“MICHAEL COLE E LA PSICOLOGIA CULTURALE PROF

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“MICHAEL COLE E LA PSICOLOGIA CULTURALE PROF
“MICHAEL COLE E LA PSICOLOGIA
CULTURALE”
PROF. BARBARA DE CANALE
Università Telematica Pegaso
Michael Cole e la psicologia culturale
Indice
1
L’ APPRENDIMENTO DELLA MATEMATICA IN LIBERIA ----------------------------------------------------- 3
2
ARTEFATTI, CONTESTO, MEDIAZIONE ----------------------------------------------------------------------------- 5
3
LO SVILUPPO DEL BAMBINO ------------------------------------------------------------------------------------------- 8
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Michael Cole e la psicologia culturale
1 L’ apprendimento della matematica in Liberia
M. Cole dichiara di essere stato introdotto alla ricerca cross-culturale dai tentativi che negli
anni Sessanta cercavano di impiegare l’educazione come strumento per produrre un rapido sviluppo
sociale ed economico nei Paesi meno sviluppati.
In particolare, egli venne coinvolto in un progetto avente come fine quello di promuovere le
competenze in matematica dei bambini della tribù Kpelle, abitanti in Liberia, nell’Africa
Occidentale.
Le difficoltà riportate dai bambini, quali ad esempio i problemi con la classificazione delle
figure geometriche o la consuetudine a ricorrere al ricordo meccanico anziché riflettere, erano
spiegate tradizionalmente sulla base di un modello di deficit delle variazioni culturali: i bambini
non riuscivano a classificare perché avevano problemi percettivi, ricorrevano al ricordo meccanico
in ragione di abitudini inculcate culturalmente.
M. Cole, tuttavia, dimostrò anzitutto come la consuetudine a ricorrere al ricordo meccanico
fosse in realtà una conseguenza dell’introduzione delle scuole dove si chiedeva ai bambini, ad
esempio, di recitare a memoria lunghi brani di poesia europea senza comprenderla; anche la
matematica, dunque, per questi bambini diventava sostanzialmente una questione di
memorizzazione.
In secondo luogo, osservando le abilità intellettuali dei Kpelle quali si manifestavano nella vita di
tutti i giorni e sottoponendo gli studenti a compiti matematici che impiegassero materiali loro
familiari, come ad esempio il riso, o si ispirassero ad attività locali, quali il gioco da tavolo del
malang, egli riuscì a dimostrare come, a differenza di quanto si credesse, i Kpelle non fossero
affatto stupidi ed anzi, in queste attività, essi si rilevassero addirittura superiori agli americani.
La conclusione a cui potè pervenire è che la pratica porta all’abilità e che le persone
sviluppano strumenti culturali e capacità cognitive in quei settori dell’esistenza che hanno per loro
rilevanza e significato.
Perciò, le differenze culturali riscontrabili nei processi cognitivi non sono tanto da ravvisare
nella presenza-assenza di diversi processi tra i vari gruppi culturali, quanto piuttosto nelle situazioni
in cui quei processi cognitivi vengono impiegati.
Cole e collaboratori intesero le scuole introdotte in tali Paesi come parte di un sistema di
perturbazione culturale ed evidenziarono la difficoltà degli psicologi dell’epoca a riflettere in modo
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sistematico sulla relazione tra la realtà psicologica creata attraverso le pratiche di ricerca e la realtà
psicologica della gente nelle sue pratiche quotidiane1.
La ricerca di Cole, perciò, evidenzia quanto aveva già posto in rilievo Bronfenbrenner
mutuandolo da K. Lewin: la differenza tra ambiente quale è nella realtà oggettiva e ambiente
percepito; i ricercatori che avevano preceduto Cole, in questo caso, assumevano che i bambini della
Liberia concettualizzassero strumenti e situazioni ed attribuissero significato ricorrendo agli stessi
criteri da loro dati per scontati. La ricerca di Cole invece dimostra come pur esistendo processi
cognitivi universali, questi vengono attivati nelle situazioni che per il soggetto hanno rilevanza
perché familiari o specifiche di quella cultura.
Questo, nell’ottica di un’educazione dell’infanzia per il bambino di una cultura altra,
sottolinea l’importanza di chiedersi quali processi vengano attivati ed in quali situazioni, al fine di
poter impiegare ciò che è già presente, ciò che è già sviluppato, ciò che è familiare, in vista
dell’apprendimento di nuove competenze e del raggiungimento degli obiettivi educativi.
1
Cfr. M. COLE, J. GAY, J. GLICK, Some experimental studies of Kpelle quantitative behaviour, in “Psychonomic
Monograph Supplements”, Vol. 2, num. 10, 1968, pp. 173-190; M. COLE, J. GAY, J. GLICK, D. W. SHARP, The cultural
context of learning and thinking, Basic Books, New York 1971, tr. it. Intelligenza, pensiero e creatività. Un confronto
tra terzo mondo e società occidentali, Franco Angeli, Milano 1976.
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Artefatti, contesto, mediazione
Per Michael Cole il comportamento umano può essere concepito e studiato solo all’interno
di un contesto socio-culturale specifico. Centrale nel suo pensiero è il concetto di artefatto. Gli
artefatti sono gli elementi costituivi della cultura, essi sono ideali e materiali al tempo stesso, in
quanto la loro forma materiale è stata modificata attraverso l’incorporazione nell’attività umana
trasformante e creatrice, volta al raggiungimento di uno scopo. Essi perciò unificano le proprietà
degli strumenti e dei simboli dato che l’oggetto naturale, creato per una ragione e messo in uso,
rappresenta la personificazione di uno scopo ed acquista un significato. Rifacendosi a M.
Wartofsky, egli distingue tra:
- artefatti primari, ossia quelli direttamente usati nella produzione, materia trasformata dall’attività
umana precedente;
- artefatti secondari, rappresentazione degli artefatti primari e dei modi di agire con cui sono
utilizzati, centrali nel processo di conservazione e di trasmissione di credenze e forme di azione;
- artefatti terziari, mondi immaginari, alternativi alla realtà, in cui regole, convenzioni ed esiti non
sono più direttamente pratici2.
La sua analisi, tesa a spiegare il ruolo di mediazione svolto dagli artefatti, si concentra in
particolar modo sugli artefatti secondari, quali i modelli culturali e gli script. I primi rappresentano
degli schemi culturali intersoggettivamente condivisi utilizzati per interpretare l’esperienza e per
guidare l’azione umana in una pluralità di situazioni; i secondi, in quanto sottoclasse dei primi,
rappresentano degli schemi di eventi che chiariscono la sequenza temporale degli accadimenti, le
persone che vi prendono parte, i ruoli agiti, le relazioni causali. I bambini crescono immersi in
script culturali la cui interiorizzazione è perciò fondamentale nel processo di acquisizione della
cultura.
Modelli culturali e script, tuttavia, non sarebbero sufficienti a spiegare il pensiero e l’azione
umana, dato che in ogni situazione, il soggetto, per sapere cosa pensare o come comportarsi, ha
bisogno di tutta una serie di altre informazioni di carattere visivo, acustico, sensoriale, propositivo
che sono in relazione ad un contesto. Di contro ad una definizione di contesto inteso come “ciò che
ci circonda” e che è possibile ravvisare nel modello di U. Bronfenbrenner, M. Cole, recuperando la
2
Cfr. M. WARTOFSKY, Models, D. Reidel, Dordrecht 1973.
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radice latina del termine (contexere = intrecciare), ravvisa in esso “una relazione qualitativa tra
minimo due entità analitiche (fili) intese come due momenti di un unico processo”3.
Oggetto e contesto si formano nel momento in cui vengono nominati ed i confini tra di essi sono
ambigui e dinamici.
Tale definizione di contesto rivela la natura relazionale della mente, in quanto essa, lungi
dall’essere confinata nella testa o nel corpo, opera per mezzo di artefatti ed è tra di essi distribuita.
L’insieme di obiettivi, strumenti e situazione rappresenta perciò sia il contesto del comportamento,
sia il modo in cui i processi cognitivi sono ad esso connessi. Il contesto, definito anche come attività
o pratica, si configura come medium, contemporaneamente precondizione e risultato del pensiero
umano.
Al modello di mediazione proposto dagli psicologi storico-culturali russi in cui soggetto e
oggetto sono connessi sia direttamente, sia indirettamente attraverso il medium costituito dagli
artefatti, rappresentabile attraverso un triangolo
Figura 2.2
M. Cole sostituisce il modello di Y. Engeström in cui l’azione mediata del soggetto
sull’oggetto esiste solo in relazione ad una serie di altri componenti assieme ai quali reciprocamente
si costruisce, si rinnova, si trasforma. Tale modello è rappresentabile attraverso un secondo
triangolo, costituito a sua volta da una serie di triangoli interconnessi4:
3
Cfr. M. COLE, Cultural Psychology, Harvard University Press 1996, tr. it. Psicologia culturale, Edizioni Carlo Amore,
Roma 2004, p. 124.
4
Cfr. Y. ENGESTRÖM, Learning by Expanding, Orienta-Konsultit Oy, Helsinki 1987.
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Figura 2.3
La comunità è l’insieme delle persone che condividono lo stesso oggetto; le norme
rappresentano le regole e le convenzioni esplicite che relegano l’azione all’interno del sistema di
attività; la divisione del lavoro si riferisce alla divisione, tra i membri della comunità, delle azioni
orientate sugli oggetti.
Tutti i vari componenti non esistono isolatamente gli uni dagli altri, ma in stretta interconnessione.
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Lo sviluppo del bambino
M. Cole si chiede come il passato culturale possa essere correlato al futuro ed al presente del
bambino. Egli individua nella prolessi quel meccanismo culturale che rende possibile tale
correlazione. La prolessi, infatti, consente, sulla base dell’esperienza passata, di rappresentare un
atto o uno sviluppo futuro come esistente nel presente.
Quando un bambino viene al mondo è già egli stesso un oggetto culturale, le sue caratteristiche
filogenetico-biologiche sono interpretate dagli adulti sulla base della loro esperienza personale,
culturalmente condizionata. Ciascun bambino, perciò, nasce già immerso in quei concetti,
culturalmente specifici, che la sua comunità ha sui bambini piccoli. Accade così che i genitori, sulla
base delle informazioni che derivano dal loro passato culturale e presupponendo una continuità ed
una stabilità della cultura, ipotizzano e di conseguenza progettano un possibile futuro per il figlio,
strutturando l’esperienza del bambino in modo coerente a ciò che essi hanno immaginato riguardo
la sua identità futura.
Il richiamo ideale del passato ed il futuro immaginato dai genitori diventa, dunque, una restrizione
materializzata che grava sulle esperienze di vita del figlio, in quanto le interazioni genitore-bambino
saranno strutturate sulla base delle concezioni del mondo e dell’uomo derivanti dal passato culturale
del genitore.
In una cultura in cui, ad esempio, si ritenga che ad una donna siano convenienti
caratteristiche di dolcezza e mitezza, le bambine saranno trattate dai loro genitori secondo modalità
di interazione che possano rendere attuali nel futuro le caratteristiche desiderate.
Attraverso il meccanismo della prolessi, dunque, il passato è proiettato nel futuro e la fine è
trasportata all’inizio (figura 2.4).
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Figura 2.4 5
Le interazioni genitore-bambino sono organizzate sulla base delle pratiche di puericultura
culturalmente regolamentate che forniscono perciò i vincoli essenziali perché lo sviluppo possa
procedere secondo determinate direzioni ritenute auspicabili. Tali interazioni assumono la forma di
routine interindividuali, ripetitive e cadenzate, all’interno delle quali, ciascun partner si coordina
all’altro ed insieme negoziano le azioni nel mentre sono poste in essere, realizzando un’armonia e
una sintonia dei comportamenti. Caratteristica saliente delle routine, pertanto, è la reciprocità;
attraverso di esse, inoltre, adulti e bambini gettano le basi per la condivisione delle esperienze. Un
esempio può essere fornito dalla condivisione degli stati emozionali, esperienza in cui adulto e
bambino “sintonizzano” le proprie emozioni l’uno in relazione a quelle dell’altro. Alle prime forme
di intersoggettività primaria, fanno seguito forme di intersoggettività secondaria, in cui adulto e
bambino condividono intenzioni ed emozioni che vanno al di là di loro stessi e riguardano altri
oggetti o persone. Imbattendosi in una nuova situazione o in un oggetto non familiare, ad esempio,
5
La presente figura è tratta da M. COLE, Cultural Psychology, Harvard University Press, 1996, tr. it. Psicologia
culturale, op. cit., p. 164. L’ellisse rappresenta l’evento della nascita del bambino; le frecce raffigurano il meccanismo
della prolessi: dalla madre al passato culturale da lei ricordato (1), al futuro culturale immaginato per il figlio (2), al
modo in cui il bambino viene trattato nel presente (3).
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il bambino guarda anzitutto la reazione del genitore, al fine di ottenere informazioni sul come
comportarsi: ad espressioni diffidenti o preoccupate del genitore faranno seguito comportamenti di
evitamento o circospezione del bambino, ad espressioni rilassate e fiduciose dell’adulto, al
contrario, seguiranno comportamenti di tranquillità o di curiosità.
Relativamente allo sviluppo intellettuale poi, M. Cole non rifiuta quegli studi che hanno
avanzato l’ipotesi della modularità, anzi egli ammette l’esistenza di strutture organizzative dominiospecifiche determinate in modo innato che andrebbero ad influenzare l’assimilazione di fatti e
concetti e che avrebbero il predominio nell’infanzia, ma parallelamente, egli ritiene che tali linee di
sviluppo naturali vadano ad intrecciarsi con linee di sviluppo culturali all’interno di un processo
unico che va a ri-mediare le informazioni (sia innate che acquisite) già immagazzinate dalla mente.
Egli prende in considerazione il caso del linguaggio e si chiede se esso venga acquisito tramite un
processo di apprendimento culturalmente mediato o se invece non sia un dominio circoscritto che
richiede solo di essere innescato per entrare in azione.
Pur riconoscendo l’esistenza di “semi” del linguaggio già presenti al momento della nascita,
quali ad esempio la capacità di riconoscere una vasta gamma di distinzioni fonetiche, l’abilità a
distinguere le sillabe dalle non sillabe, la preferenza per i suoni discorsivi rispetto a quelli non
discorsivi, Cole ritiene tuttavia che per acquisire qualcosa che vada al di là di meri rudimenti del
linguaggio, il bambino abbia bisogno non solo di udirlo, ma anche di partecipare alle attività
culturalmente organizzate che il linguaggio contribuisce a creare. È
durante il processo di
negoziazione di eventi e situazioni con adulti inculturati che il bambino scopre la vasta gamma di
significati codificati nel linguaggio e parallelamente, cercando di comprendere oggetti e rapporti
sociali al fine di padroneggiare la situazione e se stesso, ricrea la cultura reinventando la lingua dei
suoi predecessori.
Cole giunge a sostenere, pertanto, che una teoria culturale dello sviluppo non sia in contraddizione
ad una teoria modulare della mente.
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