Intervento di S.E. Mario Scialoja
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Intervento di S.E. Mario Scialoja
Seminario di studio "Dopo le guerre, il dialogo - Posizioni e prospettive per la Caritas nell’area mediorientale: Terra Santa, Iraq, Iran, Afghanistan" Roma, sede Caritas Italiana (V.le F. Baldelli, 41) 24-25 novembre 2003 Tavola rotonda: “Quale dialogo?” Intervento di S. E. Mario Scialoja Ambasciatore e direttore sezione italiana della Lega musulmana mondiale Ringrazio la Caritas innanzi tutto per quest’occasione di dialogo. Il dialogo non è più un’opzione, oggigiorno, è una necessità. Ma quale dialogo? Io sono una persona abbastanza diretta e non mi piace indulgere in buonismi o dire semplicemente buone parole, in genere, quando parlo rompo sempre le scatole a qualcuno, pesto i calli a qualcuno, ma preferisco dire pane al pane e vino al vino. Tanto pane al pane e vino al vino, che concluderò il mio intervento con un’autocritica proprio dell’Islam, per quello che riguarda la sua capacità di dialogo. Il titolo “Dopo la guerra, il dialogo” è certamente molto bello, ma, a parte che la guerra in Iraq non è finita, in Afghanistan non è finita, ci sono conflitti in corso in Cecenia, nel Kashmir, ecc.. Il dialogo è veramente uno strumento valido per risolvere i rischi e per conciliare posizioni conflittuali, per superare, insomma, ogni difficoltà? L’esperienza mi sembra che dica proprio di No. Soprattutto i conflitti internazionali, in differenti aree geografiche, di differenti etnie e di differenti religioni, o anche le guerre civili, sono dei conflitti praticamente intrattabili. Io ho passato dieci anni della mia vita di diplomatico alle Nazioni Unite tra Ginevra e New York e non ho mai visto un problema serio risolto col dialogo. Nel migliore dei casi tutto viene accantonato e confinato nell’archivio dei pericoli latenti di conflitto, nella speranza che resti archiviato a lungo e che nessun demonio venga a risvegliarlo e purtroppo oggi nel mondo di demoni ce ne sono anche troppi. Il prof. Mascia stamattina ha tenuto un discorso molto articolato sulle Nazioni Unite, sulla conciliazione internazionale e io posso sottoscrivere tutto quanto egli ha detto, anche quello che ha detto più tardi Renzo Guolo, sul conflitto mediorientale. Le Nazioni Unite non hanno mai funzionato, perché i suoi partners più potenti, ad incominciare dagli Stati Uniti, non hanno mai rinunciato a prendere iniziative unilaterali. Mascia stamattina lo ha spiegato abbastanza bene, io aggiungerò una cosa. Un ex Sottosegretario di Stato americano ormai morto da anni, nel 1961, durante la crisi missilistica di Cuba - lui a quell’epoca non era più sottosegretario di Stato– disse tale e quale, e una sua affermazione fu ripresa da tutta la stampa americana, “per gli Stati Uniti, il diritto internazionale è come una ciliegina sulla torta. Se serve ai nostri interessi lo utilizziamo e ci atteniamo alle sue regole, se non è favorevole ai nostri interessi noi agiremo unilateralmente.” Quindi questo gli Stati Uniti l’hanno sempre fatto, anche da prima dell’arrivo di questa sciagurata troupe di neo conservatori dell’amministrazione Bush. Per quanto riguarda il dialogo interreligioso, la questione chiaramente si pone in termini più variegati e i risultati in molti casi sono certamente e assolutamente positivi, il dialogo interreligioso può portare frutti, ma quale dialogo interreligioso. Si parla qualche volta di dialogo interreligioso, a proposito, ad esempio, delle riunioni tra esponenti di varie religioni e delle preghiere in comune di Assisi, la prima proposta dal Santo Padre nel 1986, o di riunioni analoghe. Non è difficile, in effetti, riunire rappresentanti di fede diverse per invocazioni a favore della pace o per firmare documenti che parlano della pace o del dialogo. Nessuna religione è contraria ad ideali così importanti 1 e fondamentali quali la pace. Parlando dell’Islam, basta leggere il versetto n° 13 della sura 49 che recita così: “Oh gente, vi abbiamo creato da una singola coppia di un maschio e di una femmina, ed abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché possiate conoscervi l’un l’altro e non affinché vi disprezziate, il più gradito a Dio è il più pio tra voi “. Ma il dialogo è qualcosa di più di una semplice invocazione a favore della pace, è qualcosa di molto più complesso ed impegnativo ed il discorso qui si fa più articolato, si fa diverso. Il primo intoppo che si trova negli incontri di dialogo interreligioso, parlo qui delle tre religioni monoteistiche che si rifanno al Patriarca Abramo, è la loro vocazione universale, soprattutto tra il Cristianesimo, che ha sempre perseguito una politica attiva di proselitismo e l’Islam, la cui dottrina lo vieterebbe - il Corano recita “non c’è costrizione nella religione”, oppure, in un altro versetto, parlando dell’esistenza delle varie fedi che rientrano nel disegno divino “tu prosegui per la tua via che io proseguo nella mia”, anche se alcune correnti musulmane, sappiamo bene, si dedicano al proselitismo più o meno assiduamente. Un dialogo sincero richiederebbe innanzitutto il riconoscimento che nella nostra epoca, in società sempre più multirazziali e multireligiose, ciascuno debba essere lasciato totalmente libero di scegliere in materia di fede, senza essere sottoposto a pressioni dirette o indirette, in un senso o nell’altro. È ovviamente lecito, e non è un ostacolo per il dialogo, che ciascuna religione renda noto, che comunichi il proprio messaggio, a condizione però che il singolo non sia sottoposto a pressioni, neppure di carattere psicologico, che cerchino di orientare dall’esterno una decisione che appartiene all’intimo di ciascuno di noi. Il dialogo interreligioso poi, chiaramente, deve lasciare da parte le dottrine spirituali che differenziano le tre religioni: ci sono delle differenze, altrimenti non ci sarebbero tre religioni. A mio avviso, per esempio, sono inutili i confronti che ogni tanto si fanno tra Corano e Bibbia: a Napoli alcuni anni fa si svolse un Convegno, un confronto tra il Corano e la Bibbia dove, tra l’altro, le considerazioni più serene e più obiettive sul Corano le ha fatte un Padre Bianco, padre Bormans, che è un padre del Pisai – Pontificio Istituto Studi Arabo Islamistici. Oppure inutili confronti - anche questi ogni tanto vengono fatti – sulla figura di Gesù nei Libri Sacri. Per il primo, Gesù è e resterà sempre un oscuro ebreo appena menzionato nel Talmud, per il Cristianesimo è una delle Persone della Trinità, per l’Islam è il più grande profeta dopo Mohamed, figlio di Maria Vergine, ma non è morto sulla croce, anzi, è stato assunto direttamente in Paradiso. Cosa rimane dunque per il dialogo? Moltissimo. Anzi, diciamo, quello che è essenziale per un dialogo: una grandissima varietà di cose in comune, come § la fede nello stesso Dio, § la stessa filosofia per il destino dell’umanità, vale a dire la responsabilità degli uomini e delle donne per il loro comportamento nella vita terrena, § la risurrezione della carne, il Giudizio Universale, ove ciascuno di noi sarà giudicato in base a quello che ha fatto, § infine, una quantità enorme di posizioni identiche o comparabili, su questioni etiche, sociali, o sui cosiddetti problemi globali, che affliggono il mondo d’oggi: lo sfruttamento, la lotta alla povertà, il suicidio assistito, la clonazione. Ci sono tanti argomenti dove le tre relig ioni hanno le stesse posizioni e, se si mettessero d’accordo su dichiarazioni comuni, forse potrebbero lottare contro il secolarismo strisciante che affligge oggi la civiltà occidentale. Perché quindi il dialogo non parte veramente, perché tutte le riunioni, anche quelle ben organizzate e molto meritorie, come le iniziative delle conferenze internazionali convocate dalla Comunità di S. Egidio, cui ho partecipato e continuo a partecipare normalmente, l’ultima ha avuto luogo all’inizio di settembre ad Aachen in Germania. Conferenze dunque che producono appelli nobilissimi alla pace e al dialogo, splendidamente redatti, firmati da tutti, li ho firmati anch’io, ma che non contengono in realtà nulla di concreto. Non si potrebbe arrivare appunto a dichiarazioni congiunte, dicevo, su problemi specifici? Il fatto è che le religioni oggi sono vittime più che mai delle rivalità, delle controversie politiche, dei conflitti che dividono l’umanità. 2 Il conflitto palestino-israeliano, per esempio, che fondamentalmente è di natura territoriale, riveste purtroppo indubbie e pesanti connotazioni religiose: il ritorno alla Terra Promessa e per una minoranza degli ortodossi israeliani la ricostruzione del Tempio da un lato, la tutela della spianata delle moschee dall’altro, per non parlare degli interessi dei Cristiani in Terra Santa, che sono violati continuamente. È appena il caso di ricordare che tale conflitto, il conflitto israelo-palestinese, ha messo fine a circa 1.300 anni di pacifica convivenza tra musulmani ed ebrei. Gli ebrei non sono stati mai perseguitati dall’Islam. Prima dello scoppio del conflitto arabo-israeliano, per esempio, nei paesi arabi dell’Africa del Nord, vivevano 500 o 600.000 ebrei, circa 200.000 solo nel Marocco. Oggi non ne è rimasto più quasi nessuno. La maggioranza sono emigrati in Israele, altri sono andati dal Marocco in Francia o in altri paesi. Altri conflitti, a parte quello palestinese-israeliano, che certamente è il più doloroso, il più difficile, il più intrattabile, altri conflitti vedono musulmani e fedeli di altre religioni al confronto, ma non coinvolgono la religione, se non in minima parte e purtroppo tornano puntualmente all’ordine del giorno ad ogni occasione di dialogo. Così è per la guerra in corso da decenni nel sud del Sudan, che vede perseguitate, e dolorosamente perseguitate, le minoranze etniche di religione cristiana, che però non è un conflitto veramente religioso, è un conflitto etnico in conseguenza dei confini artificiali lasciati dall’epoca coloniale. Nel Governo sudanese attuale, quattro ministri sono cristiani, inclusi – qui non vorrei sbagliarmi perché la notizia è vecchia di circa un anno – il ministro dell’Aviazione e il ministro del Lavoro, che sono due ministeri importanti. Lo stesso si può dire per Timor Est, che non è un conflitto religioso; nel Kashmir, dove sono perseguitati i musulmani, la religione non sta alla base del conflitto. Ugualmente in Cecenia, che è teatro ogni 50 anni di stragi e di massacri spaventosi o di deportazioni in Siberia, come aveva fatto una volta Stalin. Lo stesso si può dire anche evidentemente, nel conflitto nell’Ulster, a Belfast, tra cattolici e protestanti, non è certamente un conflitto tra religioni, è un conflitto puramente politico. Eppure ad ogni occasione, ad ogni incontro, diciamo, di carattere interreligioso, accuse reciproche, o quantomeno accenni polemici, risorgono quasi puntualmente. E questo naturalmente non giova, non giova affatto all’approfondimento di un sincero e aperto dialogo interreligioso. Non mi dilungo troppo e vorrei arrivare a quell’autocritica dell’Islam che ho annunziato all’inizio. L’Islam, come è noto, non ha un’autorità centrale, non ha un Vaticano, non ha un’autorità religiosa in grado di dettare norme o interpretazioni della dottrina valide per tutti. È in sostanza una religione individualista: ciascuno può interpretare il Corano o la Sunna – la Sunna è il racconto della vita del Profeta e i suoi detti – ciascuno può interpretare il Corano e la Sunna a suo piacimento, o seguire l’interpretazione che più gli aggrada. Di conseguenza, l’Islam non è una religione praticata allo stesso modo dappertutto e i musulmani sono tanti. Se gli ebrei sono 12 milioni, ebrei rimasti oggi nel mondo dopo l’olocausto, i musulmani sono cento volte di più. Il miliardo e duecento milioni, più o meno calcoliamo così, di musulmani che vivono nel mondo, vivono in 54 paesi diversissimi fra loro per storia, cultura e tradizioni, tradizioni anche religiose. Per di più nella maggioranza di tali paesi la religione è ancora pesantemente influenzata dalla politica. Oggi, quindi, le scuole di pensiero islamiche sono estremamente diverse tra loro, dalle più tradizionaliste, se non addirittura bigotte, a fondamentalismi ostili all’occidente, alle correnti più moderniste di chi afferma, ad esempio, come ha affermato un professore marocchino, il prof. Filani che venne invitato per una conferenza a Roma due anni fa dal Pontificio Istituto di Studi Arabi o Islamistici, e perfino chi afferma, e non sono pochi, che anche alcune parti del Corano, quelle che trattano di questioni sociali e giuridiche, le cosiddette “sure medinesi”, quelle più tarde, possono oggi essere considerate non vincolanti, perché le condizioni della società oggi sono radicalmente mutate rispetto alle condizioni della società all’epoca della rivelazione del Corano. Quindi nel Corano, per queste correnti moderniste, restano pienamente valide le “sure meccane” rivelate alla Mecca – che tra l’altro non era nella dottrina della religione – che sono chiaramente per 3 noi musulmani la parola di Dio eterna ed immutabile, ma tutte le norme di carattere giuridico e sociale possono essere anche adattate all’epoca in cui si vive. Cosa succede, quindi, di fronte ad un panorama così diversificato nel mondo islamico e di fronte alla mancanza di un’autorità centrale che sia in grado di fissare delle regole? Cosa succede quando una delegazione musulmana incontra una delegazione cristiana, cattolica nel caso nostro, per un’occasione di dialogo interreligioso. I cattolici hanno una dottrina ufficiale che li sostiene, i musulmani, spesso, giunti ad un certo punto, si trovano nel più grande imbarazzo e cominciano a nutrire timori di poter essere criticati da destra o da sinistra, da chi vede le cose in un modo diverso da loro e il dialogo si impantana. Mi ricordo, due o tre anni fa, un’alta, anzi, un’altissima autorità del Vaticano, mi espresse la sua sorpresa per il basso livello dei suoi interlocutori nel corso di una sua visita ad una prestigiosa istituzione culturale islamica. Probabilmente gli interlocutori di questa altissima personalità erano anche di basso livello, ma ancora più probabilmente erano bloccati da questo timore di non potersi avventurare oltre un certo punto, per paura di non essere criticati, o da un’autorità del loro paese o da altre parti del mondo islamico. Citerò un caso specifico, che si è presentato un paio di anni fa in quella che è la più alta istanza di dialogo musulmano-cattolico. L’argomento, del tutto legittimo, che fu sollevato da parte cattolica, quindi dalla parte del principale responsabile del consiglio cui appartiene mons. Akasheh, mons. Fitzgerald, era quella dell’apostasia, vale a dire della libertà di cambiare religione. Non c’è assolutamente dubbio che il Corano non pone limiti. Il Corano dice appunto che non c’è costrizione nella religione e così via. È vero che il Profeta condannò a morte un suo seguace perché era ritornato alla religione d’origine, al politeismo, perché era un apostata, ma lo condannò a morte perché quando i suoi seguaci erano 20 o 30 persone, il fatto che uno abiurasse l’Islam e tornasse nel campo del nemico equivaleva al caso di un soldato che passasse nell’esercito nemico; era un reato di carattere politico, militare. Per lo stesso motivo alcuni paesi islamici, in maniera del tutto impropria, secondo me, soprattutto i paesi islamici che hanno l’Islam come religione di Stato – l’Islam non è religione di Stato in tutti i paesi islamici (non lo è neppure in Indonesia, che è il paese che ha il maggior numero di fedeli musulmani), quindi, alcuni paesi che hanno l’Islam come religione di Stato considerano l’apostasia come un tradimento della Costituzione, quindi addirittura punibile con la pena di morte (anche se credo che la pena di morte non sia mai stata applicata). Bene, quando l’argomento dell’apostasia venne sollevato, uno o due dei membri musulmani del Comitato, cittadini dei paesi nei quali, anche se teoricamente, l’apostasia è punita, non osarono discutere l’argomento. Quindi, come vedete, gli ostacoli sono numerosi. Vengono da tutte le parti e non sono estranei all’Islam. Anzi, con spirito molto candido vi ho fatto degli esempi, credo, convincenti. Gli ostacoli da superare quindi sono molti. Cosa si deve concludere: che il dialogo è un esercizio futile? Sicuramente no, ogni occasione di dialogo deve essere colta, gli incontri tra esponenti di religioni diverse, anche se non producono immediatamente dei frutti concreti, sono sempre utili. Costituiscono quelli che in linguaggio diplomatico vengono detti “confidence building measures”, vale a dire come occasioni per stabilire un clima di fiducia reciproca. È quindi un’opera che va proseguita, instancabilmente e senza esitazioni, perché, come dicevo prima, il dialogo oggi non è un’opzione, ma è una necessità. Conoscersi è una necessità, è una necessità il disperdere la nebbia del timore dell’altro, quando l’altro è visto come un nemico. All’età della pietra gli uomini si difendevano mettendo pietre di fronte all’entrata della caverna, dopo ci furono le palizzate intorno ai villaggi, all’epoca delle città fortificate in Medioevo c’erano cinte di mura. Oggi queste cinte di mura non ci sono più, l’umanità si muove, si passa da un paese all’altro senza la minima difficoltà. Oggi quindi bisogna imparare a non aver paura dell’altro, bisogna imparare ad avere un dialogo sincero nella reciproca conoscenza. 4