il dialogo interreligioso e le relazioni islamo

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il dialogo interreligioso e le relazioni islamo
Andrea Pacini, Centro di Studi Religiosi Comparati Edoardo Agnelli, Torino
IL DIALOGO INTERRELIGIOSO E LE RELAZIONI ISLAMO-CRISTIANE
IN ITALIA: LINEE DI SVILUPPO E PROSPETTIVE
Relazione presentata al Convegno L’islam in Italia. Appartenenze religiose plurali e strategie
diversificate, Torino, 2-3 dicembre 2004
Per comprendere le relazioni islamo-cristiane in Italia e le prospettive di dialogo
interreligioso che si stanno sviluppando, non si possono isolare le scelte della Chiesa italiana né
dall’insegnamento elaborato in proposito dalla Chiesa cattolica universale (insegnamento che ha
avuto un momento di somma autorevolezza nel Concilio Vaticano II, ma che è stato
successivamente sviluppato e precisato sia dal magistero di papa Giovanni Paolo II e dalle sue
iniziative, sia dalla riflessione di teologi coinvolti nei lavori delle Congregazioni romane, cui si
deve l’elaborazione del documento Dialogo e Annuncio del 1991) né dal più vasto dibattito
teologico che a livello mondiale in ambito cristiano si sta sviluppando sul tema.
Il tentativo di questa relazione è di porre la Chiesa italiana in rapporto con questo ricco e
complesso orizzonte, per verificare come essa si situa in rapporto ad esso. Infine tenteremo alcune
osservazioni sul coinvolgimento di organismi musulmani nel dialogo interreligioso.
1. Chiesa cattolica e dialogo interreligioso
La chiesa cattolica recepisce ufficialmente e autorevolmente il dialogo interreligioso come
strumento e dimensione della sua vita e della sua azione con il Concilio Vaticano II: di questo tratta
in particolare la Dichiarazione Nostra Aetate diretta a esprimere la posizione della chiesa nei
riguardi delle religioni non cristiane. Il fondamento dogmatico di tale posizione è da trovare nel
paragrafo 16 della Lumen Gentium, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, in cui si tratta degli
uomini appartenenti a religioni non cristiane.
La chiesa riconosce che il primo fattore unificante tra gli uomini è l’appartenenza alla
comune umanità, che ha Dio come principio e come fine. Di qui l’esigenza di promuovere rapporti
di collaborazione a tutto raggio per il progresso del
bene. Riconosce anche che nelle altre
tradizione religiose vi sono riflessi della luce della Verità del Verbo (Gesù Cristo), e afferma che la
chiesa nulla rigetta di quanto di santo e giusto è dalle altre religioni insegnato e in esse vissuto.
Potremmo dire che l’esigenza di promuovere collaborazione e convergenze non è solo puro
volontarismo, ma si radica nel riconoscimento che le altre religioni hanno elementi di bene
concretamente presenti in esse, e che questi elementi possono fondare tale collaborazione.
Il dialogo è lo strumento che favorisce la mutua conoscenza e la ricerca di valori condivisi.
Nell’autocoscienza della chiesa cattolica tutti gli uomini restano ordinati alla Chiesa, perché
solo da Cristo si origina la salvezza e solo in Cristo si compie; la Chiesa, d’altra parte, nella sua
identità misterica (non riducibile alla sua espressione storica, ma neppure indipendente da essa)
resta lo spazio in cui si attua la comunione degli uomini con Cristo e tra loro in Lui. Gesù Cristo è
da sempre e per sempre LA PAROLA di Dio fatta carne, che entra nella storia e riconcilia la storia e
l’umanità – ogni uomo – con Dio. Resta dunque la piena responsabilità dell’annuncio evangelico,
che costituisce il compimento pieno di quanto di bene le altre tradizioni religiose adombrano e
propongono.
Del resto gli stessi aspetti di bene, giustizia e santità presenti nelle altre religioni hanno
un’unica origine: la Santissima Trinità; e un unico compimento: la salvezza rivelata e realizzata in
Cristo.
Proprio rileggendo il dibattito teologico successivo alla luce dell’insegnamento conciliare, la
Commissione teologica internazionale nel documento “Cristianesimo e Religioni” (1997), propone
di sostituire all’antico motto “extra ecclesiam nulla salus” (“fuori della chiesa non c’è salvezza), il
motto “extra Christum nulla salus” (al di fuori di Cristo non c’è salvezza), affermando però nel
contempo che ogni traccia di bene esistente proviene da Lui e a Lui conduce, e che l’azione dello
Spirito Santo, donato dal Risorto, tende a diffondere in modo universalizzante la salvezza in e di
Cristo (cfr. Gaudium et Spes 22).
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Queste precisazioni sono importanti perché mostrano come il Concilio e la retta
interpretazione del suo insegnamento, per un verso aprano la chiesa in modo serio al dialogo
interreligioso, ma per l’altro verso intendano proporne una visione saldamente inserita nel tessuto
organico della fede cristiana, evitando sia il relativismo sia il sincretismo (entrambi tentazioni
ricorrenti nel dialogo, anche svolto da persone di buona volontà, ma che finiscono per annullare
l’efficacia del dialogo stesso…)
Resta aperta nei documenti conciliari una questione importante, già dibattuta nella teologia
negli anni immediatamente precedenti e contemporanei al Concilio: se il bene presente nelle
religioni sia espressione del desiderio di assoluto dell’uomo (elaborato nella propria coscienza), che
trova appunto il suo compimento nel cristianesimo; o se sia espressione di un intervento di grazia,
per cui nelle religioni è operante il mistero di Cristo (anche se i membri delle religioni non ne sono
consapevoli); anche in questo caso, le religioni sono chiamate a compiersi in Lui.
Il Conc ilio non prende posizione rispetto a queste due possibilità, lasciandone il dibattito
alla teologia successiva.
Bisogna anche aggiungere che il Concilio, per quanto esprima valutazioni positive delle altre
religioni, non esprime di esse una visione puramente irenica: se infatti in esse si riscontrano
elementi di santità e di bene, vi si trovano però anche elementi negativi frutto del peccato dell’uomo
e dell’azione del “nemico”.
Il discernimento sul grado di “compatibilità evangelica” di quanto insegnato e creduto
dalle religioni resta dunque fondamentale, e la “conformità al Vangelo” resta il criterio centrale
per esprimere un giudizio sulle altre religioni e sui contenuti che esse propongono.
Questo, in estrema sintesi, è il quadro dottrinale e pastorale proposto dal Concilio Vaticano
II, che ha espresso l’idea di una chiesa che si vuole aperta e in dialogo a tutti i livelli: al proprio
interno (con la valorizzazione teologica della comunionalità e della collegialità), nei riguardi degli
altri cristiani (dialogo ecumenico), dei credenti seguaci delle altre religioni (dialogo interreligioso),
nei riguardi di tutti gli uomini, anche atei o agnostici.
A partire da questo quadro dottrinale si sviluppano ulteriormente almeno due grandi
prospettive che ci interessano: il dialogo interreligioso di tipo teologico-pastoral-culturale e la
teologia delle religioni.
Per dialogo interreligioso si intende quell’insieme di attività e contatti più o meno
sistematici avviati dalla Chiesa cattolica o da essa accolti, tesi a sviluppare rapporti stabili con
membri e istituzioni appartenenti ad altre tradizioni religiose; l’obiettivo di questi rapporti è di
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promuovere la conoscenza reciproca per un’azione comune sia in termini generali sia rispetto a
situazioni particolari in cui la presenza multireligiosa esige di essere gestita in modo condiviso,
superando tensioni o conflitti.
A livello universale nella Chiesa cattolica il dialogo interreligioso è promosso dal Pontificio
Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il quale al proprio interno ha attivato una specifica
Commissione per le Relazioni con l’Islam. Esistono poi altri organismi a livello regionale, a livello
di conferenze episcopali nazionali o a livello diocesano locale. E’ nota poi l’azione personalmente
condotta dal papa Giovanni Paolo II per promuovere il dialogo interreligioso.
E’ bene puntualizzare a scanso di equivoci e a fronte di un uso a un tempo inflazionato e
diluito del termine “dialogo interreligioso”, che con tale termine si intende unicamente indicare i
rapporti promossi e di cui sono soggetti attivi le diverse religioni tramite le loro istituzioni o i loro
membri. La categoria di dialogo interreligioso non include invece tutte quelle azioni che
definiscono i rapporti degli stati con le diverse confessioni religiose. E’ certamente bene che le
istituzioni dialoghino con le religioni, ma questo non rientra nell’ambito del dialogo interreligioso,
che è al di fuori della competenza dello stato, essendo, per l’appunto, competenza delle religioni e
modo concreto per sviluppare reciproci rapporti. Lo stato può indirettamente promuovere, facilitare,
creare le condizioni per il dialogo interreligioso, ma non può esservi direttamente coinvolto, né a
livello nazionale, né a livello sovranazionale (es. a livello di Unione europea).
Per teologia delle religioni si intende invece quel ramo particolare della teologia cattolica (o
protestante o ortodossa) che riflette sullo statuto teologico delle altre religioni e sul tipo di rapporto
che esse hanno con la rivelazione e la salvezza cristiana (dunque sul tipo di rapporto con la
rivelazione vetero e neo-testamentaria e con la persona di Cristo, professato dalla fede cristiana
come Unico Salvatore Universale).
Oggi la teologia delle religioni è una delle aree teologiche su cui la riflessione e il dibattito
sono maggiormente intensi, anche perché coinvolge alcune aree teologiche fondamentali quali la
cristologia e l’ecclesiologia. Il problema di fondo è come coniugare il ruolo positivo svolto dalle
religioni con l’unicità della mediazione salvifica universale di Cristo. Si possono identificare
almeno tre diversi modelli teologici che cercano di dare una risposta a questo:
1. modello ecclesiocentrico esclusivista (postula la necessità di appartenere storicamente alla
chiesa per ottenere la salvezza: ancora diffusa in taluni ambiti protestanti e ortodossi, questa
dottrina è oggi ufficialmente rifiutata dalla chiesa cattolica).
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2. modello teocentrico pluralista (postula l’eguaglianza sostanziale di tutte le religioni, che
avrebbero Dio come “comune denominatore” e comune sorgente, al di là delle differenze
dottrinali; di conseguenza postula una sostanziale equivalenza tra i fondatori delle diverse
religioni. Questo modello è in netta contraddizione con la fede cristiana, perché nega la
divinità di Cristo e l’unicità della sua mediazione salvifica universale, svuotando anche di
significato la stessa realtà della salvezza, che viene ad assumere un senso puramente
gnostico. Tale modello è criticato anche perché presuppone che tutte le tradizioni religiose
siano “teistiche”, mentre il buddhismo non è riconducibile a tale configurazione).
3. modello cristocentrico inclusivista (afferma nello stesso tempo che la volontà salvifica di
Dio è universale e che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio incarnato, è l’unico mediatore
universale di salvezza. La salvezza di Cristo è raggiungibile sia all’interno della chiesa
storica – tramite la professione di fede cristiana esplicita – sia all’esterno di essa tramite
l’adesione dei singoli uomini al bene da essi cono sciuto attraverso la propria coscienza, ma
anche attraverso l’insegnamento delle religioni. Ma il “bene conosciuto” è sempre frutto
dell’azione salvifica di Cristo universalizzata dallo Spirito Santo e resa presente nelle altre
culture e religioni, così come la salvezza di cui si fruisce è la redenzione realizzata da Cristo
nella sua morte e resurrezione – anche se i non cristiani di questo non sono consapevoli).
Solo il terzo modello – quello cristologico inclusivista – corrisponde a una teologia cristiana
delle religioni che intenda svilupparsi in continuità con il dato rivelato, trasmesso e elaborato dalla
tradizione della chiesa (extra Christum nulla salus).
Se questo è il quadro generale, che ha provocato un cambiamento epocale nella vita della chiesa
e nella teologia (prima più nettamente apologetica), ci si può chiedere quali ripercussioni esso abbia
stimolato e indotto nella chiesa italiana.
2. La chiesa italiana
In primo luogo occorre dire che all’indomani del Concilio Vaticano II la chiesa italiana si è
trovata coinvolta soprattutto nel dialogo ecumenico tra cristiani – in particolare in rapporto alle
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comunità protestanti storicamente presenti sul territorio nazionale – nonché in quella peculiare
forma di dialogo che è il dialogo con l’ebraismo.
Dico forma peculiare, perché il dialogo con l’ebraismo non è propriamente né dialogo
ecumenico – che si attua solo tra cristiani – né dialogo interreligioso in senso stretto, perché il
cristianesimo riconosce pienamente e realmente la verità della rivelazione veterotestamentaria e
riconosce la paternità dell’ebraismo nei suoi confronti. Dunque il dialogo con l’ebraismo non può
essere retto da quei principi teologici che regolano il dialogo interreligioso (in cui si parla di “altre”
religioni sottolinenandone l’alterità) , perché il cristianesimo riconosce come proprio patrimonio di
fede la rivelazione biblica, seppur letta attraverso il suo compimento nella persona di Gesù Cristo.
Il dialogo con l’ebraismo, che era già stato attivato prima del Concilio Vaticano II tramite i
gruppi locali dell’Alleanza ebraico-cristiana (Firenze, Roma, Milano, Torino…), riceve nuovo
impulso, energia e consolidamento.
Potremmo dire che dalla fine del Concilio (1965) fino al 1985 – per venti anni – sono
soprattutto queste due prospettive a essere coltivate: questo è storicamente comprensibile, perchè
concretamente in Italia la chiesa italiana si trovava ad avere rapporti con le comunità protestanti e
con le comunità ebraiche, mentre altre presenze religiose organizzate erano assenti o a uno stadio
ancora pulviscolare.
E’ solo a partire dalla seconda metà degli anni ottanta del XX secolo che la chiesa italiana si
trova coinvolta in modo crescente nella sfida di sviluppare relazioni interreligiose e il dialogo
interreligioso, in particolare in rapporto all’islam. Questa nuova frontiera della pastorale della
chiesa italiana – come tutte le frontiere pastorali – si apre a partire dal progressivo delinearsi di un
contesto nuovo: le migrazioni internazionali – provenienti in larga misura dai paesi nordafricani –
incominciano a interessare in modo consistente l’Italia, e questo provoca concretamente
l’apparizione di un pluralismo religioso di nuovo tipo, caratterizzato in particolare dalla presenza e
dall’insediamento in Italia di popola zione di varia origine nazionale ma di appartenenza religiosa
islamica. Sappiamo come le dinamiche migratorie siano cresciute nei due decenni successivi, e
come abbiano causato l’aumento di popolazione musulmana, quantificabile oggi a circa 850.000
persone (che hanno l’islam come matrice religiosa di origine). A fronte di quantità esigue di
popolazioni appartenenti ad altre tradizioni religiose (ad esempio le religioni orientali), le relazioni
interreligiose in Italia sono lette essenzialmente come relazioni islamo-cristiane, tese cioè a creare i
presupposti perché possano formarsi rapporti costruttivi e positivi tra cristiani e musulmani in Italia,
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e, più in generale, perché i musulmani possano inserirsi in modo non conflittuale nella società
italiana (storicamente segnata dall’appartenenza alla fede cattolica).
Tentiamo di analizzare sia pure in modo sintetico i due principali livelli in cui si sviluppano
in Italia le relazioni interreligiose e islamo-cristiane, ovvero il livello pastorale e quello della
teologia delle religioni.
Il livello pastorale è senz’altro quello più evidente per la sua visibilità e per le sue ricadute
più immediate sul piano concreto. Esso è nello stesso tempo complesso, perché include l’azione dei
vescovi, iniziative sorte dalla base ecclesiale, a loro volta espressioni di associazioni o di movimenti
istituzionalizzati o di iniziative diocesane o di ordini religiosi.
Potremmo dire che a fronte di un impegno deciso e “massiccio” sul fronte dell’assistenza
materiale da portare agli immigrati di cui la chiesa italiana si è fatta carico (tramite le Caritas, i
servizi della “Migrantes”, nonché svariate iniziative di volontariato), fin dall’inizio è stata
nettamente percepita la sfida culturale e religiosa che l’immigrazione e, in particolare, la nuova
presenza musulmana, portava con sé. Una percezione che trova eco pubblico evidente nella lettera
“Noi e l’Islam” scritta dal Card. Martini già nell’ormai lontano 7 dicembre 1990 (quando il
fenomeno immigratorio era ancora agli inizi e poco regolamentato da tutti i punti di vista: la legge
Martelli, prima legge organica sull’immigrazione, è del 1990), ma che trova espressione anche in
decisioni meno note, ma puntualmente prese in alcune diocesi (Milano, Torino, poi Padova e
Verona, e in seguito diverse altre), di inviare dei preti a specializzarsi in Scienze islamiche, per
avere persone adeguatamente formate per affrontare la sfida posta dalle relazioni con i musulmani.
Scelte pensate al fine di creare in alcuni casi dei Centri specificamente finalizzati al dialogo
interreligioso e islamo-cristiano.
Queste decisioni – in un momento storico caratterizzato dalla carenza di vocazioni e dalla
crescente diminuzione di personale ecclesiastico attivo, per cui abbondano i “tagli” nei vari ambiti
pastorali già esistenti e tradizionali – mostrano che l‘investimento nel dialogo interreligioso è stato
reputato una scelta prioritaria.
Questo prova una certa preveggenza che la chiesa italiana ha avuto, almeno in alcuni dei
suoi settori. Potrebbe sorgere l’interrogativo sulle ragioni di tale preveggenza. Essa può essere
spiegata con due motivi di fondo: in primo luogo la conoscenza di quanto era avvenuto e stava
avvenendo nei paesi europei di più antica immigrazione (Francia, Gran Bretagna, Germania,
Belgio…). In tutti questi paesi la presenza musulmana e le sue espressioni collettive nella sfera
pubblica avevano innescato tutta una serie di questioni nei rapporti con le istituzioni locali e con lo
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stato coinvolgendo la società nel suo insieme. La chiesa cattolica in questi paesi aveva già iniziato
tutta una serie di azioni e di relazioni per gestire i rapporti complessi con l’islam, creando anche
organismi specifici a questo scopo, come il Segretariato per le Relazioni con l’Islam della
Conferenza Episcopale Francese (SRI), e organismi analoghi esistenti in Germania e Belgio. A
livello europeo i centri cattolici di dialogo si sono occupati da un lato di promuovere una
conoscenza approfondita dell’islam da parte dei fedeli e più in generale dei cittadini, evitando le
semplificazioni e le demonizzazioni, ma, nello stesso tempo, puntualizzando i problemi e cercando
di prospettare linee di soluzione.
Un problema pastorale specifico particolarmente complesso ovunque affrontato è quello dei
matrimoni misti, che desta preoccupazione sia per le questioni giuridiche implicate in rapporto al
diritto musulmano, sia per la diversa comprensione delle proprietà del matrimonio, sia per
l’educazione religiosa dei figli, sia per l’alto tasso di fallimenti; ma sono state affrontate anche le
problematiche poste dalla presenza di ragazzi musulmani nelle scuole cattoliche e negli oratori,
nonché in modo più generale, i problemi posti da una comprensione diversa dei rapporti statosocietà-religione veicolati dall’islam rispetto alla tradizione europea.
Su questa serie di temi sono stati prodotti documenti ufficiali, frutto di impegno laborioso e
qualificato, quali le schede pubblicate dal SRI in Francia o il documento della Conferenza
Episcopale Tedesca sull’islam e le relazioni islamo-cristiane in Germania.
In altre parole il coinvolgimento ormai avanzato di altri espicopati europei sulla questione
dei rapporti con l’islam, ha senza dubbio costituito un elemento importante che ha favorito
l’emergere precoce di un’analoga consapevolezza tra i vescovi italiani, o almeno tra alcuni di essi.
Non è un caso che il card. Martini all’epoca della sua lettera “Noi e l’islam” ricoprisse il ruolo di
Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.
Ma vi è anche un altro canale, di più lungo periodo, che ha funzionato come “trasmettitore”
di consapevolezza nei riguardi della presenza islamica e della complessità di cui è portatrice: si
tratta dell’esperienza delle chiese cattoliche (e non cattoliche) del Medio Oriente, “esperte” – in
tutte le accezioni del termine – di una convivenza plurisecolare e problematica con l’islam. La
tradizionale subalternità dei cristiani nei paesi musulmani mediorientali, il regime anche legale di
marginalizzazione esistente in molti campi (anche per quel che riguarda il culto pubblico), il divieto
di missione (e la negazione della libertà di coscienza ai musulmani), fino alla mancanza di ogni
forma di libertà religiosa in Arabia Saudita e, in definitiva, la stretta connessione tra diritto,
religione e politica nei paesi musulmani a completa tutela della supremazia dell’islam, costituiscono
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un bagaglio di esperienza “oggettiva” trasmessa alle chiese europee e alla chiesa italiana. Da qui
scaturisce un senso di solidarietà con le chiese minoritarie in ambito isla mico e la consapevolezza
dell’alterità dell’islam rispetto alla tradizione cristiana e europea non solo su questioni dogmatiche,
ma su questioni direttamente rilevanti la sfera civile e politica.
Questa duplice esperienza di chiese limitrofe ha dunque costituito un retroterra di
consapevolezza per i pastori della chiesa italiana, o almeno per molti di essi.
Non stupisce allora che nei pronunciamenti ufficiali dei vescovi italiani si noti la ricorrenza
di alcuni temi specifici, su cui puntano le loro preoccupazioni e attenzioni.
Nel primo documento, quello del card. Martini, la preoccupazione di fondo è di evitare che
il rapporto con i musulmani possa svilupparsi su linee errate, quali quelle del conflitto o del
relativismo disinformato. Il card. Martini intende parlare in primo luogo alla comunità ecclesiale,
ma, in secondo luogo, anche alla comunità cittadina (per quello che le compete). Cosciente della
complessità dell’argomento che intende trattare, Martini propone un discorso sintetico, ma
articolato, e tocca dei punti nodali che mantengono oggi tutta la loro validità, e che hanno esercitato
una forte influenza nella chiesa italiana (influenzando più di quanto si possa credere anche le
posizioni espresse da vescovi meno positivi nei confronti dell’islam).
La proposta di Martini si colloca in primo luogo sul piano civile: bisogna insistere “sul
processo di integrazione, che comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel
tessuto della nazione ospitante, ad accettare le leggi e gli usi fo ndamentali, a non esigere dal punto
di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a ghettizzarli e a farne potenziali
focolai di tensioni e violenze. E’ necessario fare comprendere agli immigrati islamici che in Europa
i rapporti tra stato e organizzazioni religiose sono profondamente diversi e non ci si può appellare
alla shari’a per esigere spazi e prerogative giuridiche proprie”.
Ma che cosa è necessario per una società integrata? E’ necessario assicurare l’accettazione e
assimilazione di almeno un nucleo minimo di valori che costituiscono la base di una cultura (es.
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o principio giuridico dell’eguaglianza di tutti davanti
alla legge).
Un contributo specifico al processo di integrazione può essere dato dal dialogo
interreligioso, senza il quale sembra difficile assicurare una tranquillità sociale.
Sul tema Martini chiarisce alcuni punti:
- Che cosa pensare dell’islam? Riproponendo l’insegnamento conciliare Martini afferma che
la chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle religioni. Il Concilio Vaticano II ha richiamato
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elementi comuni a cristiani e musulmani. E’ significativo però che abbia omesso temi
importanti: non vengono menzionati né Maometto, né il Corano, né l’islam inteso come nesso
comunitario tra i credenti, né la shari’a. Viene menzionata la comune ascendenza abramitica, ma
non Gesù.
Martini intende mettere in guardia da una concezione di dialogo che scada nel relativismo
religioso, e per questo cita la Redemptor Hominis 11: non vi è opposizione tra attenzione al dialogo
interreligioso e accresciuta coscienza della propria fede. Anzi il primo richiede la seconda.
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Alla domanda “che cosa pensare dell’islam”, Martini risponde che si tratta di una religione
che avendo grandi valori ha certamente aiutato a offrire a Dio un culto onesto e sincero, e,
insieme, a praticare la giustizia. Richiama al senso dei valori assoluti.
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Chiesa e dialogo: per porre presupposti corretti al dialogo tra credenti è importante tenere
presente che non sempre la singola persona incarna tutti gli aspetti che astrattamente
designano un credente in quella religione. Il problema non sono le discussioni teologiche ma
cercare di capire quali sono i valori che una persona incarna nel suo vissuto.
Su questo punto in cui tende a dissociare il singolo musulmano dai riferimenti complessivi
proposti dalla sua religione – o da specifiche interpretazioni
di essa – Martini è
particolarmente ottimista nel prospettare una diffusa autonomia individuale; non bisogna
tuttavia dimenticare che i valori teologici sono importanti (e hanno mostrato la loro
importanza sia nella storia sia oggi), perché sono in grado di influenzare profondamente i
comportamenti specie in ambito musulmano.
Tuttavia Martini è consapevole che le dinamiche di gruppo sono importanti, perché l’islam
non è solo fede personale, ma realtà comunitaria compatta e una parola d’ordine può
ricompattare i soggettivismi.
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Percorsi concreti di dialogo:
1. La Chiesa in Italia è invitata ad accogliere gli immigrati musulmani motivando
cristianamente il “perché” dell’accoglienza. La carità assistenziale rischia di essere muta
se non è spiegata.
2. Occorre ricercare insieme un obiettivo comune di tolleranza e accettazione mutua.
3. Occorre fare cogliere che i credenti sono critici verso consumismo e indifferentismo.
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4. Il dialogo con i musulmani sarà occasione per riflettere sulla loro forte esperienza
religiosa che tutto finalizza alla riconsegna a Dio.
Martini individua anche le posizioni errate da evitare: la non conoscenza del fenomeno
(disattenzione) e lo zelo disinformato, che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura
pregiudiziale, sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che in nome di un generico
ottimismo non colgono la complessità delle questioni e i problemi.
La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza: per questo è necessario un
supplemento di cultura.
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Martini auspica rapporti di eguaglianza e fraternità con reciprocità anche rispetto alla
situazione dei cristiani nei paesi a maggioranza musulmana.
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Martini non tralascia di parlare dell’annuncio evangelico: il dialogo parte da punti comuni e
si sforza di allargare il campo di comprensione di questi punti; tende all’azione comune su
campi in cui è possibile la collaborazione, su temi quali pace, solidarietà, giustizia.
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L’annuncio: è proposta chiara e semplice di ciò che appare più caro ai propri occhi, di ciò
che non si può imporre né barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si
vorrebbe che tutti attingessero per la loro gioia: per il cristiano il tesoro più grande è la
croce, intesa come il mistero del Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il
nostro male e quello del mondo perché l’umanità ne sia liberata.
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Non sempre l’annuncio evangelico può essere fatto in modo esplicito, o perché si vive
all’interno di società intolleranti, o perché ci si incontra con forti chiusure mentali che
costituiscono quasi una barriera. Allora la proposta assume la forma della testimonianza
quotidiana.
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Martini conclude dicendo che la Chiesa non può e non deve rinunciare ad annunciare il
Vangelo ai musulmani; ciò che conta è lo stile, il modo (con rispetto, amore, attenzione).
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La forza evangelizzante della Chiesa sta nella lieta e ferma coerenza con il Vangelo.
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3. La recezione della prospettiva interreligiosa nella chiesa italiana
Il documento di Martini, per l’autorevolezza del suo estensore, non ha mancato di
influenzare la pastorale della chiesa italiana, anche se sui singoli punti che egli propone sono state
date, come è normale, accentuazioni differenti. Si possono quindi tentare di leggere gli sviluppi
successivi alla luce delle linee prospettate da Martini.
Certamente il documento di Martini apre delle prospettive interessanti – quali le prospettive
di un dialogo e di una integrazione a livello di società civile cui contribuisce anche il dialogo
interreligioso – ma deve anche essere collocato in un periodo storico diverso da quello attuale, in
cui alcuni problemi sono emersi in modo più acuto (terrorismo internazionale, gruppi islamici
fondamentalisti e radicali in Occidente per i quali il “dogma” ha importanza fondamentale come
ispiratore della condotta individuale e collettiva e come generatore di una determinata visione del
mondo).
Dovendo sintetizzare quale sia l’azione pastorale della chiesa italiana nei riguardi dell’islam
bisogna in primo luogo precisare che la Conferenza espisopale italiana non si è mai pronunciata
come tale sulla questione, se non in quei paragrafi dei documenti programmatici per il decennio
pastorale che menzionano il crescente pluralismo culturale e religioso, e l’azione della chiesa nei
suoi riguardi.
La prospettiva dell’integrazione civile è certamente stata recepita dalla chiesa italiana, e
ribadita talora con toni urgenti (su questo punto ha insistito il cardinale Biffi).
La richiesta di un supplemento di cultura è stato pure recepito: come già si diceva, in molte
diocesi è stato fatto uno sforzo notevole per “conoscere l’islam”, avendo cura di fornire una
conoscenza corretta e, se necessario, problematica. Questo tipo di azione culturale mira a un duplice
obiettivo: fornire una conoscenza sufficientemente solida dell’islam sia per impedire il cristalizzarsi
di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo
disinformato), sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con
l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le
questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa). Questo impegno ha
trovato espressione istituzionalizzata in Centri come il CADR di Milano o il Centro Peirone di
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Torino, ufficialmente deputati alla promozione delle relazioni islamo-cristiane nelle diocesi
rispettive, o è stato attuato dalle Commissioni diocesane per l’ecumenismo e il dialogo
interreligioso, presenti in tutte le diocesi (spesso coadiuvate anche dalle locali sezioni della Caritas
e di Migrantes). L’azione è stata ed è capillare, e mostra sul piano concreto come la scelta della
chiesa italiana sia stata quella di favorire il “dialogo interreligioso” tra le persone, nella vita
quotidiana, più che quello istituzionalizzato. Quest’ultimo non è del tutto assente ma è senz’altro
sviluppato in modo minore e per ora è ancora a livello occasionale. Si possono citare in proposito le
iniziative delle ACLI a Modena, il sorgere di un’iniziativa di dialogo a Reggio Emilia (in cui
nell’ambito della diocesi è stata creata una Commissione per i rapporti con l’Islam), il
coinvolgimento dei Giovani Musulmani nelle iniziative del Segretariato Attività Ecumeniche
(SAE); a Torino un’iniziativa simile tesa a creare un tavolo stabile di dialogo tra esponenti della
diocesi e esponenti locali del mondo arabo e islamico – nata l’indomani dell’11 settembre – è
fallita per il ritiro della parte musulmana.
L’incoraggiamento del dialogo nella vita quotidiana si sposa bene con l’opzione per
l’integrazione civile, che non può che ottenersi incentivando la partecipazione nelle varie
dimensioni della vita associata (lavoro, scuola, tempo libero…).
Il dialogo istituzionale è senz’altro frenato sia dal disinteresse di molte moschee ad esso, sia
dalla difficoltà a trovare nei responsabili musulmani degli interlocutori adatti, anche sul piano
culturale. La scarsa preparazione culturale e religiosa degli imam – testimoniata anche dalle
ricerche più recenti – li rende poco adatti come interlocutori di un dialogo interreligioso che abbia
un certo livello dottrinale (si aggiunga anche il timore di legittimare tramite il dialogo interreligioso
responsabili di moschee appartenenti a correnti fondamentaliste) . Questa situazione finisce per
creare una certa prudenza in tale senso. D’altra parte persone più qualificate quali i Giovani
Musulmani, che sono aperti in linea di principio al dialogo interreligioso, intendono quest’ultimo
essenzialmente dal punto di vista etico-sociale e non sembrano elaborare ancora una riflessione più
propriamente religiosa sul piano dottrinale. Vista la “giovinezza” dell’esperienza, bisogna forse
attendere ulteriori suoi sviluppi, che richiedono probabilmente livelli di formazione dottrinale più
approfonditi.
Anche nel caso delle confraternite sufi, con cui il dialogo interreligioso potrebbe essere di
grande interesse, non sono ancora emersi interlocutori stabili, ma solo occasionali.
Un altro fattore che forse induce alla prudenza la Chiesa da un impegno più deciso nel
dialogo interreligioso istituzionale è che alcuni organismi musulmani che si proclamano aperti al
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dialogo e che sono radicati nella tradizione sufi rivisitata in chiave esoterica, rischiano di proporre
dei paradigmi di dialogo chiaramente tendenti a un sincretismo che finisce per identificare le
religioni come espressioni storiche dell’unica “religio perennis”, che scorre come un fiume carsico
nella storia dell’esperienza religiosa dell’umanità. Il dialogo istituzionale con queste correnti pone
un duplice problema: da un lato esse non vengono riconosciute come appartenenti all’ortodossia
musulmana dalle correnti maggioritarie in seno all’islam (per cui dialogare con loro potrebbe
screditare gli interlocutori cattolici rispetto agli altri musulmani); dall’altro lato il paradigma di
dialogo da esse proposto rischia di offuscare o cancellare le identità religiose storiche: dunque per la
chiesa significherebbe mettere tra parentesi la verità in cui crede e che è responsabile di annunciare.
Potremmo dire che tutta la complessità dei problemi inerenti la leadership musulmana in
Italia e la sua formazione si ripercuotono anche sulla possibilità di organizzare un dialogo
interreligioso più istituzionalizzato per ora considerato – e sperimentato - generalmente come
prematuro.
Anche la questione dei matrimoni misti è stata affrontata in Italia: nel 1994 il vescovo di
Brescia ha pubblicato un documento in proposito, in cui si riprendevano e proponevano le linee
maturate nell’esperienza francese. In sintesi si potrebbe dire che i matrimoni islamo-cristiani sono
visti come essenzialmente problematici; per questo prima del conferimento dell’apposita dispensa
“per disparità di culto” occorre accertarsi che la parte cristiana abbia piena e certa conoscenza delle
problematiche di ordine giuridico, culturale e religioso inerenti il tipo di matrimonio in questione,
così come occorre accertarsi che la parte musulmana sia consapevole degli obblighi che assume. Se
nonostante questo il proponimento dei nubendi sussiste, la dispensa deve essere concessa. Si
raccomanda che la parte cristiana tenga stretti contatti con la comunità ecclesiale, e che quest’ultima
stia vicina ad essa, anche elaborando appositi percorsi di accompagnamento (che coinvolgano, se
possibile, anche la parte musulmana). Se queste sono le linee generali, bisogna dire che in
mancanza di una decisione generale della CEI, le diverse diocesi si comportano spesso in modo
differenziato, mostrando talora eccessivo rigore nel rifiutare la dispensa, talora eccessiva facilità
(con il rischio della superficialità) nel concederla. In concreto la maggior parte di questi matrimoni
vengono però contratti con rito civile.
La pastorale dei matrimoni islamo-cristiani, che conosce esperienze già formalizzate in
Francia e Gran Bretagna, è ancora agli inizi in Italia, anche se si presenta come un ambito delicato
da curare in prospettiva futura. E’ interessante notare come le scelte prese nell’ambito della coppia
risentano molto del contesto generale in cui la coppia è inserita (pratica religiosa della parte
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cristiana e della sua famiglia, pratica della parte musulmana e sua origine na zionale, luogo
definitivo di residenza, età dei coniugi…).
Martini aveva ricordato come il dialogo richieda una fede matura. Non stupisce che le
relazioni islamo-cristiane abbiano fatto riproporre in modo rinnovato l’esigenza di rendere i cristiani
consapevoli della loro fede (e delle differenze dogmatiche – contro ogni relativismo – rispetto
all’islam). A questo tema specifico è dedicato parte del documento “Cristiani e Musulmani in
dialogo” della Commissione triveneta per l’ecumenismo e il dialogo (pubblicato nel 1992 e che
riprende in sintesi le linee proposte da Martini) e gran parte del più recente documento “L’islam e il
cristianesimo” della Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna pubblicato nel 2000.
Questo documento risponde alla duplice esigenza di rinsaldare la fede dei cristiani e la
consapevolezza civile dei cittadini italiani ed europei rispetto a una religione che presenta forti tratti
di alterità e rispetto a una cultura legittimata su base religiosa – l’islam – che presenta tratti decisi di
differenziazione rispetto alla cultura europea e italiana e agli ordinamenti civili che da essa
scaturiscono.
Il tono generale del documento è di decisa preoccupazione rispetto a quella che viene colta
come una sottovalutazione del fenomeno, con conseguente mancanza di responsabilità nel gestirlo.
Il documento ha alcuni lati positivi: invita a guardare con realismo la storia passata e recente
(conquiste islamiche, situazione delle chiese orientali, l’islamismo radicale che oggi si esprime…).
Questo invito è positivo perché non è fuggendo dalla storia che si costruiscono rapporti migliori; e
d’altra parte l’evidenza storica deve essere presa in conto per evitare che come promotori di dialogo
si venga accusati di essere dei “fantasiosi utopisti”.
E’ indubbio che l’islam debba ancora fare i conti con la “violenza” e il suo statuto
nell’ambito della propria dottrina religiosa e della propria cultura.
Il documento richiama anche con forza l’esigenza – già anticipata da Martini – di
promuovere l’integrazione degli immigrati di origine musulmana, e su questo aspetto da un lato
ricorda ai politici l’incompatibilità di molte pratiche islamiche rispetto all’ordinamento sociale e
politico italiano sottolineando la loro responsabilità (la responsabilità politica) nel ge stire
l’integrazione; per la prima volta però il documento chiama apertamente in causa i musulmani,
dichiarando che essi hanno il dovere morale di conoscere le convinzioni, gli usi, la cultura della
società in cui intendono inserirsi (una civiltà millenaria): si mette cioè in evidenza la responsabilità
che i singoli immigrati hanno di attuare la propria integrazione, mettendosi nella corretta
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prospettiva, che non può non prendere in serio conto la “conoscenza” del nuovo contesto in cui si
viene a vivere.
E’ questo un tema importante e delicato, che ha conseguenze dirette sulla scolarizzazione dei
figli degli immigrati, ma che apre il problema di come socializzare ai “valori” della cultura italiana
anche gli immigrati adulti. Il documento dunque considera gli immigrati interlocutori da
coinvolgere e da responsabilizzare.
L’urgenza di promuovere l’integrazione dei musulmani vale per la chiesa e vale per lo stato.
Non è un caso che già Martini parlasse di rendere eloquente e comprensibile la carità prestata
(significa rendere comprensibile il cristianesimo). Ma vale anche per lo stato, che deve socializzare
gli immigrati ai principi costituzionali e ai valori fondanti della cultura italiana e della sua storia,
tutte cose necessarie per interagire in modo efficace nella società italiana.
Questo ragionamento si può applicare agli imam: ci si può infatti chiedere se sia possibile
svolgere bene questo ruolo in Italia, senza conoscere nulla o quasi della società italiana, della sua
cultura, del cristianesimo, che costituiscono i riferimenti portanti dell’orizzonte sociale in cui si
vive. Nella multiculturale Olanda da tre anni vengono organizzati corsi di formazione “alla cultura
europea e al cristianesimo” per gli imam, perché ci si è accorti che è necessario.
Se è giusto porsi il problema della formazione alla conoscenza dell’islam dei cattolici,
non si può pensare che un percorso di integrazione e il dialogo interreligioso possano
svilupparsi senza alcuna conoscenza approfondita da parte dei musulmani della cultura
europea e del cristianesimo.
Per quel che riguarda il dialogo interreligioso con i musulmani la questione è resa più
complessa dal fatto che il Corano parla del cristianesimo, per cui i musulmani comuni hanno
un’idea del cristianesimo, ma piuttosto sommaria e certamente non corrispondente su punti
essenziali alla fede creduta e vissuta dai cristiani.
Volendo chiarire contro ogni
relativismo le differenze tra islam e cristianesimo, il
documento passa poi in rassegna i principali punti di differenza, sviluppando tutte quelle questioni a
ragion veduta “omesse” dal documento Nostra Aetate del Vaticano II – su cui aveva richiamato già
l’attenzione il card. Martini, senza però svilupparle.
In questo senso, sul piano dei contenuti, i due documenti non sono così dissonanti, anche se
diverso è il “tono” e l’enfasi data ai diversi punti. Dopo dieci anni i vescovi emiliani credono
importante rinsaldare la fede dei cristiani chiarendola sul piano dottrinale, ribadendo la complessità
del processo di integrazione e richiamando le responsabilità della classe politica rispetto ad esso a
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fronte di una disattenzione e di un relativismo serpeggiante (che mette in crisi lo stesso processo di
integrazione, che va voluto e guidato).
Al di là del tono talora poco sfumato, le preoccupazioni espresse dai vescovi emiliani non
sono peregrine, e non fanno che mettere in evidenza dei nodi realmente esistenti, su cui si sono
presi l’onere di non tacere.
Non si può però passare sotto silenzio un limite del documento, che è l’asserzione
eccessivamente lapidaria per cui “le comunità musulmane non vogliono integrarsi”. Questa
asserzione non rispecchia la realtà, che è assai più complessa. Se è vero che vi sono resistenze
all’integrazione in taluni settori (spesso identificabili con il mondo delle moschee), è invece vero
che la gran parte della popolazione sembra mostrare una disponibilità di fondo, che cresce con le
generazioni giovani (anche in connessione con una maggiore individualizzazione della scelta
religiosa). Tale disponibilità è la base per sviluppare il processo di integrazione che va gestito e
promosso tenendo conto degli aspetti problematici legati alle resistenze di alcuni settori (ecco
perché occorre gestire il mondo delle moschee in modo intelligente).
Il documento di Martini, tra i vari punti presi in esame, aveva anche richiamato
l’interrogativo inerente quale visione occorre avere dell’islam sul piano religioso. La risposta
proposta da Martini era stata decisamente stringata anche se formulata in modo positivo (“l’islam ha
aiutato a dare a Dio un culto onesto”). E’ questo d’altra parte un interrogativo assai impegnativo,
rispetto al quale viene chiamata in causa in primo luogo la teologia e la sua riflessione critica
sviluppata nell’ambito della teologia delle religioni. E’ d’altra parte un interrogativo assai antico per
la chiesa: la risposta tradizionale data nell’antichità vedeva nell’islam una sorta di eresia del
cristianesimo. L’islam sarebbe cioè nato in seguito a contatti storicamente avuti da Maometto con
cristiani ed ebrei, grazie ai quali avrebbe avuto un’esperienza religiosa da lui riconosciuta come
“nuova” ed elaborata in quella nuova religione che è l’ “islam”.
La teologia contemporanea offre risposte diversificate sulla questione: Claude Jeffré è
l’unico che arrivi a parlare di Maometto come portatore di una vera profezia (ovvero dotato di un
carisma profetico datogli direttamente da Dio per fondare una nuova religione), senza per altro
fondare completamente le sue asserzioni. Jaques Dupuis cita Jeffré senza prendere posizione diretta
in proposito, ma si limita a parlare di profezia in modo “analogico”: si tratterebbe cioè nel caso di
Maometto (al pari di altri fondatori di religioni) di un’esperienza religiosa autentica ma parziale,
che rinvia in ogni caso – per trovare il proprio compimento – alla rivelazione e salvezza cristiana.
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Altri teologi pur accettando l’idea di un’esperienza religiosa autentica di Maometto, la
mettono in relazione alle religioni storicamente da lui conosciute, e da lui rielaborate e semplificate,
e non accettano che si parli di “carisma profetico”. Alcuni vedono nell’esperienza religiosa di
Maometto un percorso che arriva a una comprensione di Dio cui si giunge attraverso la rivelazione
naturale (con i pregi e i limiti della rivelazione naturale stessa: Dio è uno, trascendente, creatore,
retributore, ma non si coglie l’identità interiore di Dio espressa invece nella rivelazione
propriamente detta ebraica e cristiana). Queste diverse teorie sono sufficienti a giustificare il fatto
che nell’isla m vi siano valori positivi e che attraverso di esso si possa offrire a Dio un culto onesto.
Nello stesso tempo però tutte sottolineano la “disparità” sul piano della rivelazione tra cristianesimo
(ed ebraismo) da un lato e l’islam e le altre religioni (in cui vi sono elementi di santità e verità, ma
anche errori) dall’altro, e non riconoscono il valore profetico di Maometto (perché quest’ultimo
smentisce la rivelazione cristiana su una serie importante di punti e opera una forte “riduzione”
rispetto alla ricchezza della rivelazione compiutasi in Cristo ).
Molti teologi ritengono che l’esperienza religiosa di Maometto, pur dotata di elementi di
autenticità nel suo stadio iniziale, sia stata però fortemente condizionata dal contesto storico e in
qualche modo depotenziata dall’assunzione da parte di Maometto della carica politica e militare, da
cui deriverebbero i molti elementi non condivisibili esistenti nell’islam.
E’ interessante che un argomento senz’altro centrale, ma anche delicato, come questo sia
diventato l’oggetto di un documento della Conferenza Episcopale Siciliana pubblicato nel 2004,
intitolato significativamente: Per un discernimento cristiano dell’islam.
In primo luogo vale la pena rilevare che si tratta del primo documento sull’argomento che
vede una Facoltà Teologica italiana impegnata direttamente su richiesta della Conferenza
Episcopale della Regione. E’ senz’altro questo il segno positivo di una collaborazione feconda tra
teologia e pastorale, tra teologi e vescovi, che rende concreta l’istanza più volte ribadita nell’ambito
del Progetto Culturale promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana: promuovere la
collaborazione tra teologia e pastorale, la cui utilità è innegabile in tutti i campi, ma che sul tema dei
rapporti interreligiosi appare come imprescindibile per la stessa novità e delicatezza dell’argomento.
Manca infatti in Italia e nei paesi europei un’esperienza consolidata di rapporti interreligiosi, e
questi non si possono costruire tramite improvvisazioni o opzioni unilaterali di tipo caritativosociale. I rapporti con le altri religioni per essere sviluppati in modo adeguato e fecondo, implicano
infatti un rapporto sereno e saldo con la propria fede e la propria identità religiosa, a partire dalla
quale si entra in relazione e in dia logo con gli altri. Tale consapevolezza personale e comunitaria
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della fede cristiana è dunque la base imprescindibile per la fecondità e la verità di ogni relazione tra
cristiani e membri delle diverse tradizioni religiose.
E’ questo anche il punto di partenza del documento redatto dalla Facoltà Teologica di
Sicilia, che richiamando la necessità di tale consapevolezza della propria identità di fede, afferma
l’urgenza di un discernimento cristiano dell’islam come base ineludibile per affrontare il dialogo.
Parlare di discernimento significa mettere l’accento sulla conoscenza, ma anche sull’elaborazione di
un giudizio sull’islam che parta dalla verità della fede cristiana, che per il credente costituisce il
riferimento fondamentale per elaborare una conoscenza critica della realtà, inclusa la conoscenza
delle altre religioni. Il discernimento non sostituisce, e tanto meno cancella, il dialogo interreligioso
con i musulmani, ma offre al cristiano che vi si impegna un quadro interpretativo dell’islam,
necessario per porsi nell’atteggiamento più corretto verso l’interlocutore.
Il documento Per un discernimento cristiano dell’islam si presenta suddiviso in tre parti: la
prima, prevalentemente descrittiva, definisce il contesto da cui la riflessione prende l’avvio, ovvero
il fenomeno delle migrazioni internazionali che coinvolge l’Italia e la Sicilia, e la conseguente
presenza dell’islam nel nostro paese. La seconda parte focalizza la sua analisi su alcune proposte di
discernimento cristiano dell’islam, esaminando in particolare il possibile statuto teologico
dell’islam da un lato, e i problemi posti dalla dimensione giuridica musulmana – la cui importanza è
centrale per l’islam – in rapporto non solo ai valori cristiani, ma anche ai valori condivisi nelle
società europee concretizzati negli ordinamenti degli stati. Infine la terza parte è dedicata a
prospettive nettamente pastorali, in cui si presentano diverse tipologie di dialogo interreligioso,
l’esperienza secolare delle chiese cristiane in terra musulmana nei rapporti con l’islam, e una serie
di suggerimenti pastorali per affrontare alcune situazioni correnti.
Il documento ha il pregio di proporre un corretto passaggio ermeneutico: si analizza il
contesto, si elabora un discernimento su di esso attingendo sia alla teologia cristiana sia alla
conoscenza della dottrina islamica, per passare infine alle applicazioni pastorali concrete.
Data l’esigenza di produrre un documento agile, il modo di affrontare gli argomenti è molto
sintetico, il che rende talvolta difficile per i non addetti ai lavori cogliere la complessità delle
questioni rispetto alle quali ci si pronuncia. E’ questo ad esempio il caso della teologia delle
religioni, chiamata in questione quando il documento prende posizione contro interpretazioni
teologiche che propongono di vedere nell’operato di Muhammad (Maometto) una qualche forma di
analogia con il carisma dei profeti biblici. Il documento sottolinea invece come la missione di
Muhammad non appartenga “alla fase costitutiva della rivelazione biblico-cristiana, né ha alcuna
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relazione con la funzione ufficialmente esplicativa della verità rivelata o con la sua interpretazione
spirituale”. Se è vero che alcune verità dell’islam sono compatibili con la fede cristiana, queste
potrebbero essere interpretate come “conferme extra-canoniche della rivelazione cristiana,
evidenziando una limitata missione spirituale di Muhammad”. Il discernimento teologico qui
sinteticamente offerto è di grande interesse: se ne coglie però la reale portata solo se inserito
nell’ampio contesto dell’attuale riflessione e dibattito inerente la teologia delle religioni, che
ovviamente nel documento sono sottintesi. Questo punto merita tuttavia di essere valorizzato e
costituisce la reale novità del documento: rende infatti evidente la necessità della teologia – della
riflessione teologica – per sviluppare correttamente il dialogo con le altre religioni. Quest’ultimo
non può essere ridotto a un aspetto puramente pratico, ma deve continuamente essere guidato dalla
luce della rivelazione biblico-cristiana che nutre la fede e i comportamenti dei credenti, e dunque ha
molto da dire sullo statuto delle altre religioni e sui valori che esse propongono e vivono.
L’obiettivo è sviluppare rapporti franchi e positivi, che superino eventuali conflittualità, ma che non
scadano nel sincretismo o in un buonismo superficiale. Per la dottrina della chiesa parte sostanziale
del dialogo rimane infatti sempre la testimonianza della propria fede.
A queste riflessioni di indubbia novità in Italia per la chiarezza con cui vengono espresse,
seguono una serie di indicazioni pastorali che di per sé ribadiscono raccomandazioni già note: tra
queste la prudenza e la chiarezza nell’organizzare preghiere comuni, in cui ogni confessione deve
pregare nel proprio modo peculiare senza commistioni; il divieto di concedere locali ad uso
pastorale per farne luoghi di culto o di attività per i musulmani; la prudenza rispetto ai matrimoni
misti. Si potrebbero sollevare alcune obiezioni laddove si invoca una prudenza forse eccessiva
quando si accenna a richieste di battesimo da parte di persone musulmane: questo aspetto così
delicato è trattato quasi di sfuggita e inserito nel contesto dei rischi di proselitismo cui possono
essere esposti cattolici in situazione di crisi, che magari entrano in contatto con organismi
musulmani o stipulano un matrimonio misto. L’indicazione che sembra di cogliere nei riguardi dei
musulmani che chiedessero il battesimo è di considerarli “persone in crisi”, da rimandare “alle
competenti autorità spirituali delle loro organizzazioni religiose, in attesa di chiarimenti
indispensabili”. Questa indicazione sembra insufficiente: essa infatti non prende in dovuta
considerazione né la complessità e profondità di motivi che possono portate un musulmano verso la
fede cristiana, né tiene conto della visione negativa che l’islam ha del cambiamento di religione e
delle conseguenze giuridiche e sociali che esso comporta (delitto di apostasia); per questi ultimi
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motivi il rimando alla autorità musulmana competente è quanto meno ingenuo, in realtà addirittura
pericoloso per i musulmani eventualmente attirati dal cristianesimo.
Credo che l’esame di questi documenti mostri come l’attenzione della chiesa alle relazioni
islamo-cristiane si sia sviluppata e si stia sviluppando in modo cosciente e capace di cogliere la
complessità posta dal dialogo stesso. La consapevolezza di questa complessità ha dato origine
all’approfondimento delle diverse questioni, non, per ora in maniera collegiale a livello di CEI, ma
a livello di singoli vescovi e di conferenze episcopali regionali in dialogo con le altre istanze
ecclesiali, espresse a livello locale da un lato, a livello internazionale dall’altro.
Sul piano concreto vale la pena di ricordare iniziative pastorali che costituiscono spazi di
dialogo: es. la presenza di giovani di origine musulmana negli oratori (frequente nelle città), nello
scoutismo; in Italia non si è ancora posta la presenza nelle scuole cattoliche. Si sono anche stabiliti
divieti, come quelli di concedere l’uso di locali per il culto, perché questo non è competenza della
chiesa, che deve utilizzare le strutture pastorali per la propria missione (indurrebbe al relativismo e
sarebbe interpretata dai musulmani come segno di debolezza).
4. Il coinvolgimento dei musulmani nel dialogo
Da parte musulmana in generale è mancata una teorizzazione generale del dialogo e una
istituzionalizzazione di esso. Se ne lamentava il noto storico tunisino Mohammed Talbi, che del
dialogo islamo-cristiano è stato un grande promotore. In genere le istituzioni islamiche ufficiali
internazionali sono piuttosto tiepide a riguardo, anche se la loro attenzione è cresciuta dopo l’11
settembre. Non bisogna dimenticare che il terrorismo islamico rappresenta comunque un grande
problema interno per il mondo musulmano.
A livello internazionale molto spesso sono gli organismi missionari – deputati alla dawa – a
interessarsi di dialogo. Equesto è vero per la Dawa libica, è vero per la Società per la Dawa,
organismo interno alla Organizzazione della Conferenza Islamica. Anche in Iran il dialogo è gestito
dalla Organization for Islamic Comunication and Information, che si occupa di attività di sostegno
alla diaspora islamica. Nello stesso tempo alcuni stati, incluso l’Iran, hanno sponsorizzato il dialogo
tra civiltà e fra religioni, vedendolo come un nuovo modo di elaborare relazioni internazionali.
Tutto questo è positivo, ma mostra come il dialogo sia visto soprattutto nella sua valenza etico21
socio-politica (anche se con rimando alla religione, come è tipico nell’islam), ma non tocchi ancora
temi più prettamente teologici o affini (come i criteri per intepretare i testi sacri, ecc.). Da parte
musulmana le iniziative di dialogo vedono coinvolti spesso diplomatici e rappresentanti delle
istituzioni statali, dando origine a una sorta di asimmetria: da una parte teologi o accademici
cristiani specialisti in altre discipline, dall’altra parte teologi ma soprattutto “politici” rappresentanti
dell’islam (segno del diverso rapporto tra religione e politica). Un pericolo da evitare è poi che il
dialogo interreligioso venga inteso da parte musulmana come uno strumento per attuare un fronte
comune contro l’”ateismo”, e venga quindi caricato di una finalità “oppositiva” nei riguardi di
ambienti o modi di pensare non religiosi o semplicemente “laici” (nel senso non laicista del
termine), spesso senza riconoscere la dovuta autonomia delle diverse sfere della vita individuale e
associata.
In Europa esistono esperienze interessanti di dialogo islamo-cristiano di altro tipo, che
esprimono in interesse più prettamente religioso: ad es. il Groupe de Recherche Islamo-Chretien
(GRIC) composto da teologi e scienziati musulmani e cristiani. E’ un organismo di tipo associativo,
non politicizzato, che opera sul piano culturale, con il metodo di studiare insieme questioni di
comune interesse a partire dalle prospettive islamica e cristiana.
In Italia le iniziative di dialogo interreligioso attivate direttamente in ambito musulmano
sono rare: è impegnata in questa prospettiva la COREIS, ma con la prospettiva specifica cui si è già
accennato: propone cioè un paradigma di dialogo fondato sull’esistenza della “religio perennis” che
attraverserebbe le esperienze religiose dell’umanità e troverebbe le sue forme storiche di
espressione nelle religioni monoteistiche, di cui l’islam costituisce la forma più compiuta e il
culmine. Come si diceva questa prospettiva crea delle difficoltà ad essere accettata sia in ambito
musulmano sia in ambito cristiano, senza per questo volere nulla togliere alla retta intenzione dei
suoi promotori. Forse un aspetto interessante da toccare nella riflessione islamo-cristiana futura con
questa corrente potrebbe essere proprio quello di definire quale paradigma di dialogo si possa
condividere per chiarificare i termini del problema e avere un quadro condiviso in cui situare i vari
momenti del dialogo stesso.
Come si è detto sopra anche l’Associazione dei Giovani Musulmani mette il dialogo
interreligioso nel proprio progetto: il 22 aprile 2003 a Marina di Massa l’Associazione ha
organizzato nel corso dell’incontro nazionale di primavera la tavola rotonda “Religioni per il
dialogo”, cui sono stati invitati un prete cattolico incaricato per il dialogo nella diocesi di Massa e
Carrara e due giovani responsabili dell’Azione cattolica locale. L’iniziativa è senz’altro da valutare
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in termini positivi, ma il modo con cui si è svolta ed è stata accolta dalla platea giovanile, ha reso
consapevoli gli stessi responsabili dell’Associazione quanto il tema del dialogo interreligioso sia
importante e insieme delicato, ed esiga per essere efficace un lavoro preparatorio approfondito a
livello locale.
Non bisogna infatti dimenticare che se in ambito cattolico possono esisistere pregiudizi e
zelo disinformato, queste precomprensioni negative sono assai più diffuse in ambito musulmano. La
ragione di questo, come si diceva, è che per un verso il Corano offre una lettura determinata del
cristianesimo,
pronuncia un giudizio riduttivo nei suoi confronti e propone norme e principi
giuridici per regolare i rapporti con i non musulmani (cristiani e ebrei: tollerati, ma in regime di
chiara subalternità). Questa lettura costituisce un retroterra secolare di precomprensione del
cristianesimo, cui non sfugge la maggior parte dei musulmani contemporanei. Per l’altro verso sia
l’insegnamento delle Facoltà di teologia islamiche sia la predicazione corrente nelle moschee di
molti stati musulmani e anche in molte moschee di Europa e di Italia ripropone una lettura
apologetica e negativa del cristianesimo e dei cristiani, talora con toni accesi quando si mescola a
temi politici. Tutto questo naturalmente influisce sulla comprensione comune dei musulmani anche
in Europa e in Italia, e non rappresenta né un contributo a sviluppare un rapporto positivo con
l’”alterità” né una precondizione favorevole al dialogo.
Per sviluppare un dialogo efficace, critico e costruttivo sul piano religioso (e non solo), non
si può non tenere conto di questo aspetto della situazione, e di questo si rendono conto in prima
persona i musulmani aperti al dialogo. Occorre quindi un’azione formativa diffusa riguardo al
cristianesimo e al dialogo, di cui gli organismi musulmani stessi dovrebbero farsi promotori
(cercando le dovute collaborazioni: proprio su questo potrebbe svilupparsi un percorso di dialogo
efficace e concreto). A questo aspetto gli organismi musulmani in Italia non sembrano ancora dare
la dovuta importanza. Non può non suscitare legittimi interrogativi a questo proposito, che neppure
la moschea di Roma e il centro culturale annesso – che sono l’unico ente islamico giuridicamente
riconosciuto dallo stato italiano – abbiano mai istituzionalizzato un’attività di dialogo interreligioso
e, soprattutto, di formazione ad esso, il che probabilmente esprime una posizione non casuale.
Ancora Talbi si lamentava di come nei paesi musulmani si studi poco o per niente il cristianesimo
(non esistono per lo più cattedre universitarie sull’argomento) a differenza di quanto sia avvenuto e
avvenga in Europa riguardo all’islam, e questa situazione tende a riprodursi per ora
nell’emigrazione.
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Potremmo dire che fino ad ora gli organismi musulmani sono stati interessati a sviluppare
rapporti con le istituzioni pubbliche a livello locale e nazionale più che con la chiesa in se stessa
(intesa come comunità ecclesiale nelle sue varie espressioni), anche se in diversi casi utilizzano
anche i rapporti in atto con responsabili cattolici per raggiungere i propri obiettivi in rapporto alle
istituzioni. Sarebbe invece importante diffondere una formazione al dialogo interreligioso e alla
conoscenza del cristianesimo (in parallelo alla conoscenza dei valori culturali civili propri dell’Italia
e del suo ordinamento) come dimensione importante per un processo di integrazione efficace. Su
questo gli imam e i vari organismi musulmani, nonché le ancora ridotte espressioni di un nascente
associazionismo a base musulmana dovrebbero sentirsi coinvolti e essere responsabilizzati, nella
consapevolezza che il dialogo interreligioso non può essere ridotto a uno slogan da utilizzare in
modo mediatico, ma è un percorso formativo complesso su cui impegnarsi in quanto esso
costituisce un tassello importante (accanto ad altri) per costruire un processo di integrazione nella
scoietà italiana.
Lo scarso impegno nel dialogo interreligioso finora mostrato dagli imam e dagli organismi
musulmani non esclude che, a livello locale, si abbiano talora, di converso, segni individuali di
apertura disarmante: come l’imam di Colle Val d’Elsa che nel settembre scorso ha invitato il
parroco a celebrare la messa in moschea…: intento buono, ma espresso tramite un atto da evitare sia
per rispetto alla messa sia per rispetto alla religione musulmana. Oppure un maestro sufi pakistano
operante nel vercellese, che propone immediatamente ai cristiani di pregare insieme con la tecnica
del dhikr: apertura bella, ma che non tiene conto della diversità delle religioni e della necessità di
garantire un vissuto religioso serio, che non scada, contro l’intenzione del maestro stesso, in
sincretismo o riduzioni folkloristiche di atti importanti. Questi esempi non fanno che confermare
l’esigenza di diffondere una formazione culturale seria e teologicamente fondata perché il dialogo
possa svilupparsi in modo corretto.
Osservazioni conclusive.
La lettura della situazione italiana permette di dire che si stanno creando i presupposti
perchè le relazioni islamo-cristiane possano svilupparsi in modo tendenzialmente positivo. A questo
sta dando un apporto significativo l’azione pastorale e teologica della chiesa cattolica, che ha scelto
la linea del dialogo pur vedendolo e proponendolo come dialogo critico e, proprio per questo,
costruttivo, consapevole dei molti problemi che emergono nei rapporti con l’islam. Questo non
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significa che la chiesa italiana costituisca un fronte compatto: data la pluralità dei suoi componenti
(associazioni, parrocchie, commissioni, movimenti, ecc.) le opzioni teoriche e le linee concrete di
azione possono presentare diversità anche notevoli: possono verificarsi irrigidimenti, ma anche
cedimenti verso letture e atteggiamenti che sottovalutano la complessità delle questioni e cercano
talora soluzioni facili destinate a rivelarsi di corto respiro e, forse, dannose. In questo senso anche le
linee pastorali ufficiali che si è cercato di presentare, sono spesso rimesse in gioco non solo sul
piano locale, ma anche, talora, a livello trasversale. Il panorama è insomma più variegato e
dialettico di quanto non possa sembrare. Certamente però in quindici anni la chiesa italiana – sia
pure non ancora in forma collegiale – ha saputo elaborare linee teoriche di interpretazione e azioni
pastorali atte a porre le condizioni per lo sviluppo delle relazioni islamo-cristiane in Italia. Lo
sviluppo è, naturalmente, nel futuro davanti a noi.
Da parte musulmana, come si è detto, il coinvolgimento nel dialogo interreligioso è ancora raro, e
sembra che un’opzione più consapevole e generalizzata in questa prospettiva debba ancora maturare
e trovare espressioni concrete. In questo senso è interessante che l’Associazione dei Giovani
Musulmani lo consideri una priorità: questa scelta esprime la consapevolezza che le giovani
generazioni musulmane credenti in Italia non possono sfuggire a questa sfida insieme religiosa e
culturale, se vogliono partecipare in modo culturalmente attivo alla vita della società italiana.
Resta il fatto che il dialogo interreligioso è un tassello del più vasto processo di integrazione in cui
hanno responsabilità le diverse espressioni della società civile (tra cui le chiese e gli organismi
religiosi), ma rispetto al quale restano allo Stato precise responsabilità fondamentali in ordine alla
sua corretta promozione e gestione, tenendo conto di tutti gli aspetti problematici in gioco.
Un’islam europeo – cioè un islam compatibile con gli ordinamenti delle società europee e i principi
fondamentali della cultura europea – è ancora nel futuro. Questo futuro va però attivamente
costruito tramite politiche adeguate, che non solo valorizzino tutti gli aspetti positivi emergenti
all’interno della popolazione musulmana in Italia, ma che sappiano anche stimolare l’emergere e il
diffondersi di tali aspetti ponendo richieste specifiche, promuovendo la conoscenza diffusa degli
aspetti fondamentali della cultura politica, umanistica, religiosa in cui si esprime il patrimonio
culturale europeo e italiano. Tutto questo nel quadro di una più ampia politica di integrazione che
promuova l’integrazione economica, professionale e sociale, senza la quale il dialogo interculturale
e interreligioso sarebbero scarsamente efficaci.
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