NET.ART E IPERTESTO La net.art nasce a metà degli anni Novanta

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NET.ART E IPERTESTO La net.art nasce a metà degli anni Novanta
NET.ART E IPERTESTO
La net.art nasce a metà degli anni Novanta dall’incontro
tra l’eredita delle avanguardie e la diffusione di massa
delle nuove tecnologie di comunicazione. Il termine stesso
ne riflette l’ambiguità, perché può significare sia network
che arte di internet.
Nel primo caso l’accento cade sulla capacita di attivare
processi di collaborazione e sperimentazioni sociali che
possono esistere indipendentemente da internet. In altre
parole se concepiamo la net.art come arte di fare
network, disponiamo di una definizione molto ampia che
ponendo l’accento sui processo, piuttosto che sulle opere,
la tecnica o la soggettività degli artisti, si inserisce da un
lato nei movimenti artistici come l’arte concettuale, la
video-arte o a mail art, e dall’altro si apre ad altre pratiche
collaborative come l’attivismo politico e il hacking.
D’altro canto, se definiamo la net.art esclusivamente
come un’arte del networking rischieremmo di smarrire la
prospettiva storica e di non rendere conto delle sue
peculiarità estetiche in relazione alla specificità del
medium in cui nasce e si sviluppa. In questo senso la
net.art è, e rimane, un’arte nativa della rete.
Bisogna inoltre riconoscere che il networking e gli usi
sociali dei media sono essi stessi soggetti a profondi
mutamenti storici e i rapporti tra pratiche artistiche,
attivismo, tecnologie, sistema dell’arte e società che
continuano a trasformarsi. Quello che ci interessa è
piuttosto il linguaggio e i codici condivisi elaborati da una
comunità emergente nel momento del massimo impatto
sociale e culturale di internet.
Al di là dell’infrastruttura fisica, la rete funziona e si
sviluppa attraverso una densa stratificazione di protocolli e
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applicazioni. In una parola, la sostanza di internet è il
codice, ossia una scrittura logica e procedurale che
consente alcune operazioni e ne limiti altre. Una scrittura
“macchinica” che determina il modo in cui le informazioni
(e di conseguenza le persone) vengono concatenate tra
loro. In questo ambiente tecno-sociale, gli artisti della
rete hanno creato sin dall’inizio contesti di scambio e
relazione che possono essere modificati e abitati da altre
persone.
E tuttavia se i net.artisti intervenissero solo sul livello del
codice sarebbe impossibile distinguerli dagli hacker o dai
programmatori. In internet, sopra all’infrastruttura fisica, ai
protocolli e alle applicazioni siedono ancora ciò che
chiamiamo, per mancanza di un termine migliore, i
“contenuti”. Gran parte della net.art mina
l’organizzazione gerarchica di questa stratificazione
confondendo codice di programmazione e linguaggio
naturale.
La lunga serie di browser d’artista pubblicati alla fine
degli anni Novanta, attacca ad esempio la metafora
funzionale dell’impaginazione a stampa adottata e
riprodotta dai principali browser commerciali. Aprendo
l’interpretazione del codice Html ad altri domini, la
browser art riprende pratica dell’avanguardia di forzare i
limiti di vecchi e nuovi media.
“Browser art è un sottogenere della net art e si riferisce in
particolare ad un opera d'arte fatta rinnegato come parte di un
URL, che utilizza il computer come materia prima,
trasformando i codici, la struttura dei siti e dei collegamenti tra
i server in materiale visivo. Alcune opere d'arte del browser si
connettano automaticamente a Internet e quindi procedono a
stritolare le pagine web mediante la lettura del codice del
computer '' in modo sbagliato. Il duo Joan Hermskerk e
Paesmans Dirk, noto come Jodi, hanno ideato un programma
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che la Net Art scrittore; Tilman Baumgärtel ha descritto come
trasformare un PC 'in un imprevedibile, terribile macchina che
sembra avere una vita propria. Altri artisti, come i britannici
duo Tom Corby e Gavin Baily, ridurre l'immagine-pagine Web
ricche di Stark testo bianco e l'artista americano Maciej
Wisniewski ha sviluppato un browser che trasforma
l'esperienza interattiva di navigare in rete in una attività
passiva, fissando immagini fluttuanti e testi. (vedi anche l'arte
del Software)”
I browser come Web Stalker, Netomat, Riot e
Wrongbrosers indicano che cosiddetta “pagina web” in
realtà non è una pagina ma un flusso di dati che può
essere rappresentato come una mappa, mischiato con il
suo codice sorgente o con altre pagine, fino ad essere
reso del tutto illeggibile. Ci dimostrano, in altre parole, che
non solo gli strumenti di decodifica non sono mai neutri,
ma che in rete, a differenza che in televisione, “l’utente”
può costruire le proprie lenti.
Esiste un ampio ventaglio di tattiche adottate da
net.artisti e “hackitivisti” per indiziare l’attenzione pubblica
sui crimini commessi dalle corporazioni, le violazioni
governative dei diritti umani, e sulla difesa dei diritti digitali
e della più ampia liberta di espressione in rete. La
manipolazione dei flussi informativi danno vita a nuove
sintesi rovesciando l’estetico e il politico l’uno nell’altro.
Questa collaborazione tra codici e soggetti, linguaggio
procedurale e desiderio, riaffiora anche nei gruppi più
apertamente critici e politici. Gli
www.0100101110101101.org usano un off-line browser
per caricare siti web art, modificarli e ri-pubblicarli sul
proprio sito come ready-made. Anche il Electronic
Distrubance Theater (www.thing.net) ricorre a un piccolo
software il FloodNet, per re-indirizzare migliaia di richieste
e di proteste verso i server di governi e multi-nazionali.
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Con FloodNet Zapatista, un’applicazione scaricabile
creata dall’Eletronic Disturbance Theatre in 1998 per
automatizzare la partecipazione ai siti virtuali contro vari
siti web gestiti dal governo messicano. Lanciando
semplicemente il browser e connettendosi a una pagina
web, i navigatori avevano l’opportunità di partecipare a
un’azione di disobbedienza civile elettronica a sostegno
dei diritti indigeni, consistente dell’inondarsi a i server del
governo messicano con un numero di richieste talmente
alto da divenire presumibilmente ingestibile.
E gli Yes Men (www.yesmen.org) sviluppano il
Reamweaver che permette loro di clonare in tempo reale
– introducendo piccole modifiche – i siti d’istituzioni come
l’Organizzazione Mondiale del Commercio e di diverse
multinazionali.
2.
Comunque, ultimamente le cose sono cambiate e sembra
che non è rimasto quasi nulla di questa ibridazione tra
diverse discorsività, attitudini e pratiche. L’estetica del
macchinino, il gioco d’identità e l’intervento sui flussi di
informazione non interagiscono più tra di loro e vengono
sperimentati e agiti in ambiti separati. Le ragioni di questo
indebolimento della collaborazione tra artisti, attivisti e i
hacker sono diverse.
Innanzitutto, negli anni 90 la rete era oggetto di un grande
investimento a livello sociale, culturale, politico ed
economico. Internet insomma era l’oggetto del desiderio
degli artisti che pensavano di usarla per rendersi autonomi
dal sistema dell’arte: degli attivisti che la vedevano come
un potente strumento organizzativo libero dalle tutele di
partiti e sindacati nonché dai pesanti cosi di gestione dei
media tradizionali; e degli imprenditori che in essa
vedevano una straordinaria opportunità per eliminare gli
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intermediari, sviluppare il marketing diretto e dar vita a un
nuovo modo di fare business in cui la borsa avrebbe
premiato le idee migliori.
Anche se occasionalmente entravano in rotta di collisione,
queste 3 anime della rette condividevano un sogno: la
grande disintermediazione di internet avrebbe spazzato
via le vecchie elite e aperto la strada a un nuovo modo di
vivere e lavorare, alimentato dalle proprie idee, passioni e
competenze.
Era proprio questo spirito fresco e tecno-utopico, nato
all’interno dei circoli hacker che avevano disegnato i primi
protocolli di rete, basato su processi decisionali condivisi e
consensuali, che ri-suonava sia nei proclami dei
movimenti più vicini alle sottoculture (per sempio, la
famosa Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di
John Perry Barlow e la rivista cyberpsichedelica, “Mondo
2000”, che nei testi della cosi detta ideologia californiana
propagata da Wired magazine e da altri cantori della New
Economy). Tra la fine degli anni 80 e la prima meta di anni
90 le comunità virtuali si sviluppavano soprattutto dalle
affinità elettive o su questioni tecniche, e dunque
presumibilmente al riparo dai conflitti del mondo reale. La
cosa più bella era che tutti, in teoria avevano le stesse
opportunità e lo stesso diritto di parola, bastava essere
connessi, nonostante lo status economico-sociale, sesso
oppure colore della pelle. La storia dell’internet si potrebbe
anche leggere come la storia della presentazione della
propria identità.
Nel biennio 2000-01con la recessione innescata dal crollo
in borsa dei titoli tecnologici e dall’ 11 settembre, Internet
perde gran parte del suo glamour. La Rete non incantava
più ed inizia ad essere percepita come semplice mezzo,
un medium tra i tanti. Un ex guru della New Economy,
Kevin Kelly sostiene ora che il vero spirito della rete non
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risiede nel capitalismo rampante della dot.com che hanno
bruciato miliardi di dollari in borsa, ma anche nella libera
condivisione delle informazioni che gli utenti mettono online ogni giorno.
L’irresistibile ascesa di Google ed Amazon, l’avvento dei
social network e la loro successiva specializzazione in vari
ambiti di multi media come nel caso di Facebook &
MySpace, adesso sostituiti da Lifestream (Sweetcorn and
FriendFeed); ed anche: Last.fm (musica); YouTube
(cinema, video, tv); Flickr (fotografie); Twitter (microblog);
Delicious.com (articoli, storie, saggi); iReport (citizens’
journalism sul CNN).
La conclusione è semplicemente questa: che l’utente è
sovrano e che l’intelligenza sociale del pubblico è
ormai parte integrante del circuito produttivo. (Paul
Levy) Per alcuni analisti i sistemi di feedback integrati nei
software sociali come il PageRank di Google o il data
base degli acquisti di Amazon segnano l’inizio della fine
della cultura della massa per come l’abbiamo conosciuta.
Nella era di web 2.0 rifletterà l’evoluzione constante di una
gamma di gusti e orientamenti socio-culturali molto più
ampia che in passato.
Accanto alla trasformazione dell’industria
dell’intrattenimento e della cultura pop, la mini-rivoluzione
del web 2.0 ci consegna due altre importanti novità:
l’emergenza della blogo-sfera o di una nuova sfera
pubblica in cui l’agire comunicativo della società civile
costituisce un potente contro-canto ai media tradizionali,
sempre più normalizzati dalla concentrazione proprietaria;
e l’estensione alla produzione di contenuti dei modelli di
cooperazione nati dal software libero.
Rispetto a i social network, i blog non propongono i
contenuti più vari e critici ma anche una tipologia di
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networking meno standardizzata. Certamente, anche la
blogo-sfera viene costantemente gerarchizzata da vari
sistemi di indicizzazione che determinano (e amplificano)
il grado di popolarità e reputazione dei singoli blog e post
– Google, ma anche applicazioni e piattaforme più
specifici come i feed Rss, Trackback, Tecnocrati e Digg,
per citare i più noti. È tuttavia questi sistemi di feedback e
filtraggio dei contenuti valorizzano anche il dibattito e la
cooperazione rispetto all’auto-rappresentazione, il
narcisismo e lo status sociale dei singoli utenti (i.e.
Wikipedia ed Open Source, che rappresentano i modelli di
networking che mettono al centro la costruzione di un
progetto comune).
In assenza di un ambiente fisico condiviso e in condizioni
di forte competizione, ciò che tiene insieme una rete è
insomma il fascino delle storie che essa produce e “la
capacita di disseminare queste storie, vale a dire, di
essere ascoltati, capiti e di convincere i destinatari di
queste storie, e dunque i nodi potenziali o i componenti
della rete. Questo è importante perché accentua la
relazione tra network e narrazioni.
In questo senso, è interessante notare come la promessa
dell’ipertesto, che avrebbe rivoluzionato il mondo della
letteratura, sia praticamente svanita dall’orizzonte
culturale contemporaneo. Nonostante i tentativi di
commercializzare cd-rom letterari e software per produrre
elaborate strutture ipertestuali, l’hyperfiction non è mai
realmente decollata al livello di mercato.
Pero, ipertesto può essere qualunque cosa sulla rete:
l’ipertesto è una struttura del testo non sequenziale, senza
un centro, senza un inizio e una fine prestabiliti; ma ed
anche una connessione multi-dimensionale di documenti
di diversa natura (oltre i testi scritti, immagini, filmati,
animazioni, grafici, suoni, etc.). Ipertesto è pure un’inter-
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attività consentita da speciali segnali prestabiliti (i link), ma
anche consente una mobilità fra i documenti che
configurano diverse possibilità di lettura e navigazione. In
fine, permette l’attivazione (o implementazione) di
contrassegni personali per rifare il percorso e ritrovare i
dati dei visionari. In altre parole, interattività, mobilita, e
implementazione rendono l’autore dell’ipertesto un artista
del montaggio e il suo lettore e un vero co-autore dei suoi
contenuti.
Quando apparve (il concetto viene proclamato dal inglese
Theodor Holm Nelson a una conferenza di Harvard in
1967) era presentata come una enorme memoria, un
immenso archivio di dati in cui raccogliere tutti i testi della
letteratura e dell’arte mondiale, come in una nuova
biblioteca alessandrina, ma senza confini. Al epoca si
chiamo Xanadu. Nelson prevedeva che poteva essere
utilizzata da centinaia di milioni di utenti simultaneamente,
costituita dall’insieme, dagli scritti, dalle immagini, dei datti
conservati dal tutto il mondo. E chiunque poteva leggere i
testi, modificarli e inserire i nuovi.
Avendo in mente l’idea di Barhtes che la lettura è come un
esperienza erotica, l’ipertesto sembrava di contenere la
promessa di spostare l’equilibrio di potere a favore del
lettore. Un teorico d’ipertesto, Gorge Landow ricorreva alla
distinzione di Barthes tra testo leggibile e testo scrivibile
per notare come l’ipertesto elettronico avesse il potere di
trasformare il lettore da consumatore a produttore del
testo. Eppure, nel decennio seguente, le narrazioni
ipertestuali on e off line non si sono mai diffuse al di la di
una ristretta cerchia di critici e accademici.
Forse il problema si trova nel fatto che quando l’ipertesto
non fornisce al lettore strumenti di authoring e sistemi di
feedback avanzati, come nel caso di molta hyperfiction in
circolazione, finisce solo per rafforzare la posizione
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dell’autore, indebolendo per contro quella del lettore. Di
fatto, barattare il piacere di abbandonarsi a una storia
compiuta con la possibilità di scegliere tra diversi percorsi
narrativi non gioca a favore del lettore. Perché il lettore
dovrebbe rinunciare al piacere del testo per entrare in un
mondo i cui i confini sono incerti e sfuggenti?
Per Barthers, l’unita del testo non sta nella sua origine, ma
nella sua destinazione, ossia nella capacita del lettore di
tenere unite in un stesso campo tutte le tracce di cui uno
scritto e costituito. Con l’ipertesto tale continuum viene
esploso. Un hyperficion o una iper-narrazione,
specialmente se risiede su internet, non solente è aperta a
molteplici interpretazioni, ma implica anche delle letture
alternative che spesso si escludono a vicenda.
In altre parole, la polisemia di ipertesto non risiede dunque
come nel caso di libri e film, nella sua destinazione, ma
rimane saldamente nelle mani dell’autore. Da un lato
l’autore custodisce l’accesso esclusivo alle cartelle e alle
directory che compongono la mappa dell’ipertesto;
dall’altro può facilmente orientare le scelte del lettore
progettando un’interfaccia che lo induca a seguire
determinate traiettorie tra le molte possibili.
È tuttavia il fallimento del progetto hyperfiction non va
identificato con un fallimento delle narrazioni veramente
interattive. Il pubblico può sfidare infatti l’opacità
dell’ipertesto e riacquisire il controllo delle narrazioni
ondine avvalendosi di una pluralità di strumenti. Per
esempio, con l’aiuto di un browser off-line, un utente può
scaricare un sito web e visualizzarne la struttura su suo
hard disk. Può quindi modificarlo, ripubblicarlo e farlo
interagire con altri siti, motori di ricerca, mailing list, portali
informativi, e vari livelli di codice.
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E’ proprio in questo momento/livello che ci si avvicina al
dominio della net.art. quando un lettore scopre modi
creativi e imprevisti di leggere una storia, comincia a
spostarsi verso una posizione di autore. La net.art pure
funziona come nesso tra vari spazi discorsivi. Dovrebbe
essere chiaro allora perché definiamo la net.art come
un’arte della rete che è anche un arte del networking o
come una macchina astratta che schiude molte possibili
relazioni tra discorsi precedentemente non correlati.
Il net.artista è un reality hacker (Konrad Becker), un
ingegnere social che mette a punto una varietà di tecniche
di intelligence culturale contro la monopolizzazione della
percezione e l’omogeneizzazione degli abiti culturali. Si
tratta di un’intelligenza culturale che interferisce con i
dispositivi bio-politici della società del controllo,
svelandone i meccanismi e i presupposti nascosti.
La diffusione delle tecnologie senza fili, dei computer
portatili, palmari e della telefonia cellulare ha contribuito
inoltre a riavvicinare l’arte dei nuovi media a contesti, temi
e soggetti che con la tecnologia hanno poco a che fare. A
concatenazione tra corpo fisico e corpo-dati, performance
di strada e performance elettroniche generale la nascita di
una nuova matrice performativa e tramite cui la
generazione cresciuta con la Rete “applica il modello rete
alla politica, all’arte, agli spazi off-line alle precedenti
analogiche”.
Altri esempi di net.art:
•Avatar Body Collision;
•Ballettikka Internettikka;;
•Desktop Theater;
•Plaintext Performers;
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•Surveillance Camera Players;
•Rhizome. Artbase.net.
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