NET.ART E IPERTESTO La net.art nasce a meta degli anni Novanta

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NET.ART E IPERTESTO La net.art nasce a meta degli anni Novanta
NET.ART E IPERTESTO
La net.art nasce a meta degli anni Novanta dall’incontro tra l’eredita
delle avanguardie e la diffusione di massa delle nuove tecnologie di
comunicazione. Il termine stesso, riflette l’ambiguità, perché può
significare sia network, che arte di internet.
Nel primo caso l’accento cade sulla capacita di attivare processi di
collaborazione e sperimentazioni sociali che possono esistere
indipendentemente da internet. In altre parole se concepiamo la net.art
come arte di fare network, disponiamo di una definizione molto ampia
che ponendo l’accento sui processo, piuttosto che sulle opere, la tecnica o
la soggettività degli artisti, si inserisce da un lato nei movimenti artistici
come l’arte concettuale, la video-arte o a mail art, e dall’altro si apre ad
altre pratiche collaborative come l’attivismo politico e il hacking.
D’altro, se definiamo la net.art esclusivamente come un’arte del
networking rischieremmo di smarrire la prospettiva storica e di non
rendere conto delle sue peculiarità estetiche in relazione alla specificità
del medium in cui nasce e si sviluppa. In questo senso la net.art è, e
rimane, un’arte nativa della rete.
Bisogna inoltre riconoscere che il networking e gli usi sociali dei media
sono essi stessi soggetti a profondi mutamenti storici e i rapporti tra
pratiche artistiche, attivismo, tecnologie, sistema dell’arte e società che
continuano a trasformarsi. Quello che c’interessa è piuttosto il linguaggio
e i codici condivisi elaborati da una comunità emergente nel momento del
massimo impatto sociale e culturale di internet.
Al di la dell’infrastruttura fisica, la rete funziona e si sviluppa attraverso
una densa stratificazione di protocolli e applicazioni. In una parola, la
sostanza d’internet è il codice, ossia una scrittura logica e procedurale
che consente alcune operazioni e ne limiti altre. Una scrittura
“macchinica” che determina il modo in cui le informazioni (e di
conseguenza le persone) vengono concatenate tra loro. In questo
ambiente tecno-sociale, gli artisti della rete hanno creato sin dall’inizio
contesti di scambio e relazione che possono essere modificati e abitati da
altre persone.
E tuttavia se i net.artisti intervenissero solo sul livello del codice sarebbe
impossibile distinguerli dagli hacker o dai programmatori. In internet,
sopra all’infrastruttura fisica, ai protocolli e alle applicazioni siedono
ancora ciò che chiamiamo, per mancanza di un termine migliore, i
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“contenuti”. Gran parte della net.art mina l’organizzazione gerarchica di
questa stratificazione confondendo codice di programmazione e
linguaggio naturale.
La lunga serie di browser d’artista pubblicati alla fine degli anni
Novanta, attacca ad esempio la metafora funzionale dell’impaginazione a
stampa adottata e riprodotta dai principali browser commerciali.
Aprendo l’interpretazione del codice Html ad altri domini, la browser art
riprende pratica dell’avanguardia di forzare i limiti di vecchi e nuovi
media.
I browser come Web Stalker, Netomat, Riot e Wrongbrosers indicano che
cosiddetta “pagina web” in realtà non è una pagina ma un flusso di dati
che può essere rappresentato come una mappa, mischiato con il suo
codice sorgente o con altre pagine, fino ad essere reso del tutto
illeggibile. Ci dimostrano, in altre parole, che non solo gli strumenti di
decodifica non sono mai neutri, ma che in rete, a differenza che in
televisione, “l’utente” può costruire le proprie lenti.
Esiste un ampio ventaglio di tattiche adottate da net.artisti e
“hackitivisti” per indiziare l’attenzione pubblica sui crimini commessi
dalle corporazioni, le violazioni governative dei diritti umani, e sulla
difesa dei diritti digitali e della più ampia liberta di espressione in rete. La
manipolazione dei flussi informativi danno vita a nuove sintesi
rovesciando l’estetico e il politico l’uno nell’altro.
Questa collaborazione tra codici e soggetti, linguaggio procedurale e
desiderio, riaffiora anche nei gruppi più apertamente critici e politici. Gli
www.0100101110101101.org usano un off-line browser per caricare siti
web art, modificarli e ri-pubblicarli sul proprio sito come ready-made.
Anche il Electronic Distrubance Theater (www.thing.net) ricorre a un
piccolo software il FloodNet, per re-indirizzare migliaia di richieste e di
proteste verso i server di governi e multi-nazionali. Con FloodNet
Zapatista, un’applicazione scaricabile creata dall’Eletronic Disturbance
Theatre in 1998 per automatizzare la partecipazione ai siti virtuali contro
vari siti web gestiti dal governo messicano. Lanciando semplicemente il
browser e connettendosi a una pagina web, i navigatori avevano
l’opportunità di partecipare a un’azione di disobbedienza civile
elettronica a sostegno dei diritti indigeni, consistente dell’inondarsi a i
server del governo messicano con un numero di richieste talmente alto da
divenire presumibilmente ingestibile.
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E gli Yes Men (theyesmen.org) hanno sviluppano il Reamweaver che
permette loro di clonare in tempo reale – introducendo piccole modifiche
– i siti d’istituzioni come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e di
diverse multinazionali.
2.
Comunque, ultimamente le cose sono cambiate e sembra che non è
rimasto quasi nulla di questa ibridazione tra diverse discorsività, attitudini
e pratiche. L’estetica del macchinino, il gioco d’identità e l’intervento sui
flussi di informazione non interagiscono più tra di loro e vengono
sperimentati e agiti in ambiti separati. Le ragioni di questo indebolimento
della collaborazione tra artisti, attivisti e i hacker sono diverse.
Innanzitutto, negli anni 90 la rete era oggetto di un grande investimento a
livello sociale, culturale, politico ed economico. Internet insomma era
l’oggetto del desiderio degli artisti che pensavano di usarla per rendersi
autonomi dal sistema dell’arte: degli attivisti che la vedevano come un
potente strumento organizzativo libero dalle tutele di partiti e sindacati
nonché dai pesanti cosi di gestione dei media tradizionali; e degli
imprenditori che in essa vedevano una straordinaria opportunità per
eliminare gli intermediari, sviluppare il marketing diretto e dar vita a un
nuovo modo di fare business in cui la borsa avrebbe premiato le idee
migliori.
Anche se occasionalmente entravano in rotta di collisione, queste 3 anime
della rette condividevano un sogno: la grande disintermediazione di
internet avrebbe spazzato via le vecchie elite e aperto la strada a un nuovo
modo di vivere e lavorare, alimentato dalle proprie idee, passioni e
competenze.
Era proprio questo spirito fresco e tecno-utopico, nato all’interno dei
circoli hacker che avevano disegnato i primi protocolli di rete, basato su
processi decisionali condivisi e consensuali, che ri-suonava sia nei
proclami dei movimenti più vicini alle sottoculture (per esempio, la
famosa Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio di John Perry
Barlow e la rivista cyber-psicodelica, “Mondo 2000”, che nei testi della
cosi detta ideologia californiana propagata da Wired magazine e da altri
cantori della New Economy). Tra la fine degli anni 80 e la prima meta di
anni 90 le comunità virtuali si sviluppavano soprattutto dalle affinità
elettive o su questioni tecniche, e dunque presumibilmente al riparo dai
conflitti del mondo reale. La cosa più bella era che tutti, in teoria avevano
le stesse opportunità e lo stesso diritto di parola, bastava essere connessi,
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nonostante lo status economico-sociale, sesso oppure colore della pelle.
La storia dell’internet si potrebbe anche leggere come la storia della
presentazione della propria identità.
Nel biennio 2000-01con la recessione innescata dal crollo in borsa dei
titoli tecnologici e dall’ 11 settembre, Internet perde gran parte del suo
glamour. La Rete non incantava più ed inizia ad essere percepita come
semplice mezzo, un medium tra i tanti. Un ex guru della New Economy,
Kevin Kelly sostiene ora che il vero spirito della rete non risiede nel
capitalismo rampante della dot.com che hanno bruciato miliardi di dollari
in borsa, ma anche nella libera condivisione delle informazioni che gli
utenti mettono on-line ogni giorno.
L’irresistibile ascesa di Google ed Amazon, l’avvento dei social network
e la loro successiva specializzazione in vari ambiti di multi media come
nel caso di Facebook & MySpace, adesso sostituiti da Lifestream
(Sweetcorn and FriendFeed); ed anche: Last.fm (musica); YouTube
(cinema, video, tv); Flickr (fotografie); Twitter (microblog);
Delicious.com (articoli, storie, saggi); iReport (citizens’ journalism sul
CNN) e dell’arte (rhizome net.art).
La conclusione è semplicemente questa: che l’utente è sovrano e che
l’intelligenza sociale del pubblico è ormai parte integrante del
circuito produttivo. (Paul Levy) Per alcuni analisti i sistemi di feedback
integrati nei software sociali come il PageRank di Google o il data base
degli acquisti di Amazon segnano l’inizio della fine della cultura della
massa per come l’abbiamo conosciuta. Nella era di web 2.0 rifletterà
l’evoluzione constante di una gamma di gusti e orientamenti socioculturali molto più ampia che in passato.
Accanto alla trasformazione dell’industria dell’intrattenimento e della
cultura pop, la mini-rivoluzione del web 2.0 ci consegna due altre
importanti novità: l’emergenza della blogo-sfera o di una nuova sfera
pubblica in cui l’agire comunicativo della società civile costituisce un
potente contro-canto ai media tradizionali, sempre più normalizzati dalla
concentrazione proprietaria; e l’estensione alla produzione di contenuti
dei modelli di cooperazione nati dal software libero.
Rispetto a i social network, i blog non propongono i contenuti più vari e
critici ma anche una tipologia di networking meno standardizzata.
Certamente, anche la blogo-sfera viene costantemente gerarchizzata da
vari sistemi di indicizzazione che determinano (e amplificano) il grado di
popolarità e reputazione dei singoli blog e post – Google, ma anche
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applicazioni e piattaforme più specifici come i feed Rss, Trackback,
Tecnocrati e Digg, per citare i più noti. È tuttavia questi sistemi di
feedback e filtraggio dei contenuti valorizzano anche il dibattito e la
cooperazione rispetto all’auto-rappresentazione, il narcisismo e lo status
sociale dei singoli utenti (i.e. Wikipedia ed Open Source, che
rappresentano i modelli di networking che mettono al centro la
costruzione di un progetto comune).
In assenza di un ambiente fisico condiviso e in condizioni di forte
competizione, ciò che tiene insieme una rete è insomma il fascino delle
storie che essa produce e “la capacita di disseminare queste storie, vale a
dire, di essere ascoltati, capiti e di convincere i destinatari di queste
storie, e dunque i nodi potenziali o i componenti della rete. Questo è
importante perché accentua la relazione tra network e narrazioni.
In questo senso, è interessante notare come la promessa dell’ipertesto,
che avrebbe rivoluzionato il mondo della letteratura, sia praticamente
svanita dall’orizzonte culturale contemporaneo. Nonostante i tentativi di
commercializzare cd-rom letterari e software per produrre elaborate
strutture ipertestuali, l’hyperfiction non è mai realmente decollata al
livello di mercato.
Pero, ipertesto può essere qualunque cosa sulla rete: l’ipertesto è una
struttura del testo non sequenziale, senza un centro, senza un inizio e una
fine prestabiliti; ma ed anche una connessione multi-dimensionale di
documenti di diversa natura (oltre i testi scritti, immagini, filmati,
animazioni, grafici, suoni, etc.). Ipertesto è pure un’inter-attività
consentita da speciali segnali prestabiliti (i link), ma anche consente una
mobilità fra i documenti che configurano diverse possibilità di lettura e
navigazione. In fine, permette l’attivazione (o implementazione) di
contrassegni personali per rifare il percorso e ritrovare i dati dei visionari.
In altre parole, interattività, mobilita, e implementazione rendono l’autore
dell’ipertesto un artista del montaggio e il suo lettore e un vero co-autore
dei suoi contenuti.
Quando apparve (il concetto viene proclamato dal inglese Theodor Holm
Nelson a una conferenza di Harvard in 1967) era presentata come una
enorme memoria, un immenso archivio di dati in cui raccogliere tutti i
testi della letteratura e dell’arte mondiale, come in una nuova biblioteca
alessandrina, ma senza confini. Al epoca si chiamo Xanadu. Nelson
prevedeva che poteva essere utilizzata da centinaia di milioni di utenti
simultaneamente, costituita dall’insieme, dagli scritti, dalle immagini, dei
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datti conservati dal tutto il mondo. E chiunque poteva leggere i testi,
modificarli e inserire i nuovi.
Avendo in mente l’idea di Barhtes che la lettura è come un esperienza
erotica, l’ipertesto sembrava di contenere la promessa di spostare
l’equilibrio di potere a favore del lettore. Un teorico d’ipertesto, Gorge
Landow ricorreva alla distinzione di Barthes tra testo leggibile e testo
scrivibile per notare come l’ipertesto elettronico avesse il potere di
trasformare il lettore da consumatore a produttore del testo. Eppure, nel
decennio seguente, le narrazioni ipertestuali on e off line non si sono mai
diffuse al di la di una ristretta cerchia di critici e accademici.
Forse il problema si trova nel fatto che quando l’ipertesto non fornisce al
lettore strumenti di authoring e sistemi di feedback avanzati, come nel
caso di molta hyperfiction in circolazione, finisce solo per rafforzare la
posizione dell’autore, indebolendo per contro quella del lettore. Di fatto,
barattare il piacere di abbandonarsi a una storia compiuta con la
possibilità di scegliere tra diversi percorsi narrativi non gioca a favore del
lettore. Perché il lettore dovrebbe rinunciare al piacere del testo per
entrare in un mondo i cui i confini sono incerti e sfuggenti?
Per Barthers, l’unita del testo non sta nella sua origine, ma nella sua
destinazione, ossia nella capacita del lettore di tenere unite in un stesso
campo tutte le tracce di cui uno scritto e costituito. Con l’ipertesto tale
continuum viene esploso. Un hyperficion o una iper-narrazione,
specialmente se risiede su internet, non solente è aperta a molteplici
interpretazioni, ma implica anche delle letture alternative che spesso si
escludono a vicenda.
In altre parole, la polisemia di ipertesto non risiede dunque come nel caso
di libri e film, nella sua destinazione, ma rimane saldamente nelle mani
dell’autore. Da un lato l’autore custodisce l’accesso esclusivo alle cartelle
e alle directory che compongono la mappa dell’ipertesto; dall’altro può
facilmente orientare le scelte del lettore progettando un’interfaccia che lo
induca a seguire determinate traiettorie tra le molte possibili.
È tuttavia il fallimento del progetto hyperfiction non va identificato con
un fallimento delle narrazioni veramente interattive. Il pubblico può
sfidare infatti l’opacità dell’ipertesto e riacquisire il controllo delle
narrazioni ondine avvalendosi di una pluralità di strumenti. Per esempio,
con l’aiuto di un browser off-line, un utente può scaricare un sito web e
visualizzarne la struttura su suo hard disk. Può quindi modificarlo,
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ripubblicarlo e farlo interagire con altri siti, motori di ricerca, mailing list,
portali informativi, e vari livelli di codice.
E’ proprio in questo momento/livello che ci si avvicina al dominio della
net.art. quando un lettore scopre modi creativi e imprevisti di leggere
una storia, comincia a spostarsi verso una posizione di autore. La net.art
pure funziona come nesso tra vari spazi discorsivi. Dovrebbe essere
chiaro allora perché definiamo la net.art come un’arte della rete che è
anche un arte del networking o come una macchina astratta che schiude
molte possibili relazioni tra discorsi precedentemente non correlati.
Il net.artista è un reality hacker (Konrad Becker), un ingegnere social
che mette a punto una varietà di tecniche di intelligence culturale contro
la monopolizzazione della percezione e l’omogeneizzazione degli abiti
culturali. Si tratta di un’intelligenza culturale che interferisce con i
dispositivi bio-politici della società del controllo, svelandone i
meccanismi e i presupposti nascosti.
La diffusione delle tecnologie senza fili, dei computer portatili, palmari e
della telefonia cellulare ha contribuito inoltre a riavvicinare l’arte dei
nuovi media a contesti, temi e soggetti che con la tecnologia hanno poco
a che fare. A concatenazione tra corpo fisico e corpo-dati, performance di
strada e performance elettroniche generale la nascita di una nuova
matrice performativa e tramite cui la generazione cresciuta con la Rete
“applica il modello rete alla politica, all’arte, agli spazi off-line alle
precedenti analogiche”.
2. Videogiochi
I videogiochi si potrebbero definire come testi delimitati dalla somma di
due insiemi: quello dell’interazione e quello della narrazione.
In questo senso, i videogiochi non sono l’entità puramente ludica, ma
precisamente un ipertesto, che in parte è anche interattivo. In particolare,
lo schema “autore/lettore modello” si potrebbe adattare all’analisi dei
videogiochi.
Al concetto d’autore modello si possono associare infatti due figure:
quella del creatore modello (il creatore/sviluppatore del videogioco) e
quello di giocatore modello che con la sua attività video-ludica
contribuisce ad attualizzare il testo video-ludico. Un autore di libro
Semiotica dei videogiochi, Massimo Maietti fa invece corrispondere
quella di lettore modello terminale, ovvero un fruitore del testo prodotto
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dal giocatore, una sorta di spettatore passivo che assiste senza intervenire
a una partita giocata da un altro.
Un’altra autrice, Agata Meneghilli, nel suo libro Dentro lo schermo,
Immersione e interattività nei God games, dice che fin dalla definizione
dell’ambito d’applicazione si distacca dall’abituale distinzione dei generi:
infatti i “God games” vengono ripresi da quelli che normalmente sono
considerati videogiochi gestionali e strategici (CIVILIZATION,
CAESAR, AGE OF EMPIRE, SIMS).
Si tratta dei videogiochi che mettono il giocatore nei panni di una sorta di
divinità che guida di volta in volta l’esistenza di un singolo individuo o di
un gruppo più o meno ampio ad intere civiltà durante la loro
vita/evoluzione. Tali videogiochi permettono una relativa liberta d’azione
rispetto a titoli analoghi ma più finalizzati, anche grazie alla suddivisione
in missioni, al raggiungimento d’obiettivi specifici. Anzi, uno dei
denominatori comuni è proprio la più o meno fondata illusione, fornita al
giocatore, di poter condurre il gioco dove gli pare.
Se nella realtà tale illusione è sempre limitata dai vincoli della
programmazione e dalla necessita di fornire un gioco fruibile ad un largo
pubblico, è certo che si tratta del genere video-ludico che lascia
volutamente maggior spazio di manovra a giocatore e dove dunque il
testo terminale ha maggiore suscettibilità di variazione a seconda delle
decisioni prese dai vari giocatori reali.
Agata Meneghelli nel suo libro parte da questa definizione per proporre
un’accurata indagine semiotica dei vari livelli di questi testi video-ludici,
che inevitabilmente si trasforma in un indagine sulle “interfacce”. Non a
caso il titolo stesso di questo volume rinvia ad un confine, lo schermo
appunto, che divide lo spazio fisico del giocatore da quello virtuale del
videogioco.
Significativa a questo punto è la divisione tra “game” e “play”. Se la
critica parla genericamente di “game-play” per indicare la “giocabbilità”
del videogioco, Meneghelli approfondisce ed arricchisce di senso il
termine dividendolo in un “game” che è il contesto e le regole di gioco
ideate dal “creatore modello” e corrisponde al “terreno di gioco”, il
livello più basso dove “accadono” gli eventi narrati nel gioco; ed il “play”
che è il livello dove il giocatore può interagire e modificare gli eventi del
“game” mediante menu, pulsante e testi predisposti.
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Quello del “play” è esattamente il livello dell’interfaccia tra il giocatore
ed il gioco ed i relativi vari gradi di trasparenza/opacità contribuiscono a
definire il livello di “immersivita” del videogioco.
L’analisi dettagliata di tale interfaccia non è importante solo per la
compressione del meccanismi di funzionamento dei videogiochi, ma
diventa una miniera di riflessioni utili per ripensare la struttura e la
potenzialità delle interfaccia informatiche.
Se una critica sostanziale è possibile muovere all’analisi semiotica di
videogiochi, e principalmente allo schema “creatore/giocatore-lettore”
proposto da Maietti e ripresso strutturalmente da Meneghelli. In tale
schema il giocatore figura unicamente sotto la categoria “autore”, il che
è un ovvio controsenso dato che egli e anche un fruitore, un lettore che
per leggere il testo video-ludico deve contribuire, nel limiti impostigli dal
creatore, a scriverlo.
Questa duplicazione, attiva/passiva, del ruolo del giocatore contribuisce a
spiegare perché il testo terminale e il lettore terminale non siano elementi
puramente teorici. Il giocatore che è anche spettatore passivo può voler
rivedere e proprie performance di gioco a quelle di altri anche in forma
completamente passiva, per confrontarle o per rivivere il piacere del
gioco.
E questo spiega come siano possibili romanzi, fumetti, film, serie
televisive animate o meno dedicate ai videogiochi che forniscono ad una
vasta platea di “lettori terminali” testi non interattivi che vengono fruiti
precisamente in questa loro funzione.
Lo spettatore che va a cinema a vedere Resident Evil o Silent Hill lo fa
non per vedere genericamente un film horror, ma per vedere come i
rispettivi registi hanno attualizzato nella pellicola la performance rese
possibili dal videogioco e giudichera tali film anche e forse prioritamente
in base alla coerenza narrativa del testo filmico al testo video-ludico.
Considerare inoltre il videogioco come un testo rende indispensabile
presupporre un grado di passività nel giocatore che di tale testo e non solo
scrittore (a fianco del creatore) ma anche lettore. Altrimenti, avrebbero
ragione i ‘ludologi’ a negare qualunque testualità e soprattutto narrativita
dei videogiochi equiparandoli in questo a giochi puri quali quelli di carte
o alle attività sportive.
3. Video arte
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Anche se il primo video è stato introdotto gia nei anni 50, il vero uso per
le forme artistiche inizio nei anni 60, specialmente dopo la introduzione
di portatile video recorder di Sony, il portapak. Subito quanto è emerso il
video ha inspirato gli artisti di riflettere di più di che cosa si tratta e come
si può usare nei termini artistici.
I primi video non erano integrati nei musei e grande gallerie e le loro
mostre, ma solo nei posti clandestini e piccoli film festival. Subito
quando usci, il video si definiva come la opposizione totale verso la TV.
Solo nei anni 70 sono introdotte le media arti che hanno aiutato la nuova
strada verso arte del video. La culminazione rappresentano i anni
Novanta con la introduzione della tecnica digitale e il computer.
Finalmente, la video arte si sviluppo in 5 direzioni:
1. video nastri che hanno esplorato le possibilità tecniche e le
limitazioni del medium;
2. tempo-reale, le situazione del circuito chiuso, dove un artista è
emerso in un interattivo dialogo con la video camera e registra
questo sul nastro per la distribuzione futura;
3. l’uso di video arte dove in una situazione dal vivo il artista è
confronto con la mediata presenza, e incoraggia il pubblico di
riflettere sulla natura rappresentante della video arte;
4. avvenimenti partecipanti o interattivi dove il pubblico sta
manipolando e trasformando il tv e video, accompagnati dalle
istruzioni di artista;
5. video sculture, single o multi-monitor installazioni e ambienti dove
il visitatore della galleria vede una assemblea dei video che
dimostrano i nastri pre-registrati.
I primi video erano prodotti dai pittori e scultori ispirati dai happening e
performance. La produzioni di immagine elettronici rappresentava una
alternativa al olio sul tela, o come ha dichiarato Pipilotti Rist, per lei il
video rappresenta pittura sul vetro.
Dopo l’introduzione del digitale nella video arte, la cosi detta, dematerializzazione del arte si è completata, e cosi le immagini digitali
diventano considerate le idee del arte piuttosto che gli oggetti fisici,
finché la video arte si sviluppo in due direzioni, una che era la
continuazione della tradizione modernista di sperimentazione ed altra di
produzione e ricezione di processo come una prassi sociale.
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Poi un grande numero delle nuove teorie hanno influenzato questo
sviluppo:
•
le teoria di McLuhan sui nuovi media e comunicazione di massa;
•
teorie di semiotica, post-strutturalismo, deconstruttivismo e postmodernismo;
•
le contra-teorie sulla manipolazione sociale della TV;
•
femminismo e in genere il movimento delle donne che hanno
messo in questione le forme tradizionali di rappresentazione e
decostruzioni delle donne sulla tv ed altri media di massa;
La questione di cui ci accingiamo a discutere, riguarda le forme che le
opere video hanno adottato per rappresentare il mondo, per riconfigurarlo attraverso le immagini e il suono: sembra che l’estraneità
dell’immagine elettronica e adesso anche quella digitale nei confronti
della narrazione abbia indotto un analogo atteggiamento da parte degli
studiosi (Valentini, Birnbaum) che hanno assunto come un assioma la
anti-narratività delle opere video.
L’assenza di linearità narrativa (senza una fabula e un personaggio che la
svolge) in un testo audio-visuale, richiede l’elaborazione di categorie
capaci di prendere in carico forme compositive dalla temporalità come
la sua forma più importante: temporalità dilatata, oppure estremamente
contratta, costruita sull’ iterazione, la ciclicità, sul predominio dello
spazio sul tempo, l’accumulo paratattico, l’intermittenza di un tempo
frattale, la segmentazione e l’autonomia dei singoli blocchi narrativi, etc.
Linguaggio video-grafico sin dalle sue origini si è fatto carico della risensibilizzazione percettiva dello spettatore. La diretta, l’incrostazione
di una immagine su uno sfondo che non gli appartiene naturalmente, le
finestre, le sovrimpressioni (da non confondere con gli effetti di
ascendenza cinematografica), hanno contribuito a incrinare – sia a livelli
fruitivi; che produttivi - il regime alimentato dai due grandi apparati del
cinema e della tv, organizzato per piani, inquadrature, rapporto sfondo e
figura di tipo umanistico.
L’incapacità di raccontare del video è in rapporto diretto a questa
implosione di immagini frutto di riciclaggi, passaggi, prelievi che
occludono e saturano la vista, mentre la possibilità di espressione,
affezione, emozione è presente ed emana laddove l’immagine riesce a
stabilire un prolungamento, un’oltre che è innanzitutto avvertito
percettivamente. L’anti-narratività del video nello stesso tempo
rappresenta il suo anti-illusionismo: si vedono tutti i tagli (nascosti nei
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film tradizionali) ovvero le ferite (le lacune e le spaccature nello tempo e
nello spazio).
Chiamando la video arte “altro cinema” (Raymond Bellour) e riferendo
si ai artisti come Almond, Ahtila e Douglas, Daniel Birnbaum nota
certamente un punto nella storia dell’arte delle immagini in movimento.
Nelle loro installazioni composte da proiezioni multiple, gli eventi
temporali sono “spazializzati” in modo tale da poter essere compresi in
termini scultorei ed architettonici piuttosto che strettamente
cinematografici. Infatti, se cinema potesse produrre quello che Deleuze
chiama immagine-cristallo, riuscendo a catturare per un instante il
funzionamento interno del tempo stesso, allora le possibilità temporali di
questo altro cinema è di esplorare le forme più complessi dell’immaginetempo, come il parallelismo e sincronicità.
Per esempio, la simultaneità di diversi flussi d’immagini in movimento
garantisce la possibilità non solo di avere immagini comprese e
stratificate a livello temporale, ma anche di intricate costellazioni e
giustapposizioni. In breve, ci sono molti strumenti nuovi per mettere in
discussione la questione della linearità in tutte le sue forme. Il tempo, è
senza dubbio, il tema centrale di tutti video artisti, possiamo anche dire
che la cronologia è la loro disciplina.
La distinzione vera nel cinema fra lungometraggio e cortometraggio, fra
documentario e fiction come genere, nel video è priva di fondamento. Se
apriamo a caso un catalogo in cui sono elencati i repertori video
classificati per autore, si riscontra, che non ci sono durate standard,
variando dai 7 secondi, a un minuto (Acconci e Nauman); 90 minuti
(Douglas Gordon e Phillipe Parenno); 24 ore (Gordon); e 5 anni
(Parenno).
Il carattere di video arte risiede proprio nella molteplicità dei formati,
nella molteplicità e sovrapposizione dei piani spazio-temporali, nel suo
essere difforme rispetto alla linearità narrativa del cinema classico. La
produzione video che ha avuto come propria tradizione e statuto l’essere
contro il sistema estetico-produttivo di cinema e tv, quindi in primo luogo
contro la fiction, non si presenta regolata da formati, codificata in generi
che definiscono personaggi, luoghi, intrecci e contesti ambientali, né ha
creato qualcosa che potremmo definire immaginario collettivo al pari di
quanto ha realizzato il cinema (imparagonabile per dimensione di
apparati), se mai un “immaginario dell’autore”, cioè qualcosa che sta
fra l’autoritratto, il diario e il taccuino di viaggio.
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Il sabotaggio attraverso l’imitazione parodica è espressione di una
radicale resistenza del video nei confronti dei formati convenzionali e dei
generi di cinema e tv, motivata da molteplici fattori fra cui, rilevante, il
trattamento del tempo che, nelle opere video – generalizzando - cancella
lo scarto fra tempo del discorso e tempo della storia e sposta la materia
audiovisuale in un senza tempo che è dello spazio mentale. Come dice
Ahtila in Birnbaum, la sua intenzione e di smantellare lo spazio, creare
uno spazio che non esiste a livello cosciente.
Questo spazio elaborato dall’immagine elettronica e digitale, è il luogo
del possibile, dove il soggetto-attore non ha più un ruolo d’agente
ordinatore d’eventi in un tempo-spazio: il suo trattamento è analogo a
quello degli oggetti, rotto l’ equilibrio fra sfondo e figura, come fra
soggetto e ambiente. Le relazioni spaziali sono disintegrate per lasciar
posto a trattamenti astratti e/o metaforici, non convenzionali. Il video
rappresenta un mondo in cui il soggetto perde sempre più consistenza
fisica per attestarsi come presenza in voce, traccia sonora in un mondo
completamente de-figurato, diventato magma cromatico: presenze prive
di corpo, fatte di solo voce, personaggi in absentia richiamati dai discorsi
liberi diretti, oppure voci che non sono personaggi ma che stanno per
un nome collettivo: il maschile e il femminile.
Ciò significa che in gran parte delle opere video non compaiono
personaggi e neanche persone connotate in cui azione e pensiero si
integrano. La figura umana, equiparata nella sua avvenuta
parcellizzazione agli oggetti, è fatta a pezzi (non è la frammentazione di
matrice concettuale dove la scomposizione geometrica dell’unità
dell’organismo mira a dilatarne e misurarne la potenza in rapporto allo
spazio e a deformarne la figura in rapporto a una riguadagnata
dimensione plastica).
Il video, sin dalle origini si è prestato a diventare il medium della
comunicazione intima e privata, come una lettera o una pagina di diario,
(Sophie Calle) in cui la barriera fra soggetto e oggetto, propria del
cinema, è oltrepassata dal rivolgersi direttamente allo spettatore o a se
stesso, spettatore della propria performance (la funzione autoriflessiva ),
trasgredendo con la frontalità dello sguardo in macchina e l’uso della
prima persona e del discorso libero diretto, le regole della
rappresentazione.
Nei video di body art l’artista è nel contempo il performer che realizza
l’enunciato: l’opera sono io: in nessun altro periodo della storia dell’arte
l’artista-produttore dell’opera è stato anche colui che si rappresenta
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all’interno dell’opera, tranne nel genere specifico dell’autoritratto. Il
video è una nuova forma d’accesso alla ricerca di sé, ma, come si è detto,
fuori dalle coordinate di una narrazione diacronica.
Comunque, ce il ritratto in video che accentua i tratti dell’estemporaneità,
della flagranza dell’evento che accade davanti alla telecamera e di cui la
telecamera costituisce il principale dispositivo di messa in forma: agisco
perché c’è un occhio che mi interroga e mi scruta, che trasporta e
trasforma la mia persona quotidiana, il mio corpo, la mia voce, i processi
del pensiero. L’immagine video è adatta a rendere l’instabilità in modo
naturale, a creare lo scenario di un teatro dell’esperienza e del vissuto
dove centrale è l’inscrizione del corpo nel processo elettronico del suono
e dell’immagine, al limite fra la verità apparecchiata per la messa in scena
e quella direttamente registrata dalla telecamera.
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