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CASS. PEN. SEZ. V, 23-04-2014, N. 25774
POSSESSO DOCUMENTI FALSI
CASS. PEN. SEZ. V, 23-04-2014, N. 25774
LA MASSIMA
Per l'integrazione del delitto di possesso di
documenti di identificazione falsi, di cui
all'art. 497 bis, comma primo, cod. pen., non
è necessaria una contiguità fisica, attuale e
costante, tra il documento ed il soggetto
agente, essendo sufficiente che questi detenga
o
abbia
detenuto,
anche
prima
dell'accertamento del fatto da parte della
polizia giudiziaria, l'atto certificativo in un
luogo e con modalità tali da assicurarsene
l'immediata disponibilità, (Nella specie, la
S.C. ha rigettato il ricorso dell'imputato che,
durante l'attesa dei soccorsi da lui stesso
chiamati dopo essere stato ferito da terzi,
aveva gettato in due diversi tombini i
documenti di cui era in possesso). (Annulla in
parte
senza
rinvio,
App.
Bologna,
01/06/2012)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARASCA Gennaro - Presidente Dott. FUMO Maurizio - Consigliere Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.E., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza della corte di appello di Bologna
del giorno 1.6.2012, con la quale, in parziale riforma
della sentenza di primo grado, veniva condannato alla
pena di anni uno, mesi uno giorni dieci di reclusione.
Udita la relazione del cons. dr. Angelo Caputo;
udito il sost.proc.gen. dr. G. Izzo, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza di cui in epigrafe, corte di
appello di Bologna ha rideterminato in anni uno, mesi
uno e giorni dieci di reclusione la pena inflitta a S.E.,
con ciò parzialmente riformando la sentenza del
tribunale della medesima città, che, dichiarando
l'imputato responsabile del delitto di cui all'art. 497 bis
c.p., comma 1 (così riformulata l'originaria
imputazione ex art. 497 bis, comma 2), lo aveva
condannato alla pena di anno uno e mesi sei di
reclusione.
1.1. Al S. è addebitata la seguente condotta: avere
formato, apponendovi anche la propria fotografia, un
falso documento, valido per l'espatrio, ovvero un
passaporto, apparentemente emesso dallo Stato rumeno
e intestato ad altro nominativo.
2. Il giudice di appello ricostruisce i fatti sulla
scorta di quanto si legge nella sentenza di primo grado:
l'imputato era stato ferito da un colpo di arma da fuoco
e, nell'attesa di ricevere i soccorsi, da lui stesso
chiamati, aveva gettato in due diversi tombini i
documenti di cui era in possesso, vale a dire, il falso
passaporto e una patente (in relazione alla quale,
tuttavia, era intervenuta assoluzione in primo grado). I
predetti documenti erano poi stati rinvenuti e recuperati
dalla polizia giudiziaria.
2.1. Rileva al riguardo la sentenza di secondo grado
come sia emerso pacificamente che il documento falso
fosse posseduto dall'imputato al momento del
ferimento, al chiaro scopo di farne uso personale.
Osserva poi la corte territoriale che, nel caso di
specie, la condotta materiale del delitto di cui all'art.
497 bis c.p., comma 1 si era perfezionata, in tutte le sue
componenti, prima dell'arrivo degli operanti.
Inconsistenti sono state considerate le deduzioni
difensive, volte ad escludere che l'imputato fosse stato
"trovato in possesso" del documento falso o che avesse
inteso disfarsene motu proprio prima dell'arrivo degli
inquirenti; ciò in quanto ha ritenuto la corte che S. non
intendeva affatto perdere la disponibilità del
documento stesso. L'occultamento fu un atto
necessitato; per altro, lo stesso concetto di possesso in
relazione alla ipotesi criminosa de qua, deve essere
inteso, scrivono i giudicanti, con riferimento al
rapporto esistente tra autore del reato e documento, con
la conseguenza che sarebbe irragionevole escludere la
sussistenza del reato qualora - per l'abilità dell'autore e
per l'occasione propizia - questi sia riuscito a liberarsi
dell'oggetto del reato, subito prima dell'arrivo delle
forze dell'ordine.
3. Quanto alla pena indicata nel dispositivo della
sentenza di primo grado, rileva la corte di merito che
essa non appare frutto di errore materiale, benchè in
contrasto con quella indicata nel corpo della
motivazione, dovendosi ritenere la prevalenza
dell'elemento decisionale su quello giustificativo.
Esclusa, dunque, la possibilità di correzione del
dispositivo, il giudice di secondo grado ha accolto il
motivo di appello relativo all'eccessività del
trattamento sanzionatorio applicato dal tribunale e lo ha
rideterminato come sopra indicato, individuando la
pena base in anni uno e mesi otto di reclusione,
diminuita per le attenuanti generiche.
AVV. GIULIANO VALER – 15 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA 1
CASS. PEN. SEZ. V, 23-04-2014, N. 25774
4. Con il ricorso, il difensore del S. articola tre
censure.
4.1. Con la prima, deduce erronea applicazione
dell'art. 497 bis c.p. e vizio di motivazione, sostenendo
che la condotta punita dall'art. 497 bis c.p. è costruita
(così come nelle ipotesi di cui agli artt. 260, 707 e 720
c.p.) sulla condizione di punibilità rappresentata
dall'essere stato l'agente sorpreso in flagranza della
situazione prevista, ma, nel caso di specie, l'imputato
non è stato colto in possesso del passaporto
contraffatto, poichè se ne era volontariamente disfatto,
gettandolo in un tombino, prima dell'arrivo della
polizia e del personale sanitario. Assume poi il
ricorrente che la sentenza impugnata evidenzia un vizio
di motivazione, in quanto -prima - da atto che
l'imputato aveva gettato il documento nel tombino, ma
- poi - mostra di ritenere tale condotta inidonea ad
integrare lo spossessamento volontario della res, in
grado azzerare la configurabilità del reato. Invero, se il
possesso viene meno a causa di un'azione volontaria
dell'agente, in virtù della quale questi rinuncia
definitivamente a mantenere una cosa presso di sè o
recuperarla (gettandola nell'immondizia o nelle fogne,
anzichè deponendola in un luogo accessibile o
consegnandola a terzi), è illogico sostenere che
quell'azione, solo perchè imposta dalle contingenze,
non sia idonea a integrare lo spossessamento.
4.2. Con la seconda censura, deduce violazione
dell'art. 56 c.p., commi 4 e 5, atteso che i giudici del
merito hanno affermato che l'imputato si era liberato
del passaporto, prima dell'arrivo dei soccorritori, così
interrompendo volontariamente un'azione criminosa
che non aveva ancora completato il suo iter, sicchè la
fattispecie può configurarsi quale desistenza volontaria
o, almeno, quale recesso attivo.
4.3. Con la terza censura deduce violazione degli
artt. 130 e 547 c.p.p., nonchè dell'art. 597 c.p.p.,
comma 3, poichè la corte di appello ha disatteso la
richiesta difensiva, volta alla correzione dell'errore
materiale contenuto nel dispositivo della sentenza di
primo grado (che indicava la pena inflitta in un anno e
sei mesi di reclusione, anzichè in un anno di reclusione
come calcolato dal tribunale di Bologna nella
motivazione della sentenza). La pena indicata nel
dispositivo è frutto di un errore materiale, che non può
riverberarsi
negativamente
sul
trattamento
sanzionatorio finale, che, per effetto della sentenza
impugnata, viene determinato in violazione del divieto
della reformatio in pejus.
Motivi della decisione
1. Le prime due censure sono infondate.
1.1. L'art. 497 bis c.p. - introdotto, come è noto, dal
D.L. n. 144 del 2005, conv. nella L. n. 155 del 2005 prevede, al comma 1, la condotta di chi sia "trovato" in
possesso di un documento falso, valido per l'espatrio.
E' evidente dunque che il profilo di problematicità
consiste nella corretta portata da attribuire alla
espressione "trovato in possesso".
La corte bolognese, al proposito, ha creduto di
risolvere "in fatto" la questione, sostenendo che, in
realtà, il S., nel disfarsi (temporaneamente) del falso
passaporto, non se ne era spossessato. In buona
sostanza, si sostiene in sentenza - anche se non lo si
dice apertamente - che l'imputato aveva nascosto, più
che gettato, il documento in un tombino. Da ciò il
giudice di appello deduce che la condotta materiale del
delitto di cui all'art. 497 bis c.p., comma 1 si era
perfezionata, in tutte le sue componenti, prima
dell'arrivo degli operanti (e che i suoi effetti
permanevano), con la conseguenza che la tesi
difensiva, secondo cui l'imputato non sarebbe stato
"trovato in possesso" del documento falso (essendosene
liberato prima dell'arrivo delle forze di polizia), non
poteva essere accolta, in quanto S. non intendeva
affatto perdere la disponibilità del documento, ma era
stato semplicemente costretto ad occultarlo.
1.2. Dunque, la corte territoriale intende (e dichiara
di intendere) il concetto di possesso con riferimento al
particolare rapporto psicologico esistente tra l'autore
del reato e il documento, sicchè sarebbe, a suo parere,
irragionevole escludere la sussistenza del reato stesso,
qualora l'agente sia stato tanto abile e/o fortunato da
liberarsi dell'oggetto del reato, subito prima dell'arrivo
delle forze dell'ordine. Ciò in quanto, in tal caso, non
potrebbe ritenersi venuta meno la stretta correlazione
tra l'agente predetto e il documento falso (e quindi il
possesso penalmente rilevante).
1.3. Per le medesime ragioni, sostiene la corte di
merito, devono escludersi, nel caso in esame, forme di
desistenza o di recesso attivo, atteso che il reato si è
consumato in tutti i suoi elementi costitutivi.
2. Questa la "lettura" della corte di appello.
2.1. Il problema, tuttavia, va impostato
diversamente (anche se la soluzione cui si giunge è la
medesima).
Invero, come correttamente si osserva nel ricorso, il
fatto che il contatto fisico tra l'agente e il documento
sia venuto meno perchè a tanto il S. fu costretto (dalla
necessità di evitare di essere sorpreso "in possesso"
della res prohibita), non toglie che - appunto - il legame
tra il soggetto e l'oggetto sia stato comunque interrotto.
Sta di fatto, invero, che, quando gli operanti
intervennero, S. non aveva più con sè il falso
passaporto;
anzi: egli se ne era liberato (e non rileva se l'avesse
nascosto o gettato via, in quanto si tratta di suoi
ininfluenti propositi) proprio perchè le forze dell'ordine
non lo trovassero sulla sua persona. Dunque: sostenere
che il possesso non era cessato perchè il ricorrente
aveva l'intenzione di recuperare il documento è un puro
e semplice (ma riconoscibile) escamotage logico, con il
quale si tenta di sovrapporre un dato soggettivo
(l'animus dell'imputato) ad uno oggettivo (la perdita di
controllo, sia pur volontaria, sul passaporto, "lasciato"
in un tombino nella pubblica via).
2.2. Quel che viceversa deve essere chiarito pacifica essendo la dinamica (e la ricostruzione) dei
fatti - è che cosa abbia inteso significare il legislatore
AVV. GIULIANO VALER – 15 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA 2
CASS. PEN. SEZ. V, 23-04-2014, N. 25774
quando ha previsto la reclusione da uno a quattro anni
per "chiunque è trovato in possesso di un documento
falso, valido per l'espatrio".
Ebbene, il delitto di possesso di documenti di
identificazione falsi (art. 497 bis c.p., comma 1), come
chiarito dalla giurisprudenza di questa quinta sezione,
si distingue da quello di uso di atto falso (art. 489 c.p.)
in quanto, da un lato, sul piano strutturale, esso
prescinde dall'esclusione di qualsiasi forma di concorso
nella formazione dell'atto falso, dall'altro, con riguardo
al bene protetto, tutela, non la genuinità del documento
in sè, ma l'affidabilità dell'identificazione personale
(ASN 201015833 - RV 246846). In altre parole, ciò
che rileva ai fini della sussistenza del reato, è il mero
possesso del documento contraffatto (art. 497 bis c.p.,
comma 1) e non anche l'uso dello stesso, ovvero rileva
(comma secondo) la materiale falsificazione dell'atto
certificativo (ASN 201239408- RV 253579).
2.3. La condotta che la norma vuole reprimere è dunque - la disponibilità della res prohibita, in quanto
pericolosa (e vietata) in sè.
Ma se la res è, in sè, prohibita, non ha alcun senso e in questo la corte territoriale è nel giusto subordinare la punibilità alla sorpresa dell'agente in
flagrante possesso della stessa, anche perchè,
diversamente ragionando, si farebbe dipendere la
sussistenza di un reato dalla sua prova, con un
intollerabile interferenza del momento processuale
sulla struttura sostanziale dell'illecito penale.
2.4. A meno che l'essere trovato in possesso del
documento falso non sia da intendere come condizione
obiettiva di punibilità.
Ma così certamente non è in quanto non si tratta di
un elemento estrinseco al reato (del quale la legge esige
la verificazione perchè l'autore sia assoggettabile a
pena: cfr. art. 44 cp), ma della condotta stessa che
integra la fattispecie contra jus. Invero se,
mentalmente, si elimina la condotta di possesso, la
condotta stessa del reato svanisce, con la conseguenza
che la (pretesa) condizione obiettiva di punibilità non
avrebbe una base fattuale cui inerire.
2.5. Se così non fosse, oltretutto, non si
comprenderebbe la ratio della fattispecie di cui all'art.
497 bis c.p., comma 2 che punisce, tra l'altro, chi
detiene il documento per uso non personale. Invero:
non vi sarebbe logica alcuna nel punire chi, pur
detenendo non per sè, ma per altri, non sia stato
"trovato in possesso" del documento falso (ma lo abbia
certamente detenuto in un momento precedente) e nel
non punire il diretto interessato, solo perchè, nel
momento dell'accertamento, non aveva più presso di sè
il documento in questione (anche se l'accertamento si
concluda con il raggiungimento della prova che il
soggetto abbia avuto il possesso della res prohibita).
2.6. D'altronde, il parallelismo indicato dal
ricorrente con altre fattispecie criminose (artt. 260, 707
e 720 c.p.) è improprio e fuorviante. Non solo (e non
tanto) perchè le espressioni utilizzate sono diverse,
atteso che, nei tre articoli sopra indicati, non si parla di
soggetti "trovati", ma "colti" in possesso (il che
suggerisce l'idea della contestualità tra l'accertamento e
la detenzione e quindi della "sorpresa" del possessore),
ma principalmente perchè il legislatore - applicando un
meccanismo presuntivo - considera le circostanze
descritte nei tre articoli in questione come sintomatiche
di future o trascorse condotte contra jus (e per questo le
punisce). Ciò è reso evidente dal fatto che, nelle ipotesi
appena ricordate, non rileva il possesso in quanto tale,
ma il possesso in relazione a qualità personali
dell'agente (art. 707), ovvero ad un suo specifico
facere, che si realizza nel momento dell'intervento
degli operanti (art. 720), ovvero ancora ad una sua
collocazione spaziale (art. 260).
2.7. Con l'ipotesi criminosa ex art. 497 bis c.p.,
comma 1, viceversa, come si diceva, si intende
reprimere, in una evidente anticipazione della soglia di
punibilità, la stessa disponibilità del documento falso,
non diversamente, ad esempio, di quel che il legislatore
prevede, nell'art. 615 quater c.p., a proposito della
detenzione abusiva di codici di accesso a sistemi
informatici o telematici, articolo che, fra le varie
condotte descritte, enumera quella di chi si "procura" (e
quindi, essendosi procurato, detiene, ovvero ha
detenuto) codici, password o altri mezzi idonei
all'accesso a un sistema informatico o telematico.
2.8. Si deve allora concludere che, con l'espressione
"trovato in possesso", il legislatore non abbia inteso far
riferimento al momento della "sorpresa" dell'agente da
parte delle forze dell'ordine, ma semplicemente abbia
voluto (con evidente improprietà espressiva) descrivere
la situazione di chi possiede o ha certamente posseduto
(senza averlo confezionato) il falso documento. Non
diversamente da quanto avviene con riferimento al
possesso di altre res prohibitae (si pensi alle sostanze
stupefacenti o alle armi clandestine), il possesso di
documenti falsi (validi per l'espatrio) è vietato e punito
perchè si tratta di un oggetto che mai (e da nessuno)
dovrebbe essere detenuto. La norma d'altra parte, in
quanto frutto tipico della legislazione della (endemica)
emergenza (L. 31 luglio 2005, n. 155 recante, non a
caso, "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo
internazionale", legge, come si è anticipato, di
conversione di precedente decreto legge), reca evidenti
le stimmate della approssimazione semantica.
2.9. L'elemento materiale del delitto di cui all'art.
497 bis c.p., comma 1, rappresentato dal fatto che
l'agente sia in possesso di un documento falso valido
per l'espatrio, non va inteso, pertanto (e
conclusivamente), nel senso che l'agente deve esser
colto (o trovato, appunto) "in flagranza" di possesso,
bensì nel senso che egli abbia (o abbia certamente
avuto) la disponibilità del documento, e, con essa, la
possibilità di un suo eventuale utilizzo; pertanto, ai fini
della configurabilità del reato, non è necessario un
rapporto - attuale e costante - di contiguità fisica della
persona col documento, ma è sufficiente che l'agente lo
detenga in un luogo e con modalità tali da
assicurarsene la immediata disponibilità, ovvero lo
abbia certamente detenuto, anche in un momento
AVV. GIULIANO VALER – 15 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA 3
CASS. PEN. SEZ. V, 23-04-2014, N. 25774
precedente all'accertamento da parte della polizia
giudiziaria.
2.10. Ne consegue che, se tale detenzione vi sia
stata, il fatto di essersi poi liberato del documento (scil
prima dell'intervento delle forze dell'ordine) non può
rappresentare
nè
desistenza
volontaria,
nè
ravvedimento operoso, ma costituisce un mero post
factum, diretto, il più delle volte (e, senza dubbio, nel
caso in esame), a impedire l'accertamento del reato.
3. La terza censura è fondata.
3.1. Invero, nell'ipotesi in cui la discrasia tra
dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un
errore materiale relativo all'indicazione della pena nel
dispositivo, ma dall'esame della motivazione sia
chiaramente ricostruibile il procedimento seguito dal
giudice per determinare la pena, la motivazione prevale
sul dispositivo, con la conseguente possibilità di
rettifica dell'errore, secondo la procedura prevista
dall'art. 619 c.p.p..
L'eventuale
divergenza
tra
dispositivo
e
motivazione della sentenza, pertanto, non deve essere
sempre risolta ricorrendo al criterio della prevalenza
del primo sulla seconda, atteso che, anche in tema di
determinazione del trattamento sanzionatorio, la
motivazione conserva la sua funzione di spiegazione e
chiarimento delle ragioni per cui il giudice è pervenuto
alla decisione e pertanto ben può contenere elementi
certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo
o parte di esso (ASN 201108916-RV 249654; (ASN
200840796-RV 241472; ASN 200738629-RV 237828
e altre precedenti).
3.2. Nel caso in esame, la sentenza di primo grado,
nella parte motiva, fissa in un anno e quattro mesi di
reclusione la pena base, che poi riduce a un anno per
effetto del riconoscimento delle attenuanti generiche.
Nel dispositivo della medesima sentenza, viceversa,
pur dandosi atto della concessione delle predette
attenuanti, la pena "finale" viene indicata in un anno e
sei mesi di reclusione, vale a dire in misura superiore,
addirittura, a quella che, in motivazione, era stata
indicata come pena base, sulla quale era poi stata
operata la riduzione ex art. 62 bis c.p..
3.3. L'errore materiale è dunque evidente ed esso
può essere corretto in questa sede di legittimità. La
sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio,
limitatamente al trattamento sanzionatorio, che va
rideterminato (scil ripristinato), per tutto quanto si è
sopra premesso, in anni uno di reclusione.
4. Nel resto, il ricorso va rigettato, in
considerazione della già illustrata infondatezza delle
prime due censure.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata,
limitatamente alla pena, che determina in anni uno di
reclusione; rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 19 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2014
AVV. GIULIANO VALER – 15 NOVEMBRE 2014 – REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA 4