università degli studi di macerata il laboratorio didattico
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO SCIENZE DELL’EDUCAZIONE, DEI BENI CULTURALI E DEL TURISMO CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN HUMAN SCIENCES – CURRICULUM TECHNOLOGY OF EDUCATION CICLO XXV IL LABORATORIO DIDATTICO STORIA TEORIA ED APPLICAZIONE TUTOR Chiar.mo Prof. Pier Giuseppe Rossi DOTTORANDA Rosa Iaquinta COORDINATORE Chiar.mo Prof. Pier Giuseppe Rossi ANNO 2013 INDICE PREFAZIONE p. 1 INTRODUZIONE p. 4 p. p. p. p. 7 7 10 13 p. 19 p. 23 CAPITOLO SECONDO La scuola laboratorio di Dewey: alle origine del problema 2.1 La teoria educativa di John Dewey 2.2 La scuola di Chicago 2.3 Metodi e discipline nella Laboratory School p. p. p. p. 32 32 43 50 CAPITOLO TERZO Il laboratorio nella cultura contemporanea 3.1 Francesco De Bartolomeis 3.2 Franco Frabboni 3.3 Massimo Baldacci 3.4 Luciana Bellatalla p. p. p. p. p. 58 60 74 83 97 CAPITOLO QUARTO Realtà di laboratorio 4.1 I laboratori nei progetti POF e PON 4.2 Caratteristiche del progetto 4.3 I laboratori fuori dalla scuola p. p. p. p. 108 111 115 120 CONCLUSIONI p. 125 BIBLIOGRAFIA p. 131 CAPITOLO PRIMO Linee teoriche 1.1 Le radici 1.2 Le scuole nuove in Europa 1.3 Le scuole nuove negli Stati Uniti 1.4 Le scuole nuove in Europa dopo il conflitto bellico 1.5 Evoluzione delle scuole nuove e proposte di laboratorio “dal dopo Dewey” ad oggi PREFAZIONE Questo lavoro analizza il percorso della didattica laboratoriale nel XX secolo focalizzando l’attenzione sulla letteratura nazionale ed internazionale e sulle sue applicazioni nel contesto educativo. Nel ricostruire il procedere della metodologia laboratoriale durante il secolo trascorso inevitabilmente, volendo circoscriverne cronologicamente e spazialmente il come ed il dove, se ne sono dovute richiamare le origini. Stilisticamente il lavoro è discorsivo, concettualmente è selettivo, essendo rivolto all’individuazione degli aspetti essenziali del tema. Nel contenuto tratta il concetto di metodologia laboratoriale e la teoria dell’educazione di riferimento che è vista nelle sue origini e nelle sue funzioni, o per dirla con linguaggio più accreditato, nel contesto di costituzione e nel contesto di applicazione. I materiali scelti sono costituiti dalla teoria pedagogica che l’ha generata, dal pensiero del suo maggiore rappresentante, John Dewey, e dal suo sviluppo in alcuni dei più significativi pedagogisti italiani del nostro tempo. La scelta dell’argomento è stata dettata da motivi didattici innescata dalla costatazione della difficoltà che i docenti ogni giorno incontrano nel catturare e mantenere l’attenzione degli studenti durante la loro quotidiana attività professionale e della necessità di rinnovare i processi di insegnamento e di apprendimento adeguandoli al nuovo contesto ed alle nuove esigenze della scuola attuale. In questa ottica la didattica laboratoriale appare geneticamente predisposta a stimolare la modalità di insegnamento/apprendimento adeguandole alle caratteristiche di ciascuno e coinvolgendo la sua utenza in un processo di un apprendimento qualitativamente elevato. Presupposto attentivo verso tale metodologia è costituito dal suo offrirsi, anche, quale esempio di ricerca educativa pensata come processo di costruzione da parte degli studenti, per mezzo della ricerca, di operazioni, intellettuali e pratiche, di organizzazione delle conoscenze. Ciò è ottenuto tramite un apprendimento interessante ed utile, in quanto destinato a rendere abili nella comprensione del mondo nel quale si vive, ma anche significativo per chi deve comprendere e apprendere suscitando motivazione, competenze ed operatività. La metodologia laboratoriale ha origine dal connubio tra il sapere teorico, universitario, ed il lavoro sul campo che si realizza nelle scuole. La fruibilità del metodo, rivolgendosi a destinatari diversi per stili di apprendimento, la rende idonea in contesti di formazione adulta oltre che nei diversi ordini di scuola. In un’epoca caratterizzata da ritmi di vita sempre più veloci potrebbe apparire anacronistico l’interesse verso un tema di ricerca che richiama le radici lontane della Scuola Attiva e dell’apprendimento per ricerca, ma la didattica laboratoriale mantiene intatta la sua validità per un apprendimento significativo, indipendentemente dagli assetti istituzionali riferiti a vecchie o nuove riforme. Nella sua struttura il lavoro si compone di quattro capitoli che ripercorrono le linee teoriche della didattica laboratoriale. Il primo capitolo analizza, a grandi linee, la teoria educativa ed il terreno sul quale le convinzioni pedagogiche che la hanno suscitata. Il secondo capitolo si occupa della teoria deweyana e della scuola-laboratorio di Chicago. Il terzo espone il pensiero di alcuni tra gli studiosi italiani che si sono occupati dell’argomento. Il quarto ed ultimo tratta della didattica laboratoriale nel contesto educativo, volendo cogliere le implicazioni, i riferimenti e le parziali elaborazioni teoriche nell’agire educativo. INTRODUZIONE Affrontare il discorso della didattica laboratoriale significa prendere in considerazione il duplice aspetto che lo connota: quello pedagogico e quello metodologico-didattico. La riflessione pedagogica, consolidata da una tradizione che sull’argomento annovera contributi di valori assoluto, costituisce la cornice teorica da cui la prassi scolastica attinge validità scientifica e coerenza educativa. Lo sviluppo e la diffusione della didattica laboratoriale, d’altra parte, se non saldamente ancorata ad un approfondimento del senso e della direzione dell’esperienza, genera equivoci ed ambiguità, col rischio di nascondere realtà molto diverse ed alle volte opposte. La presenza di fenomeni contrapposti sollecita, inevitabilmente, una riflessione che precisi non solo il significato originario del termine laboratorio ma, altresì, il significato che questo assume in una teoria didattica che consideri attentamente la metodologia su cui si incardina e da cui attinge senso e prospettiva pedagogica. D’altra parte i nodi da chiarire, per evitare distorsioni ed equivoci, includono l’essenza stessa del concetto di laboratorio o, per meglio dire, la concezione pedagogico–didattico–metodologica che ne sta alla base e che in esso si realizza. Come ricorda, infatti, la psicologa Rita Gay1 è ancora molto diffusa, in buona parte degli insegnanti, l’opinione, di natura strettamente evolutiva, circa il valore del fare nella scuola. Lo sviluppo cognitivo di ciascun soggetto, per come indicano le teorie organismiche e costruttive dello sviluppo, muovendo dal concreto all’astratto, dall’azione al simbolo, richiede che gli insegnanti, nel 1 Cfr. R. GAY, Parole forti dell’educazione, Ancora, Milano, 2005. processo di apprendimento-insegnamento, tengano in debito conto tale percorso lineare ed, in ragione di questo, elaborino metodologie che ne utilizzino le caratteristiche. L’iter scolastico di ciascun soggetto (dall’infanzia sino al compimento degli studi) si organizza, così, intorno ad occasioni di fattualità che risultano numerose nei primi anni di scuola (materna ed elementare) per decrescere gradualmente, a favore dei processi di astrazione e della conquista di un’intellettualità opposta e dimentica della manualità da cui essa stessa ha tratto origine. Il simbolo astratto viene opposto, pertanto, all’esperienza concreta. Il fare si caratterizza subalternamente al conoscere. E’ questo, sostanzialmente, il dualismo che da sempre alberga in buona parte degli insegnanti e che indirizza il processo di istruzione degli allievi. Dualismo che ha generato un incitamento all’operatività del discende che può essere definito “a tempo”, quasi ad “orologeria”. Tale sprone operativo, infatti, scompare man mano che il discende entra in possesso di quella maturità che gli consente di formulare processi di astrazione e di simbolizzazione che lo qualificano come intellettualmente maturo. Le pratiche manuali ed operative cessano così, da quell’istante in poi, di esistere e di avere validità. Non è agevole stabilire se, ed in quale misura, il movimento dell’educazione nuova e della scuola attiva sia stato esente da tale fraintendimento. Di certo Gramsci2 ed ancor più Dewey3 si sono soffermati più volte ad indagare il rapporto intercorrente tra fare e conoscere, funzionalmente all’esperienza dell’allievo. Anche, in tempi Cfr. A. GRAMSCI, L’alternativa pedagogica, (a cura di) M. A. MANACORDA, Editori Riuniti University Press, Roma, 2012, (Gramsci, 2012) (Cuffaro, 2006) (Bruner, La cultura dell'educazione, 1997)3 Cfr. H. K. CUFFARO, La scuola del fare, Armando Editore, Roma, 2006. 2 più recenti, le ricerche di Bruner4, Gardner5 ed Olson6, indagando lo stretto legame esistente fra strumenti simbolici e strumenti tecnologici, questi ultimi intesi da Bruner come strumenti tipici di una cultura, carichi di una consistente forza modellatrice sul pensiero e le capacità cognitive dell’uomo7, hanno avvalorato e riconfermato l’importanza della manualità. Ecco quindi che la manualità inizia a liberarsi della condizione di vassallaggio nei confronti dell’intellettualità, come De Bartolomeis sostiene in alcuni scritti sui laboratori e sulle attività manuali8. Ai fini del nostro discorso e per dipanare il groviglio di opinioni e di teorie sull’argomento risulta utile, anche in ragione della intervenuta stagione dell’Autonomia e della Riforma universitaria che concorrono a riattualizzare e rivitalizzare il concetto stesso di laboratorio, affrontare l’argomento delineandone una breve storia. Non soltanto per impadronirci del significato originario del termine ma per delineare i cambiamenti e gli ampliamenti di senso che nel tempo sono sopravvenuti e che continuano ancora oggi a sopravvenire. Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997. Cfr. H. GARDNER, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Erickson, Trento, 2005. 6 Cfr.D. R. OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, Torino, Loescher, 1979. 7 Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, cit. 8 Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, La pratica del lavoro di gruppo, Loescher, Torino, 1978. 4 5 CAPITOLO PRIMO LINEE TEORICHE 1.1 Le radici Sin dall’antichità nella mente di maestri e pedagoghi ha albergato la convinzione che colui che deve imparare, ovvero il discende, sia una sorta di vaso da riempire, più o meno forzatamente a seconda dei casi, di nozioni preconfezionate, sicure ed indiscutibili. La civiltà latina9 a tal proposito ci ha tramandato la figura del plagosus orbilius10 che, con metodi certamente poco ortodossi, quelli che Manacorda definisce “sadismo pedagogico”11 (a suon di nerbate) e pertanto didatticamente discutibili, convinceva i propri allievi a ripetere, mnemonicamente e senza incertezze od errori, le opere dei maestri del tempo. Fin dall’antichità però ai sostenitori dell’apprendimento a fini “riempitivi” si sono opposti filosofi e pedagogisti quali Socrate, Rabelais, Montaigne, Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi, Froëbel, sostenitori, per converso, della teoria educativa che vede il discende attore della propria educazione, sperimentatore di tutte le capacità possedute, non limitatamente a quelle dell’intelligenza formale e della memoria. Risulta evidente come codesti pensatori, con le loro innovative teorie pedagogiche rivoluzionanti il modo stesso di concepire ed attuare il processo educativo, abbiano in un certo senso precorso l’attivismo, ovvero il movimento delle scuole nuove (e quindi la metodologia PLUTARCO, Questioni romane, 59; CICERONE, Repubblica, 2, 19,37; LIVIO, Annali 3,44,6; 5, 27, 1; 9, 36. 10 Cfr. L. CANALI, Ritratti dei padri antichi, Edizioni Studi Tesi, Pordenone, 1993. 11 Cfr. M. A. MANACORDA, Storia illustrata dell’educazione, Giunti, Firenze, 1992. 9 laboratoriale), sviluppatosi successivamente in Europa e negli Stati Uniti tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 e destinato a lasciare una traccia profonda in campo educativo e nella pedagogia operando un radicale rovesciamento dell’educazione col suo porre al centro del processo educativo il bambino con i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue capacità. In ambito scolastico la rivoluzione attivistica ha operato la rottura con il passato e con la tradizione, rappresentata da un’istituzione scolastica formalistica, disciplinare e verbalistica, teorizzando un modello di scuola in cui lo studio potesse essere esperienza, movimento problematico della mente, presa di posizione personale, ricerca. Il movimento attivistico, altresì, ha collegato strettamente la pedagogia alle scienze umane, psicologia e sociologia soprattutto, indicandone le implicazioni politiche e antropologiche. Che l’attivismo abbia rappresentato nel panorama pedagogico una rivoluzione è ormai, a più di cento anni della sua comparsa, fuori discussione. E’ tuttavia importante precisare che la portata rivoluzionaria del movimento non è da rintracciare e da limitare solo alla sua nascita ma la sua spinta innovatrice ha assunto maggiore forza e consistenza proprio nel tempo, conseguentemente al progredire della sperimentazione didattica ed allo sviluppo della psicologia dell’età evolutiva, all’evoluzione democratica della società che ha richiesto e richiede, sia alla pedagogia che alla didattica, continue revisioni e adeguamenti. Le prime esperienze delle scuole nuove, diffusesi prevaletemente in Europa occidentale e negli Stati Uniti, sorgono negli ultimi decenni del secolo XX in un clima di ripresa di soggettivismo umanistico evidenziato dal prorompere delle correnti anti-intellettualistiche e antipositivistiche12. E’ bene precisare che le scuole nuove nacquero e si svilupparono all’origine come esperimenti isolati, legati oltre che a condizioni particolari a personalità eccezionali di educatori. Tuttavia, proprio per l’interesse che suscitarono nel mondo educativo, esse avviarono una serie di richieste nel campo dell’istruzione volte a modificare la scuola nel profondo, non limitatamente all’aspetto organizzativo ed istituzionale di essa, che certamente subiva una trasformazione ma, in modo precipuo, all’aspetto inerente agli ideali formativi e agli obiettivi culturali. Caratteristica fondamentale delle scuole nuove è il richiamo all’attività del fanciullo13 che, essendo naturalmente attivo, deve poter manifestare liberamente le proprie inclinazioni primarie, svincolato dalle limitazioni imposte dall’educazione familiare e scolastica. La vita della scuola, in ragione di ciò, deve essere organizzata in modo confacente ai bisogni dell’immaturo, con una scuola ubicata fuori città e posta in un luogo che favorisca il contatto del fanciullo con l’ambiente circostante a cui egli è spontaneamente interessato. Egli va educato attraverso attività intellettuale e attività pratica. L’avallo dato “al primato dell’azione o esplicitamente al primato del lavoro manuale nell’educazione”14 fu l’essenziale messaggio di novità che caratterizzò tali scuole. Cfr. F. RAVAGLIOLI, Profilo delle teorie moderne dell’educazione, Armando, Roma, 1991. Cfr. C. DESINAN, Discutere la scuola. Ipotesi, contenuti e prospettive a confronto, Angeli, Milano, 1998. 14 Cfr. F. BLEZZA, Educazione XXI secolo, Pellegrini Editore, Cosenza, 2007. 12 13 1.2 Le scuole nuove in Europa Le prime esperienze di scuole nuove furono realizzate nel 1889 in Inghilterra da Cecil Reddie15 (1858-1932) che ad Abbotsholme aprì una scuola, di cui fu direttore fino al 1927, per ragazzi dagli 11 ai 18 anni. Muovendo un aspra critica allo “spirito di tradizione e di routine”16 che caratterizzava la didattica sino ad allora in auge, centrata su programmi astratti e traboccanti di classicismo, destinati a “formare uomini per il passato e non per il presente”17 , Reddie si proponeva di “conseguire uno svolgimento armonico di tutte le facoltà umane” 18 poiché “l’uomo non è pura intelligenza congiunta con un corpo e si devono formare altresì l’energia, la volontà, la forza fisica, l’abilità manuale, l’agilità”19. La sua scuola era ubicata in campagna e gli alunni venivano formati attraverso l’esperienza personale che compivano, attraverso l’osservazione diretta ed il lavoro che svolgevano a vantaggio della comunità, ponendo grande attenzione ai rapporti sociali e all’esercizio della libertà nel rispetto delle leggi. L’esperienza di Reddie diede frutti anche al di fuori di Abbotsholme, precisamente a Badales nel Sussex dove Haden Badley, proselito del Reddie, organizzò una scuola fondata sull’autogoverno e sul principio della co-educazione. Anche la Francia si richiamò all’esperimento di Reddie con la fondazione, in Normandia, dell’ “Ecole des Roches” (1899), la scuola Cfr. F. BLEZZA, Educazione XXI secolo, Pellegrini Editore, Cosenza, 2007. R. NICOL, P. HIGGINS, Cecil Reddie Pioneering Headmaster, in T. E. SMITH, C. E. KNAPP, Sourcebook of Experimential Education, Routledge, N. Y., 2011. 17 Ivi, p.119. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 120. 15 16Cfr. voluta da Edmond Demolins20 (1852-1907) e proseguita da Georges Bertier21 (1877-1909) che valorizzava al suo interno un sistema di autogoverno, il mutuo insegnamento e forme di collaborazione. Essa, situata in campagna e quindi distante dall’ambiente costrittivo e artificiale della città, garantiva ai fanciulli che la frequentavano ampia libertà di movimento oltre che la possibilità di abitare in case riproducenti l’ambiente casalingo, al fine di mantenere la sensazione di vita reale quale si viveva in famiglia. L’obiettivo della loro scuola era rappresentato dalla formazione globale del fanciullo, una formazione, cioè, comprendente la sfera intellettuale, fisica, sociale, morale. Le istanze fondamentali delle scuole nuove europee furono recepite anche dalla Spagna dove Andrès Manjon22 (1846-1923) elaborò un modello di educazione popolare cristiana nutrito delle scoperte psicopedagogiche delle scienze educative e da un’apertura verso la pedagogia laica che caratterizzò l’indirizzo denominato dell’attivismo cristiano23. Con le “scuole dell’Ave Maria”24 (1888) A. Manjon25 si proponeva di liberare dall’ignoranza i fanciulli del popolo stimolando, Cfr. M. RUMI, La ricerca del metodo, in L.VOLPICELLI, (a cura di) Pedagogia, vol. 10, Vallardi, Milano, 1975. 21 Ibidem. 22 Cfr. J. M. PRELLEZO, Andrés Manión, in FUNDACIÓN SANTA MARIA, Historia de la educación en España y América, Ediciones Morata, Madrid, 1994. 23 Cfr. V. BURZA, Pedagogia, formazione e scuola. Un rapporto possibile, Armando, Roma, 1999. 24 Le “scuole dell’Ave Maria” nascono sotto il segno del fare, dell’espressività e di un autentico riconoscimento dell’infanzia; l’insegnamento, decisamente accattivante, predilige la narrazione, la drammatizzazione, l’interpretazione, l’attività ludica, la personificazione di grandi figure storiche e religiose, il canto accompagna i diversi momenti della vita scolastica rendendo divertente l’apprendimento. Le scuole si diffusero in tutta la spagna e poi nell’America latina. A Roma nascono alcune scuole ispirate a quelle dell’Ave Maria nel 1933. Tra le significative iniziative realizzate da Manjòn vi è l’istituzione di un collegio per la formazione dei maestri, un vero laboratorio di metodi innovativi destinato ad arricchire la professionalità degli insegnanti, quindi a migliorare il loro operato, assicurando, diremmo oggi, il successo formativo dell’alunno. 25 Cfr. A. MANJON, I metodi delle scuole dell’Ave Maria, Avio, Roma, 1957. 20 attraverso il gioco e il canto, la loro spontaneità, a diretto contatto con una natura che diveniva scuola vera e propria . Le scuole nuove fanno la loro comparsa in Belgio per opera di Ovide Decroly (1871-1932), uno dei teorici dell’attivismo26, di professione medico ma interessato ai problemi dell’educazione di cui si era occupato, nell’ambito della pedagogia differenziale, sin dal 1901. Gli studi sulla psiche infantile, condotti sugli anormali27 ed in ragione di un loro recupero, possibile per O. Decroly con un insegnamento <accurato e prolungato>, avevano dato al medico belga la possibilità di conoscere meglio il fanciullo in generale, al di là di situazioni particolari o delle patologie da cui poteva essere afflitto. La sua “Ecole de l’Ermitage” (1907) divenne uno dei centri più noti di sperimentazione educativa, dove il bambino trovava la possibilità di prepararsi ai problemi sociali e materiali della vita, imparando a pensare e ad agire. Il raggiungimento di tale obiettivo era possibile attraverso la collaborazione con il maestro per elaborare conoscenze, costruire materiali, sperimentare e scoprire oggetti, strumenti e idee, esprimersi e comunicare liberamente, assumersi responsabilità. La diffusione delle scuole nuove e dell’educazione attiva nell’Europa occidentale trova completamento con l’ Arbeitschule (1912) o “scuola del lavoro” fondata in Germania da W. Kerschensteiner28, la cui formazione deweyana è evidente nel richiamo alla manualità in educazione, ritenuta una forza viva e umanizzante29. Il lavoro, attività fondamentale dell’uomo, doveva essere, a parere del pedagogista, il fulcro dell’attività infantile. Un lavoro serio e preciso, svolto in Cfr. A. GOUSSOT, La scuola nella vita: il pensiero pedagogico di Ovide Decroly, Erickson, Trento, 2005. 27Cfr. O. DECROLY, La classification des enfants anormaux, French Edition, 1900. 28 Cfr. P. SMITH, The History of American Art Education: Learning about art in American Schools, Greenwood Press, Westport, 1996. 29 Cfr. M. GECCHELE, P. DAL TOSO (a cura di) Educazione democratica per una pace giusta, Armando, Roma, 2010. 26 collaborazione con gli altri, dotato di valore produttivo anche se non economico. All’attività manuale veniva riconosciuta non soltanto funzione di orientamento e di formazione professionale ma, bensì, un ruolo centrale nell’educazione etica e civile. Gli allievi della Arbeitschule dovevano compiere operazioni quali misurare, pesare, controllare, lavorando i prodotti con una precisione tale da ottenere, al termine dell’attività, un prodotto uguale al modello e rivestente un intrinseco valore spirituale più che commerciale. Il lavoro, però, non era fine a se stesso ma assolveva un compito altamente educativo poiché pienamente consapevole delle proprie finalità complessive. Per conseguire tale fine le scuole dovevano dotarsi di laboratori e officine, così come lo stesso Kerschensteiner attuò a Monaco allorquando fu incaricato di approntare un organica riforma delle scuole professionali post-elementari30. 1.3 Le scuole nuove negli Stati Uniti Il movimento delle scuole nuove sin dalla nascita, e lungo tutto il corso del suo svolgimento, è stato accompagnato da un intenso lavoro di teorizzazione mirante ad evidenziare da una parte i fondamenti filosofici e scientifici del movimento rinnovatore e dall’altra gli obiettivi educativi fondanti che esso, oppostamente a ciò che la scuola e la pedagogia tradizionale sostenevano, veniva invece affermando. Il lavoro dei teorici, così come quello svolto operativamente dalle scuole nuove, diede così origine al progetto di educazione attiva che attirò a sé l’attenzione di insegnanti ed educatori di tutto il mondo. Le prime Cfr. G. KERSCHENSTEINER, Begriff der Arbeitsschule, Leipzig, Eubner 4a edizione, http://www.gutenberg.org/catalog/world/readfile?fk_file=711412&pageno=2 30 esperienze di scuole nuove rappresentano, pertanto, il germe e il modello di ciò che il ginevrino Pierre Bovet (1878-1965) definirà scuola attiva31. Agli slanci di entusiasmo pedagogico e di intuizioni metodologiche degli educatori europei gli Stati Uniti risposero con l’attenta opera di sistemazione teorica di John Dewey che, certamente, fu il teorico più illustre dell’educazione nuova, data la ricchezza ed il rigore filosofico del suo pensiero che allargava il pragmatismo di W. James32 (18421910) al campo della logica e dell’educazione ed alle approfondite conoscenze in campo psicologico sviluppate partendo dagli insegnamenti di G. Stanley Hall (1844-1924). Tali basi, sempre intrecciate ed interdipendenti, costituirono l’humus delle esperienze e delle ricerche di Dewey sia come educatore che come studioso. Dall’assunto che la conoscenza non è pura riproduzione ma modificazione della stessa mediante il pensiero discende che è possibile imparare solo attraverso esperienze originali che nessuno può fare al posto di altri33. Da questi fondamenti derivano, in pratica, i successivi sviluppi del movimento delle scuole attive. L’attivismo pedagogico teorizzato da Dewey, che nel secondo capitolo del presente lavoro riceve maggiore attenzione, si sviluppa nei testi come nell’esperienza educativa attuata dal pedagogista nel 1896, con la direzione della scuola elementare annessa all’Università di Chicago, attraverso un radicale rinnovamento della didattica e dell’organizzazione della scuola. La sua scuola venne chiamata scuola laboratorio34 e la stretta connessione tra il conoscere e il fare ne caratterizzò l’organizzazione e la didattica. Al centro delle attività Cfr. P. BONNET, La libertà nell’educazione, R. FORNACA (a cura di), Paravia, Torino, 1975. 32 Cfr. G. FORNERO, S. TASSINARI, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano, 1998. 33 Cfr. G. S. HALL, Educational problems, Appleton and Company, N.Y., 1911. 34 Cfr. J. DEWEY, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1972. (7° ristampa). 31 svolte nella scuola laboratorio era posto il fanciullo con le sue iniziative, legate ai suoi bisogni fisici, intellettuali e sociali ed ai suoi interessi, costituenti la motivazione profonda di ogni apprendimento. Il fanciullo, inoltre, “individuo sociale al pari dell’adulto”35 e, pertanto, con interessi fondamentali legati alla vita sociale e all’ambiente umano e produttivo che lo circonda, doveva poter vivere in una scuola attenta e rispettosa delle peculiarità di questa fase della sua vita. Doveva essere una scuola aperta alla comunità, ad attività, a valori, etc., in grado anche di “semplificare la vita sociale esistente”36 riconducendola “a forma embrionale”37. Gli alunni nella scuola di Chicago collaboravano tra loro e con l’insegnante, prendevano contatto con l’ambiente, lavoravano attorno a centri di interesse, governavano la scuola, si dedicavano, a scopo di ricerca e di apprendimento, non di produzione utilitaria, a lavori di ogni tipo traendo dalle “esperienze più comuni, dirette e personali, i problemi, i moventi e gli interessi”38 che li spingevano ad agire e a studiare. La scuola progettata da Dewey appare come profondamente democratica39 sia in ambito didattico che nell’organizzazione amministrativa. Gli insegnanti, infatti, partecipano, in modo diretto o per tramite di rappresentanti scelti democraticamente, “alla formazione dei fini direttivi, dei metodi e dei materiali della scuola”40 in cui sono inseriti e di cui sono parte fondamentale. La democrazia, in tal modo, viene appresa dai fanciulli in modo naturale attraverso il comportamento di ciascuno, a tutti i livelli, in sostanza attraverso l’organizzazione democratica che si realizza all’interno della scuola. Ivi, p.25. Ivi, p.12. 37 Ibidem. 38 Ivi, p.13. 39 Ivi, p. 8. 4040 J. DEWEY, Scuola e società, op. cit., p. 9. 35 36 genuinamente Le questioni psicologiche, etiche, politiche oltre che filosofiche e pedagogiche analizzate da Dewey, per la varietà e la profondità degli stimoli che offrivano, influirono profondamente sulla seconda generazione di scuole attive che si svilupparono nel nuovo e nel vecchio continente subito dopo il primo conflitto mondiale. Talune esperienze statunitensi ebbero il nome di piani, termine che meglio evidenziava la coerenza esistente tra l’organizzazione scolastica e la visione della vita. Così come la risoluzione dei problemi della vita di ciascuno va affidata ad un lavoro di progettazione costante e rigoroso è il pensiero, per i pragmatisti, l’organo per la soluzione dei problemi. Nello stesso modo, in ambito scolastico, l’insegnamento e l’apprendimento assicurano risultati di gran lunga migliori se risultanti da un’attività intenzionale volta al perseguimento di un fine. Il Dalton Laboratory Plan41 (1920) elaborato da Helen Parkhurst (1887-1973), che si era ispirata alle posizioni della Montessori (18701952), è indubbiamente tra i piani più significativi e conosciuti42. La Parkhurst, che tentò di attuare il suo piano a New York in una University School, fondava la sua esperienza su due idee fondamentali: l’individualizzazione dell’insegnamento e la libera scelta del lavoro scolastico, coniugando, in tal modo, l’esperienza personale, avvalorata ed esaltata dalle scuole nuove, con la cultura della scuola tradizionale di cui non modificava ne programmi né contenuti. Ciascun allievo della scuola doveva organizzare nel proprio registro i piani e i tempi del lavoro che si impegnava a svolgere secondo ritmi personali, non più nelle classi ma nei laboratori di ciascuna disciplina, diretti da docenti specializzati, che le sostituivano. Cfr. E. DEWEY, The Dalton Laboratory Plan, BiblioLife, LLC, 2009. Cfr. M MONTESSORI, Il metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, Loescher, Roma, 1935, III edizione. 41 42 Il Piano Dalton, certamente apprezzabile per la viva sensibilità che lo caratterizza nei riguardi dei problemi dell’apprendimento individuale e per il progetto di razionalizzazione del lavoro scolastico, risultava, però, regolato da un’organizzazione che accentuava la specializzazione degli spazi ma manteneva la frammentazione dei contenuti e la conseguente gerarchizzazione delle discipline e, se pur attenta ai problemi dello sviluppo individuale ed all’apertura della scuola al suo interno, rischiava di costruirla come istituzione chiusa verso l’esterno43. Accanto all’esperienza della Parkhurst, ma soprattutto all’attivismo pragmatico di Dewey, si situa l’iniziativa di William H. Kilpatrick (1871-1954) che, pur essendo un teorico dell’educazione, si è occupato anche di didattica elaborando un metodo, noto come Projects Method44, che ha incontrato ampia adesione sia in America che in Europa. Nel suo Metodo dei progetti (1918) W. H. Kilpatrick interpretò autenticamente i principi teorici di Dewey, traducendoli adeguatamente in pratica attraverso l’insegnamento nella scuola primaria e secondaria. “Dobbiamo praticare ciò che vogliamo imparare. Noi impariamo le risposte che creiamo. E’ necessario esercitarsi”45. Da qui l’intimo rapporto tra esperienza e apprendimento dei mezzi corretti per risolvere un problema. Il progetto è “un programma di lavoro da realizzare mediante una serie di attività pratiche che hanno la loro ragion d’essere proprio nel fine concreto cui tendono. Esso si sviluppa in varie forme: da quella del produttore (che riveste il ruolo nell’attività pratica) a quella del consumatore (o estetica), da quella del problema (connessa all’esecuzione intelligente di un compito) a quella di Cfr. H. PARKHURST, L’educazione secondo il piano Dalton, (a cura di) F. FRABBONI, La Nuova Italia, Firenze, 1992. 44 Cfr. H. KILPATRICK, The Project Method: the use of the purposeful ACT in the Educative Process, Kessinger Publishing Co, Whitefish, Montana, USA, 2010. 45 Ibidem, p. 59. 43 addestramento (come progetto di apprendimento specifico). Nulla impedisce che tali forme, o solamente alcune di esse, si integrino in un piano complessivo. La classe, inoltre, partecipa interamente al lavoro comune e ciò determina che anche l’educazione socio-affettiva si attua, in modo naturale ed efficace, attraverso le interazioni connaturate alle attività svolte. Il sapere e la scienza, oltre che l’educazione, sono intesi, in tale visione, come processo non come possesso e quindi si conquistano come invenzione (invention) e non come trasmissione, come perseguimento (pursuit) e non come distribuzione, come scoperta (discovery) e non come ricezione (reception). Nella proposta di Kilpatrick attivismo e cognitivismo si intrecciano e si sviluppano secondo il modello di una più matura lezione deweyana articolandosi in modo equilibrato. Ideatore di un piano fu anche Carleton W. Washburne (1889-1968) che organizzò, nei dintorni di Chicago, le celebri scuole di Winnetka nelle quali, tramite un sistema di libero raggruppamento degli alunni, sostituendo quindi classi e gruppi prestabiliti, e tramite un programma parimenti libero, sviluppò un insegnamento individualizzato. Il piano di Winnetk)46 (1920) fu elaborato da C. Washburne applicando procedimenti scientifici rigorosi al controllo sperimentale dei risultati del suo metodo educativo, ispirato alle idee di Kilpatrick e di Dewey sull’educazione individuale e sociale. Le scuole di Winnetka si ispirarono a questi principi: 1) “Ciascun fanciullo ha il diritto di procurarsi le conoscenze e le tecniche che gli saranno indubbiamente necessarie nella vita”47; 2) “Ogni ragazzo ha il diritto di vivere naturalmente, giocondamente e pienamente la sua vita 46 47 Cfr. C. WASSHBURNE, Le scuole di Winnetka, La Nuova Italia, Firenze, 1964. Ivi, p. 21. infantile”48; 3) “Il progresso umano è in funzione dello svolgimento integrale delle capacità di ogni individuo”49; 4) Il bene della collettività umana esige lo svolgimento in ogni individuo di una coscienza sociale viva”50. E’ da tali principi ispiratori che derivano sia l’elaborazione del programma che la sua articolazione e il relativo adeguamento didattico. Una volta stabilite le linee generali, valide per tutti e costituenti il livello minimo di base, i particolari ed il loro sviluppo vendono adeguati alle peculiarità di ciascun allievo. Pur seguendo le modalità di apprendimento individuali di ciascun educando, il controllo dell’acquisizione sicura e permanente delle abilità strumentali risultava molto rigoroso. Le scuole di Winnetka, inoltre, si attestarono non già come un esperimento compiuto e definito, ma, bensì, come un laboratorio di ricerca didattica attento alle diverse e nuove soluzioni che si delineavano in relazione ai crescenti problemi dell’insegnamento. 1.4 Le scuole nuove in Europa dopo il conflitto bellico All’indomani del primo conflitto bellico l’Europa appare disseminata di scuole che, pur definendosi nuove, in verità poco o nulla avevano in comune con il modello originario, ovvero quello della prima generazione di scuole nuove, e che, pertanto, non lasciarono vestigia rilevanti della loro presenza. Elemento determinante nel contenere la proliferazione incontrollata e nel migliorare la qualità delle scuole nuove fu, certamente, il quadro di riferimento, pedagogicamente valido e sicuro, elaborato dalla Ligue Ibidem. Ivi, p. 23. 50 Ivi, p. 24. 48 49 Internationale pour l’Education Nouvelle (LIEN) ed esplicitato nei Trenta principi fissati a Calais nel 192151. La Ligue aderì al Bureau des Ecoles Nouvelles (BIEN) fondato a Ginevra da Adolphe Ferrière che fu l’eclettico e attivo sostenitore e diffusore del movimento de L’école active52 (1922). La Russia post-rivoluzionaria, carica delle tensioni, delle speranze di costruzione di un <ordine nuovo>, degli entusiasmi verso una trasformazione dell’uomo in direzione di un forte impegno sociale, fu penetrata dagli influssi di diverse esperienze educative, fra tutte quella tedesca di Kerschensteiner e quella della scuola americana teorizzata e attuata da Dewey, che risultano evidenti nell’attività pedagogica di Anton Semeovic Makarenko (1888-1939) e nelle sue concrete esperienze educative attuate all’interno di colonie, a contatto con ragazzi abbandonati da rieducare e da risocializzare. Attraverso la direzione della colonia Gorkij, il pedagogista ucraino, elaborò gli aspetti essenziali della sua pedagogia individuati nel principio del collettivo del lavoro e in quello del lavoro produttivo53. Il collettivo del lavoro è un “vivente organismo sociale”54 posto al contempo come mezzo e come fine dell’educazione. E’ un “complesso finalizzato di individui”55 legati fra loro “mediante la comune responsabilità sul lavoro e la comune partecipazione al lavoro collettivo”56. Ciascun individuo, all’interno del collettivo, assolve compiti e assume responsabilità, regola il suo comportamento secondo norme disciplinari di cui è garante egli stesso e collega il proprio lavoro a “linee di prospettiva” che congiungono il collettivo alla più vasta 51Cfr. M. RUMI Metodologia e didattica, in L. VOLPICELLI, La pedagogia, vol. 10, Vallardi, Milano, 1975. 52Cfr A. FERRIÈRE, L’ecole active, ,Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1969 (1920). Cfr. A. S. MAKARENKO, La pedagogia scolastica sovietica, Armando, Roma, 2007. 54Ivi, p.74. 55 Ibidem. 56 Ibidem. realtà sociale e politica. Il collettivo, con al vertice un direttore, era articolato in collettivo dei ragazzi, divisi a loro volta in collettivi di base per consentire un adeguato sviluppo delle attitudini e delle caratteristiche individuali oltre che una partecipazione concreta agli obiettivi di crescita di tutta la comunità, e collettivo degli insegnanti. Dalla consapevolezza del collettivo di essere inserito nella società e di partecipare pienamente al suo sviluppo, nasce il lavoro produttivo. Tale lavoro occupava metà della giornata scolastica. L’allievo, che doveva “diventare cittadino, capace di lavorare, utile, qualificato, formato e politicamente istruito ed educato, lottatore, attivo, creativo”57, era considerato soggetto e non oggetto dell’educazione e tutte le materie di studio erano insegnate con metodi attivi. Tra le esperienze emergenti dal filone europeo delle scuole attive quella di Roger Cousinet (1882-1973) si contraddistinse per gli aspetti di scientificità fondanti la sua proposta. Il lavoro libero per gruppi58, metodo didattico teorizzato dal pedagogista, stimola fruttuosi ed utili rapporti di collaborazione dei soggetti e può essere finalizzato sia alla conoscenza (lavoro scientifico, storico, geografico, matematico, linguistico) sia nell’attività creativa che implica manualità (giardinaggio, allevamento, lavorazione di materiali, ecc.), riflettentesi sul piano dell’apprendimento. In tale concezione educativa i luoghi e le caratteristiche delle attività scolastiche assumono l’aspetto di veri e propri laboratori. Tale esperienza fu attuata da R. Cousinet, nell’immediato dopoguerra, a Vence, dove il lavoro manuale degli allievi rivestiva un compito di rilevante importanza come esercizio di collaborazione con gli altri, come motivazione all’impegno, come superamento della subordinazione e della dicotomia tra lavoro 57 58 A. S. MAKANENKO, La pedagogia scolastica sovietica, cit., p.80. Cfr. R. COUSINET, Il lavoro libero per gruppi, La Nuova Italia, Firenze, 1967. intellettuale e lavoro manuale. Il lavoro di base era svolto in quattro laboratori: 1) lavoro nei campi e allevamento; 2)filatura, tessitura, cucito e cucina; 3) costruzione, meccanica; 4) commercio. I laboratori di ricerca e documentazione, sperimentazione, creazione, espressione e comunicazione grafica e di creazione, espressione e comunicazione artistica erano predisposti per “l’attività evoluta, socializzata, intellettualizzata”59 degli allievi. L’ambiente educativo creato secondo il metodo di Cousinet mette il soggetto in condizione tale da poter affrontare diversi problemi, cercare soluzioni adeguate attraverso la manipolazione di oggetti, rielaborando la propria esperienza con gli strumenti della cultura formale al fine di “ ricostruire l’unità funzionale di pensiero e lavoro”60. Il panorama innovativo delle scuole nuove e dei metodi didattici in esse realizzati trova completamento nell’esperienza ricca di suggestioni e di sviluppi di Cèlestin Freinet (1896-1966), promotore di un metodo didattico basato sulla cooperazione ed incentrato nell’uso della stamperia nella scuola61. La scuola ideata da Freinet si caratterizza in scuola cantiere in cui l’esperienza infantile, intesa dal pedagogista come un’andare a tentoni (tâtonnement) sollecitato dai bisogni propri del fanciullo e nutrito dalle tecniche e dalle acquisizioni elaborate nel tempo dalla collettività, trova orientamento e arricchimento attraverso un lavoro, concepito come lavoro-gioco, realizzato collaborativamente con gli altri fanciulli. Il lavoro scolastico ruota attorno a due elementi cardine: il testo libero scritto dal bambino, che liberamente sceglie sia il momento che il soggetto cui ispirarsi, e la stamperia, che consente la creazione di un R. COUSINET, L’educazione nuova, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1953, p. 33. R. COUSINET, Il lavoro libero per gruppi, cit., p. 56. 61 Cfr. D. CLANFIELD, J. SIVELL, Cooperative Learning and Social Change: Selected writings of Céelestin Freinet, La Maîtresse d’école Inc. Montréal, Québec, 1990. 59 60 giornalino di classe e, attraverso esso, la comunicazione con l’esterno della scuola. Tutta l’attività della scuola viene ad incentrasi così intorno al giornalino di classe stimolando, altresì, l’apprendimento di tecniche e discipline ad esso collegate62. 1.5 Evoluzione delle scuole nuove e proposte di laboratorio dal “dopo Dewey” ad oggi. L’itinerario compiuto attraverso l’esperienza deweyana della scuola laboratorio, i cambiamenti apportati in ambito pedagogico e didattico dalla sua concezione dell’educazione, il movimento creatosi attorno all’attivismo, l’influenza di esperienze stimolanti e ricche di sviluppi come quella di Freinet, i cui principi ispiratori abbiamo constatato essere alla base della scuola di Chicago, rappresentano e contengono, certamente, le prospettive pedagogiche e le ipotesi metodologiche fondanti l’attuale proposta dei laboratori. Proposte ed ipotesi che hanno radicalmente rivoluzionato e rinnovato il modo di fare scuola, ripensando e rifondando in modo nuovo il rapporto docente-discente, aprendo la strada a continue revisioni e innovazioni che, seppure lente, sono state e continuano ad essere ancora oggi costanti e inarrestabili. Pur tuttavia, per diverse ragioni, alcune integrazioni sull’argomento laboratori si rendono necessarie: per la loro intrinseca importanza (rivestita), per il collegamento che hanno e mantengono con le esperienze precedenti, per la necessità di adeguare la proposta dei laboratori all’attuale situazione storico-sociale che, se privata di tali integrazioni, risulterebbe mutila e non rispondente alle attese ed alle esigenze. 62 Ivi, pp. 40-47. Le più indicative tra queste sono senza dubbio da annoverare tra le fila di quel movimento che, sulla fine degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti prima e susseguentemente in Europa, sottopose l’attivismo ad una radicale e drastica revisione. Tale revisione traeva motivazione dalle accuse mosse al movimento attivistico, e in particolare agli eccessi di puerocentrismo imputati alla scuola di impronta deweyana, di essere responsabile della formazione insoddisfacente delle nuove generazioni per quel che riguarda l’educazione scientifica e di aver consentito, attraverso l’esaltazione dell’educazione attiva, della ed manualità, un’eccessiva elemento libertà del cardine discente, l’abbandono delle finalità essenzialmente culturali e cognitive della scuola. Sin dall’inizio degli anni Sessanta, pertanto, si è avviato un lento ma inarrestabile tramonto dell’attivismo di cui, in tale azione di messa in disparte, si trascuravano i punti di forza: valorizzazione della psicologia infantile come elemento fondamentale di ogni processo educativo, elaborazione del rapporto dialettico che lega l’educazione alla società e alla politica, ecc., sostituito, sul terreno della pedagogia, da indirizzi di tipo cognitivo e tecnologico, ispirati allo strutturalismo e alla cibernetica63. Il movimento contestatore dell’educazione nuova, al converso, proponeva una riforma del curricolo scolastico che rivalutasse la serietà dei contenuti e della preparazione scientifica mediante un miglioramento della qualità dell’istruzione. Fra i numerosi psicopedagogisti, psicologi e scienziati che hanno contribuito in modo determinante, attraverso ricerche e sperimentazioni, al dopo Dewey64 è da menzionare Jerome Seymour 63 64 Cfr. M. MALDONATO, Psicologia della comunicazione, Ellissi, Napoli, 2002. Cfr. J. S. BRUNER, Dopo Dewey, Armando, Roma, 1978. Bruner (1915-vivente), psicopedagogista statunitense, attento studioso dei processi cognitivi, influenzato da Piaget (1896-1980) e da tutta la psicologia cognitivista di cui è lui stesso esponente rappresentativo, i cui principi tradusse nella pedagogia. Per Bruner l’apprendimento non è assimilazione passiva, in senso mnemonico e ripetitivo, ma attività, riscoperta, esplorazione integrata dalla convinzione che “di ogni capacità e conoscenza esiste un’adeguata versione, che può venire impartita, a qualsiasi età si desideri cominciare l’insegnamento, per quanto iniziale e preparatoria tale versione possa essere”65. Ciò a significare che la medesima struttura concettuale può essere risolta in un’esperienza di natura attiva, piuttosto che iconica o simbolica. Deriva da qui la ricerca per una razionalizzazione dell’insegnamento che ristabilisca nella scuola la priorità dell’educazione intellettuale anziché della socializzazione66. Con riferimenti allo strutturalismo piuttosto che al comportamentismo67 si indirizza la ricerca e l’attività di Benjamin S. Bloom (1913 1999), autore di una pedagogia degli obiettivi scolasticoeducativi individuati nelle due aree: conoscitiva e affettiva68. La classificazione degli obiettivi cognitivi, elaborata in collaborazione con il suo gruppo, si profila come strumento di valutazione oggettiva e confrontabile, alla fine della scuola secondaria, dei livelli di raggiungimento degli stessi obiettivi da parte degli studenti, preparati in situazioni e con percorsi diversi. In tale direzione ha anche operato la metodologia del mastery Learning69 (apprendimento per padronanza), un metodo di didattica individualizzata, su misura degli J. BRUNER, Il pensiero: strategie e categorie, Armando, Roma, 1969 (trad. it) , p.24. Ivi, p. 19. 67Cfr. D. FONTANA, Il controllo della classe. Come capire e orientare il comportamento degli alunni, Armando, Roma, 2001. 68Cfr. B.S BLOOM, Tassonomia degli obiettivi educativi. La classificazione delle mete dell’educazione. Vol. I, Giunti & Lisciani Editori, Firenze 1986. 69 Cfr. D. P. AUSUBEL, Educazione e processi cognitivi, Franco Angeli, Milano, 2004. 65 66 allievi, per portare quanti più possibile di loro al raggiungimento della maggioranza degli obiettivi mediante il miglioramento della qualità dell’istruzione. Tale obiettivo è raggiungibile attraverso una pianificazione attenta dei singoli interventi (unità didattiche) e la predisposizione, nel caso di risultati insoddisfacenti, di percorsi diversi per metodi e strumenti. Appare evidente, nonostante la brevità e l’incompletezza di queste note, utili comunque per rilevare alcuni degli elementi che formano il quadro pedagogico e metodologico dei laboratori, che il percorso compiuto dalla pedagogia cognitivistica ha, senza dubbio, generato un rinnovamento radicale nell’ambito della pedagogia scolastica. Rinnovamento che se da una parte l’ha resa più efficace dall’altra ha qualificato la pedagogia in senso istruttivo, spostando l’asse sui processi d’apprendimento e assegnandole un ruolo fondamentale nelle società industriali avanzate, caratterizzate dalla crescita delle informazioni e dalla diffusione delle tecnologie. Certo nessuno degli educatori menzionati in questo excursus ha proposto un modello di laboratorio soddisfacente in tutti gli aspetti, soprattutto se si considera la mutata situazione storico-sociale della scuola attuale. Pur tuttavia in ciascuno di codesti autori e nei metodi da loro elaborati, è possibile cogliere riflessioni pedagogiche e proposte metodologico-didattiche non soltanto ancora valide ma condivisibili e realizzabili, siano esse la scientificità, l’umanità, la prospetticità, la socializzazione, l’individualizzazione, etc. Si configura così una scuola su misura dell’allievo ed adeguata alla sua individualità. Contraddistinta sul piano metodologico dal fare, in forma di attività motoria, verbale, intellettuale, operativa; dall’interesse dell’allievo verso il proprio lavoro; dall’integrazione attuata tra intellettualità e manualità; con una didattica fondata sull’intuizione, sull’espressività, sull’autocorrezione e sul mutuo insegnamento, sulla ricerca e la sperimentazione, etc. A tali caratteristiche, presenti implicitamente o esplicitamente in tutto il discorso sui laboratori, sono da aggiungere le integrazioni di educatori, pedagogisti, psicologi, insegnanti che alimentano, vivacizzano e attualizzano il dibattito sull’argomento che, però, può generare fraintendimenti. La parola laboratorio ha rischiato e rischia, infatti, di essere impugnata-ideologizzata-deformata da un variopinto esercito sia di sostenitori che di detrattori di questo modello organizzativo di scuola. Dai fautori del no categorico, interessati ad una scuola che privilegi e perpetui la prassi trasmissivo/ripetitiva di acquisizione delle conoscenze da parte degli allievi agli acritici sostenitori del sì plaudente, auspicanti l’organizzazione di una scuola tutta laboratori, trascurando l’alfabetizzazione primaria che si attua nell’aula tradizionale. Il discorso sull’argomento va invece inquadrato in una proposta di scuola più ampia, organica e coerente in tutti i diversi aspetti, non quindi laboratori come elemento episodico e isolato da qualsiasi contesto e, ancor meno, laboratori come propaganda per suscitare entusiasmi ed acquisire facili consensi, ma laboratori come proposta innovativa che consideri attentamente sia le dinamiche interne alla scuola che le dinamiche esterne, interagendo con l’extrascuola, con il sociale nel suo complesso, che tanta importanza riveste nel processo educativo. In tale direzione si è mossa, a partire dagli anni Cinquanta, la riflessione e la sperimentazione di Francesco De Bartolomeis. Sperimentazione originata da un’attenta riflessione sui principi della scuola attiva70, dall’adesione del pedagogista all’attivismo 70Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Che cos’è la scuola attiva:il futuro dell’educazione, Loescher, Torino, 1958. pedagogico europeo, dal riconoscimento di Dewey come teorico fra i più significativi della <rivoluzione copernicana> che si stava realizzando nel campo dell’educazione71. La prima concretizzazione dell’idea dei laboratori in De Bartolomeis avviene, sebbene in modo episodico e modesto, nelle Università di Firenze e di Pisa, ma trova continuità vent’anni dopo, nel 1972, all’interno dell’Istituto di Pedagogia di Torino. L’intento della sperimentazione risiedeva nella possibilità di trarre dagli esperimenti che venivano fatti dagli studenti dell’Istituto, e dalla conseguente sistemazione teorica degli stessi esperimenti, materiale sufficiente per elaborare una teoria dei laboratori fondata su una “concezione produttiva e sociale della cultura”72 capace di avviare innovazioni nella scuola ordinaria. Innovazioni che il pedagogista pone in stretto rapporto con la politica socio-culturale del tempo, assegnando, per tale ragione, adeguata importanza ai temi emergenti nella società: rapporto studio/lavoro, conversione del lavoro in servizio sociale, formazione professionale come qualificazione della formazione sociale coerentemente con il concetto di cultura produttiva73. La produttività dei laboratori non rimane, pertanto, confinata al loro interno, legata ad obiettivi di natura esclusivamente scolastica, ma coinvolge la realtà extrascolastica attraverso la trattazione di temi politici, economici sociali, che trasformano i laboratori in luoghi di progettazione, di ricerca, di iniziative da realizzarsi anche al di fuori delle istituzioni scolastiche74. Ivi, p. 23. F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori, per una scuola nuova necessaria e possibile, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 285. 73 Ivi, p. 283. 74Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo integrato, La Nuova Italia, Firenze, 1983. 71 72 Ma è il collegamento in Sistema75 l’elemento di novità dei laboratori De Bartolomeis, collegamento determinato dalla interdisciplinarità (anche se tale carattere interdisciplinare nasce dalla natura del tema della ricerca da effettuare e non da un’estrinseca corrispondenza di discipline diverse), dall’impossibilità di conoscere, anticipatamente, di quale laboratorio necessiterà la ricerca nel corso del suo svolgimento, dalla necessità di ordinare le molteplici attività attraverso una programmazione che consenta di evitare situazioni di disordine, di confusione, di frammentazione. L’idea di una scuola con struttura a laboratori, fondata sull’esigenza di rendere congruenti l’apprendimento e la produzione con la metodologia della ricerca, nasce e si convalida in De Bartolomeis non solo per la novità che nel campo dell’apprendimento una tale struttura comporta e rappresenta, ma anche dalla necessità di evitare la duplicazione delle aree (aule e locali specializzati) e la conseguente sottoutilizzazione degli spazi, oltre che dalla possibilità di realizzare una collaborazione tra gli insegnanti e una mobilità tra gli studenti capace di consentire il raggiungimento di obiettivi non esclusivamente didattici. In questa direzione si colloca la proposta di scuola a nuovo indirizzo76 teorizzata da Franco Frabboni, i cui riferimenti dottrinali e ideologici sono indicati nella pedagogia democratica, progressiva e popolare di casa nostra (Lamberto Borghi, Raffaele Laporta, Aldo Visalberghi, Francesco De Bartolomeis, E. Becchi, Bruno Ciari, et al.). Pedagogia di chiara ascendenza attivistica e deweyana, che non deve rimanere monopolizzata e confinata nei <centri accademici> ma che, al fine di Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori…, cit. Cfr. F. FRABBONI, Scuola maggiorenne. Scuola dell’infanzia e nuovi contesti educativi, Sansone Saggi, Torino,1980. 75 76 determinare <contenuti e metodi della ricerca/sperimentazione scientifica>, interagisce con la scuola militante e con la società civile. Il nuovo indirizzo non ignora né cancella la tradizione educativa italiana, disconoscendo il suo patrimonio storico e scientifico più autorevole ma, bensì, “attualizza e problematizza i modelli (teorici e operativi) della scuola dal rigoroso profilo pedagogico”77 in una stagione, quella di transizione verso il duemila, contraddistinta dalle <esigenze educative> e dai <bisogni di conoscenza> di bambini sempre più attratti, quasi rapiti, dal mondo della multimedialità. Le peculiarità pedagogiche e didattiche , <attributi qualitativi>, per Frabboni, del modello elaborato sono sintetizzabili, per quel che riguarda l’architettura pedagogica, nella storicizzazione e nell’attualizzazione del ruolo sociale e dello spessore cognitivo della scuola, per quel che attiene all’organizzazione didattica nell’ampliamento delle occasioni di socializzazione, traffico sociale, e delle occasioni di alfabetizzazione, traffico cognitivo, basate sulla ricerca e la creatività. L’attuazione di tale modello a nuovo indirizzo, secondo Frabboni, passa necessariamente attraverso il cambiamento della tradizionale composizione organizzativa della scuola, basata sull’aula/classe come isola didattica autosufficiente, a favore dei laboratori aventi sede sia all’interno che all’esterno dell’edificio scolastico (ovvero bastati su una rete di laboratori sia scolastici che territoriali)78. E’ da sottolineare che il concetto di laboratorio trova sviluppo nel pedagogista sia come idea pedagogica che come prassi didattica. Per entrambe le idee viene infatti elaborata una <carta d’identità>: per la prima, teorica, con i suoi contrassegni teleologici e le sue finalità 77 78 Ivi, p. 22. Ibidem. formative; per la seconda, metodologica, con i suoi contrassegni strategici e le sue finalità didattiche79. La progettazione e la realizzazione di una scuola organizzata in laboratori vuol dire riflettere criticamente sul rapporto fra soggetti e oggetti della conoscenza, interrogarsi sulle logiche disciplinari e sull’incontro–scontro fra quelle logiche e i bisogni, la dimensione socio-affettiva, i processi cognitivi di cui gli allievi sono portatori. Significa, inoltre, condurre il ruolo della scuola a luogo dell’imparare ad imparare, a spazio attivo di ricerca e non momento informativo di un sapere definito a priori. Le coordinate metodologico–didattiche del modello a nuovo indirizzo si qualificano, pertanto, come razionali in quanto formano un sistema logicamente coerente ed equilibrano i processi di socializzazione (scuola con stile comunitario e cooperativistico, collegata all’ambiente sociale) e di apprendimento ( ad iniziare dall’ambito delle esperienze e degli interessi dell’allievo, conquista di competenze, padronanze, abilità cognitive: linguistiche, logiche, percettivo/motorie ecc.)80. 79 80 Cfr. F. FRABBONI, La didattica. Motore della formazione, Pitagora, Bologna. 1999. Ibidem. CAPITOLO SECONDO LA SCUOLA-LABORATORIO DI DEWEY: ALLE ORIGINI DEL PROBLEMA 2.1 La teoria educativa di John Dewey Erede spirituale di James e maggiore sostenitore del movimento pedagogico delle scuole progressiste negli Stati Uniti John Dewey81 è considerato il filosofo e pedagogista più significativo della prima metà del XX secolo. La sua carriera ha incrociato tre generazioni e la sua voce è risuonata nel dibattito culturale sia negli USA che all’estero. Egli ha attraversato alcuni importanti passaggi della cultura e della vita politica statunitense dalla guerra di secessione fino al 1952, anno della sua morte, in un periodo caratterizzato dalla guerra fredda e dall’affermazione dell’energia nucleare come paradigma tecnologico e culturale dell’epoca. La vastità, la complessità e la ricchezza del pensiero e dell’esperienza di Dewey si possono evidenziare analizzando la confluenza tra filosofia, educazione e politica82, il cui punto di incontro teoretico emerge in maniera significativa nella sua 81John Dewey nasce a Burlington, nel Vermont, il 20 Ottobre del 1859, dopo aver conseguito la laurea a Burlington insegna nell’Higt School di Oil City in Pensilvanya e, successivamente, nel 1884 consegue il dottorato presso la John Hopkins University di Baltimora, dove ha per maestri George Sylvester Morris, Stanley Hall e Charles Sander Pierce. Morris lo chiama presso l’università del Michigan dove diventa Professor of Philosophy. Il periodo 1888-1889 lo vede impegnato per un semestre all’università del Minnesota. Durante il decennio trascorso all’università del Michigan sposò Harriet Alice Chipman nel 1886 da cui avrà sette figli (uno dei quali di nazionalità italiana fu adottato). Nel 1894 è nominato Professor of Philosophy e Chairman del Department of Philosophy, Psychology and Education presso l’Università di Chicago dove rimane fino al 1904 e dove tra il 1896 ed il 1903 organizza la nota scuola laboratorio, altrimenti detta “scuola di Dewey”. 82Cfr. G. SPADAFORA, Studi deweyani, Quaderni della Fondazione Italiana John Dewey, Cosenza, 2006. opera Democrazia e Educazione83, nella quale l’obiettivo ambizioso e complesso che si prefigge l’autore è quello di rivoluzionare il sistema educativo attraverso la teoria dell’<<educazione progressiva>> la cui filosofia educativa, messa in opera nella scuola laboratorio di Chicago, esigeva l’unità di teoria e pratica. Unione sempre perseguita dal filosofo sia col suo impegno di intellettuale ed attivista politico, il cui pensiero si fondava sulla convinzione morale che <<la democrazia è libertà>>84 e sia dedicando attenzione alla costruzione di un argomento filosofico persuasivo ed al perseguimento di un attivismo che avrebbe assicurato la sua realizzazione pratica85. L’ampio ed articolato pensiero deweyano è rintracciabile nelle sue biografie86 che dagli anni Novanta consentono di comprendere i legami tra la sua filosofia ed i cambiamenti culturali87 e politici88 del tempo. All’inizio della sua riflessione, nel fondamentale scritto sull’etica The Ethics of Democracy89, Dewey costruisce la sua teoria pragmatista, da alcuni considerata strumentalista, nella quale stringe in un unicum la filosofia, l’educazione e la realizzazione della democrazia90. Il suo pensiero educativo risulta, dunque, fortemente intrecciato con l’elaborazione filosofica dalla quale fa derivare i concetti fondamentali, 83Cfr. J. DEWEY, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1989. J. DEWEY, 1892. Christianity and democracy, in The early works of John Dewey, Carbondale, II, Southern Illinois University Press, 1971, vol. 4, p. 3-10. 85 J. DEWEY, Reconstruction in Philosophy (1920), in The Middle Works, vol. 12, p. 94; Id. Christianity and democracy (1892), in The Early Works, vol. 4, p. 8. 86A questo proposito, cfr.: R. BARTON PERRY, Dewey as Philosophy, in John Dewey at Ninety, 1950; W.H. KILPATRICK, Il contributo di John Dewey, in The Phi Delta Kappan, n. 3, Vol. XXXI, 1949, p. 150; W. REUTHER, Il novantesimo compleanno di John Dewey, in “The Elementary School Journal”, n. 31 Vol. I, 1949, pp. 127-128. 87Cfr. S. J. MARTIN, The Education of John Dewey, Columbia University Press New York, 2002. 88Cfr. R.B. WESTBROOK, John Dewy and America Democracy, Cornell University Press, Ithaca, 1991. 89Cfr. J. DEWEY, The Ethics of Democracy, in The Early Works, CarbondaleEdwardswille, Southern Illinois University Press, 1969, vol. I. 90Cfr. L. HICKMAN, G. SPADAFORA, John Dewey’s Educational Philosophy in International Prospective, Carbondale, SIUP, 2009. 84 caratterizzandoli mediante un costante sviluppo verso prospettive sempre più ampie ed organiche, ma comunque pronte ad essere riviste per accrescerne le posizioni raggiunte. L’impegno pedagogico ha accompagnato tutta la sua articolata produzione portandolo a maturare un progetto operativo radicalmente innovatore in campo scolastico e didattico. Molte delle sue opere dedicate all’educazione rivelano una elaborazione pedagogica attenta ai problemi della società industriale moderna ed alle istanze di promozione umana tipiche di molta pedagogia contemporanea. Per ben comprendere il pensiero deweyano è utile richiamare, sia pur brevemente, quella fase storica contrassegnata da sostanziali cambiamenti sociali ed economici che trasformarono modelli di vita e di cultura immediatamente antecedenti alla nascita del Nostro ed ancora in atto nel periodo delle sue riflessioni. Durante il 1700 la nuova scienza sperimentale aveva fatto registrare significativi sviluppi, ed un ufficio importante era stato svolto dalle Accademie e dalle società scientifiche presenti prevalentemente nei paesi in cui più era avvertita la necessità di una applicazione del rinnovamento e delle scoperte legate alla produzione. Rilevanti furono i progressi nel campo della cultura che, oltre alla ricerca dell’identità nazionale, percepiva la necessità di progetti di riforma relativi all’organizzazione della scuola e dei suoi programmi di studio e di un maggiore riconoscimento, sia sociale che politico del valore dell’educazione. In questo periodo le nuove teorie pedagogiche si fecero più attente all’infanzia, vista come età specifica della vita, e si sviluppò una considerazione nuova verso di essa. L’educazione venne vista come primaria esigenza umana che si prefiggeva lo scopo di insegnare a pensare. Un esempio di ciò è rappresentato dal progetto educativo di Herder91 rivolto alla formazione integrale dell’uomo. Nel corso dell’Ottocento la pedagogia era considerata una pratica fondata sull’etica, sulla filosofia, sulla teologia o su considerazioni psicologiche di tipo empirico. Con Dewey si comincia a considerarla una scienza affrancata dai contributi di altre scienze, ad esempio dalla psicologia, in particolare per quanto attiene l’aspetto degli effetti collaterali dell’apprendimento, e dalla sociologia, relativamente allo studio dei rapporti fra istituzione scolastica e società. Negli anni compresi tra il 1850 ed il 1950 la riconsiderazione dell’infanzia raggiunge il suo apice. L’America rappresentò il paese dove si sviluppò, più che altrove, un’ analisi attenta di questa fase della crescita e dove, durante questi anni, furono condotti, con successo, notevoli tentativi per allontanare bambini dalle fabbriche e fornir loro, oltre all’insegnamento, forme idonee di gioco, di vestiario, di letteratura, che consentisse loro di costituire un proprio specifico mondo sociale. Da questa attenzione derivarono moltissime situazioni nelle quali i fanciulli venivano visti qualitativamente diversi dagli adulti che ideavano per loro una condizione di privilegio e di protezione dalle insidie dell’adultità. È il periodo in cui prende forma il tipo moderno di famiglia in cui, secondo la cronologia di Lloyd de Mause92, prevalgono nei genitori quei meccanismi psicologici che determinano verso i figli atteggiamenti più intensi di empatia, tenerezza e responsabilità giungendo (De Mause, 1975; Freud, 2011; Rouseeau, 1994) a definire l’infanzia come un preciso stadio biologico piuttosto che un effetto della cultura. Cfr. J. G. HERDER, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Einaudi, Torino, 1971. 92 Cfr. L. DE MAUSE, The evolution of childhood, in Lloyd de Mause, ed., The History of Childhood, New York: Psychohistory Press, 1975. 91 È interessante rilevare che alla fine del XIX secolo due uomini, nello stesso anno, il 1899, pubblicarono la loro opera più significativa sull’argomento e che ciascuno produsse una riflessione sul modo possibile di stabilire un equilibrio tra le esigenze della civilizzazione e la natura del fanciullo. Ci riferiamo a Sigmond Freud con L’interpretazione dei sogni93 ed a John Dewey, con The School and Society94 nei quali, entrambi, rappresentavano una sintesi e un’analisi del cammino dell’infanzia dal XVI al XX secolo. Freud, su premesse di diversa natura scientifica, sosteneva che la mente dei bambini ha una sua struttura e un contenuto specifico e che nello sforzo che essi compiono per conseguire la maturità dell’età adulta devono superare, sviluppare e idealizzare le loro passioni istintive. Richiamandosi a Rousseau95, Freud conferma che il bambino non è una tabula rasa, che la sua mente si avvicina ad uno “stato di natura”. E’ dunque necessario, che siano prese in considerazione le sue esigenze naturali, se non si vuole provocare un disfunzionamento permanente della sua personalità. Su premesse di natura filosofica Dewey sosteneva che i bisogni fisici del bambino devono essere orientati sulla base di ciò che egli è, non di ciò che sarà. A scuola come a casa l’adulto deve domandarsi quali siano “ora” le necessità del bambino, quali problemi egli “ora” debba risolvere. Solo in questo modo, secondo Dewey, il fanciullo riuscirà a partecipare attivamente alla costruzione della vita sociale della comunità: <<se noi ci identifichiamo con gli istinti e i bisogni reali dell’infanzia ed [esigiamo] soltanto che [essi] si affermino e crescano pienamente […] la disciplina e la cultura della vita adulta arriveranno Cfr. S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011. Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit. 95 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Emilio, Armando Editore, Roma, 1994. 93 94 nel momento opportuno>>96. Sia Freud che Dewey cristallizzano il paradigma basilare dell’infanzia: nel bambino, in quanto scolaro, vanno preservate e alimentate la personalità e l’individualità, la gratificazione e la possibilità di pensiero logico, mantenendo sotto il controllo degli adulti la conoscenza della vita. Contemporaneamente deve essergli riconosciuto la possibilità dello sviluppo di una curiosità, di un interesse, di un’attrazione e anche dell’esuberanza che non si può soffocare se non mettendo a rischio la necessaria maturazione dell’età adulta. Dewey sosteneva come lo studio scientifico sull’educazione avesse nutrito un impulso profondamente conservativo al fine di costruire un sistema educativo che avrebbe riprodotto l’ordine sociale prevalente, preparando gli studenti ai ruoli definiti dalla loro classe, razza, sesso ed etnia. Il tema dell’educazione nel suo complesso è stato affrontato dal filosofo in opere come Democracy and Education97 nella quale l’autore fa risalire l’inadeguatezza dei metodi scolastici tradizionali, che sopravvivono al mondo storico che li ha generati, alla “vecchia” psicologia cui continuano ad attenersi troppi insegnanti. L’aggettivazione “vecchia” viene riferita ad una psicologia che considera lo spirito come “un’unità meramente individuale, in crudo e diretto contatto con il mondo esterno”. Il problema didattico, di conseguenza, si riduce a rispondere alla domanda: “come spirito e mondo si influenzano reciprocamente?”, credendo, semplicisticamente, che i diversi aggregati di fatti esterni, storia, geografia, letteratura, scienze, ecc.., quelle che comunemente definiamo “materie”, altro non fossero che ricavati della vita del passato da comunicare direttamente agli studenti. 96 J. DEWEY, The School .., cit., p. 55. J. DEWEY, Democracy and Education, cit. 97Cfr. La nuova psicologia si mosse invece dalla convinzione che lo spirito individuale è in relazione con la vita sociale, quindi incapace di operare e di svilupparsi da solo, e bisognoso di stimoli continui da parte dei fattori sociali. L’essere umano non incide mai direttamente sull’altro se non ricorre all’uso dell’ambiente fisico come intermediario o mediatore, per dirla con Damiano98. La funzione educativa si compie in maniera indiretta realizzandosi attraverso l’ambiente, il quale può fornire gli stimoli che richiedono risposte che, a loro volta, sono già possedute dell’individuo. Il processo educativo è una evoluzione di ininterrotta <<interazione fra ambiente ed individuo>>99. Si rileva, allora, la grande importanza di un ambiente selezionato, preordinato ad un determinato scopo, che faciliti la riuscita nel senso stabilito. La primaria finalità dell’organizzazione scuola è appunto quella di offrire un ambiente <<deliberatamente regolato con riferimento alla sua efficacia educativa>>100. Essa deve fornirci un luogo semplificato, purificato, armonico, selezionando i caratteri fondamentali e capaci di stimolare una reazione negli educandi. In seguito è necessario <<stabilire un ordine progressivo, usando quanto è stato conosciuto per far luce su ciò che è più complicato>>. Per Dewey una delle mancanze della vecchia psicologia consiste nel limitare la propria indagine alla conoscenza intellettuale, senza prendere in considerazione la sfera emozionale e l’impulso. Alla luce di tale convincimento è’ necessario muoversi verso direzioni d’indagine più ampie, poiché non si tratta più, come avvenne nel passato, di stabilire se abbia più peso l’elemento sensoriale o le idee 98 Cfr. E. DAMIANO L'azione didattica. Per una teoria dell'insegnamento, Armando, Roma, 1999. 99 Cfr. J. DEWEY, School and Society, cit. 100 Ivi, p.25. astratte. La ragione impone, invece, la necessità di procedere oltre, nella consapevolezza che la conoscenza non può essere isolata e costituire un fine in sé ma occorre <<collegare l’addestramento sensoriale o le operazioni logiche con i problemi e con gli interessi della vita pratica>>. Mentre la vecchia psicologia ha errato nel considerare lo spirito come identico in tutte le sue fasi vitali, tanto per il bambino quanto per l’adulto, <<arredato in ogni età dello stesso assortimento di facoltà>>, la nuova psicologia ha invece chiarito come lo spirito sia <<una realtà in svolgimento, che presenta fasi distinte di capacità e di interesse nei differenti periodi>>. Diventa quindi anomalo ritenere che le <<materie di studio dell’adulto, che ordinano logicamente fatti e principi, costituiscano pure il naturale studio del fanciullo>>, anche se in modo più semplice101. Il contributo della nuova psicologia, con la “scoperta” del fanciullo come soggetto distinto dall’adulto, consente a Dewey di avanzare nelle riflessioni sugli aspetti educativi e questo scavare in profondità lo dispone verso una riconsiderazione del problema dell’educazione, dei sistemi educativi e quindi della pedagogia, riconducibile agli aspetti dell’adattamento e del cambiamento nel percorso evolutivo della persona e del cammino della vita civile in cui l’infanzia trova espressione e riconoscimento sociale attraverso le azioni più o meno intenzionali delle istituzioni e le strategie metodologiche e didattiche. L’orientamento deweyano nei confronti del nuovo “centro gravitazionale” rappresentato dal fanciullo lo farà riconoscere come l’iniziatore dell’attivismo pedagogico, corrente generata dalla concezione del bambino come soggetto attivo e protagonista nei processi di apprendimento. 101 Ivi, pp. 35-37. In The School and Society102, nel definire i tratti fondamentali del proprio pensiero educativo Dewey annoda il tema educativo al forte legame tra la scuola e il mondo sociale che vive, in quel preciso periodo storico, una fase di forte crescita politico-sociale e produttiva, legata all’espansione dell’industria così come alla richiesta delle classi subalterne di accedere alla partecipazione politica. La scuola non può, per il pedagogista, restare a guardare i mutamenti della società senza parteciparvi, ma è chiamata ad intervenire adeguando il proprio volto al <<progresso sociale>>103, deve <<diventare una società in miniatura, una società embrionale>>104, stabilendo uno stretto contatto con l’ambiente e la realtà sociale del lavoro. L’autore richiama alla necessità di abbandonare la visione individuale della scuola, incline a considerare unicamente il rapporto tra alunno e maestro, fra insegnante e genitore (che rimane indiscutibilmente importante) e che si fa cura del singolo fanciullo in tutto il suo procedere conoscitivo nei diversi ambiti del suo profitto: dalle abilità di letto-scittura a quelle di calcolo, dalle accresciute conoscenze geografiche e storiche al miglioramento del comportamento, che si confermano importanti riferimenti nella valutazione del lavoro scolastico svolto. E’ invece sconfinare l’orizzonte, espandendo il desiderio che ogni genitore nutre verso il proprio figlio a tutti i ragazzi, costituendo in ciò l’obiettivo che la comunità scolastica deve perseguire. In tale finalità si deve riconoscere il ruolo sociale che connota la scuola di Dewey. Il principio teorizzatore del legame della scuola con il progresso si rifà alla centralità del processo educativo nella realizzazione del senso della democrazia statunitense, che Dewey ribadisce attraverso le significative parole di Horace Mann: <<dove c’è qualcosa che cresce, 102Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit. Ibidem. 104 Ivi, p. 40 103 uno che forma val più di mille che riformano>>105. La scuola diventa, dunque, il banco di prova per definire quale ruolo rivesta il rapporto tra l’individuo e la comunità106. Dewey ravvisa la forma più alta della società democratica nella scientific community di studiosi che interagiscono ed indagano instancabilmente. Attribuendo al modello scientifico validità universale per tutti gli ambiti umani esso può dar luogo ad ogni tipo di dualismo e ciò vale anche per il dualismo tra educazione e vita. Se l’educazione tradizionale serviva come preparazione alla vita e se la scuola s’intendeva tradizionalmente come la trasmissione di esperienze congelate in materiali didattici, ai fini di una più tarda realizzazione dell’esistenza, proponendo il suo concetto di progressive education Dewey concepisce l’educazione e la vita come un’unica cosa, in quanto entrambe vengono intese quali crescita (growth). Diventa convinzione fondamentale di Dewey l’idea “che il processo educativo può essere equiparato alla crescita, in quanto questa viene intesa come participio attivo nel senso di crescente, ciò che cresce”107. Per il pedagogista non c’è nulla a cui possa essere subordinato il concetto di crescita, eccettuata un’ulteriore crescita. Neanche il concetto di educazione può essere subordinato al alcun altro, eccettuata un’altra educazione108. Nella società progressiva della Chicago di fine secolo Dewey aveva coscienza della necessità di un tipo di educazione che legasse Horace Mann (1796-1859), educatore ed uomo politico americano, compie i suoi studi in legge nella Brown University, tra il 1827 ed il 1848 la sua brillante carriera politica lo vede rappresentante dello Stato in qualità di Senatore nello Stato del Massachussetts. Nel 1837 accettò la nomina di Primo Segretario dell’Educazione nel (Westbrook, John Dewey and American Democracy, 1991) (Dewey J. , Il mio credo pedagogico: Antologia di scritti sull'educazione, 1987)Massachussetts. 106 Cfr. J. DEWEY, School and Society, cit. 107 J. DEWEY, Esperienza e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 36. 108 Cfr. W. BÖHN, Storia della pedagogia da Platone ai giorni nostri, Armando, Roma, 2007. 105 concretamente l’azione umana al cambiamento della vita sociale, in quanto sotto le spinte industrializzatrici si mutavano i luoghi urbani in spazi di accumulazioni di ricchezze, di variegate povertà, di solitudini ed utopie109. La scuola è il luogo istituzionalmente deputato alla formazione dell’individuo, lo spazio nel quale egli può unire teoria, la sua personale visione del mondo, con la pratica. Come Dewey chiarisce in Il mio credo pedagogico110 l’individuo vive in un contesto concreto differenziandosi dagli altri, nello stesso modo l’educazione deve essere universale e particolare, poiché essa è teoria e processo che universalizza la particolarità individuale e nello stesso tempo particolarizza la sua universalità, in quanto diversa, unica e irripetibile essa è all’interno delle situazioni umane111. Cfr. R.B. WESTBROOK, John Dewey and American Democracy, Cornell University Press, N. Y., 1991. 110 Cfr. J. DEWEY, Il mio credo pedagogico: Antologia di scritti sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1987. 111 Cfr. G. SPADAFORA, Studi deweyani, Fondazione Italiana Dewey, Cosenza, 2006. 109 2.2 La scuola di Chicago L’attivismo pedagogico deweyano si estende oltre l’ambito teorico, riferendosi anche all’elemento pratico che trova attuazione nell’esperienza educativa che il pedagogista realizza dirigendo la scuola annessa all’Università di Chicago, di cui era Direttore del Dipartimento di Filosofia, Psicologia e Pedagogia già dal 1894112, nella quale sperimentò un rinnovamento della didattica e dell’organizzazione scolastica. La scuola di Chicago costituisce un indirizzo molto particolare. Essa dipende dalla facoltà universitaria, pertanto ha una componente differente che risiede nella sua attività scientifica e che ne costituisce la parte più rilevante, considerato il contributo che essa fornisce allo sviluppo del pensiero educativo. Nel costituire una scuola legata alla università Dewey non credeva di fondare un modello né tantomeno una sede nella quale dimostrare una particolare idea o dottrina, quanto un luogo nel quale fosse possibile considerare l’educazione dei fanciulli alla luce degli sviluppi resi noti dalla psicologia dell’epoca in merito all’attività intellettuale ed ai processi di sviluppo113. Consapevole di tali finalità educativa Dewey riteneva che queste dovessero coincidere con le condizioni della scuola per suscitare la partecipazione attiva del discente al suo processo di costruzione della conoscenza. Diviene dunque indispensabile predisporre un ambiente che ne faciliti le acquisizioni attraverso una metodologia attiva che il filosofo americano enfatizza utilizzando la nozione di laboratorio, che assume una propria struttura epistemologica propria all’intermo della 112Cfr. S.J. MARTIN, The education of John Dewey. A Biography, Columbia University Press, New York, 2002. 113 Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit. scuola-laboratorio sviluppatasi a Chicago negli anni compresi tra il 1896 ed il 1903. La concezione deweyana di laboratorio riconosce le sua causa nella <teoria dell’esperienza>, intesa come ambito di scambio attivo tra soggetto e natura, che trasforma entrambi gli elementi restando perennemente aperto. In questa prospettiva pragmatica e strumentalista un ruolo centrale è occupato dalla riflessione politica che ruota attorno al principio di democrazia, considerata nella società industriale di massa la forma più avanzata ed attuale di organizzazione sociale ma, nello stesso tempo, bisognevole costantemente di essere costruita o ricostruita attraverso l’educazione scolastica. La scuola deve quindi spostare il proprio <centro di gravità>, tradizionalmente posto <<fuori del fanciullo>, mettendo a fuoco i caratteri fondamenti della natura infantile. Gli spazi scolastici dovranno essere rimodulati per fare posto alla <<conversazione o comunicazione>>, <<indagine o scoperta delle cose>>, <<fabbricazione o costruzione delle cose>>, <<espressione artistica>>. Si rende necessario avviare una differente organizzazione dell’ambiente educativo, all’interno del quale dovranno essere costruiti laboratori di diversi tipi, con lo scopo di collegare le attività scolastiche a quelle produttive, introducendo nella realtà educativa le concrete motivazioni all’apprendimento accompagnate dalla precisa coscienza della loro utilità. Si tratta di un lavoro scolastico rinnovato che introduce, accanto ai laboratori, ambienti per il gioco e la creazione artistica114, determinando quella che viene definita una <<rivoluzione copernicana>> del rapporto educativo. Il fanciullo diventa <<il sole attorno al quale girano gli strumenti dell’educazione>>. 114 Ibidem. Nella scuola-laboratorio al centro delle attività si pone il fanciullo, con i suoi bisogni fisici, intellettuali e sociali, non trascurando le sue iniziative e gli interessi che rappresentano la motivazione profonda ad ogni apprendimento. La scuola di Chicago costituiva il terreno adatto per la sperimentazione della teoria educativa di Dewey attraverso il saldo legame con la ricerca scientifica universitaria e, nello stesso tempo, rappresentava un laboratorio scolastico generatore di idee. Caratteristica distintiva della scuola-laboratorio è lo stretto legame tra la ricerca scientifica condotta in ambito universitario e le sue applicazioni nella “scuola di Dewey”, Il presupposto su cui si basa tale concetto trova efficacia nella formula learning by doing, l’apprendere mediante il fare. Secondo tale presupposto la cultura è tanto più ampia quanto più diverse e numerose sono le conoscenze concrete e le azioni sperimentali di cui si arricchisce. Conseguente a tale principio è la trasformazione del lavoro dell’educatore, che si svincola dalla pratica abitudinaria divenendo opera di creazione di nuove realtà, con possibilità di concezioni rinnovate di vita sia per l’individuo che per la società. Impostazione che viene definita da Dewey <<istruzione di laboratorio>>, richiamando una nuova rappresentazione del lavoro che si compie <<come mezzo di studio e di scoperta>>, sollecitando la curiosità degli studenti e preparandoli a scoprire nuove cose115. Il laboratorio, sostiene Dewey, è un metodo sperimentale di scoperta mediante la ricerca, è un metodo di indagine, di osservazione e riflessione, successioni che richiedono attività della mente e non solo 115Cfr., L. (Tanner, 1977)N. TANNER, Dewey’s Laboratory School. Lesson for today, Teacher College Press, New York, 1977. capacità di assorbimento e riproduzione116. La finalità educativa non poteva essere ridotta alla trasmissione di capacità formali, dovendo diventare questa occasione per iniziare gli studenti alla vita sociale mediante il percorso di quelle tappe evolutive un tempo naturalmente vissute nella comunità umana attraverso le attività didattiche117. Una concezione educativa che si ispirava a due fattori: l’uno costituito dai risultati cui era giunta la <<nuova psicologia>> teorizzata dallo stesso Dewey118 che si discostava dalla <<vecchia psicologia>> e dai suoi metodi scolastici inadeguati e l’altro costituto dai principi di Froëbel119, la cui pedagogia si ispirava ad interventi educativi finalizzati a promuovere nel soggetto la sua formazione assecondandone il fare spontaneo e creativo, da cui scaturivano il pensiero e la conoscenza. Il gioco rappresentava, per Fröbel, l’elemento centrale di questo processo attraverso il quale, nei famosi Kindergarten da lui realizzati in Germania intorno al 1840, i bambini potevano giocare ed apprendere, conoscersi ed esprimersi tramite le attività del gioco. Dewey definisce la nuova psicologia in ragione delle facoltà psicologiche dell’individuo, in rapporto alla sua azione nell’ambito sociale. La nuova psicologia poneva il centro di gravità nel fanciullo, nei suoi bisogni fisici, intellettuali, sociali e nei suoi interessi, che costituivano la reale motivazione di ogni suo apprendimento, diversamente da come egli veniva inteso nella educazione tradizionale, 116Cfr. J. DEWEY, The Educational Situation, in Collected Word, The Middle Works, vol. I, 1899-1901. 117Cfr. J.DEWEY, Il mio credo pedagogico, cit. 118Cfr. L. HICKMANN, The Essential Dewey; vol. I, Pragmatism, Education and democracy; vol. II, Ethics, Logic, Psychology, edited and with introduction Thomas Alexander, Bloomington, Inc. Indian University Press, 1988. 119 Cfr. F. FRÖBEL, L’educazione dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze, 1993. caratterizzata da passività e da un inquadramento meccanico dei programmi e dai metodi uniformi120. Il fanciullo è dunque un individuo sociale al pari dell’adulto, con i propri interessi sociali e verso l’ambiente umano e produttivo a cui appartiene e dal quale riceve impulsi e sollecitazioni. È chiaro il rilievo che per Dewey ha la nuova psicologia e l’importanza da lei attribuita all’ambiente come luogo dove il fanciullo poteva costruire la sua personalità121. La nuova psicologia dimostrava come l’attività del fanciullo, diversa da quella dell’adulto e del bambino, presentasse distinte fasi di interesse e capacità nei diversi periodi della sua crescita, perciò definita <<realtà in svolgimento>>. Diveniva consequenziale l’opportunità, in ambito scolastico, di differenziare le materie di studio del giovane e del fanciullo, evitando di ridurre, quest’ultime, ad una mutilante semplificazione. Il ruolo ricoperto dalla scuola era di fondamentale rilievo per la buona educazione dei fanciulli e doveva necessariamente essere strutturata in riferimento alla sua efficacia educativa, predisponendola come luogo di riproduzione dell’ambiente sociale, evitando, così, divisioni artificiose tra la vita extrascolastica e quella che si svolgeva tra le pareti della sede educativa. L’obiettivo perseguito da Dewey consisteva nel modificare la struttura della scuola fino a darle la prerogativa di <<una comunità in miniatura, una società embrionale>>122 attraverso due vie: il contatto con l’ambiente e quello con la realtà sociale del lavoro. Pertanto al suo interno dovevano trovare posto quattro principali impulsi che caratterizzavano il rapporto tra la conoscenza e l’azione: impulso 120Cfr. M.J. ADLER, M. MILTON, The Revolution in Educational, University of Chicago Press, Chicago, 1958; S.J. MARTIN, The Education of John Dewey. A Biography, cit. 121Cfr. J. DEWEY, The New Psychology, in Collected Works, The Early Works, 1882-1898, vol. I. 122 J. DEWEY, The School and Society, cit. p. 57. sociale, del linguaggio, impulso a costruire, impulso estetico123. Da ciò la necessità di attrezzare la scuola di laboratori raccordanti le attività scolastiche con quelle produttive e familiari, idonei a soddisfare gli interessi degli educandi ed ad introdurre nell’ambito scolastico motivazioni autentiche all’apprendimento delle diverse discipline, oltre che la consapevolezza della loro utilità. In aggiunta non dovevano essere tralasciati i luoghi deputati al gioco ed alla creazione artistica. Per il filosofo americano le attività manuali introdotte nell’ambiente educativo assumevano un inequivocabile significato: <<appagare un’esigenza vitale degli alunni, offrendo loro qualcosa che non potrebbero ottenere in nessun altro modo>>124. Il termine <<occupazione>>, utilizzato da Dewey, non ha il significato di un generico lavoro che tenga occupati gli allievi, tantomeno è un metodo per impedir che si impigriscano. Esso anticipa, piuttosto, le forme di attività presenti nelle differenti tipologie di lavoro esercitate nella vita sociale. Il lavoro e l’occupazione non hanno, dunque, alcuna declinazione di lavoro produttivo o momento ricreativo, ma trovano valore quando si stabilisce una relazione tra questi e la loro funzione sociale. L’inserimento del lavoro pratico nella vita scolastica non è, dunque, da intendersi come addestramento manuale o padroneggiamento di determinati strumenti privi di finalità, valore educativo e consapevolezza, quanto invece la valorizzazione della preminenza attribuita al <<fare>> dell’allievo, in chiara antitesi con l’apprendimento passivo e nozionistico in uso nella scuola tradizionale, che si ponevano come fulcro di un discorso pedagogico nuovo125. 123Cfr. F. CAMBI, Storia della pedagogia, cit. J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 9. 125Cfr. A. VISALBERGHI, John Dewey, La Nuova Italia, Firenze, 1951; G. CORALLO, La pedagogia di John Dewey, SEI, Torino, 1950 124 La scuola di Chicago doveva offrire al fanciullo, secondo il progetto deweyano, l’occasione di contemperare i suoi interessi teorici e pratico-operativi trovando il giusto rapporto tra i mezzi ed i fini delle sue azioni. Intenzioni che trovano conferma nelle parole di Dewey: <<dobbiamo intendere il suo significato sociale, lo dobbiamo considerare tipo del processo mediante il quale la società progredisce, operazione con la quale si rendono familiari ai fanciulli certe primarie necessità di vita in comune ed i modi mediante i quali queste esigenze sono soddisfatte dalla crescente penetrazione e ingegnosità dell’uomo; lo dobbiamo considerare strumento e la scuola è destinata a diventare una forma schietta di attiva vita in comune, anziché luogo appartato dove si apprendono lezioni. Non c’è motivo sociale evidente nell’acquisto di puro sapere se non c’è chiaro beneficio nel procurarselo>>126. Nella scuola la presenza del lavoro, delle occupazioni in attività pratiche e manuali, rappresenta per il pedagogista la realizzazione di un rapporto armonico fra scuola e società, attraverso la creazione ed il mantenimento dell’equilibrio tra la fase intellettuale e la fase pratica dell’esperienza educativa. Anche l’azione del maestro riveste nella teoria educativa deweyana un ruolo decisamente differente da quello esercitato secondo i dettami della vecchia psicologia cui si atteneva la gran parte degli insegnanti e che era prevalentemente di tipo autoritario. Mentre nella impostazione tradizionale il maestro dispensava il sapere attraverso lezioni di tipo intellettualistico, verificandone poi l’apprendimento che era di tipo esclusivamente nozionistico, con la teoria deweyana il maestro diventa l’interprete dei bisogni autentici del fanciullo, guida attenta nell’interpretarli, indirizzarli e concorrere a soddisfarli, organizzatore 126 J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 10. e regolatore dei processi di ricerca della classe, animatore delle diverse attività scolastiche. Il maestro si pone, dunque, come anello di congiunzione tra la scuola e le istanze storico-sociali più pressanti127 127Ivi , pp. 6-20. 2.3 Metodi e discipline nella Laboratory School L’organizzazione della scuola-laboratorio fu strutturata da Dewey tenendo presente due principi fondamentali: l’istruzione dei ragazzi che la frequentavano e il rapporto con l’Università di Chicago di cui faceva parte nell’organizzazione della ricerca in campo psicopedagogico e sociologico128. L’organizzazione pratica delle componenti educative ed amministrative si rivelò per il filosofo un compito abbastanza impegnativo. L’obiettivo deweyano di connettere l’attività del kindergarten con quella della scuola primaria, al cui interno vi era una rielaborazione dei materiali e della tecnica tradizionale applicati con allievi assai diversi per fascia di età, compresa fra i quattro ed i tredici anni, si presentava di difficile realizzazione. Il presupposto cui si richiamava il filosofo americano Fröbel, e i risultati della nuova psicologia, pur rappresentando eccellenti elementi-guida nell’organizzazione della scuola, lasciavano irrisolti svariati problemi organizzativi129. La difficoltà scaturiva dal fatto che tali orientamenti venivano seguiti ed applicati da Dewey e dai suoi insegnanti con ampia libertà, adeguandosi di volta in volta al presentarsi di nuove situazioni educative per la volontà, espressa dal filosofo, di favorire nella scuola uno <<sviluppo graduale di metodi e principi>>130, non adoperando alcuna <<dotazione precostituita di essi>>131. Gli educatori sviluppavano, seguendone le indicazioni, la propria esperienza educativa all’interno della scuola, ricercando di volta in 128Ivi, pp. 104-110. M. S. SHAPIRO, Child’s Garden: the Kindergarten Movement from Froebel to Dewey, University Park: Pennsylvania Press, 1983. 130 J. DEWEY, School and Society, cit., p.58. 131Ibidem. 129Cfr. volta le risposte più consone circa il modo migliore di educare i fanciulli per stimolare in essi un reale interesse ed incrementare le potenzialità e le singole capacità creative ed intellettive132 di ciascuno. Per quanto attiene al rapporto tra la scuola-laboratorio e l’Università di Chicago Dewey riteneva che l’importanza del collegamento fra la scuola e la facoltà universitaria risiedesse nel contributo che essa era in grado di apportare allo sviluppo del pensiero educativo e che solo una finalità scientifica, ovvero la gestione di un laboratorio scientifico, poteva essere una ragione valida per relazionare il mondo della ricerca universitaria e la scuola laboratorio. L’obiettivo prefissato non risiedeva nella dimostrazione di una particolare dottrina educativa, neanche nel tentativo di fare della scuola di Chicago un modello indiscusso ma nell’attestarla come <<laboratorio di psicologia applicata>>133. Doveva intendersi come un luogo di studio della mente del fanciullo, di ricerca e di applicazione dei materiali e delle tecniche adatte a favorirne il suo completo sviluppo, dove fosse possibile studiare anche le interazioni psicologiche dell’educando con il suo ambiente di vita. In definitiva un luogo in cui un ruolo prioritario lo rivestisse l’esperienza del fanciullo, elemento fondamentale del suo sviluppo educativo e fulcro delle attività della scuola. Dal punto di vista pratico il problema del laboratorio si poneva per il filosofo <<come organizzazione di un corso di studi in armonia con lo sviluppo del fanciullo in capacità ed esperienza>>134. Nel progettare ed organizzare la scuola-laboratorio Dewey era consapevole di due presupposti fondamentali: dell’impossibilità di 132Ivi, pp. 57-66. DEWEY, The Reflex Arc Concept in Psychology in “Psychological Review”, 3, p. 357370. 134 J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 67. 133J. indagare a fondo i fatti psicologici principali anche di un solo anno di sviluppo del fanciullo e dell’enorme difficoltà incontrata dall’educatore nell’individuare strumenti educativi certi ed indiscussi. Consapevole di tali difficoltà, però, un laboratorio pedagogico costituiva comunque l’unica possibilità di indagine e di ricerca continua ed intelligentemente perseguita capace di far acquisire all’educatore non solo elementi relativi allo sviluppo del fanciullo ma anche capacità di incrementarli costantemente. La laboratory-school di Chicago venne organizzata come un laboratorio culturale e pedagogico nel quale si affinavano gli strumenti educativi ritenuti adatti al pieno sviluppo delle attitudini del fanciullo ed al soddisfacimento delle sue necessità e dei suoi interessi. Tale strutturazione caratterizzava la scuola come <<stazione pedagogica sperimentale>>135. La metodologia per l’insegnamento delle discipline scolastiche quali la geografia, l’aritmetica, la storia, la grammatica, ecc.., venne assunta secondo gli orientamenti forniti dalla nuova psicologia, che indicava come prioritario l’interesse e l’attrazione che la stessa disciplina esercita sul fanciullo in relazione ai suoi bisogni, ai fini che persegue, al rapporto con la vita sociale. Lo strumento educativo per eccellenza è l’interesse, strumento in grado di convogliare le energie mentali del fanciullo per utilizzarle nei modi consoni alle capacità individuali. La materia più utile era quella capace di riprodurre la vita sociale dell’educando e per tale ragione l’attività educativa fu organizzata in racconti, arti pittoriche, giochi, occupazioni, ecc. Il materiale di impiego fu ricavato inizialmente dalla vita familiare per procedere con gradualità con strumenti sempre più distanti fra loro. Il fulcro educativo attorno al quale si concentrava 135Ivi, p. 68. l’organizzazione scolastica era rappresentato dal modo in cui si sarebbe potuto ottenere nel fanciullo l’acquisizione delle abilità tecniche proprie dei diversi stadi dell’istruzione congiunte all’esperienza ed alla attività scolastica quotidiana, in questo modo si sarebbe potuto far procedere l’educazione formale e simbolica, facendo avvertire al fanciullo la necessità di impadronirsene attraverso il legame dei simboli e degli argomenti esercitando sull’educando una attività intrinseca. Il focus si sostanziava nel fornire al fanciullo un <<movente vitale>> nell’acquisizione delle diverse conoscenze136. La scuola deweyana era orientata a stabilire uno stretto rapporto tra l’ambiente scolastico e la realtà sociale del lavoro mediante l’introduzione del lavoro manuale e delle occupazioni, per meglio trasformare la scuola in una <<comunità in miniatura>>, semplificando la realtà esistente per ricondurla ad una forma embrionale. Per la realizzazione di tale intento era necessario alleggerire le discipline scolastiche dalle imbrigliature del sapere codificato, statico e trasmissibile unidirezionalmente, per trasformarlo in un campo di ricerca continua e di collegamento con il mondo esterno. In questo suo progetto pedagogico, che costituiva il centrum della sua teoria, Dewey non solo poneva l’esperienza dell’educando in collegamento con l’ambiente sociale ma si poneva come apripista per le novità educative che contrastavano con le rigide organizzazioni curriculari e didattiche della scuola tradizionale, privilegiando in ampio anticipo collegamenti interdisciplinari137. L’ambiente scolastico era predisposto in modo da facilitare, disciplinandolo, lo svolgimento delle attività infantili. Il naturale processo di crescita attraverso il rinnovamento didattico ed 136 137 J. DEWEY, The School and Society, cit. p. 66. Cfr. A. MEIKLEJOHN, The Dewey School, in “New Republic”, n. 121, 1949. organizzativo della scuola. Per tale ragione l’organizzazione educativa si propose di assumere come modello la vita familiare, esempio capace di evitare artificiose separazioni tra le attività che gli allievi svolgevano a scuola e quelle che si sviluppavano al di fuori di essa138. Il nucleo centrale del lavoro didattico era costituito dalle attività espressive o costruttive, il cui scopo non faceva riferimento al valore economico dei prodotti risultanti da esse, quanto allo sviluppo delle capacità e delle intelligenze degli studenti. Accanto alle attività sociali quali cucinare, cucire, tessere, giardinaggio, ecc.., si introducevano con gradualità le discipline più formali come le lingue e le scienze139. La metodologia utilizzata nella scuola laboratorio di Chicago segue la natura stessa del fanciullo, anteponendo l’apprendimento attivo a quello passivo poiché, come sostiene Dewey, l’espressione precede l’impressione consapevole. Un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo dell’intelligenza e per l’ampliamento dell’esperienza è assegnato alla facoltà immaginativa del fanciullo che si manifesta nell’educazione artistica, considerata processo di fruizione e produzione del bello. L’arte raffigura per Dewey il momento fruitivoprogettuale-immaginativo che si accompagna ad ogni esperienza. È opportunità che sostiene la crescita organica dell’attività estetica per farsi presupposto centrale dell’esperienza del singolo ispirata all’unità, alla continuità, all’identità tra mezzi e fini, così come avviene nell’arte140. Dalla testimonianza di Katherine Camp Mathew e Ann Camp Edwards, insegnanti della scuola di Chicago che svolsero rispettivamente il ruolo di vicepreside e responsabile dello sviluppo del curriculum la prima, 138Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit. DEVEY, The Child and the Curriculum, in Collected Works, The Middle Works, 18991924, vol. II, pp. 289-294. 140Cfr. J. DEWEY, Art as Experience, Minton, Balch and Co, New York, 1934. 139J. insegnante di storia e successivamente tutor speciale del lavoro svolto da tutti i dipartimenti la seconda, si apprende che gli anni di attività della Dewey School furono ricchi di avvenimenti. La scuola mediante il sostegno della università di Chicago e grazie ad una organizzazione che si configurava come un’impresa cooperativa di genitori, insegnanti ed educatori, avvia ufficialmente la sua attività nel mese di gennaio dell’anno 1896, in una residenza privata con sedici studenti e due insegnanti, e venne velocemente conosciuta con il nome di Laboratory School. Il nome assegnato alla scuola non ha nulla di casuale. Esso è rivelatore della volontà di John Dewey di verificare praticamente le sue arricchite idee filosofiche e psicologiche141 che necessitavano di laboratori di sperimentazione intesi nel loro limitato significato tecnico, considerato che oggetto di indagine era lo sviluppo continuo degli esseri umani nella conoscenza, nella comprensione e nel carattere e che la scuola laboratorio rappresentava la risposta a questo bisogno. La denominazione di Laboratory School attribuisce chiaramente un significato preciso all’attività della scuola. Dewey, d’altra parte, nel Piano dell’Organizzazione della Scuola Elementare dell’Università (questo il titolo della brochure nella quella era pubblicizzata la teoria educativa a cui si ispirava la scuola di Chicago) affermava in merito al 141Durante il periodo di Chicago il pensiero del filosofo si nutre dell’influenze coincidenti con le progressive conoscenze psicologiche del periodo, grazie anche alla collaborazione di un gruppo di colleghi come James R. Angel che lavorava alla psicologia funzionale; George H. Mead, che Dewey aveva incontrato come collega all’Università del Michigan e che era impegnato nello sviluppo della psicologia dell’atto (o dell’azione) sulla base di una ampia conoscenza biologica; James H. Tuta collaboratore di Dewey in un corso tenuto ai genitori della scuola. Questi studiosi, ed altri ancora in dipartimenti dell’università con interessi affini, formavano un gruppo unito ed entusiasta di ricercatori e di insegnanti. Si aggiunge come arricchimento al pensiero di Dewey il lavoro di vari Clubs di studio di cui è membro e dai gruppi di giovani, laureati o ancora studenti universitari, che lavoravano sotto la sua direzione. A questo proposito cfr., K.C. MAYTHEW, A,C, EDWARDS, The Dewey School. The Laboratory School of the University of Chicago 1896-1903, D. Appleton Century Company, New York, 1963. concetto di laboratorio: “un laboratorio è, come implica la parola, un posto per l’attività, per il lavoro, per il conseguente portare avanti una occupazione, e, nel caso dell’educazione, l’occupazione deve essere inclusiva di tutti i valori umani fondamentali. Un laboratorio implica anche idee direttive, ipotesi preminenti, che non appena vengono applicate conducono a nuove comprensioni”142. Impostazione pienamente confacente ad una scuola laboratorio. Nel mese di ottobre del suo primo anno di vita la scuola si trasferisce al 5718 di Kimbark Avenue. Essa contava 32 allievi di età compresa tra i sei e gli undici anni, con un corpo insegnante composto da tre docenti: uno di attività domestiche e scienze, il secondo di letteratura e storia e l’ultimo di addestramento manuale143, con una collaborazione part time di un istruttore di musica e di tre giovani laureati dell’Università di Chicago. Nel febbraio del 1897 il cresciuto numero degli allievi (45 iscritti) e degli insegnanti obbliga ad un cambio di sede della Laboratory School che fissa la sua dimora alla South Park Club House, all’angolo di Rosalie Court nella 57ma strada. Tale numero era destinato ad aumentare ancora nel corso dello stesso anno contando a fine dicembre circa 60 allievi e 16 insegnanti in servizio. Ancora una volta la necessità di spazi più ampi impose alla scuola un ulteriore trasferimento di sede e nell’ottobre del 1898 si spostò in una vecchia struttura al 5412 di Ellis Avenue, consentendo così l’iscrizione alla scuola anche ai bambini di quattro e cinque anni, portando ad ottantadue il numero degli allievi frequentanti la scuola laboratorio. All’interno della struttura gli spazi erano strutturati per lo svolgimento delle diverse attività: palestra, locali per l’addestramento manuale, due 142 143 Cfr., K. C. MAYHEW, A. C. EDWARDS, The Dewey School, cit. Ivi, p. 8. laboratori, uno di fisica e chimica ed uno di biologia, una cucina, due sale per la scienza domestica. CAPITOLO TERZO IL LABORATORIO NELLA CULTURA ITALIANA CONTEMPORANEA Nell’Italia del secondo dopoguerra l’educazione progressiva ha avuto diversi sostenitori animati dal desiderio di sviluppare i principi fondamentali del movimento innovatore, che tanto interesse aveva suscitato negli studi d’oltralpe, specie negli aspetti relativi al rapporto pedagogia-scienze umane e scuola-società. Diverse contingenze, la prospettiva offerta dall’educazione progressiva, il delicato periodo postbellico, gli studi italiani su Dewey e le esperienze del Movimento di Cooperazione Educativa144, indicano alla pedagogia nazionale nuovi percorsi che confluiranno nel tentativo di costruzione della scuola democratica, post-gentiliana, intesa come elemento di eguaglianza sociale. La pedagogia progressiva italiana si struttura all’interno di un proponimento educativo orientato al rinnovamento democratico che coinvolge tanto i metodi formativi quanto la struttura scolastica, grazie al ruolo catalizzatore di Lamberto Borghi145. Prima della riflessione di Borghi il pensiero di Dewey era stato mal interpretato nel nostro paese, in parte a causa dell’egemonia idealista che manifestava un atteggiamento di chiusura nei confronti delle altre Il MCE nasce il Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Cèlestin ed Elise Freinet. All’indomani della guerra, nel momento di pensare alla ricostruzione, alcuni maestri quali G. Tamagnini, A. Fantini, A. Pettini, E. Codignola e più tardi B. Ciani, M. Lodi e tanti altri, si unirono attorno all’idea di una cooperazione solidale che diviene crescita e integrazione sociale. Non si è trattato solo della introduzione e utilizzazione di alcune tecniche di base, ma di dare senso ad un movimento di ricerca che ponga al centro del processo educativo i soggetti, per costruire le condizioni di un’educazione popolare, in quanto garanzia di rinnovamento civile e democratico. 145 Cfr. L. BORGHI, La città e la scuola, Elèuthera, Milano, 2008. 144 correnti della cultura pedagogica, in parte per una incomprensione dei suoi scritti, riconosciuti soltanto come una documentazione di esperienze educative, mentre la teoria deweyana dell’educazione veniva considerata di limitato valore e priva di una dimensione assoluta146. Borghi innesta, invece, nel panorama pedagogico italiano una visione profondamente antiautoritaria, correlando il pensiero di Dewey agli studi sulla psicologia dello sviluppo e sulla filosofia umanistica, ampliandone la prospettiva egli ne valorizza le sperimentazioni educative basate sulle relazioni, improntate al reciproco rispetto tra tutti i partecipanti e allo sviluppo dell’autonomia personale. Una società autoritaria ha un sistema rigido che non permette lo sviluppo e l’esperienza intellettuale degli allievi; di converso la democrazia è un impianto di vita associativa fondato sulla partecipazione consapevole di tutti alla cosa pubblica, sulla consultazione e sulla comunicazione delle esperienze. Risulta, dunque, la volontà dell’educazione progressiva di garantire il consolidamento della democrazia, in quanto essa struttura cittadini riflessivi, capaci di pensiero autonomo e originale, ed i cui principi costitutivi si riassumono nell’idea dello sviluppo contemporaneo e congiunto dell’individualità e della socialità del fanciullo, nel concetto che questi deve essere sempre considerato come personalità distinta, come individuo, e non come l’appendice di un corpo etnico o religioso o come l’incarnazione di una idea147. Affinché una personalità possa svilupparsi in autonomia è indispensabile che la sua crescita avvenga in un contesto interattivo intergenerazionale al cui interno gli adulti non impongono la logica della subordinazione, ma, riconoscendo la diversità dei punti di vista individuali, sono capaci di fornire spazi di Cfr. L. BELLATALLA, John Dewey e la cultura italiana del Novecento, ETS, Pisa,1999. Cfr. L. BORGHI, John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti, La Nuova Italia, Firenze, 1951. 146 147 espressione e confronto di idee, per affrontare in modo dubitativo e critico ogni situazione. Una personalità indipendente penetra in maniera creativa nella comunicazione, introduce un ulteriore punto di vista e conduce un’argomentazione razionale, mantenendo un clima di rispetto; innesta i presupposti per “la creazione di una società democratica nel verace senso di questa espressione, cioè costituita da uomini atti a governare da sé e nemici di ogni autorità esterna”148. Una soggettività libera è capace di agire e pensare autonomamente, senza accettare o subire le pressioni dall’autorità esterna, sviluppa progetti collaborativi, valuta e condivide scopi, soprattutto dialoga con un crescente numero di soggetti, poiché è in grado di condividere il processo di formazione con l’umanità, senza porre limiti di tipo nazionale, etnico o religioso. 3.1 Francesco De Bartolomeis I principi dell’attivismo hanno trovato in Italia un’energica difesa nel gruppo di studiosi legato alla rivista Scuola e società, uomini che operano innestando i postulati dell’attivismo nell’ambito della nostra tradizione pedagogica, con l’intento di incoraggiare il progresso educativo in direzione scientifica e sociale, avviando un cambiamento nei metodi didattici. Tra gli studiosi che si interessano al rinnovamento della didattica Francesco De Bartolomeis149 è senza dubbio la più autorevole voce italiana. Attraverso le sue opere, infatti, ha lasciato tracce significative Ivi, p. 138. Francesco De Bartolomeis, pedagogista e studioso di problemi d’arte, è stato per oltre trent’anni titolare della cattedra di pedagogia e direttore dell’Istituto di pedagogia dell’Università di Torino. Inoltre ha diretto la Scuola di Specializzazione in Psicologia, Pedagogia, Psicopedagogia prima e successivamente la scuola di Perfezionamento in Scienze dell’Educazione. 148 149 per la riflessione e la sperimentazione pedagogica, mostrando una particolare attenzione sia alle istruzioni suggerite dalla scuola attiva ma ancora di più al metodo dei laboratori. L’esigenza di legare i laboratori didattici con la pedagogia nasce nel De Bartolomeis nel 1951, al tempo in cui è impegnato nelle Università di Firenze e di Pisa, ma già nel suo lavoro del 1948 Programmi elementari e scuola attiva150 egli si occupa in modo diretto di problematiche educative e scolastiche nella prospettiva della scuola attiva, ricollegandosi ed ampliando il suo precedente lavoro Esame dei programmi per le scuole elementari 151 dove, alla luce del Decreto Ministeriale del 9 febbraio 1945, analizza i nuovi programmi di studio. Nel testo del 1948 mette in risalto lo spirito autentico della scuola attiva riguardo al quale erano in corso “equivoci e fraintendimenti”152. Il tema dell’attivismo costituisce un elemento fondamentale e costante della ricerca pedagogica del De Bartolomeis che nei testi menzionati cerca una correlazione tra i nuovi programmi per la scuola elementare e la scuola attiva, per evidenziare come questi “sono compenetrati dallo spirito della scuola attiva e sino a quale punto il maestro, ispirandosi ad essi, sia sicuro di poter realizzare tale spirito”153. Tratto peculiare che lo studioso sottolinea nel suo lavoro è la scarsa presenza nella scuola dei principi della scuola attiva. Pur riscontrando nei Programmi Nazionali indicazioni precise quando, per esempio, si fa riferimento alla scuola come comunità sociale e scuola democratica, la normativa governativa rimane nell’ambito di indicazioni didattiche formali in quanto non si è in grado di fornire i “mezzi pratici per Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Programmi elementari e scuola attiva, La Nuova Italia, Firenze, 1948. 151 Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Esame dei programmi per le scuole elementari, Studio Editoriale Corsi Scolastici, Forlì, 1947. 152 F. DE BARTOLOMEIS, Programmi elementari …. cit. p. 23. 153 Ivi, p. 1. 150 realizzarla”154. L’educatore continua ad essere il punto centrale della scena al contrario di quanto l’educazione nuova e la scuola attiva suggeriscono. Il De Bartolomeis arriva a dare di tale situazione una rappresentazione simbolica.“un insieme di frecce che partendo dal centro che è il maestro, hanno ciascuna come punto d’arrivo l’alunno, i rapporti tra gli alunni mancano assolutamente di rilievo educativo. Da questa educazione è esclusa ogni tipo di socialità, di lavoro in comune, di partecipazione degli alunni al disciplinamento e all’organizzazione della comunità scolastica”155 L’iniziale tentativo di sperimentazione dei laboratori è portato avanti attraverso esperimenti episodici, modesti e senza l’appoggio di una struttura. Solo a partire dal 1972 ebbe la possibilità di sperimentare in modo continuo ed organico la sua idea organizzando, nell’Istituto di Pedagogia di Torino, i laboratori per le attività sperimentali156, incoraggiato dal proposito di dedurre dagli esperimenti condotti dagli studenti dell’Istituto, nonché dalla conseguente loro sistemazione teorica, materiale sufficiente per elaborare una sistemazione dei laboratori fondata su una “concezione produttiva e sociale della cultura”157, allo scopo di portare innovazioni nella pratica scolastica abituale. Un rinnovamento che doveva porsi in accordo con la politica socioculturale del tempo considerando l’importanza che i nuovi temi emergenti nella società rivestivano, come il rapporto studio/lavoro, la conversione del lavoro in servizio sociale, la formazione professionale come qualificazione nella formazione sociale, coerentemente con il concetto di produttività culturale. Riprende il De Bartolomeis un Ivi, p.7. Ivi, p. 8. 156 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori. Per una scuola nuova necessaria e possibile, Feltrinelli, Milano, 1978. p. 285. 157 Ivi, p. 8. 154 155 concetto già espresso da Dewey nell’opera Scuola e società158 ribadendo la necessità di considerare il contesto sia scolastico che sociale nell’avviare qualsiasi tipo di innovazione, inquadrando il più ampio ambito dei problemi sociali, economici e politici di una società all’interno della quale le innovazioni andranno ad inserirsi159. La scuola attiva rappresenta per De Bartolomeis il futuro dell’educazione, finalmente dinamica, qualcosa che “vive, si muove, si sviluppa”160. Un tipo di scuola che, non confidando nell’apprendimento mediante l’insegnamento collettivo e lo studio ricettivo degli argomenti di un programma prestabilito, permetteva agli allievi di affrontare in modo partecipe, secondo un metodo personale e problematico, i compiti della loro educazione all’interno di un ambiente organizzato adeguatamente per lo scopo da raggiungere. In tale tipo di scuola De Bartolomeis poneva in risalto come la formazione culturale, sociale, morale e affettiva del soggetto emergesse da una molteplicità di esperienze, con l’aiuto di tecniche e materiali diversi, dai lavori manuali, dalle occupazioni individuali e collettive, dalle responsabilità e dalle iniziative assunte dagli allievi mediante la guida degli insegnanti, indirizzate alla realizzazione di una varietà di servizi indispensabili alla vita della comunità scolastica. L’esperienza debartolomeisiana della scuola connessa all’Istituto di Pedagogia, sebbene nata come quella di Dewey all’interno dell’Università di Chicago, se ne discosta nell’obiettivo di avviare innovazioni scolastiche in ogni ordine e grado dell’istruzione e per tale ragione si avvale dell’opera di insegnanti che rivestono un ruolo indispensabile per definire la metodologia da impiegare nei laboratori, la quale non deve Cfr. J. DEWEY, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1972. Ivi. 160 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori… cit, pp. 10-12. 158 159 rimanere confinata nelle aule ma estendersi alle diverse istituzioni formative.. Mediante l’applicazione dei laboratori De Bartolomeis concepiva una metodologia che rispondendo alle esigenze di mutamento del lavoro educativo non si limitasse esclusivamente agli obiettivi didattici ma fosse estendibile a centri culturali, colonie di vacanze, iniziative di educazione permanente, di riqualificazione del tempo libero, interessando anche istituzioni formative non scolastiche. Emerge dal pensiero del pedagogista che i laboratori si configurano come “luoghi attrezzati di materiali, strumenti e macchine in cui si svolgono lezioni diverse da quelle di tipo tradizionale. Si presentano, infatti, come istituzionalmente avversi alla lezione, allo studio libresco, al distacco dalle cose e dai problemi, ai rapporti formali tra docenti e studenti, a norme disciplinari esterne161. L’utilizzo di strumenti e macchinari per sviluppare le diverse attività non viene concepito nel senso di vincolare la produttività dei laboratori alla tecnologia quanto piuttosto a ricostituire per gli allievi spazi di comportamento alternativi a quelli tradizionali e capaci di creare rapporti diversi da quelli consueti. La diversa finalità consiste nell’operare in direzione di obiettivi che abbiano la realtà di prodotto inteso nel modo più vario: la soluzione di un pensiero cognitivo, uno strumento, un congegno, una modificazione dell’ambiente. La produttività dei laboratori si determina in un’attività che attraverso il mezzo della ricerca tende a risolvere problemi reali. La possibilità di risoluzione ai problemi è offerta sia dall’interesse degli studenti e degli esperti per temi politici, sociali, economici, sia dalla conseguente trattazione di questi temi che trasformano i laboratori in luoghi di progettazione, di ricerca, di iniziative da realizzare anche al fuori delle 161 Ivi, pp. 13-15. istituzioni scolastiche162. L’obiettivo di dilatare la realtà extrascolastica è perseguibile, a parere del pedagogista, lavorando affinché i laboratori non rimangano circoscritti nell’edificio scolastico, delimitati in aree determinate e arginate, ma si affaccino all’esterno offrendo opportunità di incontro tra gli allievi e la realtà sociale nella sua interezza. Il Sistema dei laboratori163 del De Bartolomeis rileva come i prodotti delle attività laboratoriali, materializzandosi, documentano palesemente ciò che in essi si è riusciti visibilmente a produrre rinnovando “i modi di formarsi della cultura”164 e mutando la vita dell’uomo in tutte le manifestazioni: a scuola, nel lavoro, nell’organizzazione socio-politica, nei rapporti affettivi, e tale “produttività fa sentire come primario il bisogno del compimento, delle connessioni”165. Nella concezione di De Bartolomeis produzione culturale è produzione sociale. L’esperienza realizzata da De Bartolomeis nell’Istituto di Pedagogia di Torino, sebbene nata come quella di Dewey all’interno dell’Università, si pone come obiettivo quello di avviare innovazioni nella scuola di ogni ordine e grado e, perciò, si avvale della partecipazione e della collaborazione degli insegnanti indispensabili, a parere del pedagogista, per definire con precisione la metodologia da impiegare nei laboratori. Il rinnovamento metodologico non deve rimanere confinato nella scuola ma espandersi anche verso le istituzioni formative non scolastiche. La metodologia dei laboratori è connaturata ad una impostazione non curvata esclusivamente su obiettivi didattici ma, sempre in una prospettiva di rinnovamento educativo e sociale, estesa ad altri luoghi ed iniziative, 162Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo integrato, La Nuova Italia, Firenze, 1983. 163 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori…., cit. 164 Ivi, p. 15. 165 Ivi, p.16. interessando un’area sempre più ampia. Per De Bartolomeis i laboratori si configurano come “luoghi attrezzati di materiali, strumenti e macchine in cui si svolgono lezioni diverse da quelle di tipo tradizionale. Essi infatti, si presentano come “istituzionalmente avversi alla lezione, allo studio libresco, al distacco dalle cose e dai problemi, ai rapporti formali tra docenti e studenti, a norme disciplinari estrinseche”166. L’impiego di strumenti, materiali e macchine non implica un legame accentrativo della produttività dei laboratori con la tecnologia ma tende a ricreare per gli allievi spazi di comportamento alternativi a quelli tradizionali e in grado di creare rapporti differenti da quelli consueti. La diversità consiste nell’operare in direzioni di obiettivi che si realizzino in un “prodotto” che può essere inteso in modi diversi: la soluzione di un problema cognitivo, uno strumento, un congegno, una modificazione dell’ambiente, ecc. “Il rapporto progettoprocesso-prodotto non è vincolato costitutivamente all’esclusivismo tecnologico (…) importa verificare la congruenza laboratori- produttività culturale per una grande varietà di obiettivi”167. La nozione di “produttività” dei laboratori costituisce un elemento centrale della concezione pedagogica attorno a cui essi si strutturano. Essa si precisa in “un’attività che, attraverso il mezzo della ricerca, tende a risolvere problemi reali. La risolvibilità di tali problemi è misurabile sia dall’interesse degli studenti e degli esperti per temi politici, sociali, economici, sia dalla conseguente trattazione degli stessi, trasformando i laboratori in luoghi di progettazione, di ricerca, di iniziative da realizzarsi anche fuori dalle istituzioni scolastiche”168. Ivi, p. 15. Ibidem. 168 T. IAQUINTA. La scuola laboratorio. La teoria deweyana e l’interpretazione di Francesco De Bartolomeis, Edizioni Scientifiche Calabresi, Rende (CS), 2005. p. 123. 166 167 De Bartolomeis nella strutturazione del Sistema pone in rilievo i risultati delle attività svolte nei laboratori che, concretizzati in prodotti, dimostrano chiaramente ciò che si è riusciti a produrre. Questo muta, conseguentemente, “i modi di formarsi della cultura”169 arrivando a mutare il vivere dell’uomo in tutte le diverse manifestazioni: a scuola, nel lavoro, nell’organizzazione socio-politica, nei rapporti affettivi, ecc. L’istituzione educativa che si da una struttura laboratoriale è, dunque, per De Bartolomeis, forma indispensabile per avviare il rinnovamento. Nei suoi diversi aspetti costitutivi: metodologie d’apprendimento, metodologie di produzione, interdisciplinarità, rapporto scuola/extrascuola, organizzazione degli spazi, attrezzature, arredi, approccio psico-clinico (ossia l’interesse per i rapporti interpersonali, per i gruppi, e per le difficoltà che in essi insorgono) trovano reale rappresentazione i diversi elementi che la compongono. I laboratori così intesi da De Bartolomeis sono relazionati in un Sistema e rappresentano nel loro aspetto didattico-organizzativo l’elemento trasformativo170. L’innovazione residente nella metodologia si allontana dalle ordinarie tecniche di animazione, in uso nella scuola di tipo tradizionale, che appaiono vincolate agli interventi e alle idee dei singoli, apparendo prive di strutture e di continuità istituzionale. La metodologia si presenta con un carattere di esclusività rispetto ai diversi tentativi di DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori, cit. p. 16. De Bartolomeis nel Sistema dei laboratori, a pagina 66 chiarisce: “Il collegamento in Sistema dei laboratori si origina fa tre motivi fondamentali: perché in nome della interdisciplinarità si presentano collegati fra loro, perché non è possibile sapere in anticipo di quale laboratorio specifico necessiterà la ricerca lungo il corso del suo svolgimento, perché la molteplicità delle attività che si svolgeranno all’interno di essi viene controllata da una programmazione che, in relazione agli obiettivi da raggiungere, necessita di misure organizzative che vanno dalla regolazione della mobilità alla verifica dei risultati e delle operazioni che conducono ad essi, e che consente di evitare confusione, disordine e frammentazione”. 169 170Il realizzazione. In essa è contemplata la possibilità di fronteggiare il nuovo, l’imprevisto, contribuendo allo sviluppo completo delle esperienze dello studente. L’aspetto peculiare è legato alla mancanza di un metodo normativo che trova nel concetto del “gradiente”171 il cardine di tale metodologia, la sua concretizzazione. Il termine gradiente non si inserisce solo come innovazione linguistica nel sistema dei laboratori, esso è l’espressione di una concezione più alta e più ampia che si rifà alla attività di ricerca che è propria dei laboratori. Quest’ultima non può procedere secondo un piano che viene prestabilito ad inizio lavori, che non può essere dettagliato e preciso, ma avanza con un ritmo graduale e personale che mette a fuoco via via i diversi problemi che si presentano e scoprendo di volta in volta ciò che di inaspettato la ricerca ci porta a considerare. Accade così che “al posto di una progettazione unica e completa ci sono gradienti di progettazione a cui corrispondono gradienti di teorizzazioni”172. Gradiente allora esprime una articolata sequenza di ricerca, costituita da elementi differenti: problemi, progettazioni, operazioni, osservazioni, individuazione di proprietà, teorizzazione. Lo svolgimento delle diverse fasi della ricerca procede attraverso il passaggio dal gradiente sperimentato verso tutti gli elementi che compongono il lavoro scientifico nel suo complesso. Nel sistema dei laboratori il concetto di gradiente rappresenta l’elemento innovativo perché l’intenzionalità è ciò che da l’input sia allo scopo da raggiungere che alla motivazione nel perseguirlo. L’ordine da seguire nel perseguire il risultato ne costituisce la sistematicità, in posizione strumentale, che promuove lo sviluppo della creatività. De Bartolomeis vede nei laboratori non esclusivamente il loro carattere operativo ma 171 172 Ivi, p. 68. Ibidem. la sintesi dei due momenti, quello operativo e quello del teorizzare, e proprio in tale sintesi che trova coerenza l’idea della pedagogia intesa come costruzione scientifica che diventa applicativa. Non vuole essere questa una semplificazione, ma è certo che non è possibile rintracciare nella sola pratica o nella sola teoria risoluzioni indubbie alle problematiche educative. L’attività teorica volta ad attribuire significati e spiegazioni senza la pratica, come legittimazione delle teorie e sviluppo di nuova esperienza, risulta un processo incompleto. E’ indispensabile la sinergia tra le due forze. La prassi avverte il bisogno di un sostegno che le derivi da collegamenti a prospettive generali, di sistemi di spiegazioni, dunque di un processo di teorizzazione. La teoria dal suo canto acquista la sua compiutezza quando assume forma nel corso dell’esperienza, la quale a sua volta origina nuova esperienza. In un sistema laboratoriale sarebbe riduttivo pensare che sia solo la metodologia a costituire l’elemento innovatore di questa concezione. Diversi altri elementi si caratterizzano come innovativi. Possiamo prendere in considerazione l’unione studio-lavoro, il rinnovato ruolo dell’insegnante, la formazione professionale nella formazione di base, il collegamento delle attività di laboratorio con le aree avanzate della cultura ed infine la valutazione. Tutti elementi già presenti nella riflessione del pedagogista e che ritornano per recuperare spazio nella metodologia dei laboratori arricchendo, con la pratica, l’articolata ed ampia teorizzazione pedagogica relativa ai precedenti. Sono diversi gli elementi del pensiero pedagogico del De Bartolomeis che trovano la loro giusta collocazione in questa modalità metodologica. Possiamo ricordare la ricerca, la sperimentazione, l’interdisciplinarietà, il già richiamato nesso teoria-pratica, la produttività, la socializzazione, la collaborazione, il rinnovato ruolo dell’insegnante, l’apprendimento motivato degli studenti, il lavoro di gruppo. Questi solo per citare alcuni degli elementi che rappresentano l’antipedagogia, l’antididattica, l’antiscuola, in un rovesciamento delle situazioni e condizioni che appartengono alla scuola tradizionale e che designano il laboratorio non come l’ambizioso progetto destinato a pochi ma come il modo ordinario di fare scuola, se per essa si intende l’opportunità data ad ognuno di costruire le conoscenze. L’avvio della riflessione del De Bartolomeis ha radici nell’ipotesi deweyana del laboratorio, anche se lo studioso italiano caratterizza il tema in maniera del tutto originale: i laboratori sono l’espressione innovativa del sistema scolastico che coincide con il modo di fare scuola ed a cui è logicamente commesso un rinnovamento sociale. Connessa all’esperienza dei laboratori è La pratica del lavoro di gruppo173, un’opera che sviluppa il tema dell’attuazione della ricerca specialmente come lavoro cooperativo. La premessa imprescindibile per questo tema si basa sul superamento della tradizionale lezione frontale, considerata come metodo prevalente e spesso unico per l’insegnamento Non si possono attuare innovazioni metodologiche se queste non sono suscitate e supportate da rinnovate idee educative. Le metodologie innovative hanno bisogno di essere coniugate con rinnovate idee educative poiché le sole tecniche, la didattica in senso stretto, non possono trasformare il rapporto insegnamento-apprendimento rendendolo innovativo. Necessita l’esame delle differenti situazioni, le motivazioni che mobilitano energie e le indirizzino verso obiettivi concreti i quali determinano atteggiamenti e situazioni mai usate. L’educatore, attraverso l’agire pratico e concreto della didattica, deve Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, La pratica del lavoro di gruppo, Loescher Editore, Torino, 1978. 173 essere capace di affrontare le differenti situazioni e fronteggiare i problemi che si presentano cercando i mezzi per risolverli174. Il cooperative learning come strategia metodologica, superando la lezione tradizionale, è conforme ad un’impostazione produttiva dell’apprendimento ed è uno tra i metodi adatti per operare rinnovamento. I laboratori sperimentati nell’Istituto di Pedagogia di Torino, coerentemente alle esigenze educative degli studenti e dei docenti, unitamente alle pressanti richieste formative della società ed al rinnovamento che si intravedeva nelle istituzioni scolastiche negli anni Ottanta, maturano nel De Bartolomeis due considerevoli riflessioni sul piano teorico e su quello operativo. La prima considerazione deriva dalla consapevolezza che la “scuola a struttura laboratori” costituisca il futuro pedagogico-didatttico delle istituzioni, che si realizza nel perfezionamento e nell’evoluzione dell’organizzazione educativa dei laboratori. La seconda considerazione nasce dal costante lavoro di ripensamento e perfezionamento del modo nuovo di “fare scuola”, determinato dalla consapevolezza che il Sistema dei laboratori, pur presentando tutta una serie di singolari e innovative caratteristiche, non è esaustivo dal punto di vista delle attività educative. L’organizzazione educativa non sta solo nella possibilità di attrezzarsi degli strumenti indispensabili per sviluppare pienamente e completamente queste attività175. D’altronde tale concezione rende i laboratori strettamente legati agli strumenti che rendono realizzabile questo nuovo modello di apprendimento, distanziandosi dalla pur apprezzabile idea di laboratorio come “stato mentale”, privo cioè di uno spazio fisico ad esso destinato o scarsamente corredato da sussidi Ibidem. F. DE BARTOLOMEIS, Le attività educative. Organizzazione, strumenti e metodi, La Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 205-211. 174 175 didattici. Una ulteriore esigenza si aggiunge: l’esigenza di far incontrare ogni componente della scuola con le risorse del territorio. Attraverso il coinvolgimento delle istituzioni educative locali si può realizzazione un processo educativo aderente alla complessa realtà sociale che non può essere affidata esclusivamente all’agenzia educativa e alle sue contenute risorse. Queste consapevolezze spingono il De Bartolomeis verso nuove riflessioni, alla ricerca di soluzioni adeguate alle diverse necessità che la scuola fronteggia nel suo cammino nella direzione dei laboratori. Le opere scritte dal 1980 al 1989 (Fare scuola fuori dalla scuola, Orientamenti pratici per un nuovo tempo pieno176, Scalettone pedagogico, Orientamenti per il lavoro educativo177, Programmazione e sperimentazione178, Produrre a scuola179, Le attività educative. Organizzazione, strumenti e metodi180, Scuola e territorio, Verso un sistema formativo allargato181, Lavorare per progetti182 tendono verso la riflessione ed al soddisfacimento delle esigenze derivanti dagli aspetti emergenti e indispensabili del nuovo modo di fare scuola. Questi scritti risultano strettamente connessi tra di loro indicando una direzione pedagogico-didattica tesa al rinnovamento del sistema educativo. In essi risulta chiara la difficoltà di un sistema che fatica a rinnovarsi ed il tema dei laboratori percorre itinerari diversificati ma appartenenti tutti ad una unica concezione della metodologia. F. DE BARTOLOMEIS, Fare scuola fuori dalla scuola. Orientamenti pratici per un nuovo tempo pieno, Tirrenia Stampatori, Torino, 1980. 177 F. DE BARTOLOMEIS, Scalettone pedagogico. Orientamenti per il lavoro educativo, Feltrinelli, Milano, 1982. 178 F. DE BARTOLOMEIS, Programmazione e sperimentazione, La Nuova Italia, Firenze, 1982. 179 F. DE BARTOLOMEIS, Produrre a scuola, Feltrinelli, Milano, 1982. 180 F. DE BARTOLOMEIS, Le attività educative. Organizzazione strumenti e metodi, La Nuova Italia, Firenze, 1983. 181 F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo allargato, La Nuova Italia, Firenze, 1983. 182 F. DE BARTOLOMEIS, Lavorare per progetti, La Nuova Italia, Firenze, 1989. 176 Nel voler raccogliere, in una sintesi non esaustiva quanto piuttosto orientativa, la concezione del pedagogista sul tema oggetto del lavoro possiamo dire che la caratteristica preminente dei laboratori debartolomeisiani consiste nella necessità di porre in relazione l’apprendimento ed il produrre, affinché ci possa essere un risultato oggettivo che testimoni quello che si riesce a fare. Con “risultato oggettivo” si vuole evidenziare quanto il problema della ricerca nasca insieme con la documentazione. De Bartolomeis chiarisce come “l’apprendimento essendo una forma di lavoro implica la relazione mezzi-obiettivi e, quindi, apertura ai mezzi più adeguati fino a giungere alle tecnologie digitali. E gli obiettivi progettati, in virtù della ricerca, devono diventare risultati documentati e valutabili. La struttura a laboratori non è chiusa e autosufficiente. I collegamenti con l’esterno sono assolutamente necessari per la realizzazione dei suoi scopi”183. All’interno dei laboratori sperimentati dal pedagogista si progettava e si rappresentavano strumenti per raggiungere all’esterno problemi “a dimensione reale”184, integrandoli anche con materiale illustrativo, pur di contribuire a migliorarne la comunicazione. L’apertura della scuola al territorio, il cui riferimento di solito è vago e generico e, ciò che è peggio, non rientra in un piano di attività educative, nel lavoro del De Bartolomeis è potenzialmente un insieme molto diversificato di laboratori non scolastici utilizzabile per finalità formative. Sottolineo potenzialmente perché occorre una preparazione adeguata per non ridursi a visitare l’esterno senza piani e strumenti, e per farne invece un insieme di luoghi di ricerche dove si incontrano T. IAQUINTA, Francesco De Bartolomeis un antipedagogista della pedagogia, Anicia, Roma, 2010, p.243. 184 Ibidem. 183 educatori diversi dagli insegnanti. Cambia quindi radicalmente il modo di concepire e di praticare le attività formative185. 185 Ivi, p. 244. 3.2 Franco Frabboni “La letteratura scientifica in campo educativo converge nell’attribuire al laboratorio la capacità di combattere il nozionismo e la dispersione scolastica nel nostro Paese”186, questo è l’incipit di Frabboni in un capitolo del suo lavoro dedicato al tema187. Il laboratorio si qualifica come metodologia efficace per combattere due dei maggiori mali che affliggono la scuola italiana: il nozionismo e la dispersione188. La concezione frabboniana prospetta, per risolvere tali mali, soluzioni che vogliono evitare alle aule scolastiche di assumere la connotazione di gabbie, relazionali e cognitive, preminenti ed autosufficienti, consentendo sempre la possibilità di interazione con gli spazi interni ed esterni alla scuola. Risulta evidente come il pedagogista si richiami alla pratica formativa delle classi-aperte189 quale modalità organizzativa multispaziale ed integrata del plesso scolastico. Da questa premessa ha origine la sua tesi sui laboratori, nella quale sostiene che questi dovrebbero essere presenti nelle istituzioni educative per creare aree polivalenti, diversamente denominate, ma F. FRABBONI, Il laboratorio per imparare ad imparare, Tecnodid, Napoli, 2005, p. 24. Ibidem. 188 Cfr. F. FRABBONI, Didattica e apprendimento, Sellerio, Palermo, 2006. 189 L'istituzione di classi aperte prevista dal 1977 venne disciplinata dall'art. 4 del DPR 275/99 nell’ambito dell’autonomia didattica che riconosce alle scuole, tra l’altro, la possibilità de: “c) l'attivazione di percorsi didattici individualizzati (…)”; “d) l'articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso”; prescrivendo il rispetto, nell’adozione di queste forme di flessibilità organizzativa, “criteri di trasparenza e di tempestività”, come previsto dalla L. 241/90. Inoltre, prosegue il citato articolo 4: “5. La scelta, l'adozione e l'utilizzazione delle metodologie e degli strumenti didattici, ivi compresi i libri di testo, sono coerenti con il Piano dell'offerta formativa di cui all'articolo 3 e sono attuate con criteri di trasparenza e tempestività(…)”. Per completezza si aggiunge che il DM 179/99 all'art. 1 ter autorizza le scuole a sperimentare: “c) articolazione flessibile del gruppo classe, delle classi o sezioni, anche nel rispetto del principio dell'integrazione scolastica degli alunni con handicap (normativa di riferimento: Legge 517/77, Legge 148/90, art. 14 Legge 104/92, artt. 5, 7, 10, 126, 128, 167 e 491 del D.Lvo 16 aprile 1994, n. 297, art. 2 Legge 8 agosto 1995, n. 352. 186 187 tutte riconducibili alla metodologia laboratoriale. A tale metodo va affidato l’impegnativo onere di dare vita alla ri-modulazione della tradizionale impostazione didattica. Frabboni attribuisce ai laboratori capacità di interazione sociale e di qualità cognitiva in ragione del loro modo “collettivo” di fare cultura attraverso dinamiche di aggregazione-disaggregazione-riagreggazione degli studenti in gruppi mobili ed eterogenei di studio, ricerca e creatività. Il laboratorio, o la metodologia laboratoriale, ha la prerogativa di innestare nella scuola esperienze che individuano come elemento centrale dell’apprendimento la qualità più che la quantità delle conoscenze. Il come che precede il sapere. Nella sua riflessione la didattica laboratoriale, al pari della fisica materialità dei laboratori scolastici, comprova la qualità della istituzione educativa, concorrendo ad attribuirle responsabilità formativa al punto che il pedagogista afferma: “dimmi che laboratori hai e ti dirò che scuola sei”190. La sigla distintiva dei laboratori egli la rintraccia nella possibilità che tale strumento/metodo ha di incrociare interdisciplinarmente ogni tipo di conoscenza che permetta di eludere le barriere costrittive innalzate dagli statuti disciplinari racchiusi nei Programmi Scolastici ed assumendo, per questo loro singolare aspetto, la “morfologia di un’aula a progetto”191. Nella idea frabboniana la scuola italiana necessita di percorsi diacronici di ammodernamento dei dispositivi strutturali e culturali e tale opportunità viene offerta dal percorso della scuola dei laboratori che può dare nuova dimensione all’egemonia di pratiche di insegnamento/apprendimento ancora rinchiuse nelle classi. Nel loro interno il pedagogista vede un “culto dell’allineamento geometrico dei banchi individuali, della cattedra, 190 191 F. FRABBONI, Il laboratorio, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 76. Ibidem. della lavagna e l’obbligo del libro di testo uguale per tutti. Con questo fallimentare risultato: tra le sue pareti rintocca un’istruzione nutrita di pasticche didattiche preconfezionate e surgelate”192 Il laboratorio, dunque, può positivamente superare una antica visione “totalizzante” della scuola a favore dell’identità del metodo di bottega, di officina di apprendimento, al cui interno si intraprendono processi di analisi-riflessione-reinvenzione dei “saperi” la cui prerogativa è propria degli spazi extrascolastici. Mission della scuola deve essere prioritariamente quella di insegnare ad apprendere e inventare e molto meno quella di informare. Il fine educativo dell’agenzia educativa non è quello di attrezzare gli utenti di una istruzione materiale, il quanto sapere, cercando di agganciare contenuti e nozioni disciplinari, ma piuttosto il come sapere, finalizzato alla padronanza della conoscenza e della logica di ogni disciplina, alla capacità di determinare i problemi della conoscenza, le strategie di scoperta e di metodo, i dispositivi intuitivi e inventivi. Elementi, questi che fanno emergere con chiarezza come la scuola dei laboratori si configuri la sola capace di far scoprire intelligenze e creatività, giungendo alla finalità deweyana dell’imparare a pensare e ad inventare193. Frabboni affida ai laboratori il compito di stimolare gli apprendimenti superiori convergenti per fare-ricerca e gli apprendimenti divergenti per fare-creatività. Le richieste che la società avanza alla scuola sono quelle di formare un allievo-persona, soggetto irripetibile e inviolabile e non un allievomassa, attraverso conoscenze-competenze che siano di lunga durata e che non evaporino rapidamente. L’attuazione di un così impegnativo 192 193 F. FRABBONI, La scuola dei perché, www.irreer.it/labform/relfrabboni.doc Cfr. F. FRABBONI, La didattica motore della formazione, Pitagora, Bologna, 1999. processo è affidata alla didattica, il cui scopo è quello di trasmettere conoscenze e saperi, modelli e valori attraverso il passaggio dalla scuola all’allievo194. Il modello didattico costruito su un repertorio laboratoriale costituisce il fil rouge che guida i diversi gradi della istruzione fino al lifelong learning. Tutte le caratteristiche che il pedagogista rintraccia nel laboratorio si concretizzano nella promozione della motivazione, nella partecipazione attiva mediante il fare degli allievi, nella scoperta dei perché e della loro risposta, nel rispetto degli “stili” cognitivi di chi la frequenta, favorendo un apprendimento su-misura, nel ridimensionamento dell’immutabile dominio dell’aula-classe quale unico luogo di capitalizzazione delle conoscenze forzatamente di tipo trasmissivo-riproduttivo, nella possibilità di sviluppare un’istruzione fondata sulla “ricerca”, quindi sull’imparare da soli, scoprendo conoscenze ricche di attualità e di problematicità, spesso direttamente verificabili ed ancora nella contribuzione ad una effettiva integrazione dei soggetti con difficoltà di socializzazione e di apprendimento195. Nella impostazione a laboratorio il protagonista della scena educativa è l’allievo e la valorizzazione del suo mondo di cose e valori. Laboratorialmente si può giungere a materializzare ogni azione in quanto esso è lo spazio che consente di avviare l’analisi dei bisogni e degli interessi di cui gli allievi sono portatori, del loro ambiente di vita, del loro linguaggio e modo di pensare ma anche dei diversi livelli cognitivi e della capacità di riproduzione, di comprensione di ognuno per la costruzione e creazione di conoscenze. Il laboratorio è inteso Cfr. F. FRABBONI, Didattica generale. Una nuova scienza dell’educazione, Milano, Bruno Mondadori, 1999. 195 Cfr. F. FRABBONI, Il laboratorio per imparare…, cit. 194 come “officina di metodo”196 i cui arnesi di lavoro vengono utilizzati per allenare le intelligenze e la fantasia, mandando in pensione la didattica preconfezionata e ripetitiva. I bisogni/motivazioni dello studente, quali la comunicazione, trovano nel laboratorio la sede naturale per attribuire dimensione formativa ai linguaggi verbali e non verbali così come il bisogno di socializzazione, per la disponibilità strutturale che vede nel laboratorio la possibilità di attività individuali e di gruppo che favorisce l’incontro tra le età, i sessi, le etnie, Il movimento, l’autonomia, spazio irripetibile per accrescere nell’allievo la percezione di un ambiente didattico che richiede autosufficienza, la divergenza, la manualità, la fantasia e l’autoapprendimento. Aspetti che vengono fortemente marginalizzati dalla società della cultura mediatica e consumistica ma che sono riportati nel loro giusto significato dal metodo di laboratorio e che danno soddisfazione ai bisogni espressi dal giovane. Non solo viene attribuito al laboratorio il merito di risvegliare e movimentare tali bisogni/motivazioni ma anche il pregio di stimolarne di nuovi ed originali che si qualifichino come interessi formativi. A conferma della attenzione che il laboratorio manifesta verso la comunicazione e la socializzazione troviamo sostegno nelle parole di Hermann Giesecke che hanno il pregio di richiamare l’attenzione sulla relazione interpersonale quale perno dei processi formativi. Giesecke ritiene che “l’interesse principale della pedagogia non consiste nella spiegazione dei contenuti, e con ciò nella preoccupazione di scoprire la verità, quanto piuttosto nella dimensione relazionale umana”197. 196 197 F. FRABBONI, Il laboratorio, cit. p. 12. H. GIESECKE, La fine dell’educazione, Anicia, Roma, 1990, pp. 30-31. Il laboratorio nella sua dimensione di ambiente culturale si qualifica quindi come il contesto didattico di costruzione della conoscenza, della ricerca e della creatività. Frabbroni rintraccia, inoltre, la valenza pedagogica della didattica laboratoriale per lo studente divers-abile poiché essa si contrappone alla professionalità enciclopedica e solitaria dell’insegnante. Un ambiente con tale struttura assicura una prossemica dalle polivalenti modalità socio-affettive e cognitive, in sintonia con i processi formativi dei soggetti con disabilità che chiedono di stare con gli altri e di agire su oggetti concreti. La disponibilità di laboratori scolastici permette allora di trovare adeguate soluzioni all’universo della diversità di allievi mai identici. L’innovazione del laboratorio è indissolubilmente connessa con l’adozione di un nuovo metodo. La scuola dei laboratori è emblema di un contesto formativo che si libera dalla logica cognitiva dei saperi depositari, nozionistici ed enciclopedici, per abbracciare i saperi euristici, problematici, costruttivi e concreti. Si affaccia cioè nuovamente l’aspetto del laboratorio quale officina di metodo nella quale l’intelligenza e la fantasia si allenano in direzione del doppio traguardo deweyano dell’imparare ad imparare e dell’imparare a creare. La ri-produzione delle conoscenze si fa spazio quando l’allievo è messo di fronte alla trasmissione-acquisizione degli alfabeti di base, la grammatica delle discipline, che gli forniscono il controllo delle condotte linguistiche, matematiche, scientifiche, ecc.. Sono padronanze monocognitive di uso sociale fondamentali per comunicare, osservare e capire. Nella ri-costruzione delle conoscenze l’allievo approfondisce le conoscenze acquisite intraprendendo indagini supplementari attraverso i diversi mediatori didattici198, dalla lezione dell’insegnante all’utilizzo dell’informatica, agendo su un piano metacognitivo nel quale si producono indagini di secondo livello sul sapere trasmesso. Giunge infine la re-invenzione e trasgressione delle conoscenze durante le quali l’allievo accede alla attività di ritrascrizionetrascrizione-creazione personale dei materiali cognitivi raccolti ed elaborati durante la prima fase monocognitiva (riproduttiva) e la successiva fase metacognitiva (ricostruttiva). Il laboratorio sul piano metodologico si configura quale ambiente ideale per attività di Ricerca-Azione il cui elevato valore di metodo è quello di stringere in un unicum teoria e prassi della formazione educativa. La ricerca-azione valorizza la scuola quale soggetto attivo di conoscenza e di cambiamento. E’ un modello inquisitivo di riconosciuto valore scientifico nell’ambito delle procedure di indagine-scoperta in ambito scolastico. Il suo pregio investigativo è quello di essere epistemologicamente molto forte proprio per il suo rigoroso sistema di ipotesi (teoria) e di efficaci strategie operative (prassi). Per questo suo apparato concettuale e materiale la ricerca-azione appare idonea ad interagire dialetticamente con le altre epistemologie della ricerca in campo pedagogico (storica. teoretica, comparata, empirica, sperimentale e clinica), proponendosi quale punto di confluenza e di sintesi di tale fenomenologia investigativa. Nella ricerca-azione tra i destinatari rientrano anche i docenti in quanto essi fanno ricerca, ed il laboratorio è il contesto adatto alla formazione-aggiornamento in servizio dei docenti. Nella ricerca-azione il soggetto che investiga e l’oggetto di investigazione sono posti in dinamiche metodologiche di Per mediatore didattico si intende tutto ciò che conduce ad una azione produttiva della conoscenza, sia essa materiale o immateriale. Per approfondire vedi: E. DAMIANO, La lingua nel sistema dei mediatori didattici, in F. CAMPONOVO e A. MORETTI (a cura di), Didattica ed educazione linguistica, La Nuova Italia, Firenze, 2000, pp. 55-76. 198 tipo circolare. L’uno e l’altro sono strettamente collegati all’interno di un’esperienza sistemica e sinergica che appartiene alla ricerca che attraverso l’azione genera un cambiamento nel circolo dei protagonisti dell’indagine formativa. Tali legami non creano separazione nè tantomeno gerarchizzazione tra gli attori della ricerca ma stabiliscono invece coinvolgimento in un’azione inquisitiva che assicura emancipazione individuale e trasformazione sociale199. Sono cinque gli elementi qualitativi che, secondo Frabboni, qualificano il laboratorio: 1. ridimensiona l’egemonia della aula-classe quale unico luogo di erogazione delle conoscenze, esclusivamente di tipo trasmissivoriproduttivo; 2. favorisce negli studenti la motivazione e la volontà di fare nella scoperta delle ragioni e nel cercare la risposta a queste; 3. rispetta gli stili cognitivi di ognuno; 4. incentiva un’istruzione fondata sulla ricerca, nell’imparare da soli. 5. riduce le difficoltà relazionali ed i ritardi cognitivi degli studenti che possono trovarsi ai margini dei processi di socializzazione e di apprendimento. In sintesi il pedagogista riconosce ai laboratori meriti di natura sociale, pedagogica e cognitiva. Dal punto di vista sociale nei laboratori si riducono notevolmente le cifre di selezione e di discriminazione dell’utenza che abitualmente sono massicce in una classe statica e ritualistica e ciò porta a non separare i piccoli dai grandi, gli ipodotati dai normodotati, gli scolari in gruppi. In esso l’utenza è laboriosa, partecipante, interessata, impegnata. In una parola potremmo dire che essa è attiva. L’utenza è rappresentata da studenti, bambini ed adolescenti, che vivono il gusto 199 Cfr. F. FRABBONI, Didattica e apprendimento, cit. della scoperta poiché in piena autonomia scoprono i propri interessi, soddisfano curiosità, risolvono dubbi. Ancora, essi sono dotati di dinamiche plurime di aggregazione-disagreggazione-riaggregazione degli allievi in gruppi eterogenei di studio200. Dal punto di vista pedagogico il laboratorio è capace di proporre conoscenze che hanno al centro la qualità degli apprendimenti. Esso è rivolto alle conoscenze meta cognitive, come il perché sapere, la capacità di impostare con chiarezza logica i problemi cognitivi, le strategie di scoperta e di metodo, le pratiche operative di applicazione delle conoscenze, le procedure di intuizione e di invenzione di soluzioni inedite, impreviste. Inoltre, nella sua morfologia didattica, il laboratorio può riabilitare e rivitalizzare motivazioni infantili e adolescenziali che possono essere depauperate e declassate nella società mediale201. Sul versante cognitivo il suo compito è quello di allenare gli apprendimenti superiori convergenti e gli apprendimenti superiori divergenti. Scopo formativo del laboratorio, infine, non può essere l’istruzione materiale202. Ibidem. Ibidem. 202 Cfr. F. FRABBONI, La scuola dei perché, op. cit. 200 201 3.3 Massimo Baldacci Il primo aspetto che Baldacci rileva, a proposito dei laboratori, è quello del loro offrirsi, dal punto di vista strettamente pedagogico, quale strumento di innovazione scolastica, sia essa organizzativa, pedagogica o didattica. Nel suo aspetto Organizzativo esso prospetta una nuova prossemica degli spazi scolastici; in quello Pedagogico il laboratorio accresce i meccanismi di socializzazione conferendo un più ampio respiro rispetto a quello che offre l’aula; in ambito Didattico, infine, incoraggia un insegnamento fondato sulla ricerca anziché sulla lezione frontale. Il pedagogista ritiene necessario, nell’affrontare l’argomento, fornire una chiarificazione di significato. Egli offre due descrizioni: una ampia, l’altra schematica. Nel suo significato schematico, quello al quale, comunemente, si fa riferimento, il laboratorio altro non è che uno spazio attrezzato in cui si svolge un’attività centrata su un certo oggetto culturale203. Questa definizione consente di giungere ad una prima identificazione delle categorie che risultano anticipative rispetto alla prassi: l’oggettualità, la spazialità e l’attività del laboratorio. Per quanto attiene all’oggettualità il laboratorio è sempre riferito a qualcosa di preciso: laboratorio di…., rimandando ad una progettualità che troverà realizzazione in una specificità oggettuale; lo spazio ad esso dedicato è determinato ed è rappresentato da attrezzature proprie in un luogo prestabilito, andiamo nel laboratorio di…; un luogo altro rispetto all’aula-madre; l’attività si realizza attraverso un lavoro attivo, l’apprendere attraverso il fare. Cfr, M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, in Bambini pensanti, Settore servizi per l’infanzia, Divisione Servizi Educativi, Città di Torino, 2008. 203 Superando un primo approccio schematico per la definizione del termine, la parola laboratorio è polisemica, viene cioè utilizzata con diversi significati i quali necessitano di una ricostruzione la logica Volendo dare al concetto una definizione ampia possiamo inserire nel suo significato ogni situazione didattica caratterizzata dalla partecipazione attiva all’apprendimento. In ragione di ciò tutto può diventare laboratorio, anche uno spazio non intenzionalmente ad esso dedicato. Secondo tale significato il termine ha una valenza programmatica circa la “qualità della pedagogica dell’attività che si svolgerà, pertanto il far laboratorio si fa tale in ragione della qualità dell’attività”204 Le due accezioni a cui il pedagogista fa riferimento possono corrispondere a due ipotetiche concezioni del laboratorio, di carattere parziale e unilaterale. Schematicamente possiamo riferirci al laboratorio come “spazio fisico”, in quanto contiene l’attività, e come “contesto”, definendone il significato dell’attività. Risulta, dunque, laboratorio come “territorio”, semplice materialità, ed il laboratorio come “mappa”, status mentale attivo e riflessivo. La integrazione di questi due aspetti concettuali è necessità pedagogica, poiché lo spazio materiale che non contempli l’atteggiamento mentale è inutile, ma è anche vero il contrario cioè che l’atteggiamento senza condizioni materiali adeguate è impotente. Da queste considerazione Baldacci giunge all’idea di laboratorio: esso è spazio materiale unitamente all’atteggiamento mentale, come contesto fisico e simbolico insieme; idea la cui funzione, squisitamente metodologica, è quella di natura eminentemente antidogmatica di 204 Ivi, p. 1. promuovere un’attenzione pedagogica equilibrata tra due componenti della prassi educativa205. 3.3.1 Il setting del laboratorio La spazialità del laboratorio fa riferimento alla prossemica, vale a dire al linguaggio dello spazio. In esso le relazioni spaziali, le distanze, gli orientamenti, le separazioni ecc. sono significanti poiché manifestano e caratterizzano usi, dinamiche, rapporti per i quali un certo spazio è, o sembra, fatto per questo fine. Significatività dello spazio che già Dewey aveva considerato importante poiché dalle prossemiche e dagli ambienti scolastici si possono ricostruire le funzioni didattiche implicite, “come il biologo con un osso o due può ricostruire l’intero animale così noi, se rievochiamo dinanzi alla nostra mente un’aula scolastica ordinaria […] possiamo ricostruire l’unica attività educativa che sia possibile svolgere in siffatto spazio. 3.3.2 Gli spazi tradizionali Nella didattica tradizionale dalla prossemica dell’aula-madre risulta chiaro come essa sia stata organizzata per la trasmissione culturale che fa perno attorno all’insegnante che espone mentre l’alunno ascolta206. In laboratorio la prossemica è diametralmente opposta. Nel suo interno tutto è disposto in modo da poter agire ed interagire. Le richieste rivolte all’alunno nell’aula-madre sono di ascolto, quelle rivolte allo studente in laboratorio sono di azione. Poiché ogni contesto è identificato come tale sulla base di qualche segno segna-contesto la 205 206 Ivi, p.2. J. DEWEY, Scuola e società, cit. p.24 prossemica del laboratorio può divenire il segna-contesto di un contesto di apprendimento attivo. E’ un meta messaggio che identifica la natura del contesto207. Lo spazio laboratoriale veicola laboratorialità come spazialità di situazione, innesca un atteggiamento mentale suscitando certe “attese” nell’alunno quando viene condotto in laboratorio. Ecco che la spazialità condiziona il comportamento ma anche l’atteggiamento. Frabboni avanza l’ipotesi che l’aspetto prossemica, in quanto “segno”, rappresenta l’aggancio tra la dimensione fisica e quella mentale del laboratorio208. 3.3.3 Il fare in laboratorio L’aula-madre è deputata all’ascolto poiché nella didattica di stampo tradizionale si pensa che la conoscenza possa essere trasmessa attraverso le parole. Di conseguenza l’allievo apprende attraverso l’ascolto. Baldacci mette in guardia dal considerare errato l’apprendimento come una forma necessariamente passiva, perché di certo può esserci un ascolto passivo e meccanico, in cui le parole sono solo memorizzate ed un ascolto attivo, in cui l’alunno è impegnato attivamente nella comprensione cercando di collegare il contenuto della comunicazione con la propria esperienza e con le proprie conoscenze. Nonostante ciò il mezzo verbale è unilaterale. L’istruzione attraverso il linguaggio è affidata alle capacità riorganizzative delle conoscenze che l’individuo 207 208 G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976, pp. 313-314. Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia…, cit. possiede da altre fonti esperienziali209. Anche se la funzione riorganizzatrice è potente e rappresenta un moltiplicatore di grande forza delle possibilità di apprendimento dell’essere umano. Per questi motivi l’apprendimento dall’esperienza è un elemento necessario della formazione in quanto è il materiale dell’esperienza che viene sistematizzato dall’istruzione verbale. Dall’esperienza si impara anche e soprattutto al di fuori della scuola e prima ancora di iniziare la frequenza scolastica. Tuttavia la scuola, mentre provvede a rifornire gli alunni di strumenti cognitivi necessari per riorganizzare queste esperienze, deve preoccuparsi anche di accrescere il loro bagaglio esperienziale relativamente ad ambiti e modalità che si ritrovano meno frequentemente nell’extrascuola. Richiamando ancora Dewey210, Baldacci riafferma come l’esperienza comprenda un aspetto attivo e uno passivo armonizzati in modo tale che il primo, sotto forma di azione-tentativo, precede il secondo, nel quale si sottostà alle conseguenze dell’azione compiuta. Pertanto “imparare dall’esperienza significa fare una connessione reciproca fra quel che facciamo alle cose e quel che ne godiamo o ne soffriamo di conseguenza […], in queste condizioni il fare diventa un tentare: un esperimento col mondo per scoprire che cos’è; e il sottostare diventa istruzione: la scoperta di un nesso tra le cose”211. L’apprendimento dall’esperienza laboratoriale in cui l’alunno è rimanda ad una situazione attivamente impegnato nello sperimentare, nell’osservare le conseguenze ecc.. L’apprendimento attraverso l’esperienza diretta non implica necessariamente immediatezza, essa è sempre mediata da qualche tipo di azione in un ambito specifico. La conoscenza si ottiene attraverso D. R. OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, Loescher, Torino, 1976, p.122. J. DEWEY, Democrazia ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 186. 211 Ivi, p. 187. 209 210 l’attività esecutiva in un certo campo culturale o medium212, non si acquisisce indipendentemente dai mezzi usati ma secondo forme a questi specifiche. Anche secondo Dewey il pensiero è specifico quando sostiene che “… è desiderabile che l’insegnante si liberi dall’idea che il pensiero sia un’unica inalterabile facoltà; che riconosca che “pensare” è un termine che denota i vari modi in cui le cose acquistano significato per l’individuo […]. Il pensiero è specifico, non un apparato meccanico bell’è pronto, capace di volgersi indifferentemente e a piacere su tutte le materie […] così lo sviluppo della mente si attua attraverso la organizzazione logica delle materie trattate”213. L’intreccio tra il carattere attivo dell’apprendimento con la specificità della materia trattata diviene indispensabile. Nel caso del laboratorio questo significa considerare l’apprendere in riferimento all’oggetto specifico a cui fa riferimento214. 3.3.4 Specificità del laboratorio Un laboratorio è specifico quando si riferisce a qualcosa di preciso: laboratorio di … scienze, musica, ecc,. Tale oggettività può applicarsi sia ai Laboratori disciplinari, detti anche “aule speciali”, quanto ai laboratori pluridisciplinari, centrati su “occupazioni” trasversali alle materie. E ancora esso può essere specifico per medium, per campo di attività culturali, e/o per dominio, simbolico-conoscitivo. L’apprendimento attivo innestato su questi ambiti di specificità tende però a generare livelli logici di apprendimento differenti, che è opportuno distinguere per evitare ambiguità che non permetterebbero di cogliere con chiarezza la problematica formativa del laboratorio. 212D. R. OLSON, Linguaggi, media… cit., pp. 108-109. J. DEWEY, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 111. 214 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come…., cit. 213 Accettando solo il livello logico, l’apprendimento laboratoriale si concretizza nella trattazione di tematiche specifiche relative ad un certo ambito culturale. Per esempio nell’esecuzione di esperimenti, osservazioni ecc. su singoli contenuti culturali. Questo livello induce ad apprendere qualcosa sul dato argomento che ottimizzata la conoscenza attraverso la connessione dei due aspetti dell’esperienza, il compimento di certe azioni e l’osservazione di certe conseguenze, che agisce anche sul piano motivazionale per la natura ludiforme dell’attività. Fermare l’attenzione solo a questo livello secondo Dewey significherebbe “trascurare il sottostante processo di formazione di abiti, attitudini e interessi permanenti”215. Il richiamo è quello di avanzare ad un secondo livello logico, più profondo, al cui interno si apprendono non singoli e particolari contenuti, ma “abiti mentali”, “atteggiamenti”, acquisendo modalità di funzionamento cognitivo costanti. Queste due distinzioni sono estremamente importanti in quanto se ci si ferma agli effetti di primo livello, al fatto che con l’attività in laboratorio si può imparare qualcosa su un determinato argomento, allora si può anche osservare che altre procedure, per esempio il vedere un filmato sullo stesso argomento, possono essere egualmente efficaci. Viceversa se si pone la questione dell’acquisizione di abiti mentali allora si deve convenire che assistere a filmati e compiere esperienze laboratoriali portano, nel lungo termine, ad effetti sensibilmente differenti. Baldacci coglie l’analogia tra la differenza evidenziata da Dewey e quella identificata da Bateson216 tra i “tipi logici” dell’imparare, distinguendo il proto- apprendimento, o anche apprendimento di primo 215 216 J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 124. G. BATESON, Verso un’ecologia…, cit., pp. 205ss. livello, relativo all’imparare deuteroapprendimento, o conoscenze apprendimento e/o di abilità, secondo dal livello, consistente nell’imparare ad apprendere una certa classe di compiti tra loro simili. Se il laboratorio ha specificità in un campo di attività culturale, un aspetto di queste acquisizioni di secondo livello consiste nell’imparare ad apprendere i compiti “simili” per “campo di attività”, ossia nell’acquisire l’abito mentale specifico ad un certo medium, quindi una intelligenza; secondo Olson217 un’abilità in un medium. L’acquisizione di “abiti mentali” rappresenta un risultato formativo di lungo termine. “Gli abiti mentali” possono essere considerati formae mentis simili a quelle descritte da Haward Gardner218, cioè “mentalità” particolari per dominio o medium. Secondo la tesi di Gardner, inoltre, una intelligenza possiede un’abilità di risolvere problemi e produrre opere entro uno specifico campo culturale. Costituisce, dunque, dominio-specifico ed inevitabilmente lo spazio più adeguato è il laboratorio in quanto in esso è quanto precisamente si fa. La varietà delle intelligenze richiede un sistema di laboratorio capace di sostenere forme costanti di stimolazione. Certamente è un rapporto complesso quello tra “laboratori” ed “intelligenze” in quanto non vi è necessariamente una corrispondenza uno-a-uno. Una determinata attività può necessitare della cooperazione tra più intelligenze ed anche una intelligenza può essere “distribuita” in più laboratori. Ciò che rimane è la correlazione organica tra laboratorio e produzione, uno stretto legame tra il laboratorio e il metodo dei progetti219. Cfr. D.R. OLSON, Linguaggi, media…, cit. Cfr. H. GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Feltrinelli, Milano, 1987. 219 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, op. cit. 217 218 3.3.5 Connessioni laboratoriali Il quadro della problematica formativa del laboratorio necessita di ulteriori osservazioni sui livelli logici degli apprendimenti che in esso possono realizzarsi. Baldacci si riaggancia a Dewey il quale ha sostenuto che, sulla base della promozione di riflessione che vi si può ritrovare220, si possono distinguere due generi di esperienza221: la prima che è un procedimento per prove ed errori nel quale si osserva che una certa azione e una certa conseguenza sono connessi, senza cogliere o cercare di cogliere attivamente come tale connessione avvenga, la seconda che un’esperienza è di natura riflessiva nella quale il pensiero è intenzionato a cogliere la connessione tra le azioni, le conseguenze ed il nesso che le collega. Tenendo come punto di partenza quest’ultima riflessione, a riguardo degli apprendimenti che si realizzano in laboratorio, si può ipotizzare un aspetto di terzo livello rappresentato da una evoluzione dell’abito mentale, quello che Dewey definisce “pensiero riflessivo”. Intendendo con ciò una modalità di pensiero ordinata e consequenziale, guidata da una finalità, quindi protesa ad una conclusione spingendosi attraverso l’indagine, “… l’attiva, costante e diligente considerazione di una credenza o di una forma ipotetica di conoscenza alla luce delle prove che la sorreggono e delle ulteriori conseguenze alle quali essa tende, costituisce il pensiero riflessivo”222. Questo pensare in modo riflessivo non è un processo cognitivo che si aggiunge agli altri ma il modo in cui tali processi sono svolti223. J. DEWEY, Democrazia ed educazione, cit., pp. 193-194. Ibidem. 222 J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 68. 223 Ivi, pp. 121-122. 220 221 Considerare tale modalità come un ulteriore schema che si aggiunge agli altri condurrebbe a commettere l’ errore che Ryle224 definisce errore categoriale indicando, nel caso specifico, la maniera di svolgimento di certe operazioni che vengono considerate aggiuntive è da cercarsi accanto alle altre. Il pensiero riflessivo può allora essere considerato dominio-generale nel senso che tale processo ha una struttura analoga entro ciascun particolare dominio conoscitivo. Rievoca per analogia il processo di ridescrizione rappresentazionale ipotizzato dalla Karmiloff-Smith225 che si spinge oltre il livello modulare della mente. Baldacci conclude il suo pensiero ipotizzando come questo imparare a pensare in modo riflessivo consista, primariamente, nell’acquisizione di un atteggiamento riflessivo, pari ad una propensione generale a riflettere sulla propria attività in tutte le fasi del suo farsi. Accettando che la riflessività è una modalità del pensiero dobbiamo concludere che la sua educazione è indiretta in quanto “il problema del metodo nella formazione di abiti di pensiero riflessivo è quello di stabilir[ne] le condizioni […] il metodo include non soltanto ciò che [l’insegnante] intenzionalmente escogita ed impiega ai fini dell’educazione mentale ma anche ciò che fa senza riferimento cosciente ad essa, tutto ciò che nell’atmosfera e nella condotta della scuola reagisce in certo modo sulla curiosità, sulla responsabilità e sull’ordinata attività dei fanciulli”226. Baldacci segue le ipotesi deweyane, asserendo quanto il “contesto” sia parte essenziale del metodo. Si può chiarire questa asserzione notando che per Bateson l’apprendimento di livello logico superiore consiste nell’apprendere il contesto dell’apprendimento di livello logico Cfr. G. RYLE, Lo spirito come comportamento, Roma-Bari, Laterza, 1982. Cfr. A. KARMILOFF-SMITH, Oltre la mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1995. 226 J. DEWEY, Come pensiamo, cit., pp. 122-123. 224 225 inferiore227. Il deuteroapprendimento implica, appunto, imparare il contesto del proto apprendimento. Conseguentemente nelle esperienze in laboratorio non si apprende solo relativamente ai singoli contenuti di quelle esperienze o sul medium che le accomuna, nel lungo periodo si apprende anche il “contesto laboratoriale” basato sull’atteggiamento investigativo-riflessivo, sulla disposizione a porsi problemi e ad affrontarli attivamente in maniera riflessiva. Dewey ritiene che esiste questa “disposizione generale” ad “affrontare in modo altamente pensante i problemi che si presentano nel corso dell’esperienza”228, tuttavia essa non dipende solo dalla conoscenza e dalla padronanza di metodi di indagine, essa è influenzata da quelle che lo studioso americano chiama “certe attitudini dominanti nel suo stesso carattere”229 Questi atteggiamenti o attitudini per Dewey “sono di per se stesse qualità personali, tratti del carattere [che] devono essere coltivati”230 in quanto favorevoli all’uso del pensiero riflessivo e di appropriati metodi di ricerca. Per cogliere le implicazioni di queste posizioni i due termini “coltivazione” e “tratti del carattere” devono essere minimamente chiariti. Occorre notare come la metafora della coltivazione231 rinvia ad un preciso periodo che si interpone tra la semina ed il raccolto, un periodo di attesa dei risultati che non si ottengono nell’immediato, ma nel medio-lungo periodo e che richiede una costante cura. È evidente come questa metafora rinvii ad una precisa strategia, ad una arco di tempo lungo necessario ad impostare e coordinare i mezzi necessari per Cfr. G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, cit. J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 97. 229 Ivi, p. 99. 230 Ibidem. 231 Cfr. N. FILOGRASSO, R. TRAVAGLINI, Dewey e l’educazione della mente, Franco Angeli, Milano, 2004. 227 228 raggiungere obiettivi di lungo termine232. Ecco dunque che lo studioso sottolinea la necessità di un richiamo curricolare, intendendo per curricolo un dispositivo che permette di pensare il percorso formativo nella sua complessità. “Il laboratorio è una strategia didattica. Ha un ruolo e una rilevanza strategica nel curricolo scolastico, come dispositivo di formazione indiretta della mente: struttura un contesto che ha effetti di lungo termine e di secondo livello sugli abiti mentali, creando le condizioni appropriate per il pensiero riflessivo233. L’espressione “tratti del carattere” di Dewey si riferisce ad elementi costanti della struttura mentale di una persona che, divenute abitudini, lo caratterizzano. Baldacci si interroga su quali siano le caratteristiche del contesto laboratoriale che consente agli apprendimenti di primo livello di passare al livello successivo, divenendo un abito mentale connesso al pensiero riflessivo, ed ancora su quale debba essere il contesto laboratoriale per poter favorire l’apertura mentale, la flessibilità, la coerenza, la profondità. Dewey risolve il quesito proponendo come soluzione il contesto democratico nel quale il dubbio può abitarvi ed il problema porsi senza obbedire a dogmi precostituiti, un contesto nel quale le idee trovano accoglienza e rispetto, vengono vagliate con la discussione e con la prova dei fatti e dove il formatore si caratterizza per uno stile democratico. Il significato di “cultura democratica è cultura accessibile a tutti […] l’essenziale è che non vi siano ‘autorità’, che la cultura si fondi su qualcosa che tutti possano verificare in comune, ‘vedere’ insieme […]. Una verità quindi costituita da ‘stipulazioni’ liberamente 232 233 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, cit. Ivi, p. 5. accettate234. Putman sottolinea come la “democraticità del contesto di ricerca non sia soltanto una legittimazione etica ma anche metodologica: un’interpretazione compiuta da un singolo individuo isolato o che si sottrae alla discussione rischia di pervenire ad esiti “soggettivi” nel senso deteriore del termine; viceversa una discussione democratica e partecipata, basata su un’etica del discorso, mette capo con maggiore probabilità ad un carattere intersoggettivo delle conclusioni”235. Per John Dewey, il filosofo della democrazia e il pedagogista dell’intelligenza, così definibile giacché, come ha detto Visalberghi: “in nessun pensatore vi è così intima e completa corrispondenza fra un ideale etico-politico e l’interpretazione di quelle attività che si sogliono considerare puramente conoscitive”236, lo sviluppo della democrazia è collegato con quello del metodo sperimentale e pertanto col laboratorio. Nella concezione del pensatore americano la democrazia è strettamente legata alla fede nella possibilità dell’intelligenza liberata, dunque la liberazione dell’intelligenza è legata alla fede nella democrazia237. G. PRETI, Praxis ed empirismo, Einaudi, Torino, 1975, p. 27. H. PUTNAM, Il pragmatismo: una questione aperta, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2003, pp.82-83. 236 A. VISALBERGHI, John Dewey, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 4. 237 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come…, cit. 234 235 3.4 Luciana Bellatalla La Bellatalla, come altri studiosi, prima di intraprendere qualsiasi riflessione sui laboratori, avverte la necessità di precisarne il significato. La studiosa ritiene che, prima di addentrarsi nella nozione di laboratorio, il termine impone un necessario ed inevitabile chiarimento terminologico allo scopo di liberare il campo da un atavico equivoco che ne ingolfa il significato. Il laboratorio nell’immaginario collettivo è identificato come uno spazio a sé, dedicato ad una certa materia, il cui uso è riservato esclusivamente agli specialisti di un determinato ambito disciplinare e nel cui interno sono collocati strumenti peculiari. Questa superficiale connotazione ne riduce la ricchezza di significato e la portata del termine stesso. Da un punto di vista meno generico si deve convenire che il laboratorio è un ambiente artificiale, costruito per rispondere ai principi euristici di un determinato settore di conoscenze238. La Bellatalla chiarisce come esistono laboratori dove possiamo trovare simultaneamente e compiutamente alcune caratteristiche ben precise: un progetto, un’ipotesi da vagliare, un gruppo di sperimentatori (le risorse intellettuali), una struttura (lo spazio) che permette di effettuare simulazioni che possano suffragare le ipotesi, un set adeguato all’oggetto di studio ed al contesto in cui esso viene ricostruito, un processo di analisi, di lettura ed interpretazione dei risultati, una fase di validazione dei risultati e di risposta al problema grazie al quale il meccanismo si è messo in moto. Cfr. L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma al modello, in AA.VV. La scuola: paradigma e modelli, F. Angeli, Milano, 2007. 238 L’intero processo ha dei punti nodali costituiti dalla sinergia, teorica, strumentale e procedurale, dal carattere della continuità, che consente alle attività di ricerca in laboratorio di mantenere il legame con quelle precedenti e con quelle che la seguiranno, e dal coinvolgimento del ricercatore come elemento costitutivo dell’intero processo. Ne deriva che il laboratorio non è solo un luogo fisico dove condurre la ricerca ma anche luogo strettamente connesso alla relazione tra ipotesi, strumenti e processi necessari a vagliarla; inoltre esso è presupposto ineliminabile della ricerca e, per così dire, un luogo mentale in quanto consente di elaborare ipotesi, di scegliere metodi e di valutare concettualmente l’intero percorso messo in opera. Guardandolo come luogo materiale con strumentazioni e risorse concrete esso ci da una prima strutturazione; addentrandoci si evince la presenza della dimensione intellettuale poiché esso si presenta come un ambiente in continua costruzione nel quale si sviluppano efficaci interazioni tra i soggetti, contesti e concetti. Dunque il laboratorio si amplia: non è soltanto il luogo in cui si presentano e si validano ipotesi scientifiche ma è anche lo spazio di costruzione attiva di situazioni nelle quali i soggetti-ricercatori sono parte necessaria del processo e destinati a trasformarsi durante il processo stesso239. Risulta che il laboratorio manifesta non solo lo sviluppo della materia scientifica ma anche la produttività dei ricercatori, connotandosi come spazio artificialmente costruito per rendere possibile una trasformazione effettiva sia concettuale, nel progresso delle conoscenze, sia a livello di capacità di incidere sul reale. Il laboratorio, allora, sviluppa peculiarità dalle quali non si può prescindere: il progetto e la sperimentazione, condotti attraverso una indagine organica e continua, tendente all’affinamento per diffonderne, 239 Ibidem. successivamente, i risultati, permettendo circolazione alle idee ed arricchendo una efficace ed ininterrotta relazione tra gruppi di ricercatori. È un circuito questo che rompe la immutabilità del dato acquisito, della routine consolidata e delle decifrazioni accettate senza investigazione. Applicando tale modello al mondo educativo risulta evidente come quest’ultimo debba necessariamente rispondere ai principi scientifici su cui il laboratorio è costruito perché possa essere autentico. Perché una scuola possa definirsi scuola-laboratorio occorre che presenti alcuni elementi cardine che rimodulino il percorso di insegnamentoapprendimento, considerato non come trasmissione di dati ma come progetto in cui le diverse tappe sono ipotesi procedurali. Gli protagonisti del progetto, pur con diverse funzioni e diverso bagaglio di conoscenze, devono essere considerati parti indispensabili. La relazione tra mezzi ed obiettivi da perseguire deve risultare chiara, così come la scelta degli strumenti deve essere conforme al contesto di riferimento. Il metodo di lavoro deve essere identificato, comunicato e condiviso. L’esperienza riflessiva deve costituire l’obiettivo primario dell’intero impianto240. Le caratteristiche di un laboratorio scientifico sono assimilabili a quelle del laboratorio scolastico. In entrambi, infatti, ritroviamo alcuni elementi quali il luogo materiale, quello intellettuale e di condizione per l’insegnamento/apprendimento, inteso come processo continuo di ricerca secondo coordinate di complessità. Se ci troviamo in presenza di un laboratorio che rispetti tutte le istanze e le qualità elencate si potrà concludere che siamo in presenza di una scuola-laboratorio a Cfr. AA.VV., Metacognizione ed educazione. Processi, apprendimenti, strumenti, Franco Angeli, Milano, 2005. 240 paradigma scientifico, nella quale vi è coincidenza tra scienza e modello. Una scuola a paradigma scientifico può essere solo una scuola strutturata come un laboratorio, poiché risponde alla idea regolativa della conoscenza e del sapere, fatta di organicità, problematicità e storicità, ma soprattutto dà soddisfazione all’educazione in quanto rende, mediante la didattica laboratoriale, una rappresentazione di se stessa. Una scuola nella quale, con continuità, si sperimentano pratiche e si verificano dati disciplinari al fine di elaborare strategie, strumenti metodologici e concettuali che permettano di rispondere alle sollecitazioni sociali ed ai suoi problemi.241 Il modello scientifico non presenta solo gli elementi predetti ma vuole dare pienezza al congegno concettuale dell’educazione, “facendo della dimensione macroscopica dell’educazione (la didattica laboratoriale, appunto, nelle sue varie declinazioni) una rappresentazione della dimensione microscopica”242. La scuola incorpora così tutte le categorie costitutive dell’educazione, rendendole presenti ed operanti nel modello laboratoriale il cui perno è la progettualità, la tensione verso un sapere formalizzato attraverso il carattere sperimentale del processo di insegnamento/apprendimento, la centralità della relazione educativa, il valore della comunicazione di concetti e metodi mediante l’utilizzo di un linguaggio adeguato al contesto, che miri a concretizzare i risultati e le tappe del processo di insegnamento/apprendimento in concetti coerenti e fondati logicamente e metodologicamente. Gli interrogativi che la scuola-laboratorio pone chiedono una prima riflessione relativa al se e quanto i modelli laboratoriali, che nel corso dei tempi si sono prospettati nella riflessione educativa e nella scuola, 241 242 L. BELLATALLA, Scuola secondaria. Struttura e saperi, Erickson, Trento, 2010. L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma….,cit. p. 22. hanno meritato e meritano questa connotazione. Vale a dire: i laboratori scolastici e didattici si fregiano di questo attributo in maniera corretta o per consuetudine lessicale? Riformulando la domanda possiamo chiederci se e quanto questi di modelli sono vicini al paradigma scientifico dell’educazione. Il modello didattico laboratoriale, sempre presente nel corso della storia dell’educazione e della scuola, pur diversificandosi a seconda dei periodi e dei contesti sociali, ideologici e culturali, ha messo in risalto il carattere scientifico della pedagogia ed ha, ancora, ricercato gli strumenti più efficaci di trasmissione culturale. È degli ultimi decenni l’abitudine di attribuire la qualità laboratoriale alle diverse attività ordinarie della e nella scuola. Spaziando dai tradizionali laboratori di chimica e fisica ai laboratori linguistici o informatici o di educazione all’immagine. Gli stessi manuali sono completati da appendici didascalico-didattiche che suggeriscono orientamenti laboratoriali e guide di approfondimento per degli studenti243. Nonostante tale diffusione il laboratorio introdotto nella scuola è parziale e non sempre, o non completamente, riconducibile al paradigma scientifico dell’educazione. Anche in presenza di situazioni e/o strumenti in grado di rendere certi apprendimenti più efficaci e coerenti con la struttura epistemologica delle diverse discipline, non si può affermare di essere dinanzi ad un modello in tutto e per tutto scientificamente fondato anche se non mancano l’artificialità e la simulazione né la progettualità dei percorsi, come mettono bene in evidenza, ad esempio, certi suggerimenti intorno al laboratorio di storia244. Cfr. AA.VV. Pedagogia: aspetti epistemologici e situazioni dell'esistenza, F. Angeli, Milano, 2003. 244 Ivo Mattozzi, professore presso l’Università di Bologna, distingue tra operatività dello studente, che può realizzarsi ovunque, anche senza mediazione didattica e con lavoro individuale, e laboratorio vero e proprio, che richiama un ambiente attrezzato, una forte interattività con il docente e materiali didattici strutturati, capaci di stimolare 243 È chiaro che la scuola deve trasmettere abitudine alla ricerca, spirito critico, curiosità, più che contenuti didattici. Non è però definito in modo chiaro quale sia il confine tra qualità progettuale degli apprendimenti e ripetizione dei dati, visto che questa applicazione non va a trasformare la struttura della scuola, ma a ricadere su piccole parti del curricolo o su secondari aspetti della organizzazione didattica. La scuola-laboratorio implica la modificazione dell’intera rete scolastica, dalla didattica agli aspetti organizzativi solo apparentemente marginali rispetto alla didattica. Possiamo avere all’interno della scuola momenti laboratoriali senza avere una scuolalaboratorio. Generalmente nelle esperienze definite come laboratoriali, sebbene si tenti di attivare la partecipazione degli studenti, la qualità della relazione educativa non viene toccata da queste procedure, così come il percorso di apprendimento non perde la sua unilateralità e la sua monodirezionalità245. Un esempio interessante di questa visione solo parzialmente laboratoriale viene offerto dai laboratori linguistici che non sono di fatto luoghi (fisici e mentali) di costruzione di percorsi linguistici ma un complesso di attrezzature utili in quanto funzionali all’apprendimento delle strutture linguistico-grammaticali. Mancano, cioè, le condizioni fondanti il luogo (fisico e mentale) del laboratorio e manca, pertanto, anche un’idea regolativa di educazione, giacché la massima preoccupazione di queste prospettive tanto raccomandate è quella di comunicare agli scolari la mentalità del piccolo storico o del le risposte dell’allievo (citato in P. Cattaneo, La didattica laboratoriale: presupposti teorici e dimensione operative, in www.irresicilia.it 245 Nelle riflessioni degli studiosi più attenti, come Ivo Mattozzi, questi mettono in guardia da frettolose definizioni, come quelle tra attività laboratoriali ed operatività, è necessario riconoscere che, in larga parte, le indicazioni didattiche, in particolare quelle contenute nei manuali scolastici, sono orientate alla operatività piuttosto che alla laboratorialità e non rovesciano i termini della relazione tra maestro, disciplina da apprendere ed alunno (che si manifesta attraverso la triade ascolto-assimilazioneripetizione), se non in modo apparente. piccolo naturalista, in nome del rispetto e della comprensione dei principi epistemologici e metodologici di una determinata disciplina che, sebbene necessaria, non è fine a se stessa ma acquista significato solo sullo sfondo integratore dell’idea regolativa di educazione e del sistema dei saperi. In queste raccomandazioni, dunque, il percorso di apprendimento è limitato ad una o perfino a più discipline, ma raramente si iscrive in un progetto generale, che coinvolge insegnamento/apprendimento e riesce tutto a il processo sovvertire l’idea di di educazione ad esso sottesa246. Si invitano, è vero, gli studenti a personali ricerche ma non all’interno di un piano di simulazione di percorsi conoscitivi e di formulazione di ipotesi da valicare, nella misura in cui la voce dell’insegnante, o direttamente o indirettamente (attraverso il manuale), fornisce indicazioni e contenuti da approfondire, ma non sempre da valicare. Infine, questo tipo di laboratorio, se attiva gli alunni non pretende però, sempre e contemporaneamente, che l’insegnante si faccia ricercatore e divenga esso stesso variabile in gioco nel processo scolastico laboratoriale. Insomma la relazione docente/discente, nella dimensione genuinamente laboratoriale, mette in parentesi la sua inevitabile e costitutiva asimmetria nello sforzo di simulazione di un progetto che impegna al pari tutti i suoi attori, poiché in queste attività raramente si invita il docente ad uno sdoppiamento tra la tensione comunicativa (intrinseca al suo ruolo) e l’istanza osservativa e valutativa (intrinseca ad un sapere come progetto e come processo). Fraintendimenti giungono anche dalle linee programmatiche della diverse riforme emanate dai vari ministri all’Istruzione e dalle Cfr. L. BELLATALLA, La scuola che cambia: problemi tra competenza e conoscenza, Edizione del Cerro, Pisa, 2004. 246 interpretazioni che ne vengono date nell’intenzione di metterle in pratica. E sono proprio gli insegnanti che mettono in luce questo fraintendimento, specialmente quando si impegnano e si ingegnano a coniugare personalizzazione e modello didattico laboratoriale. Così, ad esempio, ritorna l’assimilazione al modello del learning by doing con l’aggravante che, secondo alcune interpretazioni, spetta all’alunno darsi obiettivi e scegliere percorsi e contenuti “in riferimento alle sue predisposizioni, propensioni, motivazioni”247, di volta in volta di ordine sociale, culturale, relazionale. Senza voler entrare nel merito di una simile affermazione, che contravviene al paradigma scientifico di educazione e di scuola, è opportuno domandarsi che tipo di laboratorio può essere quello in cui le regole della ricerca e del processo non derivano dall’oggetto di ricerca, dal contesto e dal progetto, ma dalle scelte individuali che, in quanto tali, sono spesso arbitrarie e scollegate dal sistema. In conclusione si può affermare in primo luogo che allo stato attuale ci sono molteplici tentativi di didattica laboratoriale, anche se per lo più circoscritti agli ambiti disciplinari, e che, in secondo luogo, il modello laboratoriale, più frequente e sostenuto nella nostra scuola, mutua la sua struttura ed i suoi procedimenti dall’officina, dall’idea dell’operatività, più che dal laboratorio scientifico, se per officina ci riferiamo all’edificio nel quale, in genere, tutti partecipano nello svolgimento di un lavoro, nella realizzazione di un prodotto che viene commissionato piuttosto che a sviluppare progetti248. 3.4.1 Laboratorio come pedagogia sperimentale 247Cfr. U. TENUTA, Classe come contesto laboratoriale, in “Rivista digitale della didattica”, 2005 (www.rivistadidattica.com). 248 Cfr. L. BELLATALLA, G. GENOVESI, Storia della Pedagogia. Questioni di metodi e momenti paradigmatici, Le Monnier, Catania, 2006. La Bellatalla giunge, infine, ad un accostamento, quasi ad una “incorporazione” del modello laboratoriale di scuola nell’ambito della Pedagogia Sperimentale, giacché la scuola è, per sua intrinseca struttura, un laboratorio per eccellenza, senza necessità di momenti sperimentali addizionali o paralleli. D’altra parte, da quando è emerso con chiarezza che Pedagogia può essere considerato termine obsoleto in quanto è più corretto parlare di Scienza dell’Educazione, questa disciplina, in virtù del suo statuto epistemologico, non può essere che costitutivamente sperimentale al punto da rendere superfluo questo attributo. Questo ambito di ricerca, in quanto scienza, si è costruito due laboratori privilegiati: la Scuola e la Storia stessa della Scienza dell’Educazione. In entrambi, attraverso momenti particolari od estrapolando aspetti, temi ed elementi, i ricercatori formulano ipotesi, elaborano un progetto di ricerca, attuano un processo di indagine i cui esiti sono la validazione dell’ipotesi e del processo medesimo. L’esistenza di questi laboratori consente non solo la relazione interattiva tra teoria (universitaria) e prassi (scolastica), ma anche di far emergere in tutta la sua pienezza la dialettica tra dimensione concettuale (o microscopica) e dimensione concreta e fattuale (o macroscopica dell’educazione). Operativamente tale visione permette di evidenziare e riaffermare la centralità del docente e la sua qualità di ricercatore e non di esecutore o ripetitore di modelli e di dati249. Anzi, per meglio chiarire, si precisa la sua qualità di ricercatore nell’ambito della Scienza dell’Educazione in quanto le sue scelte didattiche e l’organizzazione dei processi laboratoriali, sebbene incentrati sulla disciplina che è chiamato ad insegnare, debbono rispondere prima di tutto alle istanze del congegno concettuale dell’educazione. Oggi nel parlare di pedagogia sperimentale ci si riferisce, per una tradizione 249 Cfr. L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma…., cit. inaugurata con Lay250 e con Buyse251, al tentativo di dare, anche ai risultati delle pratiche educative ed ai processi formativi, una struttura assimilabile a quella dei processi fisici, giungendo alla valutazione oggettiva degli esiti del processo formativo stesso. A fondamento di tale posizione è posta la separazione tra il momento definito sperimentale, perché artificiale, predisposto, fatto di tappe e di una declinazione di obiettivi, tempi, risorse e strumenti ed il momento dell’esperienza quotidiana che, anche quando è finalizzato a valutare e controllare i risultati ottenuti, si appoggia a processi di valutazione di carattere generalmente soggettivo. Concludendo si può mettere in risalto quanto l’attività di laboratorio, riguardando l’analisi di fatti educativi passibili di misurazione, sia in stretta connessione con la realtà scolastica. La pedagogia sperimentale è volta a stabilire il grado di apprendimento di alcune nozioni da parte degli scolari252. Il dibattito tra laboratorio e pedagogia sperimentale continua ancora oggi in una cornice molto più articolata rispetto alle origini. Si continua a parlare di gruppo sperimentale, distinto da quello di una classe ordinaria, per indicare un gruppo di soggetti o un determinato contesto nel quale una variabile viene manipolata allo scopo di confrontare i risultati raggiunti con quelli di un gruppo similare non esposto allo stesso processo253. 250Cfr. L. ROSATI, Didattica della cultura e cultura della didattica. La sostenibile leggerezza del sapere, Perugia, Morlacchi, 2004. 251Cfr. R. BUYSE, Un laboratoire de pédagogie expérimentale, Delachaux et Niestlé, Genève, 1953. 252Cfr. K. MONTALBETTI, La pedagogia sperimentale di Raymond Buyse: ricerca educativa, Vita e Pensiero, Milano, 2004. 253 Cfr. B. VERTECCHI, Interpretazioni della didattica, La Nuova Italia, Firenze, 1990. CAPITOLO QUARTO REALTA’ DI LABORATORIO Le riforme educative approvate in Italia negli anni compresi tra il 1997254 ed il 1999255 hanno attribuito alle istituzioni scolastiche nazionali una propria autonomia amministrativa, didattica e organizzativa, pur nel contesto delle norme generali sull’istruzione emanate dallo Stato. Nelle scuole tale autonomia ha suscitato molte speranze considerando che questi provvedimenti legislativi hanno prodotto avanzamenti sul piano giuridico-amministrativo, sul piano della riorganizzazione della dirigenza, delle reti di scuole, dell’offerta formativa, della maggiore flessibilità nell’utilizzo degli insegnanti e, per quanto attiene il tema oggetto di questo lavoro, dell’ ambito didattico mediante la norma che concedeva la determinazione autonoma del 20% del curricolo. Con le riforme sull’autonomia gli istituti ed i circoli didattici del paese sono diventati un più autonomi nella organizzazione e nella “pedagogia” progredendo di qualche passo nella direzione della didattica. I cambiamenti più evidenti si sono registrati sul piano organizzativo più che su quello educativo/didattico. L’innovazione più tangibile è stata quella del Piano dell’Offerta Formativa256 che ha indotto le scuole, o più realisticamente le Cfr. Legge 15 marzo 1999 n. 59 art. 21 , la cosiddetta legge Bassanini. Cfr. D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275. 256 Cfr. D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, art. 3. 254 255 minoranze attive nelle scuole, a porsi un problema di identità istituzionale ed a ragionare in termini sistemici e di strategie. L’introduzione del progetto d’istituto ha dato inizio al processo di rinnovamento non solo dell’aspetto organizzativo ma anche didattico. La norma sulla libertà di gestione del 20% del monte ore ha però avuto un’applicazione limitata a causa delle rigidità esistenti nella gestione delle risorse umane. L’innovazione didattica che prevedeva l’inserimento di nuovi contenuti, saperi ed esperienze si è sviluppata nell’area extra-curriculare piuttosto che in quella curriculare, risultando come elemento addizionale ed accessorio e non sostitutiva e costitutiva. Varie sono le ragioni dello scarso impatto della riforma dell’autonomia sulla didattica potendosi chiamare in causa la poca propensione all’innovazione di molti insegnanti, l’insufficiente spinta dei dirigenti e l’eccessivo turn-over del personale educativo che impedisce di radicare le pratiche innovative e di qualità. La transizione tra il vecchio ed il nuovo modello di istruzione è consistita nel passaggio da una scuola che basava la sua efficienza ed efficacia prevalentemente sulla diffusione di nozioni e saperi secondo programmi prescritti e definiti, focalizzando il proprio impegno solo nel selezionare i contenuti da trasmettere, alla autonomia didattica delle scuole che ha indotto gli educatori a porre particolare attenzione al processo di insegnamento/apprendimento ed all’orientare la capacità del singolo studente nella comprensione e nell’interpretazione della realtà, complessa ed articolata, nella quale elaborare e rielaborare il proprio progetto di vita. In una simile situazione l’Istruzione ha riacquistato il suo ruolo centrale di formazione del cittadino, nella consapevolezza che all’interno della società contemporanea il giovane continua a ricevere informazioni e modelli cognitivi e concettuali anche al fuori della realtà scolastica, ma che solo in questa è possibile la realizzazione di momenti di riflessione, d’approfondimento e di riprogettazione basati su conoscenze epistemologiche razionali e coerenti. Proprio in tale cornice i laboratori rappresentano l’espressione più interessante ed innovativa. Il ricorso al modello formativo di tipo laboratoriale diventa quasi obbligato poiché esso permette di collocare e sistematizzare in un modo flessibile gli interventi educativi in un continuum caratterizzato da costanti incrementi. 4.1 Laboratori nei progetti POF e PON Nelle nostre istituzioni educative l’adozione della didattica laboratoriale come metodologia “ordinaria” e quotidiana è ridotta purtroppo a rare e sporadiche occasioni di apprendimento attivo. La loro configurazione progettata dal De Bartolomeis, strutturata secondo un Sistema dei laboratori257, ha registrato una realizzazione solo marginale. Esiste tuttavia la possibilità di avvalersi di tale modalità didattica mediante l’ormai consolidato ricorso ai numerosi e diversificati progetti didattici che vengono programmati nell’offerta educativa delle scuole. Alcuni progetti trovano collocazione nel già citato POF elaborato all’avvio di ogni annualità scolastica in cui sono esposte le diverse attività che l’Istituto realizzerà nel corso dell’anno educativo. Essi sono espressione di input differenti provenienti dalle sollecitazioni che le istituzioni educative ricevono dalla loro utenza, dalle famiglie o, ancora, dalle esigenze educative che emergono dal contesto extrascolastico. I progetti annuali che gli istituti predispongono sono rivolti in massima parte agli studenti ma, in alcuni casi, anche alle loro famiglie. Essi sono il frutto della progettazione dei docenti interni dell’istituto stesso i quali, solitamente in orario pomeridiano, danno esecutività ai diversi progetti preventivamente approvati dal Collegio dei Docenti ad inizio d’anno. Frabboni ritiene che alla scuola del progetto vadano “medaglie di limpida qualità pedagogica: identità formativa, che da senso e significato ai percorsi cognitivi e relazionali; di progettualità didattica, contro la casualità formativa”258. Una differente tipologia di progetti è 257 258 Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei…., op. cit. F. FRABBONI, Il laboratorio, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 68. quella relativa ai Programmi Operativi Nazionali259 (PON) a titolarità del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca “Competenze per lo sviluppo” e “Ambienti per l’apprendimento”, finanziati rispettivamente col Fondo Sociale Europeo260 (FSE) e con il Fondo Sociale di Sviluppo Regionale261 (FESR) approvati dalla Commissione Europea. Essi rappresentano strumenti di pianificazione elaborati dalle singole amministrazioni per declinare e raggiungere gli obiettivi indicati dal Quadro Strategico Nazionale262 (QSN). Questi Programmi mirano a sostenere l’innovazione e la qualità del sistema scolastico in quattro regioni del sud d’Italia (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) ed a colmare il divario con le altre aree territoriali del Paese e dell’Unione Europea. Essi sono articolati in assi, obiettivi ed azioni secondo una struttura determinata in sede comunitaria da tutti gli stati dell’Unione. Per partecipare ai Programmi Operativi Nazionali gli istituti educativi possono presentare, per come previsto dalle disposizioni attuative, Piani Integrati e Progetti. Questa seconda tipologia di interventi didattico-educativi è aperta a figure professionali extrascolastiche attraverso l’emanazione di bandi di selezione pubblica con l’obiettivo di far giungere nelle scuole personale esperto in un determinato settore disciplinare, proveniente da diversi contesti lavorativi. Il termine progetto ricorre frequentemente non solo nell’agire pedagogico ma compare con accezioni contigue anche in contesti Cfr. F. CARLUCCI, F. CAVONE, La grande Europa. Allargamento, integrazione, sviluppo, F. Angeli, Milano, 2004. 260 Cfr. M. FRAGOLA, Il Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’unione europea e il trattato della comunità europea, Giuffrè Editore, Milano, 2010. 261 Cfr. E. PERULLI, Rappresentare, riconoscere e promuovere, F. Angeli, Milano, 2007. 262 Cfr, AA.VV., Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza. Nuovi percorsi formativi per la riforma del sistema educativo, F. Angeli, Milano,2005. 259 operativi e culturali distinti e distanti tra loro263. Il termine è molto usato anche nelle programmazioni macrosociali (progetto ambiente, progetto infanzia, progetto salute, ecc..) E nelle declinazioni operative quotidiane (progetto di studio, progetto di lavoro). È perciò necessaria una riflessione per condividere il senso che a tale termine viene attribuito all’interno del contesto scolastico, per esplicitare il significato che esso può assumere nell’agire professionale dell’insegnante e per comprendere la ricaduta del suo operare concreto. Nei progetti previsti dalle scuole vengono dettagliatamente indicati sia le strategie di funzionamento che la scuola mette in atto per la loro realizzazione che gli indicatori di svolgimento dell’attività didattica. Nell’accezione più ampia e condivisa il termine progetto indica “l’ideare qualcosa e studiare in rapporto alle possibilità e ai modi di attuazione”264. L’ampiezza della definizione richiama elementi specifici dell’attività stessa che richiama tre momenti distinti tra loro ma ad implicazione reciproca costante: il momento presente dell’ideazione qui ed ora, il momento futuro della sua messa alla prova per la realizzazione ed anche il momento passato relativo al vissuto da cui scaturisce quell’ideazione particolare e specifica. Nella letteratura si afferma che nella progettualità le attività del simbolico sono in relazione con il bisogno di modificare il mondo in rapporto e condivisione con l’altro, mentre la proiezione mobilita l’immaginario e diventa il desiderio teso a modificare l’immagine dell’altro e del proprio rapporto con esso265. La progettualità orientata al simbolico mantiene costantemente presente il senso del mondo, la Cfr. F. QUARTAPELLE (a cura di), Didattica per progetti, Franco Angeli, Milano, 1999. 264 Cfr. Voce: progettare in Devoto-Oli. 265 Cfr. D. NAPOLETANI, Individualità e gruppalità, Bollati Boringhieri, Torino, 1987. 263 relazione con l’altro e le dimensioni di possibilità che, nell’intreccio relazionale, sono richiamate e costantemente interrogate. L’attenzione all’intreccio tra la domanda del mondo, quelle del soggetto e quelle degli attori presenti sulla specifica scena di vita rendono possibile un progetto e un’azione escludendone altre e richiamandone altre ancora, come l’esperienza di generatività di ciascuno. Elementi fondamentali del progettare sono dunque i vincoli presenti e il desiderio di creare e generare qualcosa di nuovo. La radice della progettualità risiede nella parte affettiva e pulsionale dei soggetti che la realizzano e di ciò troviamo conferma nelle parole di Luigi Pagliarini “se non c’è desiderio, non c’è progetto”266. Mentre le dimensioni del presente e del futuro appaiono evidenti nella dimensione operativa del progettare, meno esplicito è il legame con la dimensione del passato. L’azione dell’ideare e del pensare nasce da un’attività di secondo livello sulle informazioni di cui l’individuo dispone, che sono state acquisite in un tempo precedente attraverso strumenti diversi quali l’interazione con gli altri e con le cose, lo studio, l’osservazione, l’esperienza concreta che hanno costituito il bagaglio di risorse che consentono la relazione e l’incontro con il mondo. Per progettare risulta necessario possedere un bagaglio conoscitivo ed esperienziale acquisito dal singolo attore coinvolto nella progettazione poiché ciascuno, nell’attività di progettazione, richiama ed utilizza le esperienze precedentemente accumulate nei contesti di vita e lavorativi senza tuttavia ripeterle pedissequamente ma utilizzando il passato e costruendo, attraverso esso, la cultura267. Da questa lettura del significato del termine progettare emerge la complicata realtà dell’agire dell’insegnante così come la sua inevitabilità e necessità 266 Cfr. L. PAGLIARINI, Il coraggio di Venere, Cortina, Milano, 2003. J. BRUNER, La fabbrica delle storie, Laterza, Roma-Bari, 2002. 267Cfr. nell’attuale situazione culturale e operativa. Il docente si trova, dunque, a dover riorganizzare le proprie lezioni corredandole di materiale didattico utile alla applicazione di ciò che viene presentato teoricamente, facendo in modo che i concetti divengano oggetto di operalizzazione268. L’odierna realtà scolastica, a causa della sua costante interazione di storie, sollecitazioni e proposte, è caratterizzata dalla complessità della nostra epoca, ponendo la dimensione progettuale come risultato indispensabile e indifferibile dell’agire umano. Il docente, nella scuola dell’autonomia, è chiamato a farsi progettista educativo, mettendo in campo buone idee, vale a dire calibrate sull’obiettivo, innovative e creative. Ma occorre però, soprattutto, produrre progetti che siano credibili agli occhi dei discenti, convincenti e realizzabili. 4.2 Caratteristiche del progetto I progetti269 scolastici sono erogati, solitamente, nelle ore extracurriculari, dopo che le ore mattutine di lezione sono state impiegate nello svolgimento del curricolo formativo. I progetti didattici nascono e si sviluppano attraverso il processo ricorsivo prassi-teoriaprassi: l’agire didattico prende vita dall’analisi dell’ambiente e dei bisogni e si sviluppa, arricchito nelle metodologie e nei contenuti, dai presupposti teorici, tornando a misurarsi con il contesto, con lo svolgimento del processo formativo. La definizione di un metodo 268Cfr. S. CHISTOLINI, Scienza e formazione. Manuale del laboratorio universitario di pedagogia, F. Angeli, Milano, 2006. 269Cfr. I. BORDALLO, J. GINESTET, Didattica per progetti, La Nuova Italia, Firenze, 1999. educativo si precisa a partire da alcuni principi metodologici e teorici, collocati in un contesto precedentemente individuato e analizzato, e sulla base delle relazioni e osservazioni rilevate nel corso dell’intervento, nell’incontro/scontro con la prassi quotidiana nella gestione della classe. È indispensabile che durante il processo esista un costante controllo empirico dell’ipotesi congetturale, nella prospettiva di una dialettica teoria-prassi. E’ però altrettanto fondamentale che gli interventi didattici trovino conforto e stimoli nelle teorie pedagogiche. La teoria “è la cifra speculativa che determina la comprensione del processo educativo, inteso come ipotesi, non certezza; come possibilità non come assioma. Gli assunti pedagogici sono, perciò, una sorta di rete speculativa che consente di analizzare, interpretare, concettualizzare criticamente i fatti che determinano la prassi educativa”270; la teoria arricchisce il processo di conoscenza, di ascolto, di restituzione e intervento-azione di e in quello specifico contesto in cui si attua il percorso di apprendimento; nel nostro caso specifico la realizzazione di un progetto a base laboratoriale. È importante stabilire una connessione tra l’attività pratica e le influenze/riflessioni teoriche, esplicitare con chiarezza quali sono le coordinate pedagogiche che hanno influenzato le ipotesi degli scenari laboratoriali e che dovranno concorrere alla loro validazione. Sul piano metodologico, pur trattando differenti argomenti, i progetti educativodidattici presentano generalmente una struttura laboratoriale, sia per la loro differenziazione oraria, sia per la loro composita varietà e sia per la mediazione didattica che si caratterizza come ponte bidirezionale fra pensiero ed azione. Essi sembrano poter porsi come strumenti per scardinare l’uniformità degli attuali curricoli che 270F. FRABBONI, Pedagogia didattica Ricerca-Azione. Tre sullo stesso tandem?, in C. SCURATI, G. ZANIELLO (a cura di), La Ricerca-Azione, Tecnodid, Napoli, 1993, p.49. continuano a svilupparsi attraverso un’ottica rigidamente sequenziale e graduale. La metodologia laboratoriale si presenta come mediatore didattico del trattamento manifesto del transfert degli apprendimenti (concettuali ed esperienziali) oltre che dell’integrazione di competenze sociali e professionali. L’attività laboratoriale viene strutturata tenendo conto del progetto da realizzare, intorno alla natura degli apprendimenti che esso sviluppa e alla tipologia dei processi che li generano. Considerando la dimensione dell’articolazione a spirale di teoria e prassi, gli apprendimenti che vengono prodotti non riguardano soltanto saperi decontestualizzati o declinazioni di saperi in “saper fare” o “saper essere” ma convergono sulla costruzione di competenze: i contenuti del progetto che fanno riferimento ad una area disciplinare, le trame interdisciplinari, indispensabili ed inevitabili, e le abilità che non costituiscono una situazione di apprendimento in sé ma divengono un mezzo al servizio del trattamento di determinate situazioni. Mentre i docenti durante le ore di lezione mattutine continuano a preferire le rassicuranti modalità tradizionali di insegnamento, nonostante ciò abbia un costo in termini di solitudine professionale e frustrazione, quando si trovano ad affrontare il lavoro di progettazione di attività extrascolastiche abbandonano tale modello e si avvalgono della didattica laboratoriale271. Le esperienze professionali hanno dimostrato come il modello più adeguato per facilitare la realizzazione del progetto educativo predisposto dalla scuola consista in una modalità didattica che si distacchi nettamente dal metodo diurno e che veicoli novità metodologica e, conseguentemente, atteggiamenti Cfr. P. MAMONE, M. MAROTTA, Il laboratorio delle responsabilità, F. Angeli, Milano, 2002. 271 differenti di docenti e discenti. Kolb272 nel 1984 sottolinea quanto il soggetto che compie una esperienza di apprendimento basato sul fare sia incoraggiato a ragionare sulla esperienza vissuta, sviluppi ipotesi, modelli e teorie che vengono adottate e verificate nelle situazioni reali. Questo permette a questi soggetti di riconoscere e sviluppare, sotto l’attenta supervisione dell’educatore, un metodo di lavoro capace di orientare le scelte operative. Imparare operando con gli altri permette la creazione di processi di negoziazione, di conflitto socio-cognitivo, di imitazione e di interiorizzazione che favoriscono l’apprendimento di tutti i contenuti, poiché svolgono un ruolo fondamentale nei processi di costruzione della conoscenza273. La scuola è il luogo nel quale mediante l’attività di laboratorio è possibile imparare con gli altri e raramente il gruppo classe tradizionale è capace di soddisfare le esigenze formative e di socializzazione degli studenti. All’interno del laboratorio il gruppo di lavoro è caratterizzato dalla interdipendenza, ovvero dalla consapevolezza dei membri che lo compongono di dipendere gli uni dagli altri per il raggiungimento degli obiettivi comuni274. I partecipanti ai progetti si costituiscono e riconoscono come gruppo di studenti che hanno aderito ad un processo formativo di lavoro e questo aiuta a sviluppare competenze trasversali quali la possibilità di risolvere problemi, di negoziare e di operare scelte, di prendere decisioni, di riconoscere sé e l’altro e di cooperare. E’ in questo costituirsi come gruppo di lavoro denominato Comunicazione275 che si realizza il passaggio alla metodologia della ricerca. Questo scenario perciò, così 272Cfr. D. A. KOLB, Experiential Learning: experience as the source of learning and development, Prentice-Hall, New Jersey, 1984. 273Cfr. AA.VV. Discutendo si impara: interazione sociale e conoscenza a scuola, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1991. 274Cfr. AA.VV. Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo: un modello di lettura della dinamica di gruppo, una proposta di intervento nelle organizzazioni, Cortina Raffaello, Milano, 1992. 275Cfr. J. E. JONES, J.W. PFEIFFER, The 1973 Annual Handbook for Group Facilitators, University Associates, San Diego, 1974. come la metodologia laboratoriale, implica una dimensione sociale dell’apprendimento, esso è aperto all’ambiente circostante e prevede che gli allievi facciano parte integrante della sua elaborazione, gestione, regolamentazione e valutazione276. Obiettivo principale di un progetto è quello di promuovere competenze trasversali, l’insieme delle quali costituisce una struttura metodologica che permetta al soggetto di orientarsi, di imparare ad imparare, di attivare quel processo di continua riflessione che gli consenta di apprendere dall’esperienza secondo una procedura operativa che si articola attraverso attività di risoluzione di problemi complessi in un contesto d’uso e di confronto di conoscenze ed artefatti cognitivi. Il laboratorio diventa inoltre il metodo attraverso il quale si discutono e verificano collegialmente e operativamente sia i problemi cognitivi che l’insegnamento/apprendimento scolastico ed extrascolastico pone, sia quelli presentati dai modelli etico-sociali delle comunità di appartenenza; si tratta di un luogo di elaborazione/produzione e/o di studio-ricerca-creatività. Nel progetto/laboratorio si coniuga l’apprendimento cognitivo, l’officina di metodo, di analisi e riflessione sui saperi, lo spazio educativo di istruzione meta- cognitiva, di apprendimento contestualizzato ed orientato277. Ciò che spinge gli allievi alla partecipazione alle attività pomeridiane che si diversificano nei progetti è il carattere innovativo del suo svolgimento relativamente alla didattica versativa della prassi mattutina. 276Cfr. M. GINEPRINI, A. RONCALLO, La scrittura emergente. La scuola come laboratorio di nuovi scenari, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001. 277Cfr. F. FRABBONI, Didattica generale. Una nuova scienza dell’educazione, Bruno Mondadori, Milano, 1999. 4.3 I laboratori fuori dalla scuola La classe, contesto educativo per eccellenza, ricco di dinamiche socio affettive e per tradizione deputata alla costruzione delle conoscenze, mediante le progettazioni inserite nei POF ed i progetti PON si apre all’esterno, ad una molteplicità e varietà di situazioni, di ambienti, di apprendimenti diversificati, legate ai contesti territoriali e sociali, nel convincimento che una formazione integrata debba avvalersi non solo delle opportunità offerte dalla scuola, ma anche quelle offerte da altre agenzie educative e, più in generale, dal territorio stesso. Il quadro di maggiore difficoltà e disagio sociale ed economico delle regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del Centro Nord influenza anche il sistema educativo che ha registrato negli ultimi dieci anni, grazie alle progettazioni PON, un significativo miglioramento del livello di istruzione della popolazione studentesca. L’indagine OCSE-PISA 2009 ha evidenziato, infatti, segnali di forte miglioramento nell’ ambito delle competenze raggiunte dagli studenti, che in passato ha rappresentava un’area di marcata criticità. Il divario fra le performance degli studenti del Sud e quelli del Centro Nord appare così fortemente attenuato. Con riferimento alla literacy la percentuale di studenti con scarse competenze278, nel periodo 2000-2009, è passata, nel Mezzogiorno, dal 28,5% al 27,5% nel Mezzogiorno. Vengono realizzate, dunque, progettazioni secondo la metodologia laboratoriale per realizzare apprendimenti in aule decentrate, in tutti gli ambienti, fisici e non, intra ed extrascolastici, in cui si può produrre 278Il termine competenze include una componente di “sapere” e una componente di “saper fare”, riflettendo così la definizione di literacy del PISA che fa riferimento alla capacità di cercare, identificare, elaborare e comunicare informazioni. Vedi V. GALLINA, Le competenze alfabetiche funzionali (letteralismo) e la ricerca IALS-SIALS, in V. GALLINA, La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione, Franco Angeli, Milano, 2000. un apprendimento attivo che riconosca come “la seconda freccia dell’arco della didattica porta il nome di ambiente279”. Nei laboratori che si realizzano fuori dalle mura scolastiche si consolida l’educazione alla riflessione critica mediante l’osservazione e la percezione, che diventa realizzabile se la scuola riesce ad elevare l’ambiente ad aula didattica decentrata che oltrepassa i suoi confini fisici. Solo il 14% delle scuole utilizza in modo sistematico il territorio come luogo di apprendimento. Tale percentuale raggiunge il 76% per l’apprendimento che ricade all’interno delle progettazioni che la scuola realizza al di fuori dei confini della didattica ordinaria280. Tramite la didattica laboratoriale la scuola integra educazione e formazione complessiva del discente in un sistema educativo integrato281 nel quale il laboratorio diviene ambiente di problematizzazione di qualsiasi contesto che abbia prodotto perplessità, curiosità, interrogativi, inciampi. Ciò può avvenire nel giardino pubblico, nel rione del paese, nel museo, nella zona archeologica, nella case delle culture, ecc… Nella scuola primaria tale opportunità di apprendimento ha una valenza metodologica ancora più formativa in quanto l’allievo conquista conoscenze con le procedure più naturali e nel mondo che ha costantemente sotto gli occhi. Negli apprendimenti laboratoriali extrascolastici l’insegnante e l’allievo si trovano in una posizione di rapporto simmetrico in quanto la didattica è basata sul fare, sul costruire, sullo scoprire con un apprendimento che realizza quanto scrive Popper: “a vent’anni sognavo di poter un giorno fondare una scuola in cui si potesse apprendere senza annoiarsi, e si fosse stimolati 279F. FRABBONI, Sette frecce per l’arco della didattica, in F. FRABBONI, M. BALDACCI, La qualità della didattica nella scuola che cambia, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 4974. 280Cfr. MIUR Autorità di gestione PON FSE e FERS 2007-2013. 281Cfr. G. BERTAGNA, Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soveria MannellI, 2006. a porre problemi e a discuterli; una scuola in cui non si dovessero sentire risposte non sollecitate a domande non poste; in cui non si dovesse studiare al fine di superare gli esami”282. Herbart sosteneva che “occorre ricercare le cose che si devono fare successivamente e l’una per mezzo dell’altra e le cose che, invece, si devono fare simultaneamente e ciascuna con la sua forza propria e originaria […]. E poiché si dovrà cominciare simultaneamente da più lati e sempre preparare molte cognizioni mediante le precedenti, queste sono le due dimensioni secondo le quali occorre orientarsi nell’insegnamento”283. Il laboratorio ha il merito di attribuire all’insegnamento finalità concrete ed operative non solo circoscritte alla trasmissione di conoscenze. Esso abbandona il suo tradizionale carattere di trasmissione del sapere e si eleva a dignità di istruzione educativa intesa come azione che aiuta ed orienta lo sviluppo della persona, come attività che apre a nuove prospettive conoscitive. È indubbio che i laboratori favoriscono l’apertura della scuola nel suo complesso, stimolando anche quegli insegnanti che lavorano in modo individualistico ed isolato. Il carattere peculiare dei laboratori richiede ai docenti ambiti di competenza di carattere teorico che potrebbero essere definiti anche culturali – ovviamente in riferimento all’extrascuola – poiché riguardano le dimensioni culturali, sociali, psicologiche; competenze tecniche, definite anche didattiche e riferite allo specifico campo di attività in cui l’operatore opera e di cui deve essere esperto; competenze pedagogiche che potrebbero essere definite anche internazionali perché riguardano la capacità di gestire il gruppo e la conoscenza delle modalità operative riguardanti i processi di comunicazione oltre alla individuazione di motivazioni da sollecitare K. POPPER, La politica la scienza la scuola, Armando, Roma, 1997, p. 107. F. HERBART, La rappresentazione estetica del mondo considerata come compito fondamentale dell’educazione, Armando, Roma, 1996, p. 81. 282 283J. nei giovani partecipanti; competenze gestionali da ricondurre a quelle psicopedagogiche, comprendenti le conoscenze relative alle strategie di programmazione, di organizzazione e di verifica di uno specifico campo di attività. Esse, inoltre, dovrebbero consistere nelle capacità di trovare soluzioni adeguate per lo svolgimento delle attività ed in quella di lavorare collaborativamente con gli altri operatori284. Possiamo dunque osservare come la didattica laboratoriale, nel suo significato più ampio, sia sempre presente nelle azioni progettuali delle scuole piuttosto che nella didattica tradizionalista. La didattica laboratoriale viene assunta come metodologia comune a tutte le attività extracurricolari in quanto funzionale allo sviluppo unitario delle competenze personali dell’allievo attraverso l’utilizzo dei saperi specifici di un determinato progetto educativo. Attraverso questo approccio metodologico ogni azione educativa riesce ad offrire il sapere che le è proprio come mezzo di lettura, interpretazione ed azione unitaria dell’allievo nella realtà che lo circonda285. Concludendo possiamo osservare come la parziale attuazione di una scuola-laboratorio italiana sia stata realizzata attraverso il ricorso alle diverse attività progettuali che l’istituzione educativa mette in atto, in orari extracurriculari, per andare in contro alle esigenze della sua popolazione e che possono trovare risposta solo mediante una risposta altra. La riforma dei saperi, di cui tanto si parla, in rapporto alle competenze, inizia dalla affermazione di un diverso approccio metodologico teoriaprassi, che dovrebbe certamente interessare l’epistemologia delle diverse discipline ma anche rispondere ad un atteggiamento 284Cfr. G TASSINARI (a cura di), La pedagogia italiana nel secondo dopoguerra, Mondadori, Milano, 1990. 285 Cfr. E. B. MORRIS, Gestire l’autonomia, Erickson, Trento, 1998. esistenziale di fondo, inducendo la pedagogia a misurarsi con il vero problema: lo sviluppo integrale della persona. CONCLUSIONI L’area della didattica laboratoriale, intesa come ordinaria organizzazione didattica, costituisce nel nostro Paese un territorio inesplorato dalla ricerca empirica e pochissimi sono gli studi che la riguardano nonostante numerose siano le esperienze laboratoriali nei diversi settori disciplinari. Ipotizzare delle riflessioni conclusive non è semplice atteso l’intento di voler operare con una ricognizione sulla teoria dei laboratori in Italia. Nella storia della didattica laboratoriale dobbiamo attendere i primi decenni del XX secolo per poter aprire quello spazio pedagogico che ha dato inizio ai laboratori. Le teorizzazioni di alcuni dei più noti studiosi come Reddie, Bertier, Manjon, Decroly, Kerschensteiner, Dewey, Freinet, unitamente alle esperienze delle scuole nuove e dell’attivismo hanno fatto, della didattica laboratoriale, il centro delle proprie proposte pedagogiche e delle loro esperienze didattiche. La scuola attiva post-deweyana fa riferimento al metodo dei progetti di Kilpatrick, che ben si riagganciano nelle attuali possibilità progettuali presenti nelle scuole italiane, al metodo Winnetka di Washburn, ma soprattutto al piano Dalton di Parkhurst. Nelle loro proposte il laboratorio è uno spazio e uno strumento per l’individualizzazione del lavoro scolastico, nel quale le aule vengono sostituite con laboratori specializzati, abolendo l’orario scolastico, la centralità della lezione, suddividendo il programma in blocchi mensili, stipulando contratti di lavoro con gli alunni ed evidenziando i loro progressi attraverso un sistema di tabelle. L’altro modello di laboratorio, la scuola a tempo pieno, fa riferimento, nella pedagogia italiana degli anni Sessanta, alla figura di Francesco De Bartolomeis lo studioso che per primo ha individuato nei laboratori, nelle metodologie ad essi connessi, una corsia preferenziale per la scuola di qualità. Mentre la Parkhurst trasforma la classe in laboratorio, De Bartolomeis considera il laboratorio un’ulteriore risorsa della classe, senza la pretesa di sostituirla in toto. I laboratori non eliminano la lezioni ma sono intesi come locali attrezzati con materiali, strumenti, macchine, ecc. in cui si svolge un’attività produttiva: luoghi di produzione culturale con i mezzi della ricerca. Luoghi ai quali Frabboni attribuisce la funzione di angoli didattici, aule specializzate, laboratori scientifici, laboratori comunicativi, zone attrezzate, per rispondere alle variegate esperienze, flessibili e diversi per interessi ed apprendimento. Lo scenario politico italiano ha recentemente riaperto il discorso sui laboratori con la Riforma Moratti. La novità riguarda prevalentemente la scuola dell’infanzia con l’introduzione ufficiale dei laboratori al suo interno basando la organizzazione didattica sui criteri della flessibilità, continuità ed apertura. Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, il metodo laboratoriale viene utilizzato, prevalentemente, nella didattica extracurriculare, nella quale la scuola si apre a contenuti differenti dalla programmazione disciplinare e guarda, invece, alle problematiche sociali, agli interessi giovanili attraverso procedure che impegnano attivamente gli studenti ma sempre attraverso un sistema rigoroso di analisi e di discussione critica, atteggiamenti propri della riflessione sulla cultura elevata. In questo modo la progettualità della scuola ritrova la propria specificità a livello delle modalità cognitive del lavoro didattico, situando la propria caratteristica distintiva a livello metacognitivo, sul piano dei processi mentali di riflessioni sul sapere. Il termine Laboratorio risente delle mode del tempo, l’eccesso d’uso, in alcuni periodi, può far perdere il senso più autentico del suo significato sia sul piano pratico che epistemologico. In pedagogia esso connota sempre una tendenza democratizzante dell’educazione: dall’attivismo statunitense del primo Novecento alle pratiche nostrane del tempo prolungato e del tempo pieno. Il valore strategico che si può e si deve attribuire non solo al termine ma anche al concetto che esso sottende apre un inevitabile contrasto dialettico tra più tendenze visto che il laboratorio ha a che fare con le scienze, le tecniche, i metodi d’indagine, la partecipazione attiva dei soggetti ma anche con i luoghi privilegiati della ricerca per pochi eletti. In noi, volendo richiamare una tendenza orientativa di parte, evoca alla mente le botteghe artigiane del rinascimento dove l’apprendista cresce, sotto il profilo culturale e umano, grazie alla guida di un maestro. Un simbolo che può mantenere il suo fascino pure nel disorientante mondo globalizzato, a patto di convergere almeno sul un dato di partenza inequivocabile costituito dal fatto che occorre muovere da un approccio plurale. Se è fuori dubbio che il laboratorio ha rivestito, e riveste, un ruolo importante, non solo nelle prassi didattiche dei vari ordini scolastici ma anche nelle scelte di politica formativa, poiché è simbolo di modernità, concretezza ed innovazione, non si può non considerare che dietro questo emblema della operatività scientifica si possono celare sia incertezze che vuoti teorici dal momento che, attualmente, è chiamato a far bella mostra di sé nei documenti ufficiali di ogni ipotesi modernistica della scuola. Il pregiudizio dominante, nella contrapposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, non deve condurre obbligatoriamente nella direzione dell’inconsistenza culturale del primo dal momento che le pratiche più autentiche del laboratorio mostrano pure il contrario svelando la dimensione del lavoro intellettuale fatta di oziosità, privilegio, perdita di tempo in questioni inutili in quanto non direttamente produttive. Dove il laboratorio è spazio di generatività e creatività lì scaturiscono spontaneamente momenti collaborativocooperativi capaci di lasciar trasparire autostima e motivazioni, oltre che abilità e conoscenze su compiti concreti. Si tratta dunque di uno spazio aperto, dialogico e relazionale, democratico per sua stessa natura perché frutto della necessaria intersoggettività che caratterizza la scienza. La storia della prassi di laboratorio ha però conosciuto percorsi di chiusura, di ghettizzazione, di subordinazione all’interno di gerarchie granitiche, di controllo della scienze. Anche ciò ha diritto di far parte del sapere, diventando, se si vuole, un laboratorio d’indagine storiografico-antropologica sulla tradizione dei laboratori. Laboratorio e progresso non sono sinonimi, poiché quel lavorare che sta alla radice latina del concetto può essere indirizzato nelle più svariate direzioni. Certo presuppone un fine sperimentale, prefigura innovazione e profitto, sia pure con i rischi che ogni impresa umana impone. Il paradigma interpretativo è la cifra caratterizzante il laboratorio, le esperienze concrete, costruttive e sperimentali, che precedono la teoria, che a sua volta dipende dalla prassi, considerato che il sistema teoretico è possibile partendo dall’esperienza, dall’azione, dalla pratica educativa. Chiarisce Franco Frabboni che i fatti educativi forniscono al sistema ipotetico-deduttivo elementi di osservazione irrinunciabili per un modello scientifico dei laboratori che aspiri ad essere epistemologicamente convalidato. Libero ed estraneo da ipoteche e scudi protettivi di natura aprioristica-assiomatica-dogmatica286. La scientificità consiste, allora, nel modo di osservare, che non è casuale 286 Cfr. F. FRABBONI, Il laboratorio, ma orientato secondo protocolli condivisi d’interpretazione dei fenomeni. “Dunque i laboratori dispongono di una specifica logica formale, di un proprio dispositivo interpretativo. […] Se i laboratori venissero “deteorizzati” resterebbero prigionieri, una volta in più, dei loro stoici carcerieri dalla vocazione ascientifica”287 . Il laboratorio deve essere luogo di elaborazione culturale vera, dove i soggetti si confrontano in quanto “comunità di pratiche”, o di intenti rivolti alla ricerca ed in cui lo stesso linguaggio diviene laboratorio degli interessi polivalenti della pratica formativa. 287 Ivi, p. 85. BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1991). Discutendo siimpara: interazione sociale e conoscenza a scuola. Firenze: La Nuova Italia. AA.VV. (1992). Gruppo di lavoro,lavoro di gruppo: un modello di lettura della dinamica di gruppo, una proposta di intervento nelle organizzazioni. Milano: Cortina Raffaello. AA.VV. (2003). 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