MaNuaLE Di Etica aMbiENtaLE

Transcript

MaNuaLE Di Etica aMbiENtaLE
Manuale di etica
ambientale
a cura di Piergiorgio Donatelli
Le Lettere
Indice
Prefazione
di Piergiorgio Donatelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.
7
Capitolo 1
L’etica ambientale come nuova frontiera
del pensiero morale contemporaneo
di Sergio Bartolommei. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11
Capitolo 2
L’ambiente e lo sfondo della vita umana
di Piergiorgio Donatelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47
Capitolo 3
Giustizia ambientale, sostenibilità e generazioni future:
una nuova concezione della responsabilità morale
di Eugenio Lecaldano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 85
Capitolo 4
Etica del cambiamento climatico
di Gianfranco Pellegrino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »107
Capitolo 5
Conservare la natura
di Simone Pollo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »143
6
indice
Capitolo 6
L’estetica ambientale: profili e applicazioni
di Alessio Vaccari. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.163
Capitolo 7
L’ambiente nelle religioni
di Catherine Bearfield . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »189
Capitolo 8
L’etica degli animali
di Ludovico De Lutiis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »213
Gli autori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 249
4
Etica del cambiamento climatico
Gianfranco Pellegrino
1. L’acqua alta a Venezia: una catastrofe artificiale
Venezia è sotto la continua minaccia di essere inghiottita dal mare,
come molti sanno; la città sorge su un terreno che ha sempre avu­
to la tendenza ad abbassarsi (si vedano Antonioli, Silenzi, 2007;
Brambati et al., 2003), e per questo si potrebbe pensare che le cau­
se del­l’acqua alta siano naturali e persistenti. Il fluttuare del mare è
una catastrofe naturale, di cui nessuno ha colpa – o meglio le colpe
umane sono solo negative, sono l’incuria o l’incapacità di trovare
soluzioni.
Ma in realtà negli ultimi due secoli l’abbassamento medio na­
turale del suolo di Venezia è stato di soli 0,5 cm (Carbognin et al.,
2010, p. 1041): durante il secolo scorso, questo fenomeno ha por­
tato a un dislivello della terraferma rispetto al mare di 3 cm. Altri
9 cm di differenza fra mare e costa, però, sono stati conseguenza
di un abbassamento del terreno provocato da attività umane come
lo sfruttamento delle falde acquifere e l’estrazione di gas naturale
nelle acque di fronte a Chioggia. Infine, 11 cm di ulteriore disli­
vello si debbono al­l’innalzamento delle acque marine verificatosi
nel ventesimo secolo (Carbognin et al., 2005): dal 1961 al 1993 il
livello del mare è aumentato di 1,8 mm in media e di 3,1 mm dal
1993 al 2003 (IPCC, 2007, pp. 2, 30).
Secondo la maggior parte degli scienziati, il livello dei mari si è
alzato a causa del riscaldamento globale avutosi nel­l’ultimo secolo,
in particolare per la fusione della calotta glaciale artica provocata
dal­l’aumento della temperatura media del nostro pianeta: a partire
dal 1978 una percentuale cospicua del ghiaccio artico si è sciolta (il
108
Gianfranco Pellegrino
2,7% del­l’estensione totale ogni dieci anni, con un picco del 7,4%
durante il periodo estivo) e sono diminuiti gli spazi occupati da
ghiacciai di montagna e nevi perenni.
I segni del cambiamento climatico in corso sono molteplici: gli
anni dal 1995 al 2006 sono stati i più caldi dal 1850 (e negli ulti­
mi cento anni la temperatura è cresciuta globalmente di 0,74°C);
in tutto il ventesimo secolo sono diminuite le precipitazioni nelle
aree semi-aride e sono aumentate le zone colpite da siccità; sono
diventati meno frequenti i giorni e le notti fredde e le gelate, e più
frequenti notti e giorni caldi e ondate di calore. A partire dal 1970,
nel­l’Atlantico settentrionale è aumentata la frequenza e l’intensità
dei cicloni tropicali; molte specie animali e vegetali hanno spostato
il loro habitat verso i poli e l’equatore, per adattarsi alle nuove con­
dizioni di temperatura, e molti eventi tipici della primavera si sono
verificati in anticipo (IPCC, 2007, pp. 2, 30).
Secondo una schiacciante maggioranza di scienziati1, questi
mutamenti sono effetto delle attività umane che immettono nel­
l’atmosfera gas come il biossido di carbonio, il metano e il pro­
tossido di azoto, l’ozono, i clorofluorocarburi. La struttura mole­
colare di questi gas lascia arrivare i raggi del sole sulla Terra ma
scherma la radiazione riflessa dalla superficie del pianeta, e così
facendo mantiene al­l’interno del­l’atmosfera parte del calore. Gra­
zie a questo fenomeno, detto effetto serra, la temperatura media
sul nostro pianeta si è attestata a livelli adatti alla vita animale e
vegetale. Però, dopo la prima Rivoluzione industriale e soprattutto
nel ventesimo secolo, le attività industriali basate sul consumo di
combustibili fossili hanno aumentato la concentrazione di gas ser­
ra nel­l’atmosfera: tra il 1970 e il 2005, le emissioni derivanti da at­
1
Una minoranza dei partecipanti al dibattito mette in dubbio i dati scientifici
appena riferiti, oppure sostiene che la strategia più conveniente per fare fronte alla
prospettiva del riscaldamento del pianeta sarebbe non tanto cercare di ridurre i fattori
che lo creano, quanto affidarsi a strategie tecnologiche che consentano di adattarsi ai
mutamenti di temperatura, o addirittura semplicemente disinteressarsi del problema,
lasciandolo da risolvere alle generazioni future (su queste argomentazioni scettiche
o negazioniste, si vedano Caserini, 2008, Gardiner, 2010a, pp. 7-12, Garvey, 2008,
pp. 89-112, Jamieson, 2010a, p. 78, Vanderheiden, 2008, pp. 17-20, 21-44, 63-6; il più
famoso fra gli scettici è Lomborg, 2001). In questo saggio, non prenderemo in consi­
derazione queste obiezioni scettiche al­l’etica del cambiamento climatico.
Etica del cambiamento climatico
109
tività umana sono aumentate del 70%; nel 2005, la concentrazione
di biossido di carbonio era di 379 parti per milione (ppm), la più
alta negli ultimi 650.000 anni (IPCC 2007, pp. 5, 36-37).
Inoltre, l’urbanizzazione, l’agricoltura intensiva e la diminuzio­
ne delle foreste hanno diminuito drasticamente il numero di alberi
che, grazie alla fotosintesi, assorbono biossido di carbonio. Per di
più, riscaldandosi l’acqua di mare diminuisce la sua capacità di
assorbire biossido di carbonio. Infine, l’industrializzazione e lo svi­
luppo economico, aumentando la popolazione, la vita media e la
ricchezza, hanno fatto crescere i consumi – o almeno i consumi che
si basano su attività produttive che emettono gas serra.
Se le ipotesi sul legame fra concentrazioni di biossido di car­
bonio e aumento della temperatura media sono corrette – come
pensa una parte prevalente degli scienziati (si veda Garvey, 2008,
pp. 12-17) –, allora si deve ammettere che anche la terza causa del­
l’acqua alta a Venezia è un prodotto del­l’azione umana.
Ma c’è di più. Questi effetti del riscaldamento continueranno,
almeno se i nostri stili di vita e le attività di produzione rimar­
ranno immutati. Se le concentrazioni di gas serra si fermassero al
livello del 2000, si prevede un incremento di 0,1°C ogni dieci anni
nel prossimo ventennio e di 0,6° entro la fine del secolo. Se tutto
rimane com’è, fra un centinaio di anni la frequenza di eventi di ac­
qua alta a Venezia potrebbe passare dalla media corrente, quattro
volte l’anno, a una media che oscilla fra venti volte, nella previsio­
ne migliore, e 250, nel­l’ipotesi peggiore (Carbognin et al., 2010,
p. 1045). Inoltre, si prevede che, entro il 2100, il livello del mare
Adriatico nella fascia del delta del Po si potrebbe alzare in maniera
permanente di ben 36 cm (Antonioli, Silenzi, 2007, fig. 15). Un
livello delle acque marine superiore di più di 30 cm e 250 episodi
di acqua alta al­l’anno significano la distruzione certa di Venezia.
Inoltre, alla fine di questo secolo, scenari come questo potreb­
bero diventare molto diffusi: entro il 2100 molte zone costiere e
fluviali in Africa e Asia – densamente popolate e di enorme va­
lore artistico e naturalistico – sono destinate a essere sommerse
dal mare e dalle piene dei fiumi (IPCC, 2007, pp. 9-12, 48-52).
Ma, dato che le molecole di biossido di carbonio persistono nel­
l’atmosfera per più di un millennio, tanto il cambiamento climati­
co quanto l’innalzamento del livello dei mari si protrarranno per
110
Gianfranco Pellegrino
secoli, anche se le concentrazioni di gas a effetto serra venissero
stabilizzate (IPCC, 2007, pp. 12, 47). Alcuni effetti, poi, potrebbe­
ro anche essere irreversibili: approssimativamente dal 20 al 30%
delle specie corre probabili rischi di estinzione ove l’incremento
medio globale della temperatura vada da 1,5 a 2,5°C. Oltre i 3,5°C,
le proiezioni suggeriscono estinzioni dal 40 al 70% delle specie
(IPCC, 2007, pp. 13, 54).
A lungo andare, il cambiamento climatico renderà più diffici­
le l’alimentazione umana, diminuendo i raccolti e rendendoli più
costosi, anche per la scarsità d’acqua che si accompagnerà al ri­
scaldamento globale. Il cambiamento climatico colpirà soprattutto
i poveri del mondo: le zone più a rischio sono l’Africa e l’Asia, e i
piccoli arcipelaghi del Pacifico (come ricorda Singer, 2010, p. 183:
«Kiribati, che sta proprio a ovest del meridiano internazionale del
cambio di data, è stata la prima nazione a entrare nel nuovo mil­
lennio. Ironia della sorte, potrebbe anche essere la prima a uscirne,
scomparendo fra i flutti»: si veda IPCC, 2007, pp. 8-11, 49-52).
Ma non si tratta di catastrofi naturali ineluttabili. Questo futuro
inquietante è causato da azioni umane: in un certo senso, siamo di
fronte a catastrofi artificiali, che pongono questioni scottanti di re­
sponsabilità e giustizia. L’atteggiamento corretto, quindi, non è la
disperazione o il mero soccorso delle vittime: il cambiamento clima­
tico rende necessaria una prospettiva etica e un orizzonte di azione
politica. Stabilire se e quanto ci prema che Venezia e i suoi abitanti
siano salvi, e decidere come ripartire gli eventuali costi che si do­
vranno sopportare per impedire che il delta del Po venga sommerso
dalle acque non sono questioni soltanto scientifiche o economiche:
ogni decisione su questi argomenti sarà il prodotto dei nostri valori
morali e politici, e di una discussione che indichi a quali di questi
valori fare appello per decidere, ed eventualmente scopra di qua­
li nuovi valori abbiamo bisogno (come sostengono Broome, 2008;
Gardiner, 2010a, pp. 3-4; Garvey, 2008, pp. 1-2; Jamieson, 2010a,
p. 79; Miller, 2008, p. 119; Sunstein, 2007, p. 9; per una trattazione
generale della connessione fra etica e catastrofi, si veda Zack, 2009).
Le strategie di contenimento del cambiamento climatico sono
di due tipi: le politiche di adattamento – cioè le azioni necessarie
a difendere l’ambiente e gli esseri umani dagli effetti del riscal­
damento già in corso – e quelle di mitigazione – cioè le condotte
Etica del cambiamento climatico
111
che possono attenuare, se non arrestare, la tendenza al­l’aumento
futuro delle temperature medie (si vedano Caney, 2010, pp. 124125; Jamieson, 2005, pp. 220-229). L’adattamento si deve occupare
soprattutto della gestione delle risorse idriche e della costruzione
e progettazione di infrastrutture capaci di fronteggiare gli effetti
del cambiamento climatico (IPCC, 2007, p. 15, fig. SPM.4.). La
mitigazione invece riguarda principalmente il miglioramento del­
l’efficienza nella produzione e nel­l’uso del­l’energia, il passaggio
dallo sfruttamento del carbone al­l’uso del gas o di fonti rinnovabi­
li, le tecniche di controllo delle emissioni, i piani di riforestazione e
la piantagione di nuove foreste, la gestione dei rifiuti e degli scarti
inquinanti (IPCC, 2007, p. 17).
Per essere veramente efficaci, però, queste strategie debbono
avere portata globale o quasi: se soltanto un gruppo o una sola na­
zione riducessero le proprie emissioni, ciò non avrebbe effetti signi­
ficativi sulla concentrazione globale, perché i gas serra si muovono
liberamente nel­l’atmosfera e le industrie e le attività inquinanti si
possono spostare nei paesi che hanno regimi di diritto ambientale
più permissivi (come spiegano Gardiner, 2010a, pp. 88-89; Moellendorf, 2009, pp. 112, 115, 131; Posner, Weisbach, 2010, pp. 2,
81; Vanderheiden, 2008, p. XIII).
A partire dagli anni Novanta, sono stati stipulati due accordi, la
Convenzione-quadro sul cambiamento climatico (United Nations
Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), ema­
nata dal­l’Onu e firmata da 181 governi, e il protocollo di Kyoto,
stipulato nel 1997 e ratificato nel 2005. Molti ritengono che, per
quanto costituiscano un passo importante, questi documenti le­
gislativi siano insufficienti sia dal punto di vista pratico, sia per
ragioni etiche; altri pensano che comunque Kyoto sia stato un
primo passo e rappresenti l’unica soluzione praticabile (si vedano
Garvey, 2008, pp. 119-126; Gardiner, 2010a, pp. 19-21; Posner,
Weisbach, 2010; Singer, 2010, pp. 184-185, 195; Sunstein, 2007,
cap. 2). Questi differenti atteggiamenti, e la possibilità stessa di
un accordo condiviso, dipendono dai principi che si propongono
come criteri per regolare l’azione contro il cambiamento climati­
co. La discussione su questi differenti criteri, sui loro presupposti
e sulle loro conseguenze costituisce l’oggetto principale del­l’etica
del cambiamento climatico.
112
Gianfranco Pellegrino
2. Le trappole dei nonni: responsabilità, utilitarismo e virtù verdi
Le cause umane del cambiamento climatico sono azioni apparen­
temente innocenti, o addirittura encomiabili – come guidare au­
tomobili a benzina, schiacciare un interruttore, consumare beni
prodotti a migliaia di chilometri di distanza, fondare un’industria,
oppure avere un figlio (come spiega Broome, 2008, p. 69). Affer­
mare che queste azioni in realtà sono immorali o dannose significa
andare contro il senso comune e contro molte teorie filosofiche.
Accettare l’idea che fare qualcosa per fermare il cambiamento cli­
matico sia un dovere morale urgente ci costringerebbe ad ammet­
tere che gran parte della nostra vita quotidiana sia profondamente
immorale (sui rischi di corruzione morale derivanti dagli aspetti
inediti del cambiamento climatico si vedano Gardiner, 2010b,
pp. 94-95; Garvey, 2008, pp. 143-147; Sunstein, 2007, cap. 1).
Ma, pur concedendo che (contrariamente alle apparenze) le
azioni che causano il cambiamento climatico siano moralmente
scorrette, il fatto è che nessun atto singolo sarebbe sufficiente da
solo a creare gli effetti perniciosi del riscaldamento globale: certe
condotte provocano il cambiamento di temperatura cumulando i
loro effetti. Inoltre, le conseguenze di queste condotte si estendo­
no a tutto il mondo, e spesso dipendono da circostanze collaterali
e procedono a salti, per così dire. La dinamica del clima prevede
punti critici o di non ritorno, al di là dei quali si produrranno im­
patti irreversibili e non proporzionali alle cause: ad esempio, lo
scioglimento dei ghiacci marini creato dal riscaldamento in corso
fa sì che la superficie degli oceani diventi più scura, assorbendo
maggior calore e amplificando l’effetto di riscaldamento; se questo
effetto superasse un certo livello, lo scioglimento dei ghiacci marini
andrebbe avanti senza bisogno di altre cause concomitanti (si ve­
dano Miller, 2008, pp. 130-131; Lenton et al., 2008).
Infine, la maggior parte delle vittime del cambiamento climati­
co deve ancora nascere: è la prima volta che le azioni umane hanno
un’influenza così prolungata al di là della vita stessa degli agenti. È
come se i nostri nonni si fossero impegnati a scavare tutti insieme
milioni di trappole mortali sparse sul terreno del nostro pianeta,
di cui solo la nostra generazione conosce l’esatta ubicazione, e noi
stessimo tenendole nascoste ai nostri figli e ai nostri nipoti, aspet­
Etica del cambiamento climatico
113
tando che, alla fine di questo secolo, gli individui più poveri e più
indifesi fra i loro discendenti ci caschino dentro. Il cambiamen­
to climatico, avverte Singer (2010, pp. 183-184), «ha portato alla
luce nuovi e bizzarri modi di uccidere. […] Andando in macchina,
producete biossido di carbonio, e questo fa parte di una catena
causale che porta a inondazioni mortali che si abbatteranno sul
Bangladesh. Come possiamo fare in modo che la nostra etica tenga
conto di questa nuova situazione?» (vedi Garvey, 2008, pp. 58-61;
Gardiner, 2010a, pp. 3, 12; Jamieson, 2010a, p. 83; Moellendorf,
2009, p. 131; Vanderheiden, 2008, pp. XIV, 55).
Come hanno sottolineato Jamieson (2010a, pp. 82-84), Gardiner (2010a, pp. 12-13), Singer (2010, p. 183) e Vanderheiden
(2008, p. XIV), il cambiamento climatico ci mette di fronte a forme
di responsabilità non previste nella nostra moralità di senso comu­
ne, che si è evoluta in società a basso tasso di tecnologia e bassa
densità di popolazione, alle prese con risorse apparentemente illi­
mitate. La nostra responsabilità per il cambiamento climatico è al
tempo stesso non locale (si estende nello spazio e nel tempo ben al
di là della portata e della vita stessa degli agenti), non causale (si è
responsabili anche se le proprie azioni non sono, da sole, una cau­
sa necessaria e sufficiente del­l’effetto considerato: se anche io non
andassi in macchina, certamente lo farà un altro, e il cambiamento
climatico ci sarà lo stesso, e se io evito di andare in macchina, non è
detto che il riscaldamento globale diminuisca) e contributiva (ma, se
vado in macchina, contribuisco in qualche modo al­l’aumento della
temperatura). Infine, la responsabilità per il cambiamento climatico
è collettiva: nessuno può essere singolarmente responsabile di una
così complessa catena causale. E le catene causali che connettono
responsabili e vittime rendono il nostro mondo uno spazio morale
unico, come sostiene Singer (2010, p. 184): i principi etico-politici
che dovranno regolare la distribuzione dei costi del cambiamen­
to climatico non possono che avere portata universale, senza limiti
precisi che escludano gruppi o individui dalle loro richieste.
Come spiega Sinnot-Armstrong (2010), il fatto che del cambia­
mento climatico siano responsabili gruppi e non individui fa sì che
il dovere di promuovere politiche di contenimento non riguardi
singoli agenti, ma nazioni e governi: nessuno dei principi consueti
della moralità di senso comune e delle etiche filosofiche tradiziona­
114
Gianfranco Pellegrino
li ci proibisce di fare una passeggiata a bordo di un’auto di grossa
cilindrata, in una bella domenica di sole. Tocca semmai alla legi­
slazione internazionale, e quindi ai governi, emanare norme che
proibiscano comportamenti del genere, tenendo conto degli effetti
cumulativi che essi potrebbero avere se diventassero condotte ge­
neralizzate (si vedano anche Singer, 2010, p. 184; Jamieson, 2010a,
p. 83; Vanderheiden, 2008, pp. XIV, 55).
In realtà, secondo Jamieson (2010b, pp. 318-320) le difficoltà
sottolineate da Sinnott-Armstrong dimostrano soltanto che le eti­
che filosofiche ispirate al pensiero di Immanuel Kant (1724-1804),
le teorie politiche contrattualistiche e le ricostruzioni filosofiche
della moralità di senso comune non riescono ad affrontare i pro­
blemi etici e politici suscitati dalla prospettiva di un pianeta in pre­
da ad aumenti improvvisi e irreversibili della temperatura media.
Ma per ovviare a questa difficoltà basta rivolgersi a un paradigma
diverso: un’etica consequenzialista consente di trattare efficace­
mente i problemi etici del cambiamento climatico, evitando i pro­
blemi che affliggono la moralità di senso comune, il kantismo e il
contrattualismo.
Ma, spiega ancora Jamieson (2010a, pp. 84-85), per affrontare i
problemi del cambiamento climatico, bisogna adottare una teoria
consequenzialistica delle virtù, e non le tradizionali forme di con­
sequenzialismo. Si deve puntare sul­l’educazione del carattere degli
individui, e non sul calcolo dei probabili risultati delle azioni – per­
ché ogni calcolo di questo tipo, data la struttura della responsabilità
che è in ballo nel cambiamento climatico, porterebbe piuttosto al­
l’inazione. Si deve puntare sul­l’integrità e il carattere, come base di
nuovi principi e ideali, e su virtù “verdi”, come l’umiltà, il coraggio,
la moderazione, la semplicità e la capacità di conservazione.
Di solito, il consequenzialismo richiede di decidere come agire
tenendo conto delle azioni degli altri: certi atti a nostra disposizio­
ne possono o meno portare alla massimizzazione del benessere a
seconda di quali azioni gli altri faranno o no. Tuttavia, nel caso del
cambiamento climatico, agire in base alla condotta altrui portereb­
be piuttosto alla paralisi: innanzitutto, i calcoli necessari a stabilire
che influsso le varie azioni, nostre e altrui, avrebbero sulla com­
plessa catena causale che porta dalla produzione di emissioni al
cambiamento climatico sono talmente complicati da risultare quasi
Etica del cambiamento climatico
115
impossibili; inoltre, nessuno da solo (nessun individuo e nessuna
nazione) può incidere realmente sulla dinamica del cambiamento
climatico: ma, allora, fino a quando non si raduni un gruppo nu­
mericamente sostanziale di agenti impegnati ad abbattere le emis­
sioni, dal punto di vista consequenzialista la cosa migliore sarebbe
non agire. Ovviamente, siccome tutti sono coscienti di questo, non
si raggiungerà mai un gruppo numericamente sostanziale di agenti
e nazioni impegnati nella riduzione delle emissioni, e quindi non si
agirà mai contro il cambiamento climatico – e la teoria consequen­
zialista non ha le risorse per condannare questo esito, che è perfet­
tamente razionale proprio alla luce dei criteri di giudizio dettati dal
consequenzialismo.
Per questa ragione, si deve puntare su generatori di comporta­
mento che non si affidino al calcolo – come potrebbero essere trat­
ti del carattere, disposizioni, emozioni, e virtù. Di fronte al cam­
biamento climatico, la strategia migliore, anche dal punto di vista
consequenzialista, è ridurre il nostro contributo alla produzione di
emissioni indipendentemente dal comportamento altrui, e ci sono
molte più probabilità di riuscire a farlo sviluppando e inculcando
certe virtù, piuttosto che migliorando comportamenti puntuali ba­
sati sul calcolo. Di fronte al cambiamento climatico, gli utilitaristi
debbono prendere sul serio le virtù. Gli esseri umani hanno trop­
pe insufficienze cognitive e motivazionali per essere, specialmente
nella peculiare situazione del cambiamento climatico, perfetti mas­
simizzatori utilitaristi. Aiutarli a sviluppare certe virtù costituisce
l’approssimazione migliore possibile a una condotta che produca
i migliori esiti (Jamieson, 2010b, pp. 318-320, 326; vedi anche Di
Paola, 2010; Lecaldano, 2008).
Tuttavia, le modalità d’azione e gli stili di vita del­l’agente con­
sequenzialista debbono essere sensibili alle circostanze, trarre
vantaggio da opportunità anche uniche di promuovere il bene, ed
aspirare sempre al miglioramento: un individuo che segua i dettami
del consequenzialismo non si abbandona alla routine delle regole o
delle proprie virtù radicate se si trova in una situazione dove agire
diversamente sarebbe meglio, o nella quale seguire regole o virtù
anche consolidate porta a esiti drasticamente subottimali. Di con­
seguenza, l’agente consequenzialista deve costantemente cercare
di dare forma al proprio insieme di motivazioni in maniera che il
116
Gianfranco Pellegrino
proprio comportamento sia sempre adatto alla situazione: anche il
consequenzialista delle virtù deve sempre essere pronto a derogare
dal comportamento virtuoso quando non farlo potrebbe produrre
esiti peggiori (Jamieson, 2010b, pp. 321-323).
Quest’atteggiamento flessibile, però, può apparire in contrasto
con la modalità di decisione tipica del consequenzialismo delle
virtù, che fa proprio del­l’inflessibilità nel conformarsi ai compor­
tamenti virtuosi la strategia per superare l’impasse che procedure
di deliberazione rigorosamente consequenzialiste produrrebbe­
ro quando si è alle prese con la dispersione della responsabilità
e le complesse catene causali tipiche dei fattori che producono
il cambiamento climatico. La risposta di Jamieson a questo pro­
blema è limitare la possibilità di allontanarsi dal comportamento
virtuoso solo ai rari ed evidenti casi autenticamente estremi, dove
una condotta virtuosa produrrebbe esiti assolutamente catastrofici
(Jamieson, 2010b, p. 322).
I suggerimenti di Jamieson, tuttavia, sono rimasti largamente
inascoltati nella discussione. La maggior parte degli autori impe­
gnati in questo dibattito ha affrontato il problema della distribu­
zione dei costi del cambiamento climatico nei termini di una con­
cezione tradizionale della responsabilità oppure trattandola come
una questione di giustizia distributiva, come vedremo nel prossimo
paragrafo. Nel presentare la discussione su questo tema, si ten­
terà di mostrare che questi tentativi di elaborare una teoria della
giustizia che si applichi alla questione del cambiamento climatico
sono destinati a incontrare obiezioni insormontabili e che la via più
promettente per una riflessione etica sul cambiamento climatico è
concentrarsi sugli obblighi che abbiamo nei confronti delle gene­
razioni future.
3. Responsabilità, giustizia e cambiamento climatico
3.1. Responsabilità storica e giustizia correttiva
Secondo alcuni autori (Farber, 2007; IPCC, 2007a, pp. 33, 106;
Moellendorf, 2009, p. 111; Shue, 2010a, pp. 103, 110; Vanderheiden, 2008, p. XIII), la colpa storica di aver provocato il cambia­
mento climatico ricade interamente sulle nazioni industrializzate,
Etica del cambiamento climatico
117
e questa responsabilità fornisce un criterio di giustizia correttiva
sufficiente a stabilire un’equa ripartizione dei costi delle politiche
di contenimento.
I frutti dello sviluppo economico degli ultimi due secoli sono
stati distribuiti in maniera diseguale, e inoltre gran parte di tali
costi verrà pagata da individui e gruppi che non hanno goduto dei
benefici del­l’industrializzazione e della crescita economica. Se una
distribuzione diseguale è ingiusta, una ripartizione iniqua che per
di più crei danni aggiuntivi rispetto alla diseguaglianza costituisce
un torto ancora più grave. I costi da pagare per le politiche di miti­
gazione del cambiamento climatico, quindi, si debbono distribuire
tenendo conto di queste passate ingiustizie e delle responsabilità
storiche: l’allocazione di tali costi rappresenta una compensazione
dovuta a chi ha sofferto e soffrirà svantaggi imposti da altri e non
bilanciati da benefici.
Il criterio di giustizia correttiva più discusso è il “principio di
responsabilità storica”, secondo il quale ciascuna nazione dovreb­
be ridurre le proprie emissioni in proporzione al proprio contri­
buto storico al­l’ammontare globale di emissioni in eccesso (questo
principio è stato difeso da Neumayer, 2000 e da Shue, 2010a). Si
tratta del­l’applicazione di una norma più generale che regola gli
accordi internazionali (vedi Caney, 2010, p. 125; Shue, 2010a,
pp. 103, 111 n. 3) – il cosiddetto polluter pays principle, ovvero il
principio secondo cui “chi inquina paga”. A sua volta, questa nor­
ma deriva dal più generale principio del danno (vedi Gardiner,
2010a, p. 13; Shue, 1999, p. 43). Il criterio viene riconosciuto an­
che nel­l’art. 3, comma 1 del­l’UNFCCC, dove si stabilisce l’obietti­
vo di «proteggere il sistema climatico a beneficio delle generazioni
presenti e future, sulla base del­l’equità e in accordo con le proprie
rispettive responsabilità e capacità comuni, ma differenziate» (vedi
Caney, 2010, pp. 138-139; Moellendorf, 2009, p. 118; Stone,
2004; Vanderheiden, 2008, pp. XVII, 54-57).
Generalmente, nazioni e gruppi si ritengono responsabili dei
loro consumi e delle loro conseguenze ambientali solo a partire
da quando la consapevolezza degli effetti perniciosi delle emis­
sioni di gas serra si è stabilita con un’attendibilità sufficiente. La
data standard è il 1988, anno in cui la risoluzione 45/53 delle Na­
zioni Unite autorizzava l’inizio dei lavori che avrebbero portato
118
Gianfranco Pellegrino
al­l’UNFCCC nel 1992 (Gardiner, 2010a, p. 15; Garvey, 2008,
p. 77; Jamieson, 2005, p. 218; Miller, 2008, pp. 129-130; Neumayer, 2000, p. 188; Posner, Weisbach, 2010, pp. 104, 111; Singer,
2010, p. 190). Quindi, per applicare il principio di responsabilità
storica si debbono calcolare le emissioni di ogni singolo paese a
partire da quel momento, e determinare la percentuale di riscalda­
mento che esse hanno contribuito a creare. La porzione dei costi
del­l’abbattimento delle emissioni correnti da assegnare a ciascu­
na nazione sarà proporzionale al contributo dato da quel paese al
cambiamento climatico a partire dal 1988.
Al criterio della responsabilità storica si possono muovere tre
obiezioni.
1. Non è affatto vero che solo le nazioni industrializzate sono
state responsabili del cambiamento climatico. Come spiegano
Posner e Weisbach (2010, pp. 33-39), se alle emissioni di biossido
di carbonio si aggiunge anche l’impatto della deforestazione e dal­
l’urbanizzazione, allora – a partire dal 1950 – ai primi posti per
contributo storico al riscaldamento globale, dopo gli Stati Uniti, ci
sono Cina, Russia e Indonesia; se si calcolano le emissioni pro capi­
te, sempre nello stesso periodo ai primi posti si trovano paesi come
il Belize, la Guyana e il Lussemburgo – i quali evidentemente han­
no impianti di produzione poco efficienti. Se si dovesse applicare il
principio di responsabilità storica, allora, e si dovessero pretendere
partecipazioni ai costi di contenimento proporzionali al contributo
storico così calcolato, bisognerebbe o arrestare del tutto lo svilup­
po economico di paesi come la Cina e l’India, chiedendo loro di ri­
durre a zero le loro emissioni, o mandare letteralmente sul lastrico
piccoli paesi poveri come il Belize – imponendo loro di costruire
impianti industriali più efficienti e di pagarne i relativi costi.
2. Sempre secondo Posner e Weisbach (2010, pp. 101-115),
fondato com’è sulla responsabilità storica e collettiva (vedi anche
Caney 2010, pp. 125-30; Garvey, 2008, pp. 79-80), il principio di
responsabilità storica è concettualmente poco plausibile. Non si
capisce perché individui che vivono ora dovrebbero pagare per
le azioni compiute dai loro antenati. Le colpe dei padri debbono
ricadere sui figli? I cittadini contemporanei degli Stati industrializ­
zati si possono rifiutare a buon diritto di pagare per azioni che non
hanno commesso, e che non potevano neanche evitare. E non è suf­
Etica del cambiamento climatico
119
ficiente ribattere, come fanno Gardiner (2010a, p. 15), Gosseries
(2004), Shue (2010a, pp. 104-105) e Neumayer (2000, p. 189), che,
per quanto non siano punibili giuridicamente, i cittadini contem­
poranei delle potenze industrializzate sono comunque moralmen­
te responsabili – perché godono dei benefici prodotti dalle azioni
ingiuste dei loro antenati. Non si capisce perché qualcuno che non
può certo scegliere dove nascere, e di che tenore di vita godere, do­
vrebbe pagare per la sua sorte. Peraltro, molti individui che vivono
oggi nel­l’Occidente ricco non discendono da chi ha iniziato l’indu­
strializzazione in quei paesi – né godono dei molti benefici connes­
si al passato sviluppo economico. Gli immigrati di prima e seconda
generazione in Europa e negli Stati Uniti non sono responsabili
dei frutti avvelenati delle Rivoluzioni industriali. Peraltro, ha senso
affermare che scelte industriali che sono al­l’origine del­l’identità dei
cittadini attuali siano state un beneficio per costoro? Se le passate
generazioni non avessero fatto certe scelte di politica industriale, i
cittadini dei paesi del primo mondo (la cui nascita e identità sono
il frutto di matrimoni misti, viaggi intercontinentali, emigrazione)
non sarebbero esistiti (vedi Caney, 2010, pp. 128-129, 131-132).
Considerazioni simili valgono per la responsabilità collettiva: è
difficile concedere che cittadini singoli debbano pagare il prezzo
dei comportamenti di élites che non hanno scelto, che talvolta non
li rappresentano, o le cui scelte non sempre condividono. D’altra
parte, la politica industriale delle nazioni sviluppate non si può
certo interpretare come frutto di una scelta democratica compiu­
ta da ogni singolo cittadino. Né, come abbiamo già segnalato, si
può sensatamente parlare di una responsabilità individuale per il
cambiamento climatico determinatosi nel­l’ultimo secolo: le catene
causali sono troppo complesse e ramificate – anche gli amministra­
tori delegati delle industrie più inquinanti, anche i ministri delle
potenze economiche europee e degli USA non potevano da soli, e
nel­l’arco della loro vita, determinare la concentrazione di gas ser­
ra che ha portato al mutamento del clima: l’analogia fra emissioni
di gas serra e inquinamento non regge (vedi anche Miller, 2008,
pp. 130-132).
3. Il principio di responsabilità storica, infine, è troppo debole.
Secondo Shue (2010a, pp. 103-104), ad esempio, il limite tempora­
le è ingiustificato, almeno se è in questione la responsabilità morale
120
Gianfranco Pellegrino
e politica. È vero che, come detto prima, non si può sanzionare
qualcuno per effetti della propria condotta che non fossero noti
o prevedibili al tempo del­l’azione; ma se l’azione di un certo indi­
viduo crea danni, anche a sua insaputa, non è improprio ritenerlo
moralmente responsabile e chiedergli di compensare le vittime e
riparare i danni (vedi anche Miller, 2008, pp. 126-130; Singer,
2010, p. 190). Lo sviluppo economico del Primo mondo ha dan­
neggiato i paesi meno sviluppati non solo innescando la dinamica
del cambiamento climatico che colpirà soprattutto le nazioni più
povere, ma anche ripartendo in maniera diseguale i benefici del­
l’industrializzazione. Anche questa diseguaglianza si deve riparare,
e la giusta compensazione si può ottenere redistribuendo i costi
delle politiche di mitigazione del cambiamento climatico. Dunque,
le nazioni sviluppate non debbono stabilire la propria quota dei
costi globali del contenimento solo in proporzione al­l’impatto del­
la loro industrializzazione, ma debbono pagare quanto è necessa­
rio a compensare i paesi poveri per il loro mancato sviluppo. In
altri termini, i paesi ricchi debbono garantire il diritto allo sviluppo
delle nazioni meno sviluppate.
Alla luce di questa obiezione, il principio di responsabilità sto­
rica si potrebbe riformulare nella forma di “principio di compen­
sazione”: chi nel passato abbia sofferto svantaggi imposti unilate­
ralmente, perdendo opportunità e benefici che gli spettavano, ha il
diritto di esigere che chi glieli ha imposti sopporti oneri diseguali,
in proporzione tale da compensare l’iniquo svantaggio inflitto e il
beneficio sottratto (vedi Broome, 2008, p. 69; Gardiner, 2010a,
p. 14; Garvey, 2008, pp. 68, 74; Neumayer, 2000, p. 188).
Una versione specifica del principio di compensazione è il “prin­
cipio del diritto alle emissioni di gas serra necessarie allo sviluppo”
(greenhouse development right): ciascuno Stato riceve un diritto di
emissione in funzione della propria responsabilità (calcolata sottra­
endo alle emissioni totali il quantitativo necessario al­l’attività pro­
duttiva sotto una soglia di sviluppo minimo) e della sua capacità
(intesa come reddito aggregato, a cui si sottragga il reddito che si
avrebbe al di sotto della soglia di sviluppo minimo prescelta) (Baer
et al. 2008; Id., 2010; vedi anche Caney, 2010, p. 132).
Baer et al. (2010) fissano una soglia di sviluppo che prevede
un reddito annuale individuale di 7.500 dollari (o comunque un
Etica del cambiamento climatico
121
reddito che abbia pari potere di acquisto rispetto a questa somma)
e assumono che il periodo da considerare per fissare la responsabi­
lità di ciascuna nazione per il riscaldamento globale debba andare
dal 1990 al 2005. Moltiplicando la responsabilità di ciascuno Stato
per la sua capacità si ottiene la quota percentuale del contributo
che quella nazione deve prestare alla riduzione globale delle emis­
sioni. Ma, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, questa
proposta va al di là della giustizia correttiva: le preoccupazioni che
la muovono derivano dalla sfera della giustizia distributiva (vedi
Caney, 2010, p. 128; Singer, 2010, pp. 187, 89).
3.2. Diritto allo sviluppo
Secondo molti autori (Baer et al., 2010; Caney, 2010, pp. 136-137;
Shue, 2010a; Singer, 2010, pp. 187-189; Traxler, 2002, p. 120),
anche non considerando le responsabilità storiche, il cambiamento
climatico è sintomo di una distribuzione diseguale di una specifica
risorsa comune limitata – la capacità del pianeta di assorbire le
emissioni di gas serra. Nel loro sviluppo economico, le potenze
industriali hanno utilizzato una porzione eccessiva della capaci­
tà del pianeta di riequilibrare la concentrazione di gas serra nel­
l’atmosfera, violando l’eguale diritto di ogni nazione a promuovere
il proprio sviluppo economico e di ogni individuo a sfruttare una
quota eguale della capacità di assorbimento del pianeta. Secondo
Shue (2010b, pp. 211-213), un certo livello di emissioni è neces­
sario a conseguire uno sviluppo industriale minimo, che consenta
di uscire dalla povertà – per esempio, ci sono emissioni necessarie
per impiegare l’elettricità a scopi terapeutici e sociali (vedi anche
Moellendorf, 2009, pp. 117, 122).
I paesi industrializzati non possono chiedere alle nazioni che
si collocano al di sotto di questa soglia minima di sviluppo indu­
striale di rinunciare alla loro crescita economica per permettere
agli Stati più ricchi di continuare a condurre una vita agiata. Le
nazioni industrializzate producono “emissioni di lusso”, cioè emis­
sioni necessarie per assicurarsi consumi non necessari, emissioni
che, dal punto di vista etico, debbono avere un valore molto infe­
riore alle “emissioni di sussistenza” prodotte dai paesi poveri: «la
giustizia non permette che si dica alle nazioni povere di vendere le
122
Gianfranco Pellegrino
loro coperte per permettere ai paesi ricchi di conservare i propri
gioielli», afferma Shue (1992, p. 397; vedi anche Gardiner, 2010a,
pp. 16-17; Garvey, 2008, p. 81). Per questa ragione, i paesi indu­
strializzati debbono ridurre la propria quota di emissioni anche
più di quanto sarebbe loro richiesto alla luce delle responsabili­
tà storiche, per compensare le maggiori emissioni che si debbono
concedere ai paesi in via di sviluppo (vedi anche Bodansky, 2004).
Il diritto allo sviluppo è al centro dei dettami del­l’UNFCCC:
nel preambolo della convenzione si afferma che «le risposte date
al problema del cambiamento climatico si debbono coordinare
con lo sviluppo sociale ed economico avendo di mira l’obiettivo di
evitare effetti negativi sullo sviluppo e tenendo conto appieno dei
legittimi bisogni prioritari dei paesi in via di sviluppo di persegui­
re la propria crescita economica e di sradicare la povertà». Per le
stesse ragioni, il protocollo di Kyoto non impone riduzioni ai paesi
in via di sviluppo.
3.3. Giustizia distributiva
Dal punto di vista morale, un criterio di distribuzione dei costi del
cambiamento climatico che assicuri un eguale diritto allo svilup­
po si comporrebbe di due norme collegate, spiega Shue (2010a,
pp. 105, 108-109). Un principio stabilisce l’estensione dello svilup­
po da assicurare a ognuno; un criterio del genere potrebbe esse­
re, ad esempio, il “principio del minimo garantito”, secondo cui
quando alcuni hanno meno di quel che è necessario per una vita
decente, altri invece hanno molto di più e le risorse totali sono suf­
ficienti a dare a tutti il minimo necessario a un’esistenza decente,
allora si deve garantire a ognuno un livello minimo di risorse – cioè,
nel caso che stiamo trattando, un minimo di sviluppo economico
(vedi anche Miller, 2008, p. 136). A questo principio si aggiunge
una norma che indica su chi ricade l’onere di redistribuire e sanare
le ineguaglianze, come potrebbe essere il “principio delle maggiori
capacità”. Secondo tale principio, chi ha maggiori porzioni di una
certa risorsa comune deve fornire maggiori contributi alla redistri­
buzione di quel bene: nel caso in questione, chi ha maggiori capaci­
tà, deve contribuire di più alla riduzione complessiva delle emissio­
ni (vedi anche Baer et al., 2010, p. 222; Garvey, 2008, pp. 82-83).
Etica del cambiamento climatico
123
Alla luce di queste due norme, si scarteranno molti criteri di
distribuzione che, pur traendo ispirazione da ideali egualitari, non
sono plausibili. Ad esempio, si consideri il “principio delle quote
eguali”, secondo il quale a ogni Stato si richiede di limitare le pro­
prie emissioni di una quota eguale a quella di tutti gli altri (Singer,
2010, p. 190). Come spiega Moellendorf (2009, p. 116), applicare
questa norma richiederebbe a certi paesi non solo di azzerare il
proprio sviluppo, ma persino di arretrare a livelli di sottosviluppo.
Secondo l’Energy Information Administration (un’agenzia dipen­
dente dal Dipartimento per l’energia del governo federale degli
Stati Uniti), nel 2000 le emissioni globali erano di 23.751,01 ton­
nellate. Se le si volesse ridurre della metà, si dovrebbe chiedere a
ogni paese di diminuire le proprie emissioni di 57,1 tonnellate. Il
76% dei paesi non arriva a questo livello di emissioni, e quindi
dovrebbe portare il proprio sviluppo sotto lo zero.
Considerazioni simili valgono per il “principio delle eguali per­
centuali”, secondo cui a ciascuno Stato si richiede un limite alle
proprie emissioni eguale in percentuale a quello degli altri. Richie­
dere la medesima percentuale di riduzione a un paese in via di
sviluppo e a una nazione industrializzata significa ovviamente non
assicurare al primo alcun diritto allo sviluppo (vedi Shue, 2010a,
p. 106).
Un criterio ancora differente, proposto da Traxler (2002), pren­
de in considerazione non tanto la riduzione delle emissioni, quanto
la disutilità marginale che ne può derivare. Secondo il “principio
degli oneri eguali”, ciascuno Stato deve ridurre le sue emissioni di
un ammontare che sia pari a una quota eguale del­l’onere rappresen­
tato dalla riduzione totale (si vedano Garvey, 2008, pp. 131-135;
Gardiner, 2010a, pp. 18-19). L’obiettivo di questo criterio è far sì
che le opportunità perdute dalle varie nazioni riducendo le emis­
sioni siano uguali (Moellendorf, 2009, pp. 118-119). Tuttavia, il
principio non tiene conto del fatto che spesso le opportunità di­
pendono in misura cospicua dallo status quo, vale a dire da quanto
un paese possiede e dalla misura del suo sviluppo. Per esempio, un
paese molto poco sviluppato ha meno da perdere, limitando ancora
le proprie emissioni, di una nazione che invece metterebbe a rischio
un livello elevato di sviluppo. Da un lato, quindi, questo criterio cri­
stallizza le diseguaglianze di risorse e sviluppo e, dal­l’altro, trascura