Mots d`amour - Autori Online

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Mots d`amour - Autori Online
Bianca Maria Simeoni
Mots d’amour
Prefazione di Giorgio Albertazzi
Postfazione di Corrado Calabrò
ESTRATTO
PER L’EDIZIONE ELETTRONICA
a
Poesia
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Dove ritorni dopo l’amore?
Dove diffondi l’oro sconosciuto?
Corre un brivido, l’istante è deciso
nello stupore del tempo che si compie.
B.M.S.
PREFAZIONE
di Giorgio Albertazzi
Avevo già letto “Verso Dove” di Bianca Maria
Simeoni, che era la sua silloge d’esordio. Mi
aveva colpito l’ardore esplorante dei suoi versi,
la voglia di cogliere oltre la parola scritta il significante erotico – che è tempo che si frappone,
spazio da occupare, appunto, da esplorare –
Corri da me
prima che sia tardi
ed io persa
una poesia spesso “urlata”, mai dimessa.
Questa nuova silloge, “Mots d’amour” (mai titolo fu
più appropriato!), è ancora più amore concreto e,
direi, fatale: c’è un segno di fatalità nella poesia di
Bianca Maria che reinterpreta così il nucleo dell’animus romantico classico: qui sorriso, mani,
carnalità s’intrecciano combinandosi in una stesura di rimandi tonali di aritmiche scansioni:
Ridatemi quel balsamo
versato sui tormenti
e le mani sulle carni docili
a indovinarmi l’anima
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Amore nei “pensieri pazzi”, ma anche nelle mani
– dominante e insinuante feticcio del suo “sentire” – e nella memoria:
e ancora
C’è tanta immobilità
nella memoria
Quali vie segue la memoria
se spazza via la parabola più bella
E ci sono parole, che suonano nel verso della
Simeoni, come “nudo” “desiderio” “pelle” – un
turbine di shock – che si collocano con amore in
un sereno acquisito stato di godimento estetico.
Poesia, insomma, e poeta è Bianca Maria Simeoni.
Che poi, per dirla con Leonard Cohen, i poeti non
siano più di moda, è altro discorrere, altre voci e
altre contrade. Quella di Bianca Maria ci affascina.
Giorgio Albertazzi
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UNA
POETESSA D’AMORE
PER ECCELLENZA DI STILE
di Maria Luisa Spaziani
Nella marea dei versi che m’investe quasi quotidianamente, navigo talvolta con piacere ma il più
delle volte con sopportazione del déjà vu. Soprattutto nel caso della poesia d’amore dopo circa tremila anni la cosa è inevitabile, ma Goethe ci
avverte che se tutto è già stato detto anche nelle
sfumature dei sentimenti, i poeti hanno il dovere
di andare imperterriti per la loro strada, di non lasciarsi impressionare, perché comunque anche la
ripetizione ha i suoi valori. La mia vela che solca
quella marea senza incontrare ostacoli in acque
più o meno conosciute, talvolta si imbatte in uno
scoglietto. Un sobbalzo: forse la terraferma è vicina? Forse quella piccola originalità, quel piccolo
scarto, quella metafora, sono il segno della presenza di un poeta nuovo?
Dalle storie e dalle leggende noi ricordiamo Didone
soltanto nelle scene dell’abbandono e del rogo. (Le
fa dire Bianca Maria Simeoni “Io mi avvicinavo tra
reti invisibili / e respiravo quel fuoco segreto / con
le mani tese nell’ombra”). Ma com’era prima Didone? Com’era stato il suo amore per Sicheo? Inutile domandarselo perché le persone felici non
hanno storia, dice un antico proverbio. La luce al
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massimo non si sa raccontare, e il germoglio, intriso di pudore, è il silenzio necessario per la crescita della pianta o del fiore, è in fase di
espressione preverbale. Così deve essere negli archetipi, nell’immaginario collettivo, nella filogenesi, se la quasi totalità delle poetesse (uso
coscientemente il femminile) canta la fine e il rimpianto di un amore memorabile.
E così è anche per Bianca Maria Simeoni, poetessa
d’amore per eccellenza di stile e unidirezionalità di
ispirazione come chiaramente indica il titolo, “Mots
d’amour”, che in francese, chissà perché, acquista
un di più di fascino sensuale: nel pronunciarlo infatti le labbra si offrono in un doppio bacio più che
in italiano.
La dominante presenza dell’amore, struggente diario del dopo, come la chiave all’inizio del pentagramma, si annuncia con i tempi dei verbi. Il
drammatico imperfetto e l’altrettanto drammatico
passato prossimo non cedono mai al presente, se
non raramente a un presente già storicizzato nella
nostalgia (“molto prima fiorivi in me”, “Ora vado con
passi esitanti […] con la bocca piena delle tue leggende / che cadono come perle su lampi di seta”,
“Ho assaporato la vertigine / di un insolito momento / profanando febbrile / l’archivio delle emozioni”, oppure ancora “L’ho imprigionato il tuo
odore selvaggio”).
L’eleganza, la raffinatezza dello stile risultano da
altre cose, anche da certi accostamenti che
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emettono scintille, o dall’uso degli aggettivi come
in “algidi fari”. E naturalmente, come nella maggioranza delle poesie d’amore di tutti i tempi, è familiare la dialettica tra la luce e l’ombra: “Finisce
il nostro incontro / come il giorno dimenticato dalla
sera”.
Vorrei sottolineare la ricchezza della metrica, che
passa con disinvoltura da un prevalente endecasillabo a un settenario talora anomalo (“il suono
delle labbra / in guerra contro l’ovvio”), fino a versi
di tredici o quattordici sillabe che si ricompongono
in una loro necessità.
Ma dopo queste citazioni, che imprigionate dalle
sbarrette si tradiscono sempre un po’ nelle loro
strutture se non nel loro senso complessivo, vorrei finire questa mia introduzione con un augurio di ogni fortuna al nuovo libro di Bianca Maria
Simeoni, lasciando nella giusta forma tipografica
cinque versi di quasi chiusura, tra l’altro significativamente disposti ad anfora come tutto il resto
del libro:
L’attesa in una gabbia di corde
con i petali del crisantemo
a eleggere un tempo immobile:
ultima illusione mutilata
come un marmo antico.
Maria Luisa Spaziani
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Mots d’amour
Dove ritorni dopo l’amore?
Dove diffondi l’oro sconosciuto?
Corre un brivido, l’istante è deciso
nello stupore del tempo che si compie.
Tanto vicine le nostre orme
tanto voraci di appetito vitale.
L’istinto rifugge la colpa
mentre dissolvi ogni paura
che lontano saetta dal tuo dono.
La tela si ravviva di colore,
intatto il pensiero non ha certezze.
Ti guardo: arte o vocazione?
Ti assaporerò nell’interezza.
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Sapevo di te prima d’incontrarti.
Ho riconosciuto i polsi unici
tra tutti gli uomini.
Ho setacciato i tuoi respiri
nella traversata del sonno
e rovesciato il fascino dell’inganno.
Ti ho scelto uccello migratore:
per la bugia, per la verità
urlata in pieno giorno.
Per la residua innocenza
che appartiene solo a un peccatore
porto addosso il bianco abbagliante
di una luce che brucia sulla fronte rugosa.
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Avrei dovuto soltanto amarti
contorcermi nel tuo nome
che ha radici lontane,
atterrare sulla virtù impura,
pianta che propaga ogni seme.
Avrei dovuto spalancarmi all’universo,
territorio errante su un cratere argentato,
ramo vagabondo nel suolo scolpito.
Terra che si distende guardiana
nera, nuda, umida
spugna inzuppata dal germe.
Avrei dovuto inghiottirne le fiamme.
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Investire la vita. E saperlo.
Il guizzo veloce che ottura le crepe
e le maschere manda in frantumi.
Invade di colpo. E poi abbandona.
Una supplica, quell’alito di salvezza,
sfuma dal limbo intollerabile
e accende il fuoco del contatto
lacerando ogni sottile ragnatela.
Il miracolo non dura. Ma si ripete.
Ribattezza la notte lasciandola a metà.
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Ridatemi il suo sguardo
che perquisiva i seni nudi;
il suono delle labbra
in guerra contro l’ovvio;
le incisioni delicatissime del volto
a inseguire una fugace verità.
Ridatemi quel balsamo
versato sui tormenti
e le mani sulle carni docili
a indovinarmi l’anima.
Più non odo la promessa senza fine
stordita dalla nera cavità
di un silenzio inappellabile.
E barcollo su sabbie incerte
senza più il rumore dei suoi passi
a carpirmi ogni segreto.
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Viaggiatrice inconsapevole
d’una nebbia d’estate
ho trovato una strada e le tue risa.
Il tuo volto si dilata
nella riva del silenzio
e non trovo scampo
che su un’isola neonata,
urna vuota d’avvenire.
Ora rammento:
il tuo sguardo se ne va,
abisso blu curvo sul mondo.
Io ti portavo la mia voce
di desiderio impaziente
e i sogni spremevo
per farne uscire il succo.
Tu tremavi tra venti inauditi,
ombra stesa sotto i piedi della bellezza.
L’assenza spalanca le finestre
senza illusioni.
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Taciturno, prepari alle guerre.
E gravide di vibrazioni impietose
germinano le prime attese.
Sei tu che fronteggi la pace
nobile com’è nobile il silenzio
ingovernabile come le emozioni.
Sei tu che non mi tieni
eroe dell’anima piena,
del vuoto incompiuto:
la grandezza o il nulla.
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Il tuo profilo che s’incurvava appena
sul corpo incatenato da esili fili
a placare i fremiti dei nervi.
Il bisogno d’accecarsi, di perdersi.
Le mie labbra ora mercenarie
vagano a cercare altri sapori
e aspirano la tua bocca
ovunque posta in agguato.
Altri occhi: occhi ciechi, occhi d’ombra
nel respiro d’un tempo lontano,
pena d’indefiniti desideri.
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Attraverso impavida questo scontro vitale
penetrando l’uragano dello spirito.
Consegno tutti i moti al mio destino,
voli impossibili nella mente sparsi.
La prima volta ha velato i miraggi:
io mi avvicinavo tra reti invisibili
e respiravo quel fuoco segreto
con le mani tese nell’ombra.
Tu, unico nei miei pensieri pazzi,
odorosa conchiglia cresciuta nel mare
mezzaluna provenzale
dorata sotto il sole.
I nostri cuori aperti ancora
alla lucida fugacità del giorno.
E in un attimo impensato, il sapere:
febbre dei nostri silenzi.
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Vorrei i tuoi piedi da baciare
per mettere la vita nelle parole.
Dune di sabbia da manipolare,
uragani storditi con cui cavalcare
promesse e chimere.
Occhi di cenere si attardano
sui tuoi piedi nudi
caduti a terra senza residui.
Segni odorosi di passeggeri stupiti
macerati al sole: stravaganti naufraghi.
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POSTFAZIONE
di Corrado Calabrò
Racconta Platone che in principio gli uomini erano
l’uno e l’altro (αµφοτεροι). Un giorno Zeus, volendo
castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in
due. Da allora ciascuno di noi è il simbolo di un
uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo
corrispondente. Per curare questa lacerazione
Zeus inviò Amore, colui che cerca di medicare
l’umana natura riconducendola all’antica condizione, cercando cioè di fare uno di ciò ch’è due.
Da allora gli uomini, le donne, cercano la parte di
cui avvertono oscuramente la mancanza, come si
sente il dolore dell’arto amputato. Una parte in sé
irraggiungibile, che ci sfugge nella sua valenza ultima per quanto l’inseguiamo, potendo solo avvicinarci ad essa asintoticamente.
È il mistero dell’altro-da-sé col quale vogliamo immedesimarci. Solo la tensione verso il contatto con
l’altro consente di sospendere quel circuito dell’identico in cui si risolve la vita individuale.
La poesia di Bianca Maria Simeoni si torce per lo
spasimo d’amore nelle viscere d’un giovane corpo
impaziente.
Ha scritto Rainer M. Rilke (Lettera a un giovane
poeta) che “l’esperienza artistica è così incredibilmente vicina a quella sessuale, alla sua doglia, alla
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sua gioia, che i due processi sono propriamente
solo diverse forme d’una sola brama e beatitudine”. Non so se questa affermazione abbia una
valenza universale; ma essa certo s’invera totalmente nell’opera della Simeoni.
Avanza Bianca “giovane e impudica … / a offrire
un sentimento, una risonanza dell’animo” cercando
di artigliare a sé l’altro in una ricongiunzione di
corpi che faccia dei due amanti un solo essere bisessuato.
Ma – scrive ancora Platone – “gli amanti che passano la vita insieme non sanno poi dire che cosa
vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere
che solo per il commercio dei piaceri carnali essi
provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno
vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò
la esprime con vaghi presagi, come divinando da
un fondo enigmatico e buio”.
Nel momento in cui si schiude all’amore un corpo
è come se aprisse gli occhi su un altro mondo; un
mondo che guardava senza vederlo. E chi trova un
verso vero è come se avesse trovato la chiave di un
nuovo mondo. Sì, c’è in amore (e c’è in poesia) un
bisogno di assoluto, come se alla scala di Jacob si
aggiungessero sempre nuovi gradini in funzione
del nostro desiderio di salire. Un impulso analogo
a quello che spinge il nuotatore ad addentrarsi in
mare aperto e l’alpinista a salire sempre più in
alto; analogo a quello che ha indotto Reinhold
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Messner a scalare, una dopo l’altra, le vette
dell’Himalaya, persino senza ossigeno.
Senonchè quelle vette possono forse essere scalate, ma su esse non si può sostare. Dalle vette si
scivola subito giù nella piattezza del quotidiano.
Gli amanti ai quali l’oceano sembrava dimensione
appena adeguata all’espansione del loro sentimento, al loro bisogno di nuovi orizzonti, ritornano
poi a riva riportando a dondolo un secchiello d’acqua. Prima o poi l’amore o finisce o si ridimensiona
nel quotidiano, vale a dire nella banalizzazione di
quel sentire; diventa routine, assuefazione dell’uno
all’altro, vale a dire reciproco adattamento di due
soggetti diversi; non compenetrazione, integrazione in un solo frutto delle due mezze arance che
un dio aveva separato all’origine e un altro dio ha
fatto sì che si ritrovassero e riconoscessero.
La poesia, tanto attesa, trascorre come un’ala e di
essa resta solo la visione confusa e inquietante
d’un sogno.
“È ciò che resta / di un’eternità che non ci appartiene. / Non c’è più amore / per la sfrontata bellezza del tempo / che nutriva la febbre / della
nostra irrequietezza”.
Una ferita aperta nella mente, una ferita aperta
nella carne. “Dicevi per sempre … / E per sempre
ho segnato con il gesso / l’asfalto per indicare quel
nome”. E allora bisogna ritentare. Cercare un
nuovo rapporto che provi nuovamente la magia
della dualità-binità. Bianca lo cerca e lo cerca
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ancora, audacemente, dichiarando di appagarsi
dell’ebbrezza di un abbraccio come altri s’attacca
alla bottiglia di whisky.
Ma la mente – implacabile – rivà a quello che poteva essere e non è stato, si protende a quello che
potrebbe essere e non è: “… Dimmi solo il sussulto
della terra / che con me hai profanato quando, /
violentando la pigrizia dell’aria, / insieme ci smarrivamo”. Un nuovo amore arriva “come un aliante
/ portato dal ritmo del vento e delle nuvole”.
Il cuore torna a palpitare, il grembo a contrarsi, la
mente a consegnarsi disillusamente a una nuova
schiavitù.
Un’attenuazione, un diversivo alla disillusione dell’effimero è la generazione di una nuova creatura
come prolungamento della compenetrazione di
due corpi. Quest’illusione non è concessa a
Bianca: “In una giornata di vento d’estate / come
marchio inciso nella carne / un dolore ha scandito:
non essere madre”. Ma non per questo Bianca non
resta ingravidata: nella mente. “L’ho imprigionato
il tuo odore selvaggio. / È nello spasimo della mia
carne / dentro le viscere impazienti / all’ombra dei
primi passi della notte”. “Bruciante il desiderio
straripa / fra cristalli di lacrime trattenute / da
mani indolenti sul ventre”. “Uomo / trattiene le
mani / pronte a tradire”.
E l’assenza fa avvertire l’immanenza dell’altro-dasé ancora più della presenza. “L’assenza spalanca
le finestre / senza illusioni”.
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Bianca vorrebbe ridimensionare la sua attesa in
un rassegnato e voluto esistenzialismo.
“Quante volte è stato detto / che niente può essere
afferrato / ma solo vissuto!”
Ma non riesce a ricordarsi di dimenticare, non riesce a non continuare a protendersi – illusa/disillusa – verso l’altro-da-sé. Se non è possibile
appagare bocca a bocca la sete d’amore, almeno
per “annegare nella stessa sete”.
L’amore desidera più di quanto non possa raggiungere. Così la poesia. E la poesia e l’amore sono
come il mare: lo si porta verso il petto a ogni bracciata ma non lo si trattiene. Eppure chi s’inoltra
nel mare non dimentica più quella sensazione
d’indeterminatezza e di appartenenza al tempo
stesso.
Parafrasando Elytis si potrebbe dire che è l’assenza d’amore che rende l’uomo un invalido della
realtà. La donna, a questo riguardo, è forse un
altro animale.
I versi di Bianca Maria Simeoni mordono le labbra
e lei inghiotte avida saliva e sangue.
Poesia pagana, dunque, la sua. Ma la passione
(per l’amore / per l’oltre) di Bianca è così intensa
da trasfigurarla in un’esaltazione mistica, in qualche modo accostabile a un’estasi profanata di
Santa Teresa.
Questi versi prorompenti come fiotti di voluttà, rinvenienti come le maree, riportano la voglia
d’amare. E di poesia.
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Negli occhi di Bianca, dopo le esplorazioni e i deliri delle sue labbra impudiche, del suo grembo
palpitante, non resta “se non lo stupore di una luna
immensa / simile al sorriso di un dio”.
Corrado Calabrò
Nota redazionale: i versi citati nella Postfazione di
Corrado Calabrò sono tratti dal presente volume nonché dalle due precedenti sillogi poetiche di Bianca
Maria Simeoni: “Verso Dove” (1998) e “Confiteor”
(2002).
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Ringraziamenti
Nel momento di dare alle stampe questa terza raccolta poetica, il mio pensiero corre affettuoso agli
amici e maestri che hanno contribuito alla sua
realizzazione.
A Giorgio Albertazzi, per avermi insegnato l’intimo
rapporto fra teatro e poesia.
A Corrado Calabrò, al quale mi accomunano gli archetipi dell’amore e del mare, e che ha colto, con
rara maestria, l’essenza dei miei versi.
A Maria Luisa Spaziani, imprescindibile punto di
riferimento per chiunque, in Italia e nel mondo,
ami confrontarsi con il fascino della parola poetica.
A Ennio Calabria, artista sommo, la cui opera –
“Un’onda piatta” – pubblicata in copertina, simboleggia il cromatismo emotivo che tento d’esprimere
con le parole.
A tutti loro va la mia profonda gratitudine.
Un ringraziamento, infine, ai componenti della
Giuria del “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe
Jovine” per il prestigioso riconoscimento tributato
alla mia opera, che mi proietta, nel ricordo, alla figura del grande poeta molisano che ebbi l’onore di
conoscere negli anni Novanta.
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1° CLASSIFICATO
al
“Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine”
Quinta Edizione
2008
istituito dall’Associazione Giuseppe Jovine
con il patrocinio di:
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Regione Molise
Assessorato alla Cultura Regione Molise
Comune di Castelmauro
Gruppo Cultura Italia
Fondazione Ippolito Nievo
I Parchi Letterari
Universitas Montaliana
Autori Online
Poeta Online Community della Poesia
Assut Europe SpA
Campobasso, 18 ottobre 2008
Mots d’amour
di
Bianca Maria Simeoni
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