincere il Parlamento di avere
agito sempre «con la massima correttezza e trasparenza».
Ma il Pd fa calare un gelo perfettamente rappresentato dal silenzio del segretario e
premier Matteo Renzi. E fa sapere che «valuterà» se sfiduciare il ministro finito nei guai
per l’inchiesta di Firenze sulle tangenti per le grandi opere. Lupi, arroccato nella sua
posizione e difeso dal leader del suo partito Angelino Alfano, è incalzato dalle notizie sui
rapporti — suoi e dei suoi familiari — con alcuni degli arrestati, con il superdirigente Ercole
Incalza e con altri protagonisti di quello che i magistrati fiorentini reputano un «sistema»
corruttivo.
La partita è solo sospesa. Quel che è certo è che, al momento, Lupi non si dimette. Tutto
rinviato a domani, quando probabilmente ci saranno le comunicazioni del ministro alla
Camera. Solo la prossima settimana potrà invece essere discussa la mozione di sfiducia
di 5Stelle e Sel. Un assaggio del clima che troverà a Montecitorio, l’esponente di Ncd l’ha
avuto ieri. Quando, dopo avere incassato la contestazione di alcuni concittadini a Milano
(a margine di un evento sull’Expo) si è presentato in aula per un question time. Trovando
la protesta dei grillini: il deputato M5S Carlo Sibilia viene espulso dopo aver manifestato
agitando un orologio.
Sintesi di Beppe Grillo sul blog: «Lupi se ne deve andare o gli romperemo i c... «.
Ma lui, il grande accusato non molla. Dice di avere il sostegno del governo e nega che
Renzi gli abbia chiesto «un gesto autonomo». Dopo il question-time si chiude in un lungo
incontro con Alfano al Viminale. Se Lupi andrà avanti, a questo punto, potrebbe però non
avere in aula la copertura del Pd. Lo fa capire il presidente Matteo Orfini: «Ascolteremo il
chiarimento del ministro e faremo le nostre valutazioni». E lo fa comprendere la minoranza
dem che continua a invocare il «passo indietro», paventando una spaccatura in caso di
voto.
Renzi rimane in attesa. Sapendo che non può permettersi passaggi a vuoto su una
materia scottante come la corruzione. Ieri, peraltro, il disegno di legge anti-mazzette ha
subito un nuovo stop in commissione giustizia al Senato. È accaduto per un errore
materiale: nel testo sul falso in bilancio si fa riferimento all’articolo 131 bis del codice
penale, che disciplina la non punibilità per i casi di particolare tenuità del fatto. Ma il
decreto che lo introduce non è ancora stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Questione di
ore. Però il presidente della commissione, il forzista Francesco Nitto Palma, sospende la
seduta. Slitta il termine per gli emendamenti. L’aula non potrà avviare la discussione
generale prima della prossima settimana. Il capogruppo Pd Luigi Zanda perde la pazienza:
«Basta con l’ostruzionismo delle opposizioni, si riunisca la capigruppo. Perché è
necessario chiudere».
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del 19/03/15, pag. 10
Orte-Mestre salvata dallo sblocca-Italia
L’opera faraonica è stata ammessa alla defiscalizzazione grazie alle
modifiche volute da Lupi
ROMA
«La notizia, che anche il vostro giornale ha riportato, che questo Perotti, che io non
conosco, sarebbe affidatario della direzione lavori sulla Orte-Mestre non solo è sbagliata,
è del tutto falsa. Non c’è nessuna direzione lavori affidata perché l’opera di fatto non esiste
ancora, aspettiamo ancora la registrazione della delibera del Cipe e al momento non c’è
neanche un progetto approvato. Inoltre si dovrà comunque fare una gara». Al telefono è
Antonio Bargone, già sottosegretario ai Lavori pubblici con Antonio Di Pietro (e anche
successivamente), inquisito ora dalla procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sulle
grandi opere in quanto presidente della società consortile “Ilia Or-Me”, promotore della
autostrada Orte-Mestre. Secondo i giudici fiorentini, la società, che fa capo all’ex
parlamentare Vito Bonsignore, avrebbe promesso a Ercole Incalza di affidare la direzione
lavori a Stefano Perotti.
Bargone chiama per dire che l’opera non ha avuto né accelerazioni né trattamenti di
favore dal governo. Il Sole 24 Ore considera non da oggi questa opera dal costo di 9,8
miliardi inutile e faraonica e in più occasioni lo ha scritto, criticando aspramente il governo
e il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, per averla riproposta tra le priorità.
Soprattutto la scorsa estate in occasione dei lavori preparatori dello sblocca-Italia che
avrebbe dovuto accelerare opere immediatamente cantierabili, la critica è ricomparsa in
più articoli. Per esempio, il 27 agosto, in prima pagina, con il titolo «Numeri, numerini e
numeri spaziali»: «Sulla stima reale di quanto valgano queste opere (dello sblocca-Italia,
ndr) basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo
scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito:
l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese
aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe
per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure
confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter
autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi
avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero».
Il decreto legge sblocca-Italia andrà però avanti e conterrà, all’articolo 2, la norma che
aiuta la Orte-Mestre a superare l’impasse di quel momento, nonostante non fossero
mancati anche pesanti attriti fra Lupi e Palazzo Chigi, tutt’altro che convinto della bontà
dell’operazione.
L’articolo 2 del decreto sblocca-Italia consente, in sostanza, di applicare la
defiscalizzazione anche a opere in Project financing realizzate per stralci. Una novità
assoluta perché fino a quel momento la defiscalizzazione era stata prevista nelle lineeguida varate dal Cipe, ai tempi del governo Letta, solo per opere realizzate
completamente. Giustamente: lo Stato concede una robusta agevolazione fiscale per la
realizzazione di un’opera in concessione proposta da un privato e poi acconsente a
realizzarla a pezzi? Un privato vanta (in quanto promotore) una sorta di diritto di
prelazione su un’opera faraonica (e in quanto tale inutile e irrealistica) che vale circa 10
miliardi e gode di un periodo di concessione record di 49 anni, incassa un’agevolazione
sulla proposta integrale e poi ne realizza solo un pezzetto?
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L’articolo 2 dello sblocca-Italia in realtà consente gli stralci ma impone che alla fine l’opera
sia realizzata per intero: serve comunque a superare le obiezioni con cui la Corte dei conti
aveva rifiutato la registrazione della delibera Cipe del 18 novembre 2013. Con quell’atto il
governo Letta aveva concesso alla Orte-Mestre (prima opera in assoluto a ricevere questo
tipo di agevolazione) una defiscalizzazione da 1,87 miliardi per far quadrare i conti
dell’opera. La Corte dei conti, però, aveva bloccato tutto, anche per un’altra ragione: lo
sconto fiscale era applicabile – sempre secondo l’interpretazione data dalle linee guida del
Cipe – soltanto a opere proposte successivamente al giugno 2013. E la proposta della
Orte-Mestre, quella in base alla quale Bonsignore aveva acquisito il titolo di “promotore”,
risaliva niente meno che al 2004.
Anche su questo secondo punto, quindi, interviene l’articolo 2 del decreto sblocca-Italia,
che apre la strada all’approvazione di una seconda delibera Cipe per la Orte-Mestre, l’11
novembre 2014, firmata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ora
nuovamente all’esame della Corte dei conti. «Un anno e mezzo quasi per ritrovarsi ancora
ad avere il via libera del Cipe: questa la chiamano accelerazione?», commenta Bargone.
Fatto sta che la norma dello Sblocca Italia consente la realizzazione dell’opera per stralci,
come vuole fare il concedente ministero dei Lavori pubblici con la gara “fase 2”. E che
senza quel decreto legge la defiscalizzazione non sarebbe stata mai applicabile a questa
opera. Gli sconti fiscali, vale la pena di ricordarlo, sono fondamentali per garantire
l’equilibrio economico-finanziario di un’opera che è finanziata da privati per l’intero costo di
9,8 miliardi (7,2 per lavori, il resto per oneri finanziari) ma potrà godere di un
«finanziamento pubblico teorico» di 1,87 miliardi di euro, riconosciuto ai concessionari
post-gara sotto forma di sconti fiscali Ires, Irap e Iva nell’arco dei primi 15 anni di gestione.
Quello di 1,87 miliardi è un valore attualizzato mentre il totale nominale cumulato nel corso
del tempo è di 9 miliardi di euro. Lo Stato rinuncia a 9 miliardi di possibili futuri incassi
fiscali per realizzare l’opera senza dover stanziare subito il contributo da 1,87 miliardi. Per
i sostenitori delle defiscalizzazioni si tratta di introiti fiscali che non ci sarebbero comunque
mai stati senza la realizzazione dell’opera.
del 19/03/15, pag. 13
di Luca De Carolis
ANTICORRUZIONE, I 734 GIORNI DI MELINA
SUL DDL GRASSO
PRESENTATO DA PIETRO GRASSO DUE ANNI FA, IL DISEGNO DI
LEGGE APPRODERÀ NELL’AULA DEL SENATO SOLO LA PROSSIMA
SETTIMANA. STORIA DI TUTTI I RINVII
Ancora e sempre rinvio. Nonostante gli annunci, gli appelli e gli arresti. Dopo 734 giorni di
attesa il disegno di legge anticorruzione slitta ancora. Approderà nell’aula del Senato solo
la prossima settimana, causa il combinato disposto tra ingenuità (del governo) e
ostruzionismo (di Fi) in commissione Giustizia. Si discuteva degli emendamenti del
governo al ddl, quando il forzista Ciro Falanga ha trovato il pretesto: “Un emendamento fa
riferimento all’articolo 131 bis sulla tenuità del fatto che non è stato ancora pubblicato in
Gazzetta ufficiale”. Insomma, non si aveva contezza pubblica della norma, contenuta in un
decreto legislativo. Il presidente della commissione Nitto Palma (anche lui forzista) ha
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sospeso i lavori tra proteste incrociate. Il viceministro Enrico Costa (Ap), sorpreso, ha
dovuto procurarsi delle copie della Gazzetta ufficiale. Alla fine la commissione ha votato
tre dei quattro emendamenti. Ma i lavori sono slittati ad oggi. E per l’approdo in aula del
ddl anticorruzione, previsto per stamattina, se ne riparlerà la prossima settimana.
L’ennesimo capitolo di una storia di rinvii, qui riassunta.
15 marzo 2013, la mossa dell’ex magistrato
Nel suo primo giorno a Palazzo Madama, il neo presidente del Senato Pietro Grasso
deposita un ddl contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio e
l’autoriciclaggio. “Il Paese non può più aspettare oltre” dice l’ex magistrato.
Estate 2013, lettere per perdere tempo
Il ddl Grasso arriva nella commissione Giustizia del Senato il 5 giugno, regnante il premier
Enrico Letta. Ma si parte subito con rinvio. Il relatore del testo Nino D’Ascola (Pdl, poi Ncd)
scrive ai colleghi di Montecitorio, dove si discuteva di un disegno di legge sul voto di
scambio, tema incluso nel ddl Grasso. Pone il problema della possibile sovrapposizione
tra i due rami del Parlamento. Dalla Camera rispondono che non c’è motivo di fermarsi. In
Senato si riparte il 26 giugno, ma con il freno a mano tirato. Da destra criticano il ddl come
“ispirato a una logica panpenalistica” (Giacomo Caliendo, Pdl). Mal di pancia anche da
Socialisti e qualche dem. Passa l’estate, passa l’autunno. E si arriva al 2014
Primavera 2014, trucchi e promesse
Il 2014 in commissione Giustizia si apre come si era chiuso il 2013: rinvii e tempi biblici. A
marzo Nitto Palma fa sapere: “Esprimo disappunto per le reiterate critiche circa la
presunta lentezza dei tempi di esame”. Il 22 aprile il M 5 S chiede di calendarizzare il ddl.
E qualcosa si muove, tanto che il 14 maggio D’Ascola scrive il testo unificato, che
raccoglie le varie proposte. Il 27 maggio Grasso annuncia per il 10 giugno l’arrivo in aula
del ddl. Ma non ha fatto i conti con il Renzi fresco premier, che in piena campagna
elettorale per le Europee aveva promesso: “Fanno il daspo ai tifosi, va fatto il daspo ai
politici che prendono le tangenti”. Il 3 giugno 2014 il sottosegretario alla Giustizia Cosimo
Ferri (Ndc) si presenta in commissione, e annuncia che il governo “è orientato a
presentare un disegno di legge” sulle materie regolate dal testo unificato. Si oppongono
solo i 5 Stelle: “Così si ritarderà tutto”. La commissione è costretta ad aspettare 30 giorni.
Ma del decreto neppure l’ombra. I Cinque Stelle incontrano più volte il ministro della
Giustizia Andrea Orlando, chiedendo che si riparta con il ddl. Rumoreggiano anche i
civatiani del Pd, come Felice Casson. Ma sbattono contro un muro. Si arriva all’autunno. E
Grasso sbotta: “Mi chiedo quali interessi frenino la legge anticorruzione”.
2015, soglie nascoste, censure evidenti
Si parte con il caso della soglia di non punibilità sotto il 3 per cento per il falso in bilancio,
nascosta in quell’emendamento che il governo annuncia a vuoto da mesi. Renzi alla fine
deve stracciarla. Mentre il ddl anticorruzione continua ad arrancare, tra sedute di poche
minuti e altre che vengono vanificate dal centrodestra con valanghe di cavilli. “L’entità dei
fenomeni corruttivi è sovrastimata” ghigha Carlo Giovanardi (Ap). Ma si procede. Il 18
febbraio il Pd con Fi e Ap bocciano l’emendamento del M 5 S che prevedeva la
sospensione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, per i reati
contro la pubblica amministrazione. Il 4 marzo invece viene respinto l’emendamento sul
Daspo ai corrotti, proprio quello promesso da Renzi. Votano a favore solo 5 Stelle e Lega
Nord, tutti gli altri dicono no. Il 16 viene finalmente presentato in commissione
l’emendamento governativo al ddl anticorruzione sul falso in bilancio. Grasso commenta:
“Alleluja”. Ieri, pasticcio. Con rinvio.
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del 19/03/15, pag. 15
di Nando dalla Chiesa
Un futuro senza clan La madre di don Diana
“Renzi ci dimentica”
GLI STUDENTI RICORDANO IL PRETE UCCISO DALLA CAMORRA “IL
SEGRETARIO DEL PD VENNE DA NOI, MA ORA NON RISPONDE”
Mi raccomando, glielo dica a Renzi”. Mamma Jolanda, l’anziana madre di don Peppino
Diana, il prete martire della camorra, dà la sua ambasciata davanti ai trenta studenti venuti
a Casal di Principe da Milano per il loro progetto di università itinerante. Profumo di caffè
per tutti, l’antica gentilezza contadina, il dialetto che fluisce come un fulmine. L’attuale
presidente del Consiglio venne qui a trovarla e a rendere omaggio alla memoria del figlio
non appena eletto segretario di partito; perché questa città è simbolo di “una priorità” del
paese, e perché don Diana era anche lui uno scout. I presenti annuiscono. “Gli ho
mandato messaggi, poi, ma non mi ha più risposto. C’è bisogno di lui, glielo dica”. A Casal
di Principe tira un’aria strana, tra la prudenza e l’euforia. Per carità non nominate più
Gomorra. Il romanzo di Saviano ha avuto il merito della denuncia tonante. Ha acceso i
riflettori del mondo su un clan che se l’è spassata tra sangue e complicità per quasi
vent’anni. Ma qui è in corso qualcosa di profondo e che l’Italia non conosce. Si sta
creando una nuova identità di popolo. Ciò che è stato resistenza alla camorra ora vuole
diventare altro: il nuovo marchio del territorio, una nuova forma di società. “Queste sono le
terre di don Peppe Diana”. Non è retorica. Chi sa riconoscere le atmosfere e gli stati
d’animo, le parole e le persone, capisce al volo di essere finito dentro un passaggio
d’epoca che va raccontato.
MAGARI PARTENDO dal nuovo sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, un simbolo
storico della lotta alla camorra, sin dagli anni Ottanta. L’aula del consiglio comunale dove
riceve gli studenti ha le foto del prete-profeta, don Peppe Diana, di cui oggi sarà ricordato
l’anniversario dell’assassinio, il ventunesimo. Un autentico spartiacque nella storia e nella
memoria collettiva. E ha anche la foto di Salvatore Nuvoletta, il ventenne carabiniere
ucciso in pieno giorno dal clan di Schiavone e Bidognetti, venduto ai suoi assassini dal
proprio maresciallo. Era il 1982. Natale non dimentica e sogna di fare durante il nuovo
mandato almeno un terzo di ciò che è necessario per portare la sua cittadina alla
normalità. Sembra poco e invece sarà uno sforzo titanico. Senza soldi, con le strade piene
di buche, un terzo delle abitazioni senza acqua, il novanta per cento senza i contatori.
L’eredità di una delle forme di potere più brutali e rapaci che la storia nazionale ricordi. Di
fronte ai quali c’erano resistenze organizzate, embrioni di società diverse. Per questo,
Natale, medico di base anticamorrista, è stato eletto con il 65 per cento dei voti. “Ma so
benissimo che se non riuscirò a dare risposte, quel consenso mi si rovescerà addosso”.
Sotto il municipio, nella via intitolata al “Dottor Coppola” una scritta rossa dà il segno della
difficoltà: “La nostra mentalità si chiama omertà. A morte le spie”. Don Peppe Diana. Quel
sangue di un giusto sembra davvero, come nella leggenda, avere fecondato una civiltà
intera, averle dato un’anima collettiva. Valerio Taglione, presidente dell’associazione
intitolata a don Peppe, racconta con orgoglio le tappe della rivolta. Noi vogliamo dare a
questa terra un altro nome, per trasferirci dentro un’identità nuova anche nei fatti. Perché i
fatti ci sono. Quelli giudiziari, certamente. I capi di un tempo, quelli che marciavano armati
sui cofani delle auto in pieno giorno, se li ricorda bene il giornalista Raffaele Sardo, sono
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tutti dentro. Dai carabinieri si può andare a fare le denunce sapendo di essere aiutati. Ma
anche a scuola. Il liceo Grisé a San Cipriano d’Aversa ha 850 studenti, tra scientifico,
classico e linguistico. I ragazzi denunciano i guasti della camorra. L’assenza di posti dove
divertirsi, dove trovarsi, città costruite famelicamente, come se i giovani non esistessero.
Hanno fatto un giornalino, chiedono di sentirsi sostenuti. Perché nei luoghi dello spreco i
soldi per l’istruzione mancano sempre. Scoppiano le aule e così l’anno venturo
perderanno anche l’aula magna. “Dove discuteremo?”, chiede una studentessa, “finirà
questa possibilità di confrontarsi?”. “Neanche per idea”, irrompe una giovane
professoressa, Emilia si chiama, ci accamperemo in corridoio e discuteremo lì”. Nessuno
vuol perdere questa spinta magica che si avverte, si sente, perfino nell’ingannevole
ritornello che già inizia a serpeggiare sul fatto che si stesse meglio quando si stava
peggio. Quando c’era il comando ferreo della camorra, e non c’erano i furti dei rom, e non
si spacciava droga per le strade. Brutto a sentirsi, specie da un ragazzo, ma è la
conferma: “quando c’era la camorra”.
LA QUALE IN EFFETTI c’è, guai a sottovalutarlo. Nella cooperativa “Al di là dei sogni”, ai
confini con il Lazio, i ragazzi tributano una standing ovation di cinque minuti a Simmaco
Perillo. Bella, trascinante, la sua narrazione. Specie quella della lotta per includere con
successo nella cooperativa persone svantaggiate, anche provenienti dall’Ospedale
psichiatrico giudiziario, magari definite “socialmente pericolose”. E della storia di Alberto
Varone, il commerciante ucciso nel ’ 91 perché rifiutava di cedere le sue attività ai clan, e
di cui la famiglia ha dovuto fare trasferire i resti in un cimitero sconosciuto, per fuggire le
persecuzioni successive della camorra. “Questa non è terra di camorra”, urla Simmaco,
“questa è la terra di Alberto Varone, glielo dobbiamo”. Anche il vescovo fa nascere a
Cellole un progetto della legalità, seguito da centinaia di fedeli in una sala strapiena. Ed è
festa grande la sera, di canti, di balli, con gli ospiti, e di mozzarella e di falerno come solo
avviene nel clima di gioia vera. “Noi non siamo più quella cosa”. È il messaggio che arriva
all’Italia da una lotta in pieno corso e che per la prima volta sembra poter vincere. Chi in
questi anni è venuto qui per i riflettori, ci torni, respiri questa buona aria di democrazia da
nessuno regalata, stringa la mano di Renato Natale, lo ringrazi e gli dia i soldi per vincere
la sua sfida in nome dell’Italia.
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WELFARE E SOCIETA’
del 19/03/15, pag. 27
A Firenze arriva la cannabis dell’Esercito: se ne produrrà un quintale
l’anno, ma la richiesta cresce e la serra potrebbe triplicare
Tra i militari che coltivano la marijuana di
Stato “Così cureremo i malati”
MICHELE BOCCI
FIRENZE .
La serra di 250 metri quadrati di superficie e tre di altezza ormai è pronta. Le lampade a
frequenza speciale sono installate, il sistema di irrigazione è collegato ai computer, la terra
artificiale è dentro ai vasi di plastica. Già oggi dal Cra-Cin di Rovigo dovrebbe partire un
furgone, scortato, con dentro 100 talee di cannabis. La destinazione è Firenze, dove ha
sede lo Stabilimento chimico farmaceutico militare. La coltivazione della “marijuana con le
stellette”, l’unica autorizzata per l’uso a fini terapeutici nel nostro Paese, inizierà nei
prossimi giorni. Per ospitare le piantine è stata ricavata un’ala in una zona che per motivi
di sicurezza si è deciso di non rivelare, tra laboratori e uffici. L’ambiente adesso è buio, la
luce naturale non può entrare in questa specie di grande container. Saranno le lampade a
illuminare la serra agli orari prestabiliti, così da far crescere la canapa più velocemente
possibile. Il raccolto si farà ogni tre mesi. Poi ci sarà la fase dell’essiccazione. Il lavoro
seguirà standard rigidi, perché i due principi attivi, thc e cbd, devono rappresentare il 5-6%
del peso del prodotto. Si tratta di un farmaco e bisogna essere certi dell’efficacia a
seconda del dosaggio.
I militari produrranno circa un quintale di fiori essiccati all’anno. Per ora, perché il numero
di regioni che ha approvato l’uso medico della “canapa sativa” è in crescita. La domanda è
destinata a salire anche perché i medici che stanno utilizzando il farmaco osservano
quotidianamente la sua efficacia su persone che soffrono di dolori dovuti a malattie gravi
come ictus o cancro ma anche a problemi neurologici. A Firenze sono pronti addirittura a
triplicare lo spazio adibito a serra.
La marijuana è il principio base di un farmaco già autorizzato da tempo, che si presenta in
com- presse e viene normalmente prescritto in tutta Italia. Non è di questo medicinale che
si occuperà l’istituto farmaceutico militare ma di quello a base di fiori secchi. Oggi chi
cerca questa parte della pianta la deve comprare all’estero, soprattutto in Olanda, a 15
euro al grammo. Dallo stabilimento usciranno scatole tonde di plastica con 5 grammi di
cannabis, da spedire alle farmacie delle varie Regioni che faranno richiesta, a prezzi non
ancora stabiliti ma certamente più convenienti. Per adesso l’uso terapeutico della sostanza
è previsto, con diverse sfumature, in Toscana, Puglia, Liguria, Sicilia, Veneto, Marche,
Friuli, Abruzzo e Umbria. Il lavoro del farmaceutico fiorentino assicurerà anche regolarità
alla fornitura. Tutto in una struttura militare, che fa capo all’Agenzia industrie difesa, e che
sembrerebbe distantissima dalla marijuana. «Siamo dei farmacologi, la nostra etica ci dice
che nel momento in cui è riconosciuta l’utilità di un principio attivo è giusto produrlo —
spiega il direttore dello stabilimento, il colonnello Antonio Medica — E la canapa, se
impiegata nel modo giusto, ha effetti benefici. Non ha senso privarsene, perché migliora la
vita di persone colpite da malattie gravi».
Da queste parti il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere non arriva. La
cannabis è considerata soltanto come farmaco. Sono stati il ministero della Salute e della
Difesa a coinvolgere la struttura fiorentina nella produzione. «Siamo contenti di dare il
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nostro contributo, da anni lavoriamo per il Paese — prosegue Medica — non solo per le
forze armate ma anche sintetizzando farmaci orfani per le malattie rare, o producendo
grandi quantità di vaccini e medicinali “di emergenza” per fronteggiare epidemie». È in
mezzo a tutto questo che, tra pochi giorni, cresceranno le prime piantine di canapa made
in Italy, da coltivazione pubblica.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 19/03/15, pag. 26
Il party sacrilego finisce in procura
Bologna, il cardinale attacca l’iniziativa dei ragazzi che mimano un atto
sessuale con la croce Il presidente di GayNet : “Un mese fa erano tutti
Charlie Hebdo, oggi tutti come Al Baghdadi
Franco Giubilei
La foto dello scandalo, scattata durante una festa in tema di superstizioni religiose
all’interno del circolo gay Il Cassero di Bologna lo scorso venerdì 13, e prontamente
postata sulla pagina Facebook del locale, riprende tre ragazzi seminudi con corona di
spine in testa e una grossa croce usata per mimare un atto sessuale. Riferimento esplicito
a una delle vignette più hard di Charlie Hebdo, andato in scena durante una serata zeppa
di provocazioni anticlericali, compresa la cerimonia dello sbattezzo celebrata fra gli invitati.
L’immagine è stata notata dal consigliere comunale di Forza Italia Michele Facci e dalla
collega del Pd Raffaella Santi Casali, che l’hanno ripubblicata sui rispettivi profili per
protestare, ed è scoppiato il putiferio: azzurri e Ncd hanno promesso che porteranno il
caso in procura, ma anche il Pd e lo stesso Comune, nei cui spazi della Salara alloggia
gratuitamente una delle associazioni gay più attive d’Italia, hanno preso malissimo il party
sacrilego del Cassero, mentre l’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra attacca «l’insulto di
inarrivata bassezza e di diabolica perfidia a Cristo in croce. Non si era ancora giunti a un
tale disprezzo della religione cristiana e di chi la professa da irridere, tramite l’abominevole
volgarità dell’immagine, persino la morte di Gesù sulla croce».
Ancora più duro un altro argomento del cardinale: «Ogni ideologia che non riesce a farsi
alleata la Chiesa la perseguita ferocemente, sia uccidendo i cristiani sia insultando ciò che
essi hanno di più caro». E allora «che dire del tempismo che vede in contemporanea il
teatrino del Cassero profanare il dramma del Calvario e, sulle sponde del Mediterraneo, la
demolizione delle croci e di ogni simbolo cristiano dalle chiese assaltate dall’Isis?». Infine,
il vescovo si chiede come il Comune possa concedere gratis ambienti pubblici a gruppi
che ne fanno un uso del genere. Se la curia insorge, i politici rincarano: «Non trovo una
sola ragione per cui questa roba debba avere luogo in una sede del Comune e finanziata
con i soldi di tutti», tuona la Santi Casali.
Imbarazzo e indignazione sono palpabili, così il segretario Pd Francesco Critelli definisce
le immagini «volgari e offensive» e chiede le scuse. Sul fronte opposto Franco Grillini, fra i
fondatori del Cassero e presidente di GayNet, ribalta le accuse: «La polizia religiosa dei
nostri ayatollah va in Procura per chiedere la chiusura per una banale satira contro
l’oppressione religiosa. Un mese fa erano tutti Charlie Hebdo, oggi sono tutti come Al
Baghdadi». Il direttivo del Cassero critica la levata di scudi dei cattolici «pretestuosa e
strumentale», ma poi si scusa «con le persone che per quelle foto si sono sentite offese.
Chi invece chiede una sanzione sta solo sfruttando un’occasione non per difendere un
credo, ma semmai per colpirci». Si spinge a difendere il gesto ripreso nelle foto, che
«rappresenta una liberazione rispetto a un simbolo che viene percepito come oppressivo»
e denuncia insulti e minacce piovuti sulla propria pagina Facebook a commento delle
immagini della festa: «Fascia rosa al braccio e deportazione», «appena arrivano i vostri
fratelli dell’Isis vi buttano dai balconi».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 19/03/15, pag. 6
La dimora di Calipso minacciata dal petrolio
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
AMENDOLARA (CS)
Sblocca Italia. A rischio la Secca di Amendolara, patrimonio di
biodiversità. La Global Med Llc è il colosso che ha ottenuto un
permesso di ricerca. Entro tre anni partirà la perforazione per il pozzo
esplorativo. Sindaci, associazioni e comitati NoTriv si mobilitano. Il 28
saranno in corteo a Corigliano Calabro
Ma quant’è bella la Secca di Amendolara, ti vien da dire sporgendoti dalla barca che dal
porto di Schiavonea ci porta fin qui ad ammirare una delle perle del golfo di Taranto. «In
realtà nelle cartografie è conosciuto come banco di Amendolara», precisano gli abitanti
che di questi fondali menano vanto. Se uno poi va a ritroso nel tempo scopre che sin dal
1600 le carte nautiche riportano in questo lembo di mar Jonio una vera e propria isola
denominata Insule Febrae. Alcuni storici attribuiscono alla secca l’identità dell’isola di
Ogigia, dimora della ninfa Calipso, dove Ulisse in viaggio verso Itaca approdò dopo un
naufragio, altri narrano che nel 377 a.c. la flotta di Dionisio il Vecchio qui affondò.
Ma questo patrimonio di mitologica biodiversità marina, individuato anche come Sito di
importanza comunitaria, ha un alto grado di vulnerabilità a causa della pesca a strascico,
per l’inquinamento da scarichi fognari, per l’ancoraggio non su boe fisse. Basta
allontanarsi di qualche chilometro, sporgersi nell’entroterra, per imbattersi nelle ferite
chimiche inferte al territorio dalla presenza di centrali Enel e dalle scorie provenienti dai siti
industriali crotonesi. E oggi un altro spettro, ben più pericoloso, aleggia sulle acque di
Calabria: le trivelle delle multinazionali del petrolio.
Il governo Renzi con lo «Sblocca Italia-Italia Fossile» ha di fatto sancito la liberalizzazione
delle estrazioni petrolifere e la privatizzazione di mari e fondali. Ogni infrastruttura legata
agli idrocarburi (gassificatori, stoccaggi di gas nel sottosuolo, sfruttamento di giacimenti) è
considerata strategica. Le norme di tutela paesaggistica potranno essere bypassate in
nome del superiore interesse delle corporation del petrolio. Il titolo concessorio sarà unico,
e non duplice come era stato sinora (permesso di ricerca e concessione di coltivazione).
Le multinazionali si fregano le mani: individuato un giacimento, potranno reclamare un
diritto acquisito. D’altronde, tutta la procedura di Valutazione impatto ambientale (Via) è
stata accentrata nelle mani del governo. Le acque del golfo di Taranto sono quelle nel
mirino delle compagnie petrolifere. Ad oggi le istanze di permesso di ricerca estrattiva
sono ben 16 insieme a una richiesta di prospezione e a un’istanza di concessione. E
coprono un immenso specchio di mare, dal Salento alle acque di Crotone. Il ministero
dell’Ambiente ha respinto solo un paio di istanze. Per il resto si tratta di procedimenti in
attesa di Via o in fase di approvazione. Le multinazionali si chiamano: Eni, Northern
Petroleum, Shell, Enel Longanesi, Appenine Energy, Global Med Llc, Schlumberger
Italiana, Ionica gas.
Global Med Llc è il colosso petrolifero che ha ottenuto (con decreto di conferimento
ministeriale del 9 giugno 2014) un permesso di ricerca nelle acque antistanti Amendolara.
Entro tre anni partirà la perforazione per il pozzo esplorativo. La popolazione è in allarme,
«le trivelle agiranno sulla secca e andrebbero a sollecitare un’area costiera soggetta a
liquefazione e ad erosione come evidenziato dalla relazione geologica del Piano
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strutturale associato della Sibaritide dalle cui carte risulta molto elevato il rischio
inondazione». La secca è a forte rischio e chi se ne importa se sia tra le aree più
apprezzate dai subacquei di mezza Europa, una prateria di posidonia oceanica ricca di
biodiversità, una grossa fonte di cibo per i pesci. «Qui si rischia una tragedia come quella
del golfo del Messico», si infervora Felice Santarcangelo animatore dei comitati NoTriv. Il
rischio è lo sversamento in mare di petrolio capace di causare un disastro ecologico. Ma i
primi gravi danni all’ecosistema derivano dalle indagini preliminari del sottosuolo e dalla
air-gun, micidiale tecnica ispettiva basata sul bombardamento del fondale marino con
potenti spari di aria compressa che producono onde riflesse le quali, impattando con i
rifiuti depositati sul fondale, ne determinano lo spargimento per chilometri.
«Se perforeranno i fondali listerò a lutto la bandiera blu che ogni anno Goletta verde di
Legambiente ci consegna», sbotta Antonio Ciminelli, sindaco di Amendolara, e pronipote
della brigantessa Serafina Ciminelli che lungo le vallate del Lao e del Mercure
spadroneggiava con la Banda Franco a metà del 1800. Il governo sostiene che perforando
i fondali, e attingendo dai giacimenti, si risparmierebbero 62 miliardi. «Un’inezia rispetto ai
danni prodotti all’ecosistema», rispondono ambientalisti e comitati civici. Due partecipati
convegni si sono tenuti nell’ultimo mese sul litorale jonico. Nel primo, promosso dalla Rete
Associazioni Sibaritide e Pollino in Autotutela, nutrita è stata la delegazione di attivisti
lucani NoTriv. Il geologo Vincenzo Laschera ha esposto i risultati delle sue ricerche,
denunciando l’impennata nel tasso di tumori registrati in Basilicata, regione sottoposta da
anni a trivellazioni. La Rete ha ribadito «la necessità dell’applicazione del principio di
precauzione, un’arma ancora non impugnata dai sindaci in quanto tutori della salute
pubblica». Il portavoce della Rete, Tullio de Paola, invoca «una difesa del territorio da ogni
tentativo di speculazione e stupro rispondenti alla logica del profitto e a discapito delle
popolazioni».
All’inizio di marzo, in una conferenza promossa ad Amendolara dal comune, l’Unione
Mediterranea e l’associazione Diamoci una Mano, autorevoli esperti hanno sottolineato «la
scelta neocolonialista del governo e delle multinazionali». I sindaci presenti hanno ribadito
che la ferma opposizione al progetto deve essere convogliata in una mobilitazione di tutte
le popolazioni calabresi, lucane e pugliesi. Il 28 marzo a Corigliano Calabro associazioni,
comitati e sindaci daranno vita a un corteo che si preannuncia massiccio. La parola passa
al presidente calabrese Oliverio. Entro marzo dovrà dire da che parte sta: con le
popolazioni o con il governo Renzi. Ovvero il segretario del suo partito.
del 19/03/15, pag. 6
Un ecomostro tra mare e terra
Serena Giannico
Chieti
Abruzzo. L'assalto dei petrolieri in Adriatico. Il governo dà il via alle
trivellazioni a tre km dalla costa Trabocchi a ridosso del Parco
nazionale. Addio al turismo
Parco nazionale col panorama delle trivelle? È lo scenario che si prospetta in Abruzzo, in
provincia di Chieti. Il ministero dell’Ambiente ha infatti detto sì ad Ombrina Mare, ossia alla
realizzazione di pozzi di petrolio off shore, a 3 chilometri e mezzo dalle splendide spiagge
della Costa dei Trabocchi. Il progetto è stato approvato dalla commissione Via
(Valutazione di impatto ambientale).
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Sul sito del ministero si precisa che il parere è positivo, anche se con prescrizioni, e che è
in preparazione il decreto di compatibilità ambientale. Gli stessi posti – la fascia litoranea
— sono interessati dalla perimetrazione del nascituro Parco nazionale: da un lato dunque
il ministero porta avanti la tutela dei luoghi, dall’altro ne fa scempio autorizzando le
multinazionali del greggio. Idrocarburi in mare e vincoli a terra. «Né – spiega Enzo Di
Salvatore, costituzionalista — la nascita del Parco, secondo il Codice dell’Ambiente e
secondo le modifiche ad esso apportare dal Decreto Sviluppo del 2012, eviterà le
trivellazioni: potrà bloccare le nuove concessioni, ma non i procedimenti in corso». Così i
ghirigori dei delfini in acqua e le passeggiate tra valloni e calette, potrebbero essere
intervallate dagli sbuffi di petrolio estratto al largo – ma non troppo — dalla società
Rockhopper Exploration, che opera presso le Isole Falkland, che ha rilevato la Medoilgas
Italia e che, per 24 anni, piazzerebbe una piattaforma e una mega-nave raffineria in una
delle zone più caratteristiche dell’Adriatico.
Certo, da queste parti, sono decisi, a non far passare lo straniero. È rivolta, soprattutto
degli ecologisti. E per il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, Pd, che ha sempre
assicurato e rassicurato: «Il nostro sviluppo sarà nel turismo…», è un guaio. Perché il
governo, sempre griffato Pd, è evidentemente di altri pareri. E lui deve districarsi tra i
malumori dei cittadini, contrari a far trasformare il territorio in distretto minerario, e le
stranezze romane, che, con lo «Sblocca Italia», hanno aperto agli ecomostri. D’Alfonso,
per primo, e, a seguire, gli altri illustri esponenti del Pd, per questa faccenda, sono nel
mirino, anche se la Regione Abruzzo, contro lo Sblocca Italia, ha fatto ricorso alla Corte
Costituzionale. Di «vergogna della politica», parla la ricercatrice e docente universitaria in
California, Maria Rita D’Orsogna, di origini abruzzesi e anni spesi in questa battaglia.
«Nonostante tutte le balle sulle ’valutazioni transfrontaliere’ con la Croazia e le belle parole
di ministri e funzionari sulla democrazia e sull’ambiente, eccoci qui. Trivelle e nave
desolforante a pochi chilometri da riva. E la colpa è di tutti. A partire dall’ex governatore di
centrodestra Gianni Chiodi che non seppe muovere una mosca contro Ombrina Mare a
suo tempo; per seguire con Gianni Legnini (Pd) che invece di darsi da fare per il no, e per
far rispettare il rigetto già decretato dello stesso ministero dell’Ambiente, decise di
’rimandare’ le decisioni con questa panzana dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale).
E poi le uscite infelici della Stefania Pezzopane, senatrice Pd. E poi ancora Luciano
D’Alfonso che avrebbe potuto essere più incisivo nelle sue azioni. E ovviamente a tutti i
sindaci che si sono opposti al Parco».
«Più che dalla Croazia — commenta il Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua per
voce di Augusto De Sanctis -, l’assalto dei petrolieri all’Adriatico parte dall’Italia e
dall’Abruzzo. Si tratta della dimostrazione che il governo Renzi ha a cuore esclusivamente
le sorti dei petrolieri che frequentano le sue cene di finanziamento».
«Insieme al terzo traforo del Gran Sasso, ’Ombrina Mare’ è forse il progetto più contestato
che sia mai stato proposto in Abruzzo — denuncia il Wwf -. Come è noto si tratta di un
intervento pesantissimo: sono previste la perforazione di 4/6 pozzi e la messa in opera di
una nave/raffineria per il trattamento e lo stoccaggio della produzione di olio, oltre alla
creazione di infrastrutture di collegamento». E se i 5Stelle parlano di Belpaese petrolifero,
Rifondazione tuona: «Ai 40.000 che manifestarono a Pescara il 13 aprile 2013 contro
Ombrina, il Pd ha finora risposto con le prese in giro in Abruzzo e con il voto sempre a
favore della petrolizzazione in Parlamento».
Legambiente, invece, fa i conti: «Dagli studi presentati, si evince l’assurdità del progetto:
greggio di pessima qualità e di quantità trascurabili, sufficiente a coprire a fatica lo 0,2%
del consumo annuale nazionale; gas in quantità insignificante e sufficiente a coprire
appena lo 0,001% del consumo annuale nazionale, con una ricaduta locale (in termini di
royalties) equivalente all’importo di mezza tazzina di caffè all’anno per ogni abruzzese».
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del 19/03/15, pag. 6
Saluggia, la scoria infinita di Sogin
Mauro Ravarino
TORINO
Rifiuti radioattivi. La Sogin chiede di raddoppiare il deposito
temporaneo
La mappa passa di mano in mano e resta segretissima. L’Ispra, che l’aveva ricevuta da
Sogin a inizio gennaio, l’ha consegnata ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo. Sulla
carta sono segnate le aree «potenzialmente idonee» a ospitare il deposito nazionale delle
scorie nucleari, che dovrà essere operativo dal 2024. Indiscrezioni parlano di 80 o 90 siti,
sparsi in una dozzina di regioni italiane. Intanto, la Sogin, la società di Stato incaricata del
decommissioning degli impianti nucleari su cui pende lo spettro del commissariamento,
cambia piano industriale e chiede al dicastero di via Veneto di raddoppiare il deposito
temporaneo D2 di Saluggia, in provincia di Vercelli: il posto più sconsigliato per custodire
materiale radioattivo, in quanto l’attuale area nucleare si trova in una zona esondabile,
inedificabile e vulnerabile essendo posizionata nella golena della Dora Baltea. Il D2, ora in
costruzione a due campate, verrebbe portato a quattro campate, per un totale di 40 mila
metri cubi.
Tutto succede senza il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e
dei rifiuti radioattivi, che doveva essere definito entro il 31 dicembre scorso (decreto
legislativo 45/2014). Il «piano regolatore» del nucleare prevederebbe un inventario
sull’ubicazione e la quantità di scorie. E una discussione partecipata in base alla
Convenzione di Aarhus sul diritto dei cittadini alla trasparenza delle decisioni in materia
ambientale.
La storia dell’atomo in Italia è fatta di silenzi, contraddizioni, ritardi. Le associazioni
ambientaliste — Legambiente e Pro Natura — invitano a dire basta alla costruzione di
nuovi depositi «temporanei», uno «spreco di denaro e un alibi per rinviare l’allontanamento
delle scorie». Secondo Gian Piero Godio di Legambiente «se si continuano a costruire
nuovi depositi non andranno più via da siti inidonei, come Saluggia e Trino Vercellese,
dove vengono custodite il 96% delle scorie di tutto Paese». E aggiunge: «I motivi sono
due, o al deposito nazionale non crede nemmeno la Sogin o si fanno lavori solo per
questioni di affari».
In ballo c’è anche la realizzazione del deposito D3 che contempla l’impianto Cemex
(cementazione dei rifiuti radioattivi liquidi, i più pericolosi), il cui appalto è ora
commissariato dopo la vicenda tangenti che ha coinvolto l’azienda Maltauro (impegnata
nei cantieri dell’Expo) e dirigenti Sogin.
Paola Olivero (Pd), capogruppo dell’opposizione a Saluggia, si chiede quale sia il senso
dell’ampliamento «se non di spendere inutilmente soldi pubblici che i cittadini pagano nelle
bollette». I depositi temporanei saluggesi e quello permanente nazionale, dove le scorie di
Saluggia dovrebbero essere successivamente allocate, «vedrebbero la luce — spiega
Olivero — a pochi anni di distanza gli uni dall’altro. E gli attuali lavori del D2 si stanno
svolgendo in assenza di Valutazione di Impatto Ambientale».
Gli ambientalisti hanno convocato un’assemblea sabato a Saluggia. La preoccupazione è
che gli attuali siti italiani rimangano depositi di se stessi e diventino, inoltre, la tappa ultima
delle scorie «espatriate» momentaneamente, per il riprocessamento, all’estero. Marco
Grimaldi, capogruppo di Sel in Regione Piemonte, chiede, in un documento inviato al
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presidente Chiamparino e firmato anche da Silvana Accossato e Giovanni Corgnati del Pd,
«di non autorizzare alcun ampliamento di volumetrie a Saluggia e di rinnovare la richiesta
al governo dell’individuazione in tempi rapidi del sito unico nazionale». Grimaldi spiega: «A
settembre il consiglio regionale ha votato una mozione che invitava a cercare una
soluzione per disimpegnare il sito di Saluggia, un indirizzo in contrasto con il nuovo piano
Sogin». Per la commissione nucleare del comune di Saluggia l’istanza Sogin è
«irricevibile».
del 19/03/15, pag. 26
Petrini: “Troppo cemento per costruire
l’Expo”
Giulio Geluardi
«L’Expo? Ecco a che cosa dovrebbe servire: invitare a riflettere su come rimediare al
disastro ambientale mondiale, alla morte per fame, alle multinazionali che depredano la
terra e il mare». Il presidente di Slow Food Carlo Petrini parla senza mezzi termini. E ieri
ha toccato questi importanti e delicati ma soprattutto attualissimi argomenti a Genova
durante la presentazione della 7a edizione di Slow Fish in programma al Porto E ieri ha
voluto toccare questi attualissimi argomenti a Genova durante la presentazione della 7a
edizione di «Slow Fish» al Porto Antico dal 14 al 17 maggio di cui parliamo in altra parte
del giornale
Petrini lo dice con chiarezza: «Non sono contro Expo a priori anche se il cemento usato
per farla ha distrutto un pezzo di civiltà agricola lombarda. Spero che si abbia il coraggio di
discutere di cose vere: Il pianeta che soffre, la morte per fame. Servono 34 miliardi l’anno
per estirpare la fame nel mondo e ne spendiamo 1850 per le armi. Sprechiamo il 40% del
cibo per bramosia e avidità. È una grande vergogna».
Il presidente di Slow Food è duro: «Il modello di sviluppo è obsoleto e negherà alle
generazioni future i privilegi che abbiamo avuto noi . Non mi interessa se a Expo arrivano
milioni di turisti. Se l’Italia diventa brutta a causa del cemento questi non torneranno più.
Ecco perchè dobbiamo ripartire dalla manutenzione e dal sostegno all’economia
primaria».
Poi Petrini ha citato anche il Pontefice che, a conferma di quanto sia importante l’ambiente
che l’uomo sta distruggendo (mettendo a repentaglio quindi anche se stesso) parla
sempre più spesso di ecologia di cui sta per fare un’enciclica: «La Terra non perdona mai
come ha ricordato papa Francesco. Potete metterlo in evidenza all’ ingresso di Genova,
che con le ultime alluvioni ha subito una sofferenza profonda e non si deve dimenticare.
La Terra non perdona nemmeno la cementificazione e la capacità che abbiamo di
avvelenarla con prodotti chimici. Questa vale per tutta Italia. L’ultima scoperta nel
Bresciano dove hanno trovato veleni sotto terra. Lo stesso è per i mari: Il modello attuale è
schizofrenico: puntiamo sul turismo e sul cibo ma distruggiamo l’ambiente che è la risorsa
primaria».
Lancia l’allarme anche il direttore scientifico di Slow Fish, Silvio Greco: «E’ confermato che
nel Mediterraneo ci sono 38,2 milligrammi di catrame pelagico per metro cubo contro lo
0,2 del Giappone. Ma la novità negativa sono i frammenti di microplastica: 100 mila per
chilometro quadrato».
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INFORMAZIONE
del 19/03/15, pag. 14
Crisi editoria, 30 mila edicole e 200 testate a
rischio chiusura
Trentamila edicole “superstiti” e sofferenti, in un mercato in crisi nera. Oltre 200 testate su
tutto il territorio nazionale che rischiano di chiudere i battenti, cancellando 3. 000 posti di
lavoro. All’Hotel Nazionale di Roma, sindacalisti e imprenditori del settore hanno scattato
una fotografia impietosa dell’editoria italiana. Proponendo, contestualmente, gli interventi
necessari per invertire il declino. L’iniziativa, promossa dalle tre principali sigle degli
edicolanti (Sinagi, Snag e Usiagi), parte dalla domanda che dà il titolo all’incontro:
“Editoria, riforma o rivoluzione?”. SECONDO Vincenzo Vita, ex senatore e giornalista,
moderatore del dibattito, servirebbe davvero “una piccola rivoluzione copernicana”. In
pochi anni, si è passati da 42 mila a 30 mila edicole. Quelle che resistono sono “una rete
sociale unica e un patrimonio da conservare a tutti i costi”. Giuseppe Marchica (segretario
generale del Sinagi) ha messo in fila una lunga serie di proposte qualificate per la riforma
promessa (da tempo) dal governo Renzi. Primo: “Bisogna abolire la distinzione, vecchia e
superata, tra edicola esclusiva e non esclusiva (ovvero tra gli esercizi che vivono
esclusivamente della vendita di carta stampata e i negozi che invece affiancano giornali e
periodici ad altre forme di commercio, come negozi e supermercati). Secondo: “Non
possiamo più pensare di uscire dalla crisi con il denaro pubblico. Oggi chiedere soldi a
pioggia allo Stato non ha più senso, né possibilità di successo. I fondi residui, piuttosto,
siano utilizzati per finanziare un ticket per la cultura a disposizione di giovani e famiglie,
per l’acquisto di giornali, libri e riviste al 50 per cento di sconto”. Secondo Armando Abbiati
(segretario dello Snag), il primo presupposto di qualsiasi riforma dovrebbe essere la
costituzione di “un unico sistema di informatizzazione condiviso tra le tre categorie”
(editori, fornitori e venditori). Abbiati è pessimista: “Probabilmente non sarà mai fatto.
Editori e fornitori non vogliono trasparenza e controllo: è come avere la finanza in casa”.
Ma il più grave e urgente dei problemi dell’editoria italiana, per il sindacalista, è un altro: “Il
sistema distributivo è chiuso, blindato, monopolizzato. Si è obbligati a rivolgersi a uno dei
quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali”. A
livello locale la situazione è anche peggiore: “Sul territorio ci sono 90 distributori locali. I
contratti di fornitura sono imposti con regole capestro. Si comportano da signori feudali e
hanno in mano il rubinetto della carta stampata. Se un’edicola è considerata non
profittevole, la chiudono: in Italia 4 distributori locali hanno lasciato interi paesi senza
giornali”. La priorità di qualsiasi intervento legislativo, condivisa da tutte le sigle sindacali, è
spezzare questa catena. Tra gli interventi anche quello di Cinzia Monteverdi,
amministratore delegato del Fatto Quotidiano. “La riforma deve essere di sistema e deve
coinvolgere tutte le parti della filiera. Imprenditori, editori, distributori: ognuno deve mettersi
in discussione e rinunciare a qualcosa. Ma in fretta: questa crisi non lascia più tempo”. IN
PLATEA, accanto agli operatori del settore, siedono i destinatari delle proposte:
l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, gli onorevoli Roberto Rampi (Pd), Giuseppe
Brescia (M 5 s), Giovanni Paglia (Sel), Stefano Candiani (Lega). In rappresentanza del
governo, c’è Antonio Funiciello, collaboratore di Luca Lotti, titolare della delega all’editoria.
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Funiciello ha garantito “l’apertura di un tavolo per la riforma del settore entro pochissime
settimane”. Trentamila edicolanti attendono il governo al banco.
To. Ro.
del 19/03/15, pag. 21
Palazzo Chigi. Il governo punta a una riforma di settore entro l’anno
In arrivo la convocazione del tavolo per
l’editoria
MILANO
Riforma della Rai, ma non solo. È tempo di grandi manovre a Palazzo Chigi sul tema
dell’informazione. A giorni - subito prima o subito dopo Pasqua - sarà convocato il tavolo di
sistema per l’editoria (si veda anche Il Sole 24 Ore dell’11 marzo). E sempre a giorni è
attesa la direttiva del sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega all’editoria,
Luca Lotti, contenente la definizione dei nuovi criteri per i fondi relativi alle convenzioni
2016 per le agenzie di stampa. «Siamo vicini alla riorganizzazione e a breve avremo le
novità e le determinazioni conclusive su tale materia», ha detto ieri lo stesso Lotti.
Insomma, cantiere informazione in pieno fermento con un tavolo di sistema per l’editoria
che sta per partire e che dovrebbe portare a una riforma complessiva del settore
programmata, negli auspici del governo, a fine anno. «Il tavolo per l’editoria - ha
confermato ieri Antonio Funiciello, portavoce del sottosegretario Lotti - sarà convocato dal
governo entro pochissime settimane». Lo ha detto nel corso dell’incontro “Editoria: riforma
o rivoluzione? Le edicole motore di sviluppo”, nel corso del quale le tre principali sigle
sindacali degli edicolanti, Snag, Sinagi e Usiagi hanno presentato le loro proposte. «La
nostra ambizione - ha aggiunto - è riformare il sistema editoriale con strumenti per
guardare al futuro in maniera integrata. Vogliamo intervenire sul finanziamento diretto, ma
siamo convinti che il mercato lasciato a se stesso produca distorsioni».
Si tratterà di un tavolo di sistema in cui, oltre agli editori, ci saranno anche gli edicolanti
oltre a tutti gli attori della filiera. Il presidente della Fieg Maurizio Costa, in un’intervista al
Sole 24 Ore dello scorso 11 marzo, lo ha citato come passaggio necessario per affrontare
il futuro e per lasciarsi alle spalle situazioni di crisi e anni di flessione di business in cui si è
innestata, forte, la ritirata degli investitori pubblicitari. I numeri lo confermano: la raccolta a
fine 2014 sui soli quotidiani è scesa a 810,5 milioni di euro a fronte degli 1,1 miliardi del
2012. Insomma, 300 milioni di euro mancanti all’appello.
La volontà del governo di puntare a una riforma complessiva del settore era stata anche
indicata come una delle motivazioni di fondo che hanno portato allo stralcio della
liberalizzazione delle edicole dai provvedimenti previsti nel Ddl Concorrenza, al contrario
di quanto previsto nelle prime bozze.
I nodi da affrontare però non si fermano qui. Il Governo vuole intervenire sui finanziamenti
diretti. In aggiunta ci sono vari punti da chiarire. A partire dal rapporto fra editori e
giornalisti nella gestione degli stati di crisi, con assunzioni, pensionamenti e
prepensionamenti, e con la nuova tornata negoziale del contratto.
Altro punto da affrontare sta nei rapporti che intercorrono fra editori e distribuzione. Qui il
tema sta nella necessità di ammodernare e informatizzare la rete delle edicole e della
distribuzione come richiesto con grande insistenza dagli editori. Dal loro canto gli
edicolanti, stando a quanto dichiarato ieri dal presidente di Snag-Confcommercio,
Armando Abbiati, auspicano «un miglior lavoro di filiera con l’obiettivo comune di
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valorizzare il lavoro degli edicolanti e dei giornalisti e vendere di più e meglio i quotidiani e
periodici all’interno della rete dedicata».
Ultimo, ma non ultimo, il tavolo sarà chiamato a dipanare la matassa del rapporto fra
editori e altri soggetti in tema di diritto d’autore. Qui il nodo gordiano da sciogliere sarà
senz’altro quello delle società che forniscono rassegne stampa. Al contrario di quanto fatto
da 16 società di media monitoring, le due maggiori - Eco della Stampa e Data Stampa,
che detengono insieme una quota di mercato attorno al 70% - non hanno aderito al
Repertorio Repertorio Promopress (la Srl che fa capo alla Fieg e che ha lo scopo di
raccogliere i compensi dello sfruttamento dei diritti di riproduzione). La contesa con la Fieg
è finita in tribunale. Prossima udienza ad aprile.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 19/03/15, pag. 12
Very Bello, il flop del ministero per i Beni
Culturali
LA VETRINA della cultura italiana si chiama Very Bello, il sito del ministero dei Beni
Culturali. Inaugurato il 24 gennaio scorso, non sembra dare grandi segni di vita. A partire
dall’account twitter che non cinguetta. La polemica monta. Tanto che ieri è intervenuto lo
stesso ministro Franceschini il quale ha assicurato che i primi cinguettii saranno pubblicati
dal primo maggio 2015, giorno dell’inaugurazione dell’Expo milanese. @ verybellò ha su
Twitter, a oggi, poco più di 3 mila follower, zero account seguiti e zero tweet. Questi
numeri però non spaventano il ministro: “I social network partono il primo maggio, quando
comincia l’Expo”, spiega Franceschini a margine di un evento organizzato dagli studenti
dell’Università Cattolica a Milano. Insomma, la promessa c’è. È solo questione di tempo.
Nel frattempo si fa di conto. Vale a dire il costo sborsato dallo Stato per far partire
l’iniziativa: 35 mila euro, questo il valore dell’assegno staccato dal ministero. Il sito
raccoglie 1. 300 tra mostre, concerti, musei, spettacoli che si svolgeranno nei sei mesi di
Expo. L’esordio fu travolgente (al contrario) con 15 mila tweet di presa in giro per il nome
non proprio azzeccato.
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/03/15, pag. 5
«Più ricorsi che referendum»
Massimo Franchi
Jobs Act. I giuristi della Fiom si preparano alla battaglia giudiziaria
contro l'abolizione dell'articolo 18, demansionamento e controllo a
distanza
Ancora molto lontani da individuare testi di possibili quesiti referendari, i giuristi della Fiom
stanno però scaldando i motori sui ricorsi da presentare contro il Jobs act. La pattuglia di
avvocati che ha rifilato a Marchionne le più grande sconfitte della sua vita — il reintegro
degli iscritti Fiom a Pomigliano e la sentenza della Corte costituzionale sull’interpretazione
dell’articolo 19 dello statuto usato per escludere la Fiom da tutti gl stabilimenti dell’ex Fiat
— è pronta a combattere nelle aule di tribunale italiane ed estere contro i decreti attuativi
di Renzi e Poletti.
Molti di loro fanno parte anche della consulta Cgil e qui arriva il punto di contatto con la
confederazione. Il ricorso a livello europeo sarà fatto a nome della Cgil e si baserà sugli
articoli 30 (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato) e 31 («Condizioni di lavoro giuste
ed eque» per quanto riguarda demansionamento e videosorveglianza) della carta di Nizza
dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sul piano interno invece appena arriveranno
casi di licenziamenti sarà possibile chiamare in causa «il principio di eguaglianza» fissato
dall’articolo 3 della costituzione e l’articolo 2106 del codice civile che prevede come le
sanzioni impartite dal datore di lavoro al lavoratore debbano essere proporzionate
«all’infrazione» e dunque non possono essere subito il licenziamento, come da abolizione
di fatto dell’articolo 18.
Sul referendum invece gran parte della Cgil è contraria avendo ancora presente il
precedente negativo del 2003 quando il quesito che doveva allargare l’articolo 18 a tutti,
appoggiato dall’allora segretario Guglielmo Epifani — e non da Cofferati — non raggiunse
il quorum.
Ieri però la pattuglia di giuristi si è dedicata di più alla dissertazione sulle storture del Jobs
act, dei suoi effetti e sui contorni del nuovo statuto dei lavoratori. Elena Poli ha denunciato
«l’abbattimento dell’architrave dei diritti: i diritti non sono tali se non sono rivedicabili senza
timore di ritorsione», la «subordinazione del lavoro all’impresa in un’operazione di decostituzionalizzazione del lavoro» con «un ribaltamento della piramide della democrazia
economica».
Per Franco Focareta invece «il nuovo statuto dei lavoratori deve partire da una nuova
definizione delle fattispecie della subordinazione» alla base della quale ci sia
«l’organizzazione del lavoro nell’impresa»: «le tutele devono aumentare all’aumentare
della subordinazione», in questo quadro «i lavoratori autonomi devono essere tutelati dalle
discriminazioni» e «il lavoro precario deve costare di più di quello a tempo indeterminato».
Per Alberto Piccinini per smascherare «il trucco e la fregatura del contratto a tutele
crescenti» «una via può essere proporre che nel 2017, quando scadranno gli sgravi per le
assunzioni e comincerà la caccia grossa ai lavoratori, una legge obblighi le imprese che
licenziano a ridare allo Stato i soldi ricevuti».
A chiudere il convegno è stato poi il maestro di tutti loro: Umberto Romagnoli. Il suo
intervento è stato come al solito spiazzante: «Riscrivere lo statuto dei lavoratori è una
sfida da far tremare i polsi, ma sarebbe inutile se nel frattempo il sindacato non cambia,
decidendo di rappresentare anche precari e autonomi».
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del 19/03/15, pag. 5
«Caro Boeri, il nostro welfare è iniquo. L’Inps
cambi per partite Iva e precari»
Roberto Ciccarelli
ROMA
Quinto Stato. Nasce la "Coalizione 27 febbraio" tra lavoratori autonomi,
professionisti e precari. Il 24 aprile manifesterà alla sede centrale
dell'Inps a Roma e invierà una lettera al presidente Tito Boeri per
chiedere equità fiscale e previdenziale. Nei prossimi mesi una
"Carovana dei diritti" toccherà tutte le casse previdenziali degli ordini
professionali
Oltre a quella di Landini, c’è almeno un’altra coalizione sociale in campo. Si chiama
«Coalizione 27 febbraio» e raccoglie la solidarietà intra-professionale tra categorie come
gli avvocati (Mga) e i difensori di ufficio (Adu), i freelance di Acta, i parafarmacisti Fnpi, gli
archivisti di Archim, gli architetti di Iva sei partita, il Comitato professioni tecniche
(Ingegneri e architetti), i geometri «Geomobilitati», Assoarching, il Comitato per l’Equità
fiscale, Inarcassa Insostenibile e No Cassa Edile. Ci sono gli studenti della Rete della
Conoscenza; Stampa Romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio; la coalizione dello
«sciopero sociale», una rete che raccoglie attivisti e centri sociali. Esperienze eterogenee
che formano una coalizione inedita nella storia del lavoro indipendente in Italia: quella tra
autonomi e precari. Una pluralità di voci che si sente rappresentata da una parola di uso
ormai comune. Tra loro si riconoscono in qualità di attori di una «solidarietà intercategoriale e inter-professionale», «uno strumento decisivo per risolvere problemi
comuni». Una «carovana dei diritti» organizzerà iniziative davanti alle rispettive Casse
previdenziali per chiedere equità sociale e un «nuovo mutualismo».
Il nome della coalizione questi autonomi e precari lo hanno preso dalla data, il 27 febbraio,
del primo speakers’ corner indetto a Roma dalla Mobilitazione generale degli avvocati
(Mga) contro l’iniquità fiscale e previdenziale della Cassa Forense Nazionale. Insieme, il
prossimo 24 aprile, manifesteranno sotto la sede centrale dell’Inps all’Eur a Roma.
Scriveranno una lettera aperta, e un incontro, al neo-presidente Tito Boeri chiedendo una
previdenza equa, una fiscalità sostenibile e un welfare universale. Tra le rivendicazioni c’è
quella della riforma dell’aliquota della gestione separata dell’Inps al 24% per autonomi e
freelance; il diritto alla malattia, alla maternità e un reddito di base per tutti; una «pensione
minima di cittadinanza» indipendente dal montante contributivo accumulato e lo sblocco
delle indennità dei tirocinanti della «Garanzia giovani». «L’Inps è il simbolo delle storture
del sistema contributivo che ha fatto saltare ogni logica solidaristica tra le generazioni, i
lavori e le professioni, come si può vedere anche nelle singole casse professionali che
impongono minimali contributivi inaccessibili per decine di migliaia di autonomi ordinisti.
Per questo ci vuole una riforma solidale e mutualistica della previdenza, insieme a un
taglio delle super-pensioni e un’imposta progressiva sui patrimoni» sostiene Francesco
Raparelli delle Camere del lavoro autonomo e precario di Roma (Clap).
Una delegazione della coalizione 27 febbraio ha partecipato sabato scorso all’incontro
sulla coalizione sociale proposta da Maurizio Landini. «L’apertura della Fiom è molto
interessante – continua Raparelli – È fondamentale che il lavoro autonomo e il precariato
siano il centro e non la periferia delle coalizioni. Parliamo di mondi diversi che non hanno
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bisogno di semplificazioni rappresentative, ma di pratiche politiche che rispettino il loro
pluralismo irriducibile». All’incontro con la Fiom c’era anche Davide Gullotta, presidente
dei parafarmacisti italiani: «Coalizione sociale mi piace perché rompe gli steccati tra
operaio e partita Iva, tra classe operaia e ceto medio. Mi sembra rispecchiare l’immagine
di cittadini che si ritrovano davanti ad uno Stato che è diventato nemico di chi vuole
lavorare e fare la propria professione». Gullotta vive in Sicilia. «Qui noi non abbiamo
fabbriche, i giovani vivono con contratti atipici o con la partita Iva, svolgono lavori molto
diversi dal posto fisso o da un impiego al ministero». Quanto ai parafarmacisti si scontrano
con una realtà nota a chi ha investito sui saperi, o sul proprio lavoro. «Siamo gli unici
professionisti iscritti ad un ordine che non possono esercitare liberamente la propria
professione. Le farmacie sono ereditarie o accessibili solo ai grandi capitali. Una
situazione che anticipa quello che sta accadendo ad altri professionisti. Oggi è il censo a
determinare chi può lavorare in Italia».
«Tra le professioni e il precariato le battaglie sono le stesse – sostiene Angelo Restaino,
presidente degli Archivisti in movimento — Per il momento siamo gli unici professionisti dei
beni culturali, vorremmo che ci seguissero anche gli altri. Le coalizioni esistono già: c’è la
nostra, poi lo “sciopero sociale”, adesso quella di Landini. Altre forse verranno. Si tratta
ora di capire quali elementi programmatici possono garantire una cooperazione e una
convergenza tra ciò che è già attivo».
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