università degli studi di macerata il laboratorio didattico

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università degli studi di macerata il laboratorio didattico
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO SCIENZE DELL’EDUCAZIONE, DEI BENI CULTURALI E DEL
TURISMO
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
HUMAN SCIENCES – CURRICULUM TECHNOLOGY OF EDUCATION
CICLO XXV
IL LABORATORIO DIDATTICO
STORIA TEORIA ED APPLICAZIONE
TUTOR
Chiar.mo Prof. Pier Giuseppe Rossi
DOTTORANDA
Rosa Iaquinta
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Pier Giuseppe Rossi
ANNO 2013
INDICE
PREFAZIONE
p.
1
INTRODUZIONE
p.
4
p.
p.
p.
p.
7
7
10
13
p.
19
p.
23
CAPITOLO SECONDO
La scuola laboratorio di Dewey:
alle origine del problema
2.1 La teoria educativa di John Dewey
2.2 La scuola di Chicago
2.3 Metodi e discipline nella Laboratory School
p.
p.
p.
p.
32
32
43
50
CAPITOLO TERZO
Il laboratorio nella cultura contemporanea
3.1 Francesco De Bartolomeis
3.2 Franco Frabboni
3.3 Massimo Baldacci
3.4 Luciana Bellatalla
p.
p.
p.
p.
p.
58
60
74
83
97
CAPITOLO QUARTO
Realtà di laboratorio
4.1 I laboratori nei progetti POF e PON
4.2 Caratteristiche del progetto
4.3 I laboratori fuori dalla scuola
p.
p.
p.
p.
108
111
115
120
CONCLUSIONI
p.
125
BIBLIOGRAFIA
p.
131
CAPITOLO PRIMO
Linee teoriche
1.1 Le radici
1.2 Le scuole nuove in Europa
1.3 Le scuole nuove negli Stati Uniti
1.4 Le scuole nuove in Europa dopo
il conflitto bellico
1.5 Evoluzione delle scuole nuove e proposte
di laboratorio “dal dopo Dewey” ad oggi
PREFAZIONE
Questo lavoro analizza il percorso della didattica laboratoriale nel XX
secolo focalizzando l’attenzione sulla letteratura nazionale ed
internazionale e sulle sue applicazioni nel contesto educativo.
Nel ricostruire il procedere della metodologia laboratoriale durante il
secolo
trascorso
inevitabilmente,
volendo
circoscriverne
cronologicamente e spazialmente il come ed il dove, se ne sono dovute
richiamare le origini.
Stilisticamente il lavoro è discorsivo, concettualmente è selettivo,
essendo rivolto all’individuazione degli aspetti essenziali del tema.
Nel contenuto tratta il concetto di metodologia laboratoriale e la teoria
dell’educazione di riferimento che è vista nelle sue origini e nelle sue
funzioni, o per dirla con linguaggio più accreditato, nel contesto di
costituzione e nel contesto di applicazione.
I materiali scelti sono costituiti dalla teoria pedagogica che l’ha
generata, dal pensiero del suo maggiore rappresentante, John Dewey, e
dal suo sviluppo in alcuni dei più significativi pedagogisti italiani del
nostro tempo.
La scelta dell’argomento è stata dettata da motivi didattici innescata
dalla costatazione della difficoltà che i docenti ogni giorno incontrano
nel catturare e mantenere l’attenzione degli studenti durante la loro
quotidiana attività professionale e della necessità di rinnovare i
processi di insegnamento e di apprendimento adeguandoli al nuovo
contesto ed alle nuove esigenze della scuola attuale. In questa ottica la
didattica laboratoriale appare geneticamente predisposta a stimolare
la modalità di insegnamento/apprendimento adeguandole alle
caratteristiche di ciascuno e coinvolgendo la sua utenza in un processo
di un apprendimento qualitativamente elevato.
Presupposto attentivo verso tale metodologia è costituito dal suo
offrirsi, anche, quale esempio di ricerca educativa pensata come
processo di costruzione da parte degli studenti, per mezzo della
ricerca, di operazioni, intellettuali e pratiche, di organizzazione delle
conoscenze. Ciò è ottenuto tramite un apprendimento interessante ed
utile, in quanto destinato a rendere abili nella comprensione del
mondo nel quale si vive, ma anche significativo per chi deve
comprendere e apprendere suscitando motivazione, competenze ed
operatività. La metodologia laboratoriale ha origine dal connubio tra il
sapere teorico, universitario, ed il lavoro sul campo che si realizza nelle
scuole. La fruibilità del metodo, rivolgendosi a destinatari diversi per
stili di apprendimento, la rende idonea in contesti di formazione adulta
oltre che nei diversi ordini di scuola. In un’epoca caratterizzata da
ritmi di vita sempre più veloci potrebbe apparire anacronistico
l’interesse verso un tema di ricerca che richiama le radici lontane della
Scuola Attiva e dell’apprendimento per ricerca, ma la didattica
laboratoriale mantiene intatta la sua validità per un apprendimento
significativo, indipendentemente dagli assetti istituzionali riferiti a
vecchie o nuove riforme.
Nella sua struttura il lavoro si compone di quattro capitoli che
ripercorrono le linee teoriche della didattica laboratoriale. Il primo
capitolo analizza, a grandi linee, la teoria educativa ed il terreno sul
quale le convinzioni pedagogiche che la hanno suscitata. Il secondo
capitolo si occupa della teoria deweyana e della scuola-laboratorio di
Chicago. Il terzo espone il pensiero di alcuni tra gli studiosi italiani che
si sono occupati dell’argomento. Il quarto ed ultimo tratta della
didattica laboratoriale nel contesto educativo, volendo cogliere le
implicazioni, i riferimenti e le parziali elaborazioni teoriche nell’agire
educativo.
INTRODUZIONE
Affrontare il discorso della didattica laboratoriale significa prendere in
considerazione il duplice aspetto che lo connota: quello pedagogico e
quello metodologico-didattico.
La riflessione pedagogica, consolidata da una tradizione che
sull’argomento annovera contributi di valori assoluto, costituisce la
cornice teorica da cui la prassi scolastica attinge validità scientifica e
coerenza educativa. Lo sviluppo e la diffusione della didattica
laboratoriale, d’altra parte, se non saldamente ancorata ad un
approfondimento del senso e della direzione dell’esperienza, genera
equivoci ed ambiguità, col rischio di nascondere realtà molto diverse
ed alle volte opposte.
La presenza di fenomeni contrapposti sollecita, inevitabilmente, una
riflessione che precisi non solo il significato originario del termine
laboratorio ma, altresì, il significato che questo assume in una teoria
didattica che consideri attentamente la metodologia su cui si incardina
e da cui attinge senso e prospettiva pedagogica.
D’altra parte i nodi da chiarire, per evitare distorsioni ed equivoci,
includono l’essenza stessa del concetto di laboratorio o, per meglio
dire, la concezione pedagogico–didattico–metodologica che ne sta alla
base e che in esso si realizza. Come ricorda, infatti, la psicologa Rita
Gay1 è ancora molto diffusa, in buona parte degli insegnanti, l’opinione,
di natura strettamente evolutiva, circa il valore del fare nella scuola. Lo
sviluppo cognitivo di ciascun soggetto, per come indicano le teorie
organismiche e costruttive dello sviluppo, muovendo dal concreto
all’astratto, dall’azione al simbolo, richiede che gli insegnanti, nel
1
Cfr. R. GAY, Parole forti dell’educazione, Ancora, Milano, 2005.
processo di apprendimento-insegnamento, tengano in debito conto
tale percorso lineare ed, in ragione di questo, elaborino metodologie
che ne utilizzino le caratteristiche.
L’iter scolastico di ciascun soggetto (dall’infanzia sino al compimento
degli studi) si organizza, così, intorno ad occasioni di fattualità che
risultano numerose nei primi anni di scuola (materna ed elementare)
per decrescere gradualmente, a favore dei processi di astrazione e
della conquista di un’intellettualità opposta e dimentica della
manualità da cui essa stessa ha tratto origine.
Il simbolo astratto viene opposto, pertanto, all’esperienza concreta. Il
fare si caratterizza subalternamente al conoscere.
E’ questo, sostanzialmente, il dualismo che da sempre alberga in buona
parte degli insegnanti e che indirizza il processo di istruzione degli
allievi. Dualismo che ha generato un incitamento all’operatività del
discende che può essere definito “a tempo”, quasi ad “orologeria”. Tale
sprone operativo, infatti, scompare man mano che il discende entra in
possesso di quella maturità che gli consente di formulare processi di
astrazione
e
di
simbolizzazione
che
lo
qualificano
come
intellettualmente maturo.
Le pratiche manuali ed operative cessano così, da quell’istante in poi,
di esistere e di avere validità.
Non è agevole stabilire se, ed in quale misura, il movimento
dell’educazione nuova e della scuola attiva sia stato esente da tale
fraintendimento. Di certo Gramsci2 ed ancor più Dewey3 si sono
soffermati più volte ad indagare il rapporto intercorrente tra fare e
conoscere, funzionalmente all’esperienza dell’allievo. Anche, in tempi
Cfr. A. GRAMSCI, L’alternativa pedagogica, (a cura di) M. A. MANACORDA, Editori Riuniti
University Press, Roma, 2012,
(Gramsci, 2012) (Cuffaro, 2006)
(Bruner, La cultura dell'educazione, 1997)3 Cfr. H. K. CUFFARO, La scuola del fare,
Armando Editore, Roma, 2006.
2
più recenti, le ricerche di Bruner4, Gardner5 ed Olson6, indagando lo
stretto legame esistente fra strumenti simbolici e strumenti
tecnologici, questi ultimi intesi da Bruner come strumenti tipici di una
cultura, carichi di una consistente forza modellatrice sul pensiero e le
capacità cognitive dell’uomo7, hanno avvalorato e riconfermato
l’importanza della manualità.
Ecco quindi che la manualità inizia a liberarsi della condizione di
vassallaggio nei confronti dell’intellettualità, come De Bartolomeis
sostiene in alcuni scritti sui laboratori e sulle attività manuali8.
Ai fini del nostro discorso e per dipanare il groviglio di opinioni e di
teorie sull’argomento risulta utile, anche in ragione della intervenuta
stagione dell’Autonomia e della Riforma universitaria che concorrono
a riattualizzare e rivitalizzare il concetto stesso di laboratorio,
affrontare l’argomento delineandone una breve storia. Non soltanto
per impadronirci del significato originario del termine ma per
delineare i cambiamenti e gli ampliamenti di senso che nel tempo sono
sopravvenuti e che continuano ancora oggi a sopravvenire.
Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997.
Cfr. H. GARDNER, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e
apprendimento, Erickson, Trento, 2005.
6 Cfr.D. R. OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, Torino, Loescher, 1979.
7 Cfr. J. BRUNER, La cultura dell’educazione, cit.
8 Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, La pratica del lavoro di gruppo, Loescher, Torino, 1978.
4
5
CAPITOLO PRIMO
LINEE TEORICHE
1.1 Le radici
Sin dall’antichità nella mente di maestri e pedagoghi ha albergato la
convinzione che colui che deve imparare, ovvero il discende, sia una
sorta di vaso da riempire, più o meno forzatamente a seconda dei casi,
di nozioni preconfezionate, sicure ed indiscutibili. La civiltà latina9 a tal
proposito ci ha tramandato la figura del plagosus orbilius10 che, con
metodi certamente poco ortodossi, quelli che Manacorda definisce
“sadismo pedagogico”11 (a suon di nerbate) e pertanto didatticamente
discutibili, convinceva i propri allievi a ripetere, mnemonicamente e
senza incertezze od errori, le opere dei maestri del tempo. Fin
dall’antichità però ai sostenitori dell’apprendimento a fini “riempitivi”
si sono opposti
filosofi e pedagogisti quali Socrate, Rabelais,
Montaigne, Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi, Froëbel, sostenitori,
per converso, della teoria educativa che vede il discende attore della
propria educazione, sperimentatore di tutte le capacità possedute, non
limitatamente a quelle dell’intelligenza formale e della memoria.
Risulta evidente come codesti pensatori, con le loro innovative teorie
pedagogiche rivoluzionanti il modo stesso di concepire ed attuare il
processo educativo, abbiano in un certo senso precorso l’attivismo,
ovvero il movimento delle scuole nuove (e quindi la metodologia
PLUTARCO, Questioni romane, 59; CICERONE, Repubblica, 2, 19,37; LIVIO, Annali
3,44,6; 5, 27, 1; 9, 36.
10 Cfr. L. CANALI, Ritratti dei padri antichi, Edizioni Studi Tesi, Pordenone, 1993.
11 Cfr. M. A. MANACORDA, Storia illustrata dell’educazione, Giunti, Firenze, 1992.
9
laboratoriale), sviluppatosi successivamente in Europa e negli Stati
Uniti tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 e destinato a lasciare
una traccia profonda in campo educativo e nella pedagogia operando
un radicale rovesciamento dell’educazione col suo porre al centro del
processo educativo il bambino con i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue
capacità.
In ambito scolastico la rivoluzione attivistica ha operato la rottura con
il passato e con la tradizione, rappresentata da un’istituzione scolastica
formalistica, disciplinare e verbalistica, teorizzando un modello di
scuola in cui lo studio potesse essere esperienza, movimento
problematico della mente, presa di posizione personale, ricerca. Il
movimento attivistico, altresì, ha collegato strettamente la pedagogia
alle scienze umane, psicologia e sociologia soprattutto, indicandone le
implicazioni politiche e antropologiche.
Che l’attivismo abbia rappresentato nel panorama pedagogico una
rivoluzione è ormai, a più di cento anni della sua comparsa, fuori
discussione. E’ tuttavia importante precisare che la portata
rivoluzionaria del movimento non è da rintracciare e da limitare solo
alla sua nascita ma la sua spinta innovatrice ha assunto maggiore forza
e consistenza proprio nel tempo, conseguentemente al progredire della
sperimentazione didattica ed allo sviluppo della psicologia dell’età
evolutiva, all’evoluzione democratica della società che ha richiesto e
richiede, sia alla pedagogia che alla didattica, continue revisioni e
adeguamenti.
Le prime esperienze delle scuole nuove, diffusesi prevaletemente in
Europa occidentale e negli Stati Uniti, sorgono negli ultimi decenni del
secolo XX in un clima di ripresa di soggettivismo umanistico
evidenziato dal prorompere delle correnti anti-intellettualistiche e
antipositivistiche12. E’ bene precisare che le scuole nuove nacquero e si
svilupparono all’origine come esperimenti isolati, legati oltre che a
condizioni particolari a personalità eccezionali di educatori. Tuttavia,
proprio per l’interesse che suscitarono nel mondo educativo, esse
avviarono una serie di richieste nel campo dell’istruzione volte a
modificare la scuola nel profondo, non limitatamente all’aspetto
organizzativo ed istituzionale di essa, che certamente subiva una
trasformazione ma, in modo precipuo, all’aspetto inerente agli ideali
formativi e agli obiettivi culturali.
Caratteristica fondamentale delle scuole nuove è il richiamo all’attività
del fanciullo13 che, essendo naturalmente attivo, deve poter
manifestare liberamente le proprie inclinazioni primarie, svincolato
dalle limitazioni imposte dall’educazione familiare e scolastica. La vita
della scuola, in ragione di ciò, deve essere organizzata in modo
confacente ai bisogni dell’immaturo, con una scuola ubicata fuori città
e posta in un luogo che favorisca il contatto del fanciullo con l’ambiente
circostante a cui egli è spontaneamente interessato. Egli va educato
attraverso attività intellettuale e attività pratica. L’avallo dato “al
primato dell’azione o esplicitamente al primato del lavoro manuale
nell’educazione”14 fu l’essenziale messaggio di novità che caratterizzò
tali scuole.
Cfr. F. RAVAGLIOLI, Profilo delle teorie moderne dell’educazione, Armando, Roma, 1991.
Cfr. C. DESINAN, Discutere la scuola. Ipotesi, contenuti e prospettive a confronto, Angeli,
Milano, 1998.
14 Cfr. F. BLEZZA, Educazione XXI secolo, Pellegrini Editore, Cosenza, 2007.
12
13
1.2 Le scuole nuove in Europa
Le prime esperienze di scuole nuove furono realizzate nel 1889 in
Inghilterra da Cecil Reddie15 (1858-1932) che ad Abbotsholme aprì
una scuola, di cui fu direttore fino al 1927, per ragazzi dagli 11 ai 18
anni. Muovendo un aspra critica allo “spirito di tradizione e di
routine”16 che caratterizzava la didattica sino ad allora in auge,
centrata su programmi astratti e traboccanti di classicismo, destinati a
“formare uomini per il passato e non per il presente”17 , Reddie si
proponeva di “conseguire uno svolgimento armonico di tutte le facoltà
umane”
18
poiché “l’uomo non è pura intelligenza congiunta con un
corpo e si devono formare altresì l’energia, la volontà, la forza fisica,
l’abilità manuale, l’agilità”19. La sua scuola era ubicata in campagna e gli
alunni venivano formati attraverso l’esperienza personale che
compivano, attraverso l’osservazione diretta ed il lavoro che
svolgevano a vantaggio della comunità, ponendo grande attenzione ai
rapporti sociali e all’esercizio della libertà nel rispetto delle leggi.
L’esperienza di Reddie diede frutti anche al di fuori di Abbotsholme,
precisamente a Badales nel Sussex dove Haden Badley, proselito del
Reddie, organizzò una scuola fondata sull’autogoverno e sul principio
della co-educazione.
Anche la Francia si richiamò all’esperimento di Reddie con la
fondazione, in Normandia, dell’ “Ecole des Roches” (1899), la scuola
Cfr. F. BLEZZA, Educazione XXI secolo, Pellegrini Editore, Cosenza, 2007.
R. NICOL, P. HIGGINS, Cecil Reddie Pioneering Headmaster, in T. E. SMITH, C. E.
KNAPP, Sourcebook of Experimential Education, Routledge, N. Y., 2011.
17 Ivi, p.119.
18 Ibidem.
19 Ivi, p. 120.
15
16Cfr.
voluta da Edmond Demolins20 (1852-1907) e proseguita da Georges
Bertier21 (1877-1909) che valorizzava al suo interno un sistema di
autogoverno, il mutuo insegnamento e forme di collaborazione. Essa,
situata in campagna e quindi distante dall’ambiente costrittivo e
artificiale della città, garantiva ai fanciulli che la frequentavano ampia
libertà di movimento oltre che la possibilità di abitare in case
riproducenti l’ambiente casalingo, al fine di mantenere la sensazione di
vita reale quale si viveva in famiglia. L’obiettivo della loro scuola era
rappresentato dalla formazione globale del fanciullo, una formazione,
cioè, comprendente la sfera intellettuale, fisica, sociale, morale.
Le istanze fondamentali delle scuole nuove europee furono recepite
anche dalla Spagna dove Andrès Manjon22 (1846-1923) elaborò un
modello di educazione popolare cristiana nutrito delle scoperte psicopedagogiche delle scienze educative e da un’apertura verso la
pedagogia laica che caratterizzò l’indirizzo denominato dell’attivismo
cristiano23. Con le “scuole dell’Ave Maria”24 (1888) A. Manjon25 si
proponeva di liberare dall’ignoranza i fanciulli del popolo stimolando,
Cfr. M. RUMI, La ricerca del metodo, in L.VOLPICELLI, (a cura di) Pedagogia, vol.
10, Vallardi, Milano, 1975.
21 Ibidem.
22 Cfr. J. M. PRELLEZO, Andrés Manión, in FUNDACIÓN SANTA MARIA, Historia de la
educación en España y América, Ediciones Morata, Madrid, 1994.
23 Cfr. V. BURZA, Pedagogia, formazione e scuola. Un rapporto possibile, Armando,
Roma, 1999.
24 Le “scuole dell’Ave Maria” nascono sotto il segno del fare, dell’espressività e di un
autentico riconoscimento dell’infanzia; l’insegnamento, decisamente accattivante,
predilige la narrazione, la drammatizzazione, l’interpretazione, l’attività ludica, la
personificazione di grandi figure storiche e religiose, il canto accompagna i diversi
momenti della vita scolastica rendendo divertente l’apprendimento. Le scuole si
diffusero in tutta la spagna e poi nell’America latina. A Roma nascono alcune scuole
ispirate a quelle dell’Ave Maria nel 1933. Tra le significative iniziative realizzate da
Manjòn vi è l’istituzione di un collegio per la formazione dei maestri, un vero
laboratorio di metodi innovativi destinato ad arricchire la professionalità degli
insegnanti, quindi a migliorare il loro operato, assicurando, diremmo oggi, il
successo formativo dell’alunno.
25 Cfr. A. MANJON, I metodi delle scuole dell’Ave Maria, Avio, Roma, 1957.
20
attraverso il gioco e il canto, la loro spontaneità, a diretto contatto con
una natura che diveniva scuola vera e propria .
Le scuole nuove fanno la loro comparsa in Belgio per opera di Ovide
Decroly (1871-1932), uno dei teorici dell’attivismo26, di professione
medico ma interessato ai problemi dell’educazione di cui si era
occupato, nell’ambito della pedagogia differenziale, sin dal 1901. Gli
studi sulla psiche infantile, condotti sugli anormali27 ed in ragione di un
loro recupero, possibile per O. Decroly con un insegnamento <accurato
e prolungato>, avevano dato al medico belga la possibilità di conoscere
meglio il fanciullo in generale, al di là di situazioni particolari o delle
patologie da cui poteva essere afflitto. La sua “Ecole de l’Ermitage”
(1907) divenne uno dei centri più noti di sperimentazione educativa,
dove il bambino trovava la possibilità di prepararsi ai problemi sociali
e materiali della vita, imparando a pensare e ad agire. Il
raggiungimento di tale obiettivo era possibile attraverso la
collaborazione con il maestro per elaborare conoscenze, costruire
materiali, sperimentare e scoprire oggetti, strumenti e idee, esprimersi
e comunicare liberamente, assumersi responsabilità.
La diffusione delle scuole nuove e dell’educazione attiva nell’Europa
occidentale trova completamento con l’ Arbeitschule (1912) o “scuola
del lavoro” fondata in Germania da W. Kerschensteiner28, la cui
formazione deweyana è evidente nel richiamo alla manualità in
educazione, ritenuta una forza viva e umanizzante29. Il lavoro, attività
fondamentale dell’uomo, doveva essere, a parere del pedagogista, il
fulcro dell’attività infantile. Un lavoro serio e preciso, svolto in
Cfr. A. GOUSSOT, La scuola nella vita: il pensiero pedagogico di Ovide Decroly,
Erickson, Trento, 2005.
27Cfr. O. DECROLY, La classification des enfants anormaux, French Edition, 1900.
28 Cfr. P. SMITH, The History of American Art Education: Learning about art in American
Schools, Greenwood Press, Westport, 1996.
29 Cfr. M. GECCHELE, P. DAL TOSO (a cura di) Educazione democratica per una pace
giusta, Armando, Roma, 2010.
26
collaborazione con gli altri, dotato di valore produttivo anche se non
economico. All’attività manuale veniva riconosciuta non soltanto
funzione di orientamento e di formazione professionale ma, bensì, un
ruolo centrale nell’educazione etica e civile. Gli allievi della
Arbeitschule dovevano compiere operazioni quali misurare, pesare,
controllare, lavorando i prodotti con una precisione tale da ottenere, al
termine dell’attività, un prodotto uguale al modello e rivestente un
intrinseco valore spirituale più che commerciale. Il lavoro, però, non
era fine a se stesso ma assolveva un compito altamente educativo
poiché pienamente consapevole delle proprie finalità complessive. Per
conseguire tale fine le scuole dovevano dotarsi di laboratori e officine,
così come lo stesso Kerschensteiner attuò a Monaco allorquando fu
incaricato di approntare un organica riforma delle scuole professionali
post-elementari30.
1.3 Le scuole nuove negli Stati Uniti
Il movimento delle scuole nuove sin dalla nascita, e lungo tutto il corso
del suo svolgimento, è stato accompagnato da un intenso lavoro di
teorizzazione mirante ad evidenziare da una parte i fondamenti
filosofici e scientifici del movimento rinnovatore e dall’altra gli
obiettivi educativi fondanti che esso, oppostamente a ciò che la scuola
e la pedagogia tradizionale sostenevano, veniva invece affermando. Il
lavoro dei teorici, così come quello svolto operativamente dalle scuole
nuove, diede così origine al progetto di educazione attiva che attirò a sé
l’attenzione di insegnanti ed educatori di tutto il mondo. Le prime
Cfr. G. KERSCHENSTEINER, Begriff der Arbeitsschule, Leipzig, Eubner 4a edizione,
http://www.gutenberg.org/catalog/world/readfile?fk_file=711412&pageno=2
30
esperienze di scuole nuove rappresentano, pertanto, il germe e il
modello di ciò che il ginevrino Pierre Bovet (1878-1965) definirà
scuola attiva31.
Agli slanci di entusiasmo pedagogico e di intuizioni metodologiche
degli educatori europei gli Stati Uniti risposero con l’attenta opera di
sistemazione teorica di John Dewey che, certamente, fu il teorico più
illustre dell’educazione nuova, data la ricchezza ed il rigore filosofico
del suo pensiero che allargava il pragmatismo di W. James32 (18421910) al campo della logica e dell’educazione ed alle approfondite
conoscenze
in
campo
psicologico
sviluppate
partendo
dagli
insegnamenti di G. Stanley Hall (1844-1924). Tali basi, sempre
intrecciate ed interdipendenti, costituirono l’humus delle esperienze e
delle ricerche di Dewey sia come educatore che come studioso.
Dall’assunto che la conoscenza non è pura riproduzione ma
modificazione della stessa mediante il pensiero discende che è
possibile imparare solo attraverso esperienze originali che nessuno
può fare al posto di altri33. Da questi fondamenti derivano, in pratica, i
successivi sviluppi del movimento delle scuole attive.
L’attivismo pedagogico teorizzato da Dewey, che nel secondo capitolo
del presente lavoro riceve maggiore attenzione, si sviluppa nei testi
come nell’esperienza educativa attuata dal pedagogista nel 1896, con la
direzione della scuola elementare annessa all’Università di Chicago,
attraverso
un
radicale
rinnovamento
della
didattica
e
dell’organizzazione della scuola. La sua scuola venne chiamata scuola
laboratorio34 e la stretta connessione tra il conoscere e il fare ne
caratterizzò l’organizzazione e la didattica. Al centro delle attività
Cfr. P. BONNET, La libertà nell’educazione, R. FORNACA (a cura di), Paravia, Torino,
1975.
32 Cfr. G. FORNERO, S. TASSINARI, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano, 1998.
33 Cfr. G. S. HALL, Educational problems, Appleton and Company, N.Y., 1911.
34 Cfr. J. DEWEY, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1972. (7° ristampa).
31
svolte nella scuola laboratorio era posto il fanciullo con le sue
iniziative, legate ai suoi bisogni fisici, intellettuali e sociali ed ai suoi
interessi, costituenti la motivazione profonda di ogni apprendimento. Il
fanciullo, inoltre, “individuo sociale al pari dell’adulto”35 e, pertanto,
con interessi fondamentali legati alla vita sociale e all’ambiente umano
e produttivo che lo circonda, doveva poter vivere in una scuola attenta
e rispettosa delle peculiarità di questa fase della sua vita. Doveva
essere una scuola aperta alla comunità, ad attività, a valori, etc., in
grado anche di “semplificare la vita sociale esistente”36 riconducendola
“a forma embrionale”37. Gli alunni nella scuola di Chicago
collaboravano tra loro e con l’insegnante, prendevano contatto con
l’ambiente, lavoravano attorno a centri di interesse, governavano la
scuola, si dedicavano, a scopo di ricerca e di apprendimento, non di
produzione utilitaria, a lavori di ogni tipo traendo dalle “esperienze più
comuni, dirette e personali, i problemi, i moventi e gli interessi”38 che li
spingevano ad agire e a studiare. La scuola progettata da Dewey
appare come profondamente democratica39 sia in ambito didattico che
nell’organizzazione amministrativa. Gli insegnanti, infatti, partecipano,
in
modo
diretto
o
per
tramite
di
rappresentanti
scelti
democraticamente, “alla formazione dei fini direttivi, dei metodi e dei
materiali della scuola”40 in cui sono inseriti e di cui sono parte
fondamentale. La democrazia, in tal modo, viene appresa dai fanciulli
in modo naturale attraverso il comportamento di ciascuno, a tutti i
livelli,
in
sostanza
attraverso
l’organizzazione
democratica che si realizza all’interno della scuola.
Ivi, p.25.
Ivi, p.12.
37 Ibidem.
38 Ivi, p.13.
39 Ivi, p. 8.
4040 J. DEWEY, Scuola e società, op. cit., p. 9.
35
36
genuinamente
Le questioni psicologiche, etiche, politiche oltre che filosofiche e
pedagogiche analizzate da Dewey, per la varietà e la profondità degli
stimoli che offrivano, influirono profondamente sulla seconda
generazione di scuole attive che si svilupparono
nel nuovo e nel
vecchio continente subito dopo il primo conflitto mondiale. Talune
esperienze statunitensi ebbero il nome di piani, termine che meglio
evidenziava la coerenza esistente tra l’organizzazione scolastica e la
visione della vita. Così come la risoluzione dei problemi della vita di
ciascuno va affidata ad un lavoro di progettazione costante e rigoroso è
il pensiero, per i pragmatisti, l’organo per la soluzione dei problemi.
Nello
stesso
modo,
in
ambito
scolastico,
l’insegnamento
e
l’apprendimento assicurano risultati di gran lunga migliori se risultanti
da un’attività intenzionale volta al perseguimento di un fine.
Il Dalton Laboratory Plan41 (1920) elaborato da Helen Parkhurst
(1887-1973), che si era ispirata alle posizioni della Montessori (18701952), è indubbiamente tra i piani più significativi e conosciuti42. La
Parkhurst, che tentò di attuare il suo piano a New York in una
University School, fondava la sua esperienza su due idee fondamentali:
l’individualizzazione dell’insegnamento e la libera scelta del lavoro
scolastico, coniugando, in tal modo, l’esperienza personale, avvalorata
ed esaltata dalle scuole nuove, con la cultura della scuola tradizionale di
cui non modificava ne programmi né contenuti. Ciascun allievo della
scuola doveva organizzare nel proprio registro i piani e i tempi del
lavoro che si impegnava a svolgere secondo ritmi personali, non più
nelle classi ma nei laboratori di ciascuna disciplina, diretti da docenti
specializzati, che le sostituivano.
Cfr. E. DEWEY, The Dalton Laboratory Plan, BiblioLife, LLC, 2009.
Cfr. M MONTESSORI, Il metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione
infantile nelle Case dei Bambini, Loescher, Roma, 1935, III edizione.
41
42
Il Piano Dalton, certamente apprezzabile per la viva sensibilità che lo
caratterizza nei riguardi dei problemi dell’apprendimento individuale
e per il progetto di razionalizzazione del lavoro scolastico, risultava,
però, regolato da un’organizzazione che accentuava la specializzazione
degli spazi ma manteneva la frammentazione dei contenuti e la
conseguente gerarchizzazione delle discipline e, se pur attenta ai
problemi dello sviluppo individuale ed all’apertura della scuola al suo
interno, rischiava di costruirla come istituzione chiusa verso
l’esterno43.
Accanto all’esperienza della Parkhurst, ma soprattutto all’attivismo
pragmatico di Dewey, si situa l’iniziativa di William H. Kilpatrick
(1871-1954) che, pur essendo un teorico dell’educazione, si è occupato
anche di didattica elaborando un metodo, noto come Projects Method44,
che ha incontrato ampia adesione sia in America che in Europa. Nel suo
Metodo dei progetti (1918) W. H. Kilpatrick interpretò autenticamente i
principi teorici di Dewey, traducendoli adeguatamente in pratica
attraverso l’insegnamento nella scuola primaria e secondaria.
“Dobbiamo praticare ciò che vogliamo imparare. Noi impariamo le
risposte che creiamo. E’ necessario esercitarsi”45. Da qui l’intimo
rapporto tra esperienza e apprendimento dei mezzi corretti per
risolvere un problema. Il progetto è “un programma di lavoro da
realizzare mediante una serie di attività pratiche che hanno la loro
ragion d’essere proprio nel fine concreto cui tendono. Esso si sviluppa
in varie forme: da quella del produttore (che riveste il ruolo nell’attività
pratica) a quella del consumatore (o estetica), da quella del problema
(connessa all’esecuzione intelligente di un compito) a quella di
Cfr. H. PARKHURST, L’educazione secondo il piano Dalton, (a cura di) F. FRABBONI, La
Nuova Italia, Firenze, 1992.
44 Cfr. H. KILPATRICK, The Project Method: the use of the purposeful ACT in the Educative
Process, Kessinger Publishing Co, Whitefish, Montana, USA, 2010.
45 Ibidem, p. 59.
43
addestramento (come progetto di apprendimento specifico). Nulla
impedisce che tali forme, o solamente alcune di esse, si integrino in un
piano complessivo. La classe, inoltre, partecipa interamente al lavoro
comune e ciò determina che anche l’educazione socio-affettiva si attua,
in modo naturale ed efficace, attraverso le interazioni connaturate alle
attività svolte.
Il sapere e la scienza, oltre che l’educazione, sono intesi, in tale visione,
come processo non come possesso e quindi si conquistano come
invenzione (invention) e non come trasmissione, come perseguimento
(pursuit) e non come distribuzione, come scoperta (discovery) e non
come ricezione (reception). Nella proposta di Kilpatrick attivismo e
cognitivismo si intrecciano e si sviluppano secondo il modello di una
più matura lezione deweyana articolandosi in modo equilibrato.
Ideatore di un piano fu anche Carleton W. Washburne (1889-1968) che
organizzò, nei dintorni di Chicago, le celebri scuole di Winnetka nelle
quali, tramite un sistema di libero raggruppamento degli alunni,
sostituendo quindi classi e gruppi prestabiliti, e tramite un programma
parimenti libero, sviluppò un insegnamento individualizzato. Il piano
di Winnetk)46 (1920) fu elaborato da C. Washburne applicando
procedimenti scientifici rigorosi al controllo sperimentale dei risultati
del suo metodo educativo, ispirato alle idee di Kilpatrick e di Dewey
sull’educazione individuale e sociale.
Le scuole di Winnetka si ispirarono a questi principi: 1) “Ciascun
fanciullo ha il diritto di procurarsi le conoscenze e le tecniche che gli
saranno indubbiamente necessarie nella vita”47; 2) “Ogni ragazzo ha il
diritto di vivere naturalmente, giocondamente e pienamente la sua vita
46
47
Cfr. C. WASSHBURNE, Le scuole di Winnetka, La Nuova Italia, Firenze, 1964.
Ivi, p. 21.
infantile”48; 3) “Il progresso umano è in funzione dello svolgimento
integrale delle capacità di ogni individuo”49; 4) Il bene della collettività
umana esige lo svolgimento in ogni individuo di una coscienza sociale
viva”50. E’ da tali principi ispiratori che derivano sia l’elaborazione del
programma che la sua articolazione e il relativo adeguamento
didattico. Una volta stabilite le linee generali, valide per tutti e
costituenti il livello minimo di base, i particolari ed il loro sviluppo
vendono adeguati alle peculiarità di ciascun allievo. Pur seguendo le
modalità di apprendimento individuali di ciascun educando, il
controllo
dell’acquisizione
sicura
e
permanente
delle
abilità
strumentali risultava molto rigoroso. Le scuole di Winnetka, inoltre, si
attestarono non già come un esperimento compiuto e definito, ma,
bensì, come un laboratorio di ricerca didattica attento alle diverse e
nuove soluzioni che si delineavano in relazione ai crescenti problemi
dell’insegnamento.
1.4 Le scuole nuove in Europa dopo il conflitto bellico
All’indomani del primo conflitto bellico l’Europa appare disseminata di
scuole che, pur definendosi nuove, in verità poco o nulla avevano in
comune con il modello originario, ovvero quello della prima
generazione di scuole nuove, e che, pertanto, non lasciarono vestigia
rilevanti della loro presenza.
Elemento determinante nel contenere la proliferazione incontrollata e
nel migliorare la qualità delle scuole nuove fu, certamente, il quadro di
riferimento, pedagogicamente valido e sicuro, elaborato dalla Ligue
Ibidem.
Ivi, p. 23.
50 Ivi, p. 24.
48
49
Internationale pour l’Education Nouvelle
(LIEN) ed esplicitato nei
Trenta principi fissati a Calais nel 192151. La Ligue aderì al Bureau des
Ecoles Nouvelles (BIEN) fondato a Ginevra da Adolphe Ferrière che fu
l’eclettico e attivo sostenitore e diffusore del movimento de L’école
active52 (1922).
La Russia post-rivoluzionaria, carica delle tensioni, delle speranze di
costruzione di un <ordine nuovo>, degli entusiasmi verso una
trasformazione dell’uomo in direzione di un forte impegno sociale, fu
penetrata dagli influssi di diverse esperienze educative, fra tutte quella
tedesca di Kerschensteiner e quella della scuola americana teorizzata e
attuata da Dewey, che risultano evidenti nell’attività pedagogica di
Anton Semeovic Makarenko (1888-1939) e nelle sue concrete
esperienze educative attuate all’interno di colonie, a contatto con
ragazzi abbandonati da rieducare e da risocializzare. Attraverso la
direzione della colonia Gorkij, il pedagogista ucraino, elaborò gli aspetti
essenziali della sua pedagogia individuati nel principio del collettivo del
lavoro e in quello del lavoro produttivo53.
Il collettivo del lavoro è un “vivente organismo sociale”54 posto al
contempo come mezzo e come fine dell’educazione. E’ un “complesso
finalizzato di individui”55 legati fra loro “mediante la comune
responsabilità sul lavoro e la comune partecipazione al lavoro
collettivo”56. Ciascun individuo, all’interno del collettivo, assolve
compiti e assume responsabilità, regola il suo comportamento secondo
norme disciplinari di cui è garante egli stesso e collega il proprio lavoro
a “linee di prospettiva” che congiungono il collettivo alla più vasta
51Cfr.
M. RUMI Metodologia e didattica, in L. VOLPICELLI, La pedagogia, vol. 10, Vallardi,
Milano, 1975.
52Cfr A. FERRIÈRE, L’ecole active, ,Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1969 (1920).
Cfr. A. S. MAKARENKO, La pedagogia scolastica sovietica, Armando, Roma, 2007.
54Ivi, p.74.
55 Ibidem.
56 Ibidem.
realtà sociale e politica. Il collettivo, con al vertice un direttore, era
articolato in collettivo dei ragazzi, divisi a loro volta in collettivi di base
per consentire un adeguato sviluppo delle attitudini e delle
caratteristiche individuali oltre che una partecipazione concreta agli
obiettivi di crescita di tutta la comunità, e collettivo degli insegnanti.
Dalla consapevolezza del collettivo di essere inserito nella società e di
partecipare pienamente al suo sviluppo, nasce il lavoro produttivo. Tale
lavoro occupava metà della giornata scolastica. L’allievo, che doveva
“diventare cittadino, capace di lavorare, utile, qualificato, formato e
politicamente istruito ed educato, lottatore, attivo, creativo”57, era
considerato soggetto e non oggetto dell’educazione e tutte le materie di
studio erano insegnate con metodi attivi.
Tra le esperienze emergenti dal filone europeo delle scuole attive
quella di Roger Cousinet (1882-1973) si contraddistinse per gli aspetti
di scientificità fondanti la sua proposta. Il lavoro libero per gruppi58,
metodo didattico teorizzato dal pedagogista, stimola fruttuosi ed utili
rapporti di collaborazione dei soggetti e può essere finalizzato sia alla
conoscenza (lavoro scientifico, storico, geografico, matematico,
linguistico)
sia
nell’attività
creativa
che
implica
manualità
(giardinaggio, allevamento, lavorazione di materiali, ecc.), riflettentesi
sul piano dell’apprendimento. In tale concezione educativa i luoghi e le
caratteristiche delle attività scolastiche assumono l’aspetto di veri e
propri laboratori. Tale esperienza fu attuata da R. Cousinet,
nell’immediato dopoguerra, a Vence, dove il lavoro manuale degli
allievi rivestiva un compito di rilevante importanza come esercizio di
collaborazione con gli altri, come motivazione all’impegno, come
superamento della subordinazione e della dicotomia tra lavoro
57
58
A. S. MAKANENKO, La pedagogia scolastica sovietica, cit., p.80.
Cfr. R. COUSINET, Il lavoro libero per gruppi, La Nuova Italia, Firenze, 1967.
intellettuale e lavoro manuale. Il lavoro di base era svolto in quattro
laboratori: 1) lavoro nei campi e allevamento; 2)filatura, tessitura,
cucito e cucina; 3) costruzione, meccanica; 4) commercio.
I laboratori di ricerca e documentazione, sperimentazione, creazione,
espressione e comunicazione grafica e di creazione, espressione e
comunicazione artistica erano predisposti per “l’attività evoluta,
socializzata, intellettualizzata”59 degli allievi.
L’ambiente educativo creato secondo il metodo di Cousinet mette il
soggetto in condizione tale da poter affrontare diversi problemi,
cercare soluzioni adeguate attraverso la manipolazione di oggetti,
rielaborando la propria esperienza con gli strumenti della cultura
formale al fine di “ ricostruire l’unità funzionale di pensiero e lavoro”60.
Il panorama innovativo delle scuole nuove e dei metodi didattici in esse
realizzati trova completamento nell’esperienza ricca di suggestioni e di
sviluppi di Cèlestin Freinet (1896-1966), promotore di un metodo
didattico basato sulla cooperazione ed incentrato nell’uso della
stamperia nella scuola61.
La scuola ideata da Freinet si caratterizza in scuola cantiere in cui
l’esperienza infantile, intesa dal pedagogista come un’andare a tentoni
(tâtonnement) sollecitato dai bisogni propri del fanciullo e nutrito dalle
tecniche e dalle acquisizioni elaborate nel tempo dalla collettività,
trova orientamento e arricchimento attraverso un lavoro, concepito
come lavoro-gioco, realizzato collaborativamente con gli altri fanciulli.
Il lavoro scolastico ruota attorno a due elementi cardine: il testo libero
scritto dal bambino, che liberamente sceglie sia il momento che il
soggetto cui ispirarsi, e la stamperia, che consente la creazione di un
R. COUSINET, L’educazione nuova, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1953, p. 33.
R. COUSINET, Il lavoro libero per gruppi, cit., p. 56.
61 Cfr. D. CLANFIELD, J. SIVELL, Cooperative Learning and Social Change: Selected
writings of Céelestin Freinet, La Maîtresse d’école Inc. Montréal, Québec, 1990.
59
60
giornalino di classe e, attraverso esso, la comunicazione con l’esterno
della scuola. Tutta l’attività della scuola viene ad incentrasi così intorno
al giornalino di classe stimolando, altresì, l’apprendimento di tecniche
e discipline ad esso collegate62.
1.5 Evoluzione delle scuole nuove e proposte di laboratorio dal
“dopo Dewey” ad oggi.
L’itinerario compiuto attraverso l’esperienza deweyana della scuola
laboratorio, i cambiamenti apportati in ambito pedagogico e didattico
dalla sua concezione dell’educazione, il movimento creatosi attorno
all’attivismo, l’influenza di esperienze stimolanti e ricche di sviluppi
come quella di Freinet, i cui principi ispiratori abbiamo constatato
essere alla base della scuola di Chicago, rappresentano e contengono,
certamente, le prospettive pedagogiche e le ipotesi metodologiche
fondanti l’attuale proposta dei laboratori. Proposte ed ipotesi che
hanno radicalmente rivoluzionato e rinnovato il modo di fare scuola,
ripensando e rifondando in modo nuovo il rapporto docente-discente,
aprendo la strada a continue revisioni e innovazioni che, seppure lente,
sono state e continuano ad essere ancora oggi costanti e inarrestabili.
Pur tuttavia, per diverse ragioni, alcune integrazioni sull’argomento
laboratori si rendono necessarie: per la loro intrinseca importanza
(rivestita), per il collegamento che hanno e mantengono con le
esperienze precedenti, per la necessità di adeguare la proposta dei
laboratori all’attuale situazione storico-sociale che, se privata di tali
integrazioni, risulterebbe mutila e non rispondente alle attese ed alle
esigenze.
62
Ivi, pp. 40-47.
Le più indicative tra queste sono senza dubbio da annoverare tra le fila
di quel movimento che, sulla fine degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti
prima e susseguentemente in Europa, sottopose l’attivismo ad una
radicale e drastica revisione. Tale revisione traeva motivazione dalle
accuse mosse al movimento attivistico, e in particolare agli eccessi di
puerocentrismo imputati alla scuola di impronta deweyana, di essere
responsabile della formazione insoddisfacente delle nuove generazioni
per quel che riguarda l’educazione scientifica e di aver consentito,
attraverso
l’esaltazione
dell’educazione
attiva,
della
ed
manualità,
un’eccessiva
elemento
libertà
del
cardine
discente,
l’abbandono delle finalità essenzialmente culturali e cognitive della
scuola.
Sin dall’inizio degli anni Sessanta, pertanto, si è avviato un lento ma
inarrestabile tramonto dell’attivismo di cui, in tale azione di messa in
disparte, si trascuravano i punti di forza: valorizzazione della
psicologia infantile come elemento fondamentale di ogni processo
educativo, elaborazione del rapporto dialettico che lega l’educazione
alla società e alla politica, ecc., sostituito, sul terreno della pedagogia,
da indirizzi di tipo cognitivo e tecnologico, ispirati allo strutturalismo e
alla cibernetica63.
Il movimento contestatore dell’educazione nuova, al converso,
proponeva una riforma del curricolo scolastico che rivalutasse la
serietà dei contenuti e della preparazione scientifica mediante un
miglioramento della qualità dell’istruzione.
Fra i numerosi psicopedagogisti, psicologi e scienziati che hanno
contribuito
in
modo
determinante,
attraverso
ricerche
e
sperimentazioni, al dopo Dewey64 è da menzionare Jerome Seymour
63
64
Cfr. M. MALDONATO, Psicologia della comunicazione, Ellissi, Napoli, 2002.
Cfr. J. S. BRUNER, Dopo Dewey, Armando, Roma, 1978.
Bruner
(1915-vivente),
psicopedagogista
statunitense,
attento
studioso dei processi cognitivi, influenzato da Piaget (1896-1980) e da
tutta la psicologia cognitivista di cui è lui stesso esponente
rappresentativo, i cui principi tradusse nella pedagogia.
Per Bruner l’apprendimento non è assimilazione passiva, in senso
mnemonico e ripetitivo, ma attività, riscoperta, esplorazione integrata
dalla convinzione che “di ogni capacità e conoscenza esiste
un’adeguata versione, che può venire impartita, a qualsiasi età si
desideri cominciare l’insegnamento, per quanto iniziale e preparatoria
tale versione possa essere”65. Ciò a significare che la medesima
struttura concettuale può essere risolta in un’esperienza di natura
attiva, piuttosto che iconica o simbolica. Deriva da qui la ricerca per
una razionalizzazione dell’insegnamento che ristabilisca nella scuola la
priorità dell’educazione intellettuale anziché della socializzazione66.
Con
riferimenti
allo
strutturalismo
piuttosto
che
al
comportamentismo67 si indirizza la ricerca e l’attività di Benjamin S.
Bloom (1913 1999), autore di una pedagogia degli obiettivi scolasticoeducativi individuati nelle due aree: conoscitiva e affettiva68. La
classificazione degli obiettivi cognitivi, elaborata in collaborazione con
il suo gruppo, si profila come strumento di valutazione oggettiva e
confrontabile, alla fine della scuola secondaria, dei livelli di
raggiungimento degli stessi obiettivi da parte degli studenti, preparati
in situazioni e con percorsi diversi. In tale direzione ha anche operato
la
metodologia
del
mastery
Learning69
(apprendimento
per
padronanza), un metodo di didattica individualizzata, su misura degli
J. BRUNER, Il pensiero: strategie e categorie, Armando, Roma, 1969 (trad. it) , p.24.
Ivi, p. 19.
67Cfr. D. FONTANA, Il controllo della classe. Come capire e orientare il comportamento
degli alunni, Armando, Roma, 2001.
68Cfr. B.S BLOOM, Tassonomia degli obiettivi educativi. La classificazione delle mete
dell’educazione. Vol. I, Giunti & Lisciani Editori, Firenze 1986.
69 Cfr. D. P. AUSUBEL, Educazione e processi cognitivi, Franco Angeli, Milano, 2004.
65
66
allievi, per portare quanti più possibile di loro al raggiungimento della
maggioranza degli obiettivi mediante il miglioramento della qualità
dell’istruzione.
Tale
obiettivo
è
raggiungibile
attraverso
una
pianificazione attenta dei singoli interventi (unità didattiche) e la
predisposizione, nel caso di risultati insoddisfacenti, di percorsi diversi
per metodi e strumenti.
Appare evidente, nonostante la brevità e l’incompletezza di queste
note, utili comunque per rilevare alcuni degli elementi che formano il
quadro pedagogico e metodologico dei laboratori, che il percorso
compiuto dalla pedagogia cognitivistica ha, senza dubbio, generato un
rinnovamento
radicale
nell’ambito
della
pedagogia
scolastica.
Rinnovamento che se da una parte l’ha resa più efficace dall’altra ha
qualificato la pedagogia in senso istruttivo, spostando l’asse sui
processi d’apprendimento e assegnandole un ruolo fondamentale nelle
società industriali avanzate, caratterizzate dalla crescita delle
informazioni e dalla diffusione delle tecnologie.
Certo nessuno degli educatori menzionati in questo excursus ha
proposto un modello di laboratorio soddisfacente in tutti gli aspetti,
soprattutto se si considera la mutata situazione storico-sociale della
scuola attuale. Pur tuttavia in ciascuno di codesti autori e nei metodi da
loro elaborati, è possibile cogliere riflessioni pedagogiche e proposte
metodologico-didattiche non soltanto ancora valide ma condivisibili e
realizzabili, siano esse la scientificità, l’umanità, la prospetticità, la
socializzazione, l’individualizzazione, etc. Si configura così una scuola su
misura dell’allievo ed adeguata alla sua individualità. Contraddistinta
sul piano metodologico dal fare, in forma di attività motoria, verbale,
intellettuale, operativa; dall’interesse dell’allievo verso il proprio
lavoro; dall’integrazione attuata tra intellettualità e manualità; con una
didattica fondata sull’intuizione, sull’espressività, sull’autocorrezione e
sul mutuo insegnamento, sulla ricerca e la sperimentazione, etc.
A tali caratteristiche, presenti implicitamente o esplicitamente in tutto
il discorso sui laboratori, sono da aggiungere le integrazioni di
educatori,
pedagogisti,
psicologi,
insegnanti
che
alimentano,
vivacizzano e attualizzano il dibattito sull’argomento che, però, può
generare fraintendimenti.
La parola laboratorio ha rischiato e rischia, infatti, di essere
impugnata-ideologizzata-deformata da un variopinto esercito sia di
sostenitori che di detrattori di questo modello organizzativo di scuola.
Dai fautori del no categorico, interessati ad una scuola che privilegi e
perpetui la prassi trasmissivo/ripetitiva di acquisizione delle
conoscenze da parte degli allievi agli acritici sostenitori del sì
plaudente, auspicanti l’organizzazione di una scuola tutta laboratori,
trascurando l’alfabetizzazione primaria che si attua nell’aula
tradizionale. Il discorso sull’argomento va invece inquadrato in una
proposta di scuola più ampia, organica e coerente in tutti i diversi
aspetti, non quindi laboratori come elemento episodico e isolato da
qualsiasi contesto e, ancor meno, laboratori come propaganda per
suscitare entusiasmi ed acquisire facili consensi, ma laboratori come
proposta innovativa che consideri attentamente sia le dinamiche
interne alla scuola che le dinamiche esterne, interagendo con
l’extrascuola, con il sociale nel suo complesso, che tanta importanza
riveste nel processo educativo. In tale direzione si è mossa, a partire
dagli anni Cinquanta, la riflessione e la sperimentazione di Francesco
De Bartolomeis. Sperimentazione originata da un’attenta riflessione sui
principi della scuola attiva70, dall’adesione del pedagogista all’attivismo
70Cfr.
F. DE BARTOLOMEIS, Che cos’è la scuola attiva:il futuro dell’educazione, Loescher,
Torino, 1958.
pedagogico europeo, dal riconoscimento di Dewey come teorico fra i
più significativi della <rivoluzione copernicana> che si stava
realizzando nel campo dell’educazione71.
La prima concretizzazione dell’idea dei laboratori in De Bartolomeis
avviene, sebbene in modo episodico e modesto, nelle Università di
Firenze e di Pisa, ma trova continuità vent’anni dopo, nel 1972,
all’interno dell’Istituto di Pedagogia di Torino.
L’intento della sperimentazione risiedeva nella possibilità di trarre
dagli esperimenti che venivano fatti dagli studenti dell’Istituto, e dalla
conseguente sistemazione teorica degli stessi esperimenti, materiale
sufficiente per elaborare una teoria dei laboratori fondata su una
“concezione produttiva e sociale della cultura”72 capace di avviare
innovazioni nella scuola ordinaria. Innovazioni che il pedagogista pone
in stretto rapporto con la politica socio-culturale del tempo,
assegnando, per tale ragione, adeguata importanza ai temi emergenti
nella società: rapporto studio/lavoro, conversione del lavoro in
servizio sociale, formazione professionale come qualificazione della
formazione sociale coerentemente con il concetto di cultura
produttiva73.
La produttività dei laboratori non rimane, pertanto, confinata al loro
interno, legata ad obiettivi di natura esclusivamente scolastica, ma
coinvolge la realtà extrascolastica attraverso la trattazione di temi
politici, economici sociali, che trasformano i laboratori in luoghi di
progettazione, di ricerca, di iniziative da realizzarsi anche al di fuori
delle istituzioni scolastiche74.
Ivi, p. 23.
F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori, per una scuola nuova necessaria e
possibile, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 285.
73 Ivi, p. 283.
74Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo integrato, La
Nuova Italia, Firenze, 1983.
71
72
Ma è il collegamento in Sistema75 l’elemento di novità dei laboratori De
Bartolomeis, collegamento determinato dalla interdisciplinarità (anche
se tale carattere interdisciplinare nasce dalla natura del tema della
ricerca da effettuare e non da un’estrinseca corrispondenza di
discipline diverse), dall’impossibilità di conoscere, anticipatamente, di
quale laboratorio necessiterà la ricerca nel corso del suo svolgimento,
dalla necessità di ordinare le molteplici attività attraverso una
programmazione che consenta di evitare situazioni di disordine, di
confusione, di frammentazione.
L’idea di una scuola con struttura a laboratori, fondata sull’esigenza di
rendere congruenti l’apprendimento e la produzione con la
metodologia della ricerca, nasce e si convalida in De Bartolomeis non
solo per la novità che nel campo dell’apprendimento una tale struttura
comporta e rappresenta, ma anche dalla necessità di evitare la
duplicazione delle aree (aule e locali specializzati) e la conseguente
sottoutilizzazione degli spazi, oltre che dalla possibilità di realizzare
una collaborazione tra gli insegnanti e una mobilità tra gli studenti
capace di consentire il raggiungimento di obiettivi non esclusivamente
didattici.
In questa direzione si colloca la proposta di scuola a nuovo indirizzo76
teorizzata da Franco Frabboni, i cui riferimenti dottrinali e ideologici
sono indicati nella pedagogia democratica, progressiva e popolare di
casa nostra (Lamberto Borghi, Raffaele Laporta, Aldo Visalberghi,
Francesco De Bartolomeis, E. Becchi, Bruno Ciari, et al.). Pedagogia di
chiara ascendenza attivistica e deweyana, che non deve rimanere
monopolizzata e confinata nei <centri accademici> ma che, al fine di
Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori…, cit.
Cfr. F. FRABBONI, Scuola maggiorenne. Scuola dell’infanzia e nuovi contesti educativi,
Sansone Saggi, Torino,1980.
75
76
determinare <contenuti e metodi della ricerca/sperimentazione
scientifica>, interagisce con la scuola militante e con la società civile.
Il nuovo indirizzo non ignora né cancella la tradizione educativa
italiana, disconoscendo il suo patrimonio storico e scientifico più
autorevole ma, bensì, “attualizza e problematizza i modelli (teorici e
operativi) della scuola dal rigoroso profilo pedagogico”77 in una
stagione, quella di transizione verso il duemila, contraddistinta dalle
<esigenze educative> e dai <bisogni di conoscenza> di bambini sempre
più attratti, quasi rapiti, dal mondo della multimedialità.
Le peculiarità pedagogiche e didattiche , <attributi qualitativi>, per
Frabboni, del modello elaborato sono sintetizzabili, per quel che
riguarda
l’architettura
pedagogica,
nella
storicizzazione
e
nell’attualizzazione del ruolo sociale e dello spessore cognitivo della
scuola,
per
quel
che
attiene
all’organizzazione
didattica
nell’ampliamento delle occasioni di socializzazione, traffico sociale, e
delle occasioni di alfabetizzazione, traffico cognitivo, basate sulla
ricerca e la creatività.
L’attuazione di tale modello a nuovo indirizzo, secondo Frabboni, passa
necessariamente
attraverso
il
cambiamento
della
tradizionale
composizione organizzativa della scuola, basata sull’aula/classe come
isola didattica autosufficiente, a favore dei laboratori aventi sede sia
all’interno che all’esterno dell’edificio scolastico (ovvero bastati su una
rete di laboratori sia scolastici che territoriali)78.
E’ da sottolineare che il concetto di laboratorio trova sviluppo nel
pedagogista sia come idea pedagogica che come prassi didattica. Per
entrambe le idee viene infatti elaborata una <carta d’identità>: per la
prima, teorica, con i suoi contrassegni teleologici e le sue finalità
77
78
Ivi, p. 22.
Ibidem.
formative; per la seconda, metodologica, con i suoi contrassegni
strategici e le sue finalità didattiche79.
La progettazione e la realizzazione di una scuola organizzata in
laboratori vuol dire riflettere criticamente sul rapporto fra soggetti e
oggetti della conoscenza, interrogarsi sulle logiche disciplinari e
sull’incontro–scontro fra quelle logiche e i bisogni, la dimensione
socio-affettiva, i processi cognitivi di cui gli allievi sono portatori.
Significa, inoltre, condurre il ruolo della scuola a luogo dell’imparare ad
imparare, a spazio attivo di ricerca e non momento informativo di un
sapere definito a priori.
Le coordinate metodologico–didattiche del modello a nuovo indirizzo si
qualificano, pertanto, come razionali in quanto formano un sistema
logicamente coerente ed equilibrano i processi di socializzazione
(scuola con stile comunitario e cooperativistico, collegata all’ambiente
sociale) e di apprendimento ( ad iniziare dall’ambito delle esperienze e
degli interessi dell’allievo, conquista di competenze, padronanze,
abilità cognitive: linguistiche, logiche, percettivo/motorie ecc.)80.
79
80
Cfr. F. FRABBONI, La didattica. Motore della formazione, Pitagora, Bologna. 1999.
Ibidem.
CAPITOLO SECONDO
LA SCUOLA-LABORATORIO DI DEWEY: ALLE ORIGINI DEL
PROBLEMA
2.1 La teoria educativa di John Dewey
Erede spirituale di James e maggiore sostenitore del movimento
pedagogico delle scuole progressiste negli Stati Uniti John Dewey81 è
considerato il filosofo e pedagogista più significativo della prima metà
del XX secolo. La sua carriera ha incrociato tre generazioni e la sua
voce è risuonata nel dibattito culturale sia negli USA che all’estero. Egli
ha attraversato alcuni importanti passaggi della cultura e della vita
politica statunitense dalla guerra di secessione fino al 1952, anno della
sua morte, in un periodo caratterizzato dalla guerra fredda e
dall’affermazione dell’energia nucleare come paradigma tecnologico e
culturale dell’epoca. La vastità, la complessità e la ricchezza del
pensiero e dell’esperienza di Dewey si possono evidenziare
analizzando la confluenza tra filosofia, educazione e politica82, il cui
punto di incontro teoretico emerge in maniera significativa nella sua
81John
Dewey nasce a Burlington, nel Vermont, il 20 Ottobre del 1859, dopo aver
conseguito la laurea a Burlington insegna nell’Higt School di Oil City in Pensilvanya e,
successivamente, nel 1884 consegue il dottorato presso la John Hopkins University di
Baltimora, dove ha per maestri George Sylvester Morris, Stanley Hall e Charles Sander
Pierce. Morris lo chiama presso l’università del Michigan dove diventa Professor of
Philosophy. Il periodo 1888-1889 lo vede impegnato per un semestre all’università del
Minnesota. Durante il decennio trascorso all’università del Michigan sposò Harriet Alice
Chipman nel 1886 da cui avrà sette figli (uno dei quali di nazionalità italiana fu
adottato). Nel 1894 è nominato Professor of Philosophy e Chairman del Department of
Philosophy, Psychology and Education presso l’Università di Chicago dove rimane fino al
1904 e dove tra il 1896 ed il 1903 organizza la nota scuola laboratorio, altrimenti detta
“scuola di Dewey”.
82Cfr. G. SPADAFORA, Studi deweyani, Quaderni della Fondazione Italiana John Dewey,
Cosenza, 2006.
opera Democrazia e Educazione83, nella quale l’obiettivo ambizioso e
complesso che si prefigge l’autore è quello di rivoluzionare il sistema
educativo attraverso la teoria dell’<<educazione progressiva>> la cui
filosofia educativa, messa in opera nella scuola laboratorio di Chicago,
esigeva l’unità di teoria e pratica. Unione sempre perseguita dal
filosofo sia col suo impegno di intellettuale ed attivista politico, il cui
pensiero si fondava sulla convinzione morale che <<la democrazia è
libertà>>84 e sia dedicando attenzione alla costruzione di un
argomento filosofico persuasivo ed al perseguimento di un attivismo
che avrebbe assicurato la sua realizzazione pratica85.
L’ampio ed articolato pensiero deweyano è rintracciabile nelle sue
biografie86 che dagli anni Novanta consentono di comprendere i legami
tra la sua filosofia ed i cambiamenti culturali87 e politici88 del tempo.
All’inizio della sua riflessione, nel fondamentale scritto sull’etica The
Ethics of Democracy89, Dewey costruisce la sua teoria pragmatista, da
alcuni considerata strumentalista, nella quale stringe in un unicum la
filosofia, l’educazione e la realizzazione della democrazia90.
Il suo pensiero educativo risulta, dunque, fortemente intrecciato con
l’elaborazione filosofica dalla quale fa derivare i concetti fondamentali,
83Cfr.
J. DEWEY, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
J. DEWEY, 1892. Christianity and democracy, in The early works of John Dewey,
Carbondale, II, Southern Illinois University Press, 1971, vol. 4, p. 3-10.
85 J. DEWEY, Reconstruction in Philosophy (1920), in The Middle Works, vol. 12, p. 94; Id.
Christianity and democracy (1892), in The Early Works, vol. 4, p. 8.
86A questo proposito, cfr.: R. BARTON PERRY, Dewey as Philosophy, in John Dewey at
Ninety, 1950; W.H. KILPATRICK, Il contributo di John Dewey, in The Phi Delta Kappan, n.
3, Vol. XXXI, 1949, p. 150; W. REUTHER, Il novantesimo compleanno di John Dewey, in
“The Elementary School Journal”, n. 31 Vol. I, 1949, pp. 127-128.
87Cfr. S. J. MARTIN, The Education of John Dewey, Columbia University Press New York,
2002.
88Cfr. R.B. WESTBROOK, John Dewy and America Democracy, Cornell University Press,
Ithaca, 1991.
89Cfr. J. DEWEY, The Ethics of Democracy, in The Early Works, CarbondaleEdwardswille, Southern Illinois University Press, 1969, vol. I.
90Cfr. L. HICKMAN, G. SPADAFORA, John Dewey’s Educational Philosophy in International
Prospective, Carbondale, SIUP, 2009.
84
caratterizzandoli mediante un costante sviluppo verso prospettive
sempre più ampie ed organiche, ma comunque pronte ad essere riviste
per accrescerne le posizioni raggiunte. L’impegno pedagogico ha
accompagnato tutta la sua articolata produzione portandolo a
maturare un progetto operativo radicalmente innovatore in campo
scolastico e didattico. Molte delle sue opere dedicate all’educazione
rivelano una elaborazione pedagogica attenta ai problemi della società
industriale moderna ed alle istanze di promozione umana tipiche di
molta pedagogia contemporanea.
Per ben comprendere il pensiero deweyano è utile richiamare, sia pur
brevemente, quella fase storica contrassegnata da sostanziali
cambiamenti sociali ed economici che trasformarono modelli di vita e
di cultura immediatamente antecedenti alla nascita del Nostro ed
ancora in atto nel periodo delle sue riflessioni.
Durante il 1700 la nuova scienza sperimentale aveva fatto registrare
significativi sviluppi, ed un ufficio importante era stato svolto dalle
Accademie e dalle società scientifiche presenti prevalentemente nei
paesi in cui più era avvertita la necessità di una applicazione del
rinnovamento e delle scoperte legate alla produzione.
Rilevanti furono i progressi nel campo della cultura che, oltre alla
ricerca dell’identità nazionale, percepiva la necessità di progetti di
riforma relativi all’organizzazione della scuola e dei suoi programmi di
studio e di un maggiore riconoscimento, sia sociale che politico del
valore dell’educazione. In questo periodo le nuove teorie pedagogiche
si fecero più attente all’infanzia, vista come età specifica della vita, e si
sviluppò una considerazione nuova verso di essa. L’educazione venne
vista come primaria esigenza umana che si prefiggeva lo scopo di
insegnare a pensare. Un esempio di ciò è rappresentato dal progetto
educativo di Herder91 rivolto alla formazione integrale dell’uomo.
Nel corso dell’Ottocento la pedagogia era considerata una pratica
fondata sull’etica, sulla filosofia, sulla teologia o su considerazioni
psicologiche di tipo empirico. Con Dewey si comincia a considerarla
una scienza affrancata dai contributi di altre scienze, ad esempio dalla
psicologia, in particolare per quanto attiene l’aspetto degli effetti
collaterali dell’apprendimento, e dalla sociologia, relativamente allo
studio dei rapporti fra istituzione scolastica e società.
Negli anni compresi tra il 1850 ed il 1950 la riconsiderazione
dell’infanzia raggiunge il suo apice. L’America rappresentò il paese
dove si sviluppò, più che altrove, un’ analisi attenta di questa fase della
crescita e dove, durante questi anni, furono condotti, con successo,
notevoli tentativi per allontanare bambini dalle fabbriche e fornir loro,
oltre all’insegnamento, forme idonee di gioco, di vestiario, di
letteratura, che consentisse loro di costituire un proprio specifico
mondo sociale. Da questa attenzione derivarono moltissime situazioni
nelle quali i fanciulli venivano visti qualitativamente diversi dagli
adulti che ideavano per loro una condizione di privilegio e di
protezione dalle insidie dell’adultità. È il periodo in cui prende forma il
tipo moderno di famiglia in cui, secondo la cronologia di Lloyd de
Mause92, prevalgono nei genitori quei meccanismi psicologici che
determinano verso i figli atteggiamenti più intensi di empatia,
tenerezza e responsabilità giungendo (De Mause, 1975; Freud, 2011;
Rouseeau, 1994) a definire l’infanzia come un preciso stadio biologico
piuttosto che un effetto della cultura.
Cfr. J. G. HERDER, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità,
Einaudi, Torino, 1971.
92 Cfr. L. DE MAUSE, The evolution of childhood, in Lloyd de Mause, ed., The History of
Childhood, New York: Psychohistory Press, 1975.
91
È interessante rilevare che alla fine del XIX secolo due uomini, nello
stesso anno, il 1899, pubblicarono la loro opera più significativa
sull’argomento e che ciascuno produsse una riflessione sul modo
possibile di stabilire un equilibrio tra le esigenze della civilizzazione e
la natura del fanciullo. Ci riferiamo a Sigmond Freud con
L’interpretazione dei sogni93 ed a John Dewey, con The School and
Society94 nei quali, entrambi, rappresentavano una sintesi e un’analisi
del cammino dell’infanzia dal XVI al XX secolo. Freud, su premesse di
diversa natura scientifica, sosteneva che la mente dei bambini ha una
sua struttura e un contenuto specifico e che nello sforzo che essi
compiono per conseguire la maturità dell’età adulta devono superare,
sviluppare e idealizzare le loro passioni istintive. Richiamandosi a
Rousseau95, Freud conferma che il bambino non è una tabula rasa, che
la sua mente si avvicina ad uno “stato di natura”. E’ dunque necessario,
che siano prese in considerazione le sue esigenze naturali, se non si
vuole
provocare un
disfunzionamento
permanente della
sua
personalità.
Su premesse di natura filosofica Dewey sosteneva che i bisogni fisici
del bambino devono essere orientati sulla base di ciò che egli è, non di
ciò che sarà. A scuola come a casa l’adulto deve domandarsi quali siano
“ora” le necessità del bambino, quali problemi egli “ora” debba
risolvere. Solo in questo modo, secondo Dewey, il fanciullo riuscirà a
partecipare attivamente alla costruzione della vita sociale della
comunità: <<se noi ci identifichiamo con gli istinti e i bisogni reali
dell’infanzia ed [esigiamo] soltanto che [essi] si affermino e crescano
pienamente […] la disciplina e la cultura della vita adulta arriveranno
Cfr. S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit.
95 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Emilio, Armando Editore, Roma, 1994.
93
94
nel momento opportuno>>96. Sia Freud che Dewey cristallizzano il
paradigma basilare dell’infanzia: nel bambino, in quanto scolaro, vanno
preservate e alimentate la personalità e l’individualità, la gratificazione
e la possibilità di pensiero logico, mantenendo sotto il controllo degli
adulti la conoscenza della vita. Contemporaneamente deve essergli
riconosciuto
la possibilità dello sviluppo di una curiosità, di un
interesse, di un’attrazione e anche dell’esuberanza che non si può
soffocare se non mettendo a rischio la necessaria maturazione dell’età
adulta.
Dewey sosteneva come lo studio scientifico sull’educazione avesse
nutrito un impulso profondamente conservativo al fine di costruire un
sistema educativo che avrebbe riprodotto l’ordine sociale prevalente,
preparando gli studenti ai ruoli definiti dalla loro classe, razza, sesso ed
etnia. Il tema dell’educazione nel suo complesso è stato affrontato dal
filosofo in opere come Democracy and Education97 nella quale l’autore
fa risalire l’inadeguatezza dei metodi scolastici tradizionali, che
sopravvivono al mondo storico che li ha generati, alla “vecchia”
psicologia cui continuano ad attenersi troppi insegnanti.
L’aggettivazione “vecchia” viene riferita ad una psicologia che
considera lo spirito come “un’unità meramente individuale, in crudo e
diretto contatto con il mondo esterno”. Il problema didattico, di
conseguenza, si riduce a rispondere alla domanda: “come spirito e
mondo si influenzano reciprocamente?”, credendo, semplicisticamente,
che i diversi aggregati di fatti esterni, storia, geografia, letteratura,
scienze, ecc.., quelle che comunemente definiamo “materie”, altro non
fossero che ricavati della vita del passato da comunicare direttamente
agli studenti.
96
J. DEWEY, The School .., cit., p. 55.
J. DEWEY, Democracy and Education, cit.
97Cfr.
La nuova psicologia si mosse invece dalla convinzione che lo spirito
individuale è in relazione con la vita sociale, quindi incapace di operare
e di svilupparsi da solo, e bisognoso di stimoli continui da parte dei
fattori sociali.
L’essere umano non incide mai direttamente sull’altro se non ricorre
all’uso dell’ambiente fisico come intermediario o mediatore, per dirla
con Damiano98.
La funzione educativa si compie in maniera indiretta realizzandosi
attraverso l’ambiente, il quale può fornire gli stimoli che richiedono
risposte che, a loro volta, sono già possedute dell’individuo.
Il processo educativo è una evoluzione di ininterrotta <<interazione fra
ambiente ed individuo>>99. Si rileva, allora, la grande importanza di un
ambiente selezionato, preordinato ad un determinato scopo, che faciliti
la riuscita nel senso stabilito. La primaria finalità dell’organizzazione
scuola è appunto quella di offrire un ambiente <<deliberatamente
regolato con riferimento alla sua efficacia educativa>>100. Essa deve
fornirci un luogo semplificato, purificato, armonico, selezionando i
caratteri fondamentali e capaci di stimolare una reazione negli
educandi. In seguito è necessario <<stabilire un ordine progressivo,
usando quanto è stato conosciuto per far luce su ciò che è più
complicato>>. Per Dewey una delle mancanze della vecchia psicologia
consiste nel limitare la propria indagine alla conoscenza intellettuale,
senza prendere in considerazione la sfera emozionale e l’impulso.
Alla luce di tale convincimento è’ necessario muoversi verso direzioni
d’indagine più ampie, poiché non si tratta più, come avvenne nel
passato, di stabilire se abbia più peso l’elemento sensoriale o le idee
98
Cfr. E. DAMIANO L'azione didattica. Per una teoria dell'insegnamento, Armando,
Roma, 1999.
99 Cfr. J. DEWEY, School and Society, cit.
100 Ivi, p.25.
astratte. La ragione impone, invece, la necessità di procedere oltre,
nella consapevolezza che la conoscenza non può essere isolata e
costituire un fine in sé ma occorre <<collegare l’addestramento
sensoriale o le operazioni logiche con i problemi e con gli interessi
della vita pratica>>. Mentre la vecchia psicologia ha errato nel
considerare lo spirito come identico in tutte le sue fasi vitali, tanto per
il bambino quanto per l’adulto, <<arredato in ogni età dello stesso
assortimento di facoltà>>, la nuova psicologia ha invece chiarito come
lo spirito sia <<una realtà in svolgimento, che presenta fasi distinte di
capacità e di interesse nei differenti periodi>>. Diventa quindi anomalo
ritenere che le <<materie di studio dell’adulto, che ordinano
logicamente fatti e principi, costituiscano pure il naturale studio del
fanciullo>>, anche se in modo più semplice101.
Il contributo della nuova psicologia, con la “scoperta” del fanciullo
come soggetto distinto dall’adulto, consente a Dewey di avanzare nelle
riflessioni sugli aspetti educativi e questo scavare in profondità lo
dispone verso una riconsiderazione del problema dell’educazione, dei
sistemi educativi e quindi della pedagogia, riconducibile agli aspetti
dell’adattamento e del cambiamento nel percorso evolutivo della
persona e del cammino della vita civile in cui l’infanzia trova
espressione e riconoscimento sociale attraverso le azioni più o meno
intenzionali delle istituzioni e le strategie metodologiche e didattiche.
L’orientamento
deweyano
nei
confronti
del
nuovo
“centro
gravitazionale” rappresentato dal fanciullo lo farà riconoscere come
l’iniziatore
dell’attivismo
pedagogico,
corrente
generata
dalla
concezione del bambino come soggetto attivo e protagonista nei
processi di apprendimento.
101
Ivi, pp. 35-37.
In The School and Society102, nel definire i tratti fondamentali del
proprio pensiero educativo Dewey annoda il tema educativo al forte
legame tra la scuola e il mondo sociale che vive, in quel preciso periodo
storico, una fase di forte crescita politico-sociale e produttiva, legata
all’espansione dell’industria così come alla richiesta delle classi
subalterne di accedere alla partecipazione politica. La scuola non può,
per il pedagogista, restare a guardare i mutamenti della società senza
parteciparvi, ma è chiamata ad intervenire adeguando il proprio volto
al <<progresso sociale>>103, deve <<diventare una società in miniatura,
una società embrionale>>104, stabilendo uno stretto contatto con
l’ambiente e la realtà sociale del lavoro. L’autore richiama alla
necessità di abbandonare la visione individuale della scuola, incline a
considerare unicamente il rapporto tra alunno e maestro, fra
insegnante e genitore (che rimane indiscutibilmente importante) e che
si fa cura del singolo fanciullo in tutto il suo procedere conoscitivo nei
diversi ambiti del suo profitto: dalle abilità di letto-scittura a quelle di
calcolo, dalle accresciute conoscenze geografiche e storiche al
miglioramento del comportamento, che si confermano importanti
riferimenti nella valutazione del lavoro scolastico svolto. E’ invece
sconfinare l’orizzonte, espandendo il desiderio che ogni genitore nutre
verso il proprio figlio a tutti i ragazzi, costituendo in ciò l’obiettivo che
la comunità scolastica deve perseguire. In tale finalità si deve
riconoscere il ruolo sociale che connota la scuola di Dewey.
Il principio teorizzatore del legame della scuola con il progresso si rifà
alla centralità del processo educativo nella realizzazione del senso
della democrazia statunitense, che Dewey ribadisce attraverso le
significative parole di Horace Mann: <<dove c’è qualcosa che cresce,
102Cfr.
J. DEWEY, The School and Society, cit.
Ibidem.
104 Ivi, p. 40
103
uno che forma val più di mille che riformano>>105. La scuola diventa,
dunque, il banco di prova per definire quale ruolo rivesta il rapporto
tra l’individuo e la comunità106.
Dewey ravvisa la forma più alta della società democratica nella
scientific community di studiosi che interagiscono ed indagano
instancabilmente.
Attribuendo
al
modello
scientifico
validità
universale per tutti gli ambiti umani esso può dar luogo ad ogni tipo di
dualismo e ciò vale anche per il dualismo tra educazione e vita. Se
l’educazione tradizionale serviva come preparazione alla vita e se la
scuola
s’intendeva tradizionalmente come la
trasmissione di
esperienze congelate in materiali didattici, ai fini di una più tarda
realizzazione dell’esistenza, proponendo il suo concetto di progressive
education Dewey concepisce l’educazione e la vita come un’unica cosa,
in quanto entrambe vengono intese quali crescita (growth). Diventa
convinzione fondamentale di Dewey l’idea “che il processo educativo
può essere equiparato alla crescita, in quanto questa viene intesa come
participio attivo nel senso di crescente, ciò che cresce”107. Per il
pedagogista non c’è nulla a cui possa essere subordinato il concetto di
crescita, eccettuata un’ulteriore crescita. Neanche il concetto di
educazione può essere subordinato al alcun altro, eccettuata un’altra
educazione108.
Nella società progressiva della Chicago di fine secolo Dewey aveva
coscienza della necessità di un tipo di educazione che legasse
Horace Mann (1796-1859), educatore ed uomo politico americano, compie i suoi
studi in legge nella Brown University, tra il 1827 ed il 1848 la sua brillante carriera
politica lo vede rappresentante dello Stato in qualità di Senatore nello Stato del
Massachussetts. Nel 1837 accettò la nomina di Primo Segretario dell’Educazione nel
(Westbrook, John Dewey and American Democracy, 1991) (Dewey J. , Il mio credo
pedagogico: Antologia di scritti sull'educazione, 1987)Massachussetts.
106 Cfr. J. DEWEY, School and Society, cit.
107 J. DEWEY, Esperienza e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 36.
108 Cfr. W. BÖHN, Storia della pedagogia da Platone ai giorni nostri, Armando, Roma,
2007.
105
concretamente l’azione umana al cambiamento della vita sociale, in
quanto sotto le spinte industrializzatrici si mutavano i luoghi urbani in
spazi di accumulazioni di ricchezze, di variegate povertà, di solitudini
ed utopie109. La scuola è il luogo istituzionalmente deputato alla
formazione dell’individuo, lo spazio nel quale egli può unire teoria, la
sua personale visione del mondo, con la pratica. Come Dewey chiarisce
in Il mio credo pedagogico110 l’individuo vive in un contesto concreto
differenziandosi dagli altri, nello stesso modo l’educazione deve essere
universale e particolare, poiché essa è teoria e processo che
universalizza la particolarità individuale e nello stesso tempo
particolarizza la sua universalità, in quanto diversa, unica e irripetibile
essa è all’interno delle situazioni umane111.
Cfr. R.B. WESTBROOK, John Dewey and American Democracy, Cornell University
Press, N. Y., 1991.
110 Cfr. J. DEWEY, Il mio credo pedagogico: Antologia di scritti sull’educazione, La Nuova
Italia, Firenze, 1987.
111 Cfr. G. SPADAFORA, Studi deweyani, Fondazione Italiana Dewey, Cosenza, 2006.
109
2.2 La scuola di Chicago
L’attivismo pedagogico deweyano si estende oltre l’ambito teorico,
riferendosi
anche
all’elemento
pratico
che
trova
attuazione
nell’esperienza educativa che il pedagogista realizza dirigendo la
scuola annessa all’Università di Chicago, di cui era Direttore del
Dipartimento di Filosofia, Psicologia e Pedagogia già dal 1894112, nella
quale
sperimentò
un
rinnovamento
della
didattica
e
dell’organizzazione scolastica.
La scuola di Chicago costituisce un indirizzo molto particolare. Essa
dipende dalla facoltà universitaria, pertanto ha una componente
differente che risiede nella sua attività scientifica e che ne costituisce la
parte più rilevante, considerato il contributo che essa fornisce allo
sviluppo del pensiero educativo. Nel costituire una scuola legata alla
università Dewey non credeva di fondare un modello né tantomeno
una sede nella quale dimostrare
una particolare idea o dottrina,
quanto un luogo nel quale fosse possibile considerare l’educazione dei
fanciulli alla luce degli sviluppi resi noti dalla psicologia dell’epoca in
merito all’attività intellettuale ed ai processi di sviluppo113.
Consapevole di tali finalità educativa Dewey riteneva che queste
dovessero coincidere con le condizioni della scuola per suscitare la
partecipazione attiva del discente al suo processo di costruzione della
conoscenza. Diviene dunque indispensabile predisporre un ambiente
che ne faciliti le acquisizioni attraverso una metodologia attiva che il
filosofo americano enfatizza utilizzando la nozione di laboratorio, che
assume una propria struttura epistemologica propria all’intermo della
112Cfr.
S.J. MARTIN, The education of John Dewey. A Biography, Columbia University
Press, New York, 2002.
113 Cfr. J. DEWEY, The School and Society, cit.
scuola-laboratorio sviluppatasi a Chicago negli anni compresi tra il
1896 ed il 1903.
La concezione deweyana di laboratorio riconosce le sua causa nella
<teoria dell’esperienza>, intesa come ambito di scambio attivo tra
soggetto e natura, che trasforma entrambi gli elementi restando
perennemente
aperto.
In
questa
prospettiva
pragmatica
e
strumentalista un ruolo centrale è occupato dalla riflessione politica
che ruota attorno al principio di democrazia, considerata nella società
industriale di massa la forma più avanzata ed attuale di organizzazione
sociale ma, nello stesso tempo, bisognevole costantemente di essere
costruita o ricostruita attraverso l’educazione scolastica.
La scuola deve quindi spostare il proprio <centro di gravità>,
tradizionalmente posto <<fuori del fanciullo>, mettendo a fuoco i
caratteri fondamenti della natura infantile.
Gli spazi scolastici dovranno essere rimodulati per fare posto alla
<<conversazione o comunicazione>>, <<indagine o scoperta delle
cose>>, <<fabbricazione o costruzione delle cose>>, <<espressione
artistica>>. Si rende necessario avviare una differente organizzazione
dell’ambiente educativo, all’interno del quale dovranno essere costruiti
laboratori di diversi tipi, con lo scopo di collegare le attività scolastiche
a quelle produttive, introducendo nella realtà educativa le concrete
motivazioni all’apprendimento accompagnate dalla precisa coscienza
della loro utilità. Si tratta di un lavoro scolastico rinnovato che
introduce, accanto ai laboratori, ambienti per il gioco e la creazione
artistica114, determinando quella che viene definita una <<rivoluzione
copernicana>> del rapporto educativo. Il fanciullo diventa <<il sole
attorno al quale girano gli strumenti dell’educazione>>.
114
Ibidem.
Nella scuola-laboratorio al centro delle attività si pone il fanciullo, con i
suoi bisogni fisici, intellettuali e sociali, non trascurando le sue
iniziative e gli interessi che rappresentano la motivazione profonda ad
ogni apprendimento.
La scuola di Chicago costituiva il terreno adatto per la sperimentazione
della teoria educativa di Dewey attraverso il saldo legame con la
ricerca scientifica universitaria e, nello stesso tempo, rappresentava
un laboratorio scolastico generatore di idee. Caratteristica distintiva
della scuola-laboratorio è lo stretto legame tra la ricerca scientifica
condotta in ambito universitario e le sue applicazioni nella “scuola di
Dewey”,
Il presupposto su cui si basa tale concetto trova efficacia nella formula
learning by doing, l’apprendere mediante il fare. Secondo tale
presupposto la cultura è tanto più ampia quanto più diverse e
numerose sono le conoscenze concrete e le azioni sperimentali di cui si
arricchisce.
Conseguente a tale principio è la trasformazione del lavoro
dell’educatore, che si svincola dalla pratica abitudinaria divenendo
opera di creazione di nuove realtà, con possibilità di concezioni
rinnovate di vita sia per l’individuo che per la società.
Impostazione
che
viene
definita
da
Dewey
<<istruzione
di
laboratorio>>, richiamando una nuova rappresentazione del lavoro
che si compie <<come mezzo di studio e di scoperta>>, sollecitando la
curiosità degli studenti e preparandoli a scoprire nuove cose115.
Il laboratorio, sostiene Dewey, è un metodo sperimentale di scoperta
mediante la ricerca, è un metodo di indagine, di osservazione e
riflessione, successioni che richiedono attività della mente e non solo
115Cfr.,
L. (Tanner, 1977)N. TANNER, Dewey’s Laboratory School. Lesson for today,
Teacher College Press, New York, 1977.
capacità di assorbimento e riproduzione116. La finalità educativa non
poteva essere ridotta alla trasmissione di capacità formali, dovendo
diventare questa occasione per iniziare gli studenti alla vita sociale
mediante il percorso di quelle tappe evolutive un tempo naturalmente
vissute nella comunità umana attraverso le attività didattiche117.
Una concezione educativa che si ispirava a due fattori: l’uno costituito
dai risultati cui era giunta la <<nuova psicologia>> teorizzata dallo
stesso Dewey118 che si discostava dalla <<vecchia psicologia>> e dai
suoi metodi scolastici inadeguati e l’altro costituto dai principi di
Froëbel119, la cui pedagogia si ispirava ad interventi educativi
finalizzati
a
promuovere
nel
soggetto
la
sua
formazione
assecondandone il fare spontaneo e creativo, da cui scaturivano il
pensiero e la conoscenza. Il gioco rappresentava, per Fröbel, l’elemento
centrale di questo processo attraverso il quale, nei famosi Kindergarten
da lui realizzati in Germania intorno al 1840, i bambini potevano
giocare ed apprendere, conoscersi ed esprimersi tramite le attività del
gioco.
Dewey definisce la nuova psicologia in ragione delle facoltà
psicologiche dell’individuo, in rapporto alla sua azione nell’ambito
sociale. La nuova psicologia poneva il centro di gravità nel fanciullo, nei
suoi bisogni
fisici, intellettuali, sociali e nei suoi interessi, che
costituivano la reale motivazione di ogni suo apprendimento,
diversamente da come egli veniva inteso nella educazione tradizionale,
116Cfr.
J. DEWEY, The Educational Situation, in Collected Word, The Middle Works, vol. I,
1899-1901.
117Cfr. J.DEWEY, Il mio credo pedagogico, cit.
118Cfr. L. HICKMANN, The Essential Dewey; vol. I, Pragmatism, Education and democracy;
vol. II, Ethics, Logic, Psychology, edited and with introduction Thomas Alexander,
Bloomington, Inc. Indian University Press, 1988.
119 Cfr. F. FRÖBEL, L’educazione dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze, 1993.
caratterizzata da passività e da un inquadramento meccanico dei
programmi e dai metodi uniformi120.
Il fanciullo è dunque un individuo sociale al pari dell’adulto, con i
propri interessi sociali e verso l’ambiente umano e produttivo a cui
appartiene e dal quale riceve impulsi e sollecitazioni. È chiaro il rilievo
che per Dewey ha la nuova psicologia e l’importanza da lei attribuita
all’ambiente come luogo dove il fanciullo poteva costruire la sua
personalità121. La nuova psicologia dimostrava come l’attività del
fanciullo, diversa da quella dell’adulto e del bambino, presentasse
distinte fasi di interesse e capacità nei diversi periodi della sua crescita,
perciò definita <<realtà in svolgimento>>. Diveniva consequenziale
l’opportunità, in ambito scolastico, di differenziare le materie di studio
del giovane e del fanciullo, evitando di ridurre, quest’ultime, ad una
mutilante semplificazione.
Il ruolo ricoperto dalla scuola era di fondamentale rilievo per la buona
educazione dei fanciulli e doveva necessariamente essere strutturata
in riferimento alla sua efficacia educativa, predisponendola come luogo
di riproduzione dell’ambiente sociale, evitando, così, divisioni
artificiose tra la vita extrascolastica e quella che si svolgeva tra le
pareti della sede educativa.
L’obiettivo perseguito da Dewey consisteva nel modificare la struttura
della scuola fino a darle la prerogativa di <<una comunità in miniatura,
una società embrionale>>122 attraverso due vie: il contatto con
l’ambiente e quello con la realtà sociale del lavoro. Pertanto al suo
interno dovevano trovare posto quattro principali impulsi che
caratterizzavano il rapporto tra la conoscenza e l’azione: impulso
120Cfr.
M.J. ADLER, M. MILTON, The Revolution in Educational, University of Chicago
Press, Chicago, 1958; S.J. MARTIN, The Education of John Dewey. A Biography, cit.
121Cfr. J. DEWEY, The New Psychology, in Collected Works, The Early Works, 1882-1898,
vol. I.
122 J. DEWEY, The School and Society, cit. p. 57.
sociale, del linguaggio, impulso a costruire, impulso estetico123. Da ciò
la necessità di attrezzare la scuola di laboratori raccordanti le attività
scolastiche con quelle produttive e familiari, idonei a soddisfare gli
interessi degli educandi ed ad introdurre nell’ambito scolastico
motivazioni autentiche all’apprendimento delle diverse discipline,
oltre che la consapevolezza della loro utilità. In aggiunta non dovevano
essere tralasciati i luoghi deputati al gioco ed alla creazione artistica.
Per il filosofo americano le attività manuali introdotte nell’ambiente
educativo assumevano un inequivocabile significato: <<appagare
un’esigenza vitale degli alunni, offrendo loro qualcosa che non
potrebbero
ottenere
in
nessun
altro
modo>>124.
Il
termine
<<occupazione>>, utilizzato da Dewey, non ha il significato di un
generico lavoro che tenga occupati gli allievi, tantomeno è un metodo
per impedir che si impigriscano. Esso anticipa, piuttosto, le forme di
attività presenti nelle differenti tipologie di lavoro esercitate nella vita
sociale. Il lavoro e l’occupazione non hanno, dunque, alcuna
declinazione di lavoro produttivo o momento ricreativo, ma trovano
valore quando si stabilisce una relazione tra questi e la loro funzione
sociale.
L’inserimento del lavoro pratico nella vita scolastica non è, dunque, da
intendersi come addestramento manuale o padroneggiamento di
determinati
strumenti
privi
di
finalità,
valore
educativo
e
consapevolezza, quanto invece la valorizzazione della preminenza
attribuita
al
<<fare>>
dell’allievo,
in
chiara
antitesi
con
l’apprendimento passivo e nozionistico in uso nella scuola tradizionale,
che si ponevano come fulcro di un discorso pedagogico nuovo125.
123Cfr.
F. CAMBI, Storia della pedagogia, cit.
J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 9.
125Cfr. A. VISALBERGHI, John Dewey, La Nuova Italia, Firenze, 1951; G. CORALLO, La
pedagogia di John Dewey, SEI, Torino, 1950
124
La scuola di Chicago doveva offrire al fanciullo, secondo il progetto
deweyano, l’occasione di contemperare i suoi interessi teorici e
pratico-operativi trovando il giusto rapporto tra i mezzi ed i fini delle
sue azioni. Intenzioni che trovano conferma nelle parole di Dewey:
<<dobbiamo intendere il suo significato sociale, lo dobbiamo
considerare tipo del processo mediante il quale la società progredisce,
operazione con la quale si rendono familiari ai fanciulli certe primarie
necessità di vita in comune ed i modi mediante i quali queste esigenze
sono soddisfatte dalla crescente penetrazione e ingegnosità dell’uomo;
lo dobbiamo considerare strumento e la scuola è destinata a diventare
una forma schietta di attiva vita in comune, anziché luogo appartato
dove si apprendono lezioni. Non c’è motivo sociale evidente
nell’acquisto di puro sapere se non c’è chiaro beneficio nel
procurarselo>>126.
Nella scuola la presenza del lavoro, delle occupazioni in attività
pratiche e manuali, rappresenta per il pedagogista la realizzazione di
un rapporto armonico fra scuola e società, attraverso la creazione ed il
mantenimento dell’equilibrio tra la fase intellettuale e la fase pratica
dell’esperienza educativa.
Anche l’azione del maestro riveste nella teoria educativa deweyana un
ruolo decisamente differente da quello esercitato secondo i dettami
della vecchia psicologia cui si atteneva la gran parte degli insegnanti e
che era prevalentemente di tipo autoritario. Mentre nella impostazione
tradizionale il maestro dispensava il sapere attraverso lezioni di tipo
intellettualistico, verificandone poi l’apprendimento che era di tipo
esclusivamente nozionistico, con la teoria deweyana il maestro diventa
l’interprete dei bisogni autentici del fanciullo, guida attenta
nell’interpretarli, indirizzarli e concorrere a soddisfarli, organizzatore
126
J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 10.
e regolatore dei processi di ricerca della classe, animatore delle diverse
attività scolastiche. Il maestro si pone, dunque, come anello di
congiunzione tra la scuola e le istanze storico-sociali più pressanti127
127Ivi
, pp. 6-20.
2.3 Metodi e discipline nella Laboratory School
L’organizzazione della scuola-laboratorio fu strutturata da Dewey
tenendo presente due principi fondamentali: l’istruzione dei ragazzi
che la frequentavano e il rapporto con l’Università di Chicago di cui
faceva parte nell’organizzazione della ricerca in campo psicopedagogico e sociologico128. L’organizzazione pratica delle componenti
educative ed amministrative si rivelò per il filosofo un compito
abbastanza impegnativo.
L’obiettivo deweyano di connettere l’attività del kindergarten con
quella della scuola primaria, al cui interno vi era una rielaborazione dei
materiali e della tecnica tradizionale applicati con allievi assai diversi
per fascia di età, compresa fra i quattro ed i tredici anni, si presentava
di difficile realizzazione. Il presupposto cui si richiamava il filosofo
americano Fröbel, e i risultati della nuova psicologia, pur
rappresentando eccellenti elementi-guida nell’organizzazione della
scuola, lasciavano irrisolti svariati
problemi organizzativi129. La
difficoltà scaturiva dal fatto che tali orientamenti venivano seguiti ed
applicati da Dewey e dai suoi insegnanti con ampia libertà,
adeguandosi di volta in volta al presentarsi di nuove situazioni
educative per la volontà, espressa dal filosofo, di favorire nella scuola
uno <<sviluppo graduale di metodi e principi>>130, non adoperando
alcuna <<dotazione precostituita di essi>>131.
Gli educatori sviluppavano, seguendone le indicazioni, la propria
esperienza educativa all’interno della scuola, ricercando di volta in
128Ivi,
pp. 104-110.
M. S. SHAPIRO, Child’s Garden: the Kindergarten Movement from Froebel to Dewey,
University Park: Pennsylvania Press, 1983.
130 J. DEWEY, School and Society, cit., p.58.
131Ibidem.
129Cfr.
volta le risposte più consone circa il modo migliore di educare i
fanciulli per stimolare in essi un reale interesse ed incrementare le
potenzialità e le singole capacità creative ed intellettive132 di ciascuno.
Per quanto attiene al rapporto tra la scuola-laboratorio e l’Università di
Chicago Dewey riteneva che l’importanza del collegamento fra la
scuola e la facoltà universitaria risiedesse nel contributo che essa era
in grado di apportare allo sviluppo del pensiero educativo e che solo
una finalità scientifica, ovvero la gestione di un laboratorio scientifico,
poteva essere una ragione valida per relazionare il mondo della ricerca
universitaria e la scuola laboratorio.
L’obiettivo prefissato non risiedeva nella dimostrazione di una
particolare dottrina educativa, neanche nel tentativo di fare della
scuola di Chicago un modello indiscusso ma nell’attestarla come
<<laboratorio di psicologia applicata>>133. Doveva intendersi come un
luogo di studio della mente del fanciullo, di ricerca e di applicazione dei
materiali e delle tecniche adatte a favorirne il suo completo sviluppo,
dove fosse possibile studiare anche le interazioni psicologiche
dell’educando con il suo ambiente di vita. In definitiva un luogo in cui
un ruolo prioritario lo rivestisse l’esperienza del fanciullo, elemento
fondamentale del suo sviluppo educativo e fulcro delle attività della
scuola.
Dal punto di vista pratico il problema del laboratorio si poneva per il
filosofo <<come organizzazione di un corso di studi in armonia con lo
sviluppo del fanciullo in capacità ed esperienza>>134.
Nel progettare ed organizzare la scuola-laboratorio Dewey era
consapevole di due presupposti fondamentali: dell’impossibilità di
132Ivi,
pp. 57-66.
DEWEY, The Reflex Arc Concept in Psychology in “Psychological Review”, 3, p. 357370.
134 J. DEWEY, The School and Society, cit., p. 67.
133J.
indagare a fondo i fatti psicologici principali anche di un solo anno di
sviluppo del fanciullo e dell’enorme difficoltà incontrata dall’educatore
nell’individuare strumenti educativi certi ed indiscussi. Consapevole di
tali difficoltà, però, un laboratorio pedagogico costituiva comunque
l’unica possibilità di indagine e di ricerca continua ed intelligentemente
perseguita capace di far acquisire all’educatore non solo elementi
relativi allo sviluppo del fanciullo ma anche capacità di incrementarli
costantemente.
La laboratory-school di Chicago venne organizzata come un
laboratorio culturale e pedagogico nel quale si affinavano gli strumenti
educativi ritenuti adatti al pieno sviluppo delle attitudini del fanciullo
ed al soddisfacimento delle sue necessità e dei suoi interessi. Tale
strutturazione caratterizzava la scuola come <<stazione pedagogica
sperimentale>>135.
La metodologia per l’insegnamento delle discipline scolastiche quali la
geografia, l’aritmetica, la storia, la grammatica, ecc.., venne assunta
secondo gli orientamenti forniti dalla nuova psicologia, che indicava
come prioritario l’interesse e l’attrazione che la stessa disciplina
esercita sul fanciullo in relazione ai suoi bisogni, ai fini che persegue, al
rapporto con la vita sociale.
Lo strumento educativo per eccellenza è l’interesse, strumento in
grado di convogliare le energie mentali del fanciullo per utilizzarle nei
modi consoni alle capacità individuali. La materia più utile era quella
capace di riprodurre la vita sociale dell’educando e per tale ragione
l’attività educativa fu organizzata in racconti, arti pittoriche, giochi,
occupazioni, ecc. Il materiale di impiego fu ricavato inizialmente dalla
vita familiare per procedere con gradualità con strumenti sempre più
distanti fra loro. Il fulcro educativo attorno al quale si concentrava
135Ivi,
p. 68.
l’organizzazione scolastica era rappresentato dal modo in cui si
sarebbe potuto ottenere nel fanciullo l’acquisizione delle abilità
tecniche
proprie
dei
diversi
stadi
dell’istruzione
congiunte
all’esperienza ed alla attività scolastica quotidiana, in questo modo si
sarebbe potuto far procedere l’educazione formale e simbolica,
facendo avvertire al fanciullo la necessità di impadronirsene attraverso
il legame dei simboli e degli argomenti esercitando sull’educando una
attività intrinseca. Il focus si sostanziava nel fornire al fanciullo un
<<movente vitale>> nell’acquisizione delle diverse conoscenze136.
La scuola deweyana era orientata a stabilire uno stretto rapporto tra
l’ambiente scolastico e la realtà sociale del lavoro mediante
l’introduzione del lavoro manuale e delle occupazioni, per meglio
trasformare la scuola in una <<comunità in miniatura>>, semplificando
la realtà esistente per ricondurla ad una forma embrionale. Per la
realizzazione di tale intento era necessario alleggerire le discipline
scolastiche dalle imbrigliature del sapere codificato, statico e
trasmissibile unidirezionalmente, per trasformarlo in un campo di
ricerca continua e di collegamento con il mondo esterno.
In questo suo progetto pedagogico, che costituiva il centrum della sua
teoria, Dewey non solo poneva l’esperienza dell’educando in
collegamento con l’ambiente sociale ma si poneva come apripista per
le novità educative che contrastavano con le rigide organizzazioni
curriculari e didattiche della scuola tradizionale, privilegiando in
ampio anticipo collegamenti interdisciplinari137.
L’ambiente scolastico era predisposto in modo da facilitare,
disciplinandolo, lo svolgimento delle attività infantili. Il naturale
processo di crescita attraverso il rinnovamento didattico ed
136
137
J. DEWEY, The School and Society, cit. p. 66.
Cfr. A. MEIKLEJOHN, The Dewey School, in “New Republic”, n. 121, 1949.
organizzativo della scuola. Per tale ragione l’organizzazione educativa
si propose di assumere come modello la vita familiare, esempio capace
di evitare artificiose separazioni tra le attività che gli allievi svolgevano
a scuola e quelle che si sviluppavano al di fuori di essa138. Il nucleo
centrale del lavoro didattico era costituito dalle attività espressive o
costruttive, il cui scopo non faceva riferimento al valore economico dei
prodotti risultanti da esse, quanto allo sviluppo delle capacità e delle
intelligenze degli studenti. Accanto alle attività sociali quali cucinare,
cucire, tessere, giardinaggio, ecc.., si introducevano con gradualità le
discipline più formali come le lingue e le scienze139.
La metodologia utilizzata nella scuola laboratorio di Chicago segue la
natura stessa del fanciullo, anteponendo l’apprendimento attivo a
quello passivo poiché, come sostiene Dewey, l’espressione precede
l’impressione consapevole. Un ruolo di primaria importanza per lo
sviluppo dell’intelligenza e per l’ampliamento dell’esperienza è
assegnato alla facoltà immaginativa del fanciullo che si manifesta
nell’educazione artistica, considerata processo di
fruizione e
produzione del bello. L’arte raffigura per Dewey il momento fruitivoprogettuale-immaginativo che si accompagna ad ogni esperienza. È
opportunità che sostiene la crescita organica dell’attività estetica per
farsi presupposto centrale dell’esperienza del singolo ispirata all’unità,
alla continuità, all’identità tra mezzi e fini, così come avviene
nell’arte140.
Dalla testimonianza di Katherine Camp Mathew e Ann Camp Edwards,
insegnanti della scuola di Chicago che svolsero rispettivamente il ruolo
di vicepreside e responsabile dello sviluppo del curriculum la prima,
138Cfr.
J. DEWEY, The School and Society, cit.
DEVEY, The Child and the Curriculum, in Collected Works, The Middle Works, 18991924, vol. II, pp. 289-294.
140Cfr. J. DEWEY, Art as Experience, Minton, Balch and Co, New York, 1934.
139J.
insegnante di storia e successivamente tutor speciale del lavoro svolto
da tutti i dipartimenti la seconda, si apprende che gli anni di attività
della Dewey School furono ricchi di avvenimenti. La scuola mediante il
sostegno della università di Chicago e grazie ad una organizzazione che
si configurava come un’impresa cooperativa di genitori, insegnanti ed
educatori, avvia ufficialmente la sua attività nel mese di gennaio
dell’anno 1896, in una residenza privata con sedici studenti e due
insegnanti, e venne velocemente conosciuta con il nome di Laboratory
School. Il nome assegnato alla scuola non ha nulla di casuale. Esso è
rivelatore della volontà di John Dewey di verificare praticamente le sue
arricchite idee filosofiche e psicologiche141 che necessitavano di
laboratori di sperimentazione intesi nel loro limitato significato
tecnico, considerato che oggetto di indagine era lo sviluppo continuo
degli esseri umani nella conoscenza, nella comprensione e nel
carattere e che la scuola laboratorio rappresentava la risposta a questo
bisogno.
La denominazione di Laboratory School attribuisce chiaramente un
significato preciso all’attività della scuola. Dewey, d’altra parte, nel
Piano dell’Organizzazione della Scuola Elementare dell’Università
(questo il titolo della brochure nella quella era pubblicizzata la teoria
educativa a cui si ispirava la scuola di Chicago) affermava in merito al
141Durante
il periodo di Chicago il pensiero del filosofo si nutre dell’influenze
coincidenti con le progressive conoscenze psicologiche del periodo, grazie anche alla
collaborazione di un gruppo di colleghi come James R. Angel che lavorava alla
psicologia funzionale; George H. Mead, che Dewey aveva incontrato come collega
all’Università del Michigan e che era impegnato nello sviluppo della psicologia dell’atto
(o dell’azione) sulla base di una ampia conoscenza biologica; James H. Tuta
collaboratore di Dewey in un corso tenuto ai genitori della scuola. Questi studiosi, ed
altri ancora in dipartimenti dell’università con interessi affini, formavano un gruppo
unito ed entusiasta di ricercatori e di insegnanti. Si aggiunge come arricchimento al
pensiero di Dewey il lavoro di vari Clubs di studio di cui è membro e dai gruppi di
giovani, laureati o ancora studenti universitari, che lavoravano sotto la sua direzione. A
questo proposito cfr., K.C. MAYTHEW, A,C, EDWARDS, The Dewey School. The
Laboratory School of the University of Chicago 1896-1903, D. Appleton Century
Company, New York, 1963.
concetto di laboratorio: “un laboratorio è, come implica la parola, un
posto per l’attività, per il lavoro, per il conseguente portare avanti una
occupazione, e, nel caso dell’educazione, l’occupazione deve essere
inclusiva di tutti i valori umani fondamentali. Un laboratorio implica
anche idee direttive, ipotesi preminenti, che non appena vengono
applicate
conducono
a
nuove
comprensioni”142.
Impostazione
pienamente confacente ad una scuola laboratorio.
Nel mese di ottobre del suo primo anno di vita la scuola si trasferisce al
5718 di Kimbark Avenue. Essa contava 32 allievi di età compresa tra i
sei e gli undici anni, con un corpo insegnante composto da tre docenti:
uno di attività domestiche e scienze, il secondo di letteratura e storia e
l’ultimo di addestramento manuale143, con una collaborazione part
time di un istruttore di musica e di tre giovani laureati dell’Università
di Chicago.
Nel febbraio del 1897 il cresciuto numero degli allievi (45 iscritti) e
degli insegnanti obbliga ad un cambio di sede della Laboratory School
che fissa la sua dimora alla South Park Club House, all’angolo di Rosalie
Court nella 57ma strada. Tale numero era destinato ad aumentare
ancora nel corso dello stesso anno contando a fine dicembre circa 60
allievi e 16 insegnanti in servizio.
Ancora una volta la necessità di spazi più ampi impose alla scuola un
ulteriore trasferimento di sede e nell’ottobre del 1898 si spostò in una
vecchia struttura al 5412 di Ellis Avenue, consentendo così l’iscrizione
alla scuola anche ai bambini di quattro e cinque anni, portando ad
ottantadue il numero degli allievi frequentanti la scuola laboratorio.
All’interno della struttura gli spazi erano strutturati per lo svolgimento
delle diverse attività: palestra, locali per l’addestramento manuale, due
142
143
Cfr., K. C. MAYHEW, A. C. EDWARDS, The Dewey School, cit.
Ivi, p. 8.
laboratori, uno di fisica e chimica ed uno di biologia, una cucina, due
sale per la scienza domestica.
CAPITOLO TERZO
IL LABORATORIO NELLA CULTURA ITALIANA CONTEMPORANEA
Nell’Italia del secondo dopoguerra l’educazione progressiva ha avuto
diversi sostenitori animati dal desiderio di sviluppare i principi
fondamentali del movimento innovatore, che tanto interesse aveva
suscitato negli studi d’oltralpe, specie negli aspetti relativi al rapporto
pedagogia-scienze umane e scuola-società.
Diverse
contingenze,
la
prospettiva
offerta
dall’educazione
progressiva, il delicato periodo postbellico, gli studi italiani su Dewey e
le esperienze del Movimento di Cooperazione Educativa144, indicano
alla pedagogia nazionale nuovi percorsi che confluiranno nel tentativo
di costruzione della scuola democratica, post-gentiliana, intesa come
elemento di eguaglianza sociale.
La pedagogia progressiva italiana si struttura all’interno di un
proponimento educativo orientato al rinnovamento democratico che
coinvolge tanto i metodi formativi quanto la struttura scolastica, grazie
al ruolo catalizzatore di Lamberto Borghi145.
Prima della riflessione di Borghi il pensiero di Dewey era stato mal
interpretato nel nostro paese, in parte a causa dell’egemonia idealista
che manifestava un atteggiamento di chiusura nei confronti delle altre
Il MCE nasce il Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Cèlestin
ed Elise Freinet. All’indomani della guerra, nel momento di pensare alla ricostruzione,
alcuni maestri quali G. Tamagnini, A. Fantini, A. Pettini, E. Codignola e più tardi B. Ciani,
M. Lodi e tanti altri, si unirono attorno all’idea di una cooperazione solidale che diviene
crescita e integrazione sociale. Non si è trattato solo della introduzione e utilizzazione
di alcune tecniche di base, ma di dare senso ad un movimento di ricerca che ponga al
centro del processo educativo i soggetti, per costruire le condizioni di un’educazione
popolare, in quanto garanzia di rinnovamento civile e democratico.
145 Cfr. L. BORGHI, La città e la scuola, Elèuthera, Milano, 2008.
144
correnti della cultura pedagogica, in parte per una incomprensione dei
suoi scritti, riconosciuti soltanto come una documentazione di
esperienze educative, mentre la teoria deweyana dell’educazione
veniva considerata di limitato valore e priva di una dimensione
assoluta146. Borghi innesta, invece, nel panorama pedagogico italiano
una visione profondamente antiautoritaria, correlando il pensiero di
Dewey agli studi sulla psicologia dello sviluppo e sulla filosofia
umanistica, ampliandone la prospettiva egli ne valorizza le
sperimentazioni educative basate sulle relazioni, improntate al
reciproco rispetto tra tutti i partecipanti e allo sviluppo dell’autonomia
personale. Una società autoritaria ha un sistema rigido che non
permette lo sviluppo e l’esperienza intellettuale degli allievi; di
converso la democrazia è un impianto di vita associativa fondato sulla
partecipazione consapevole di tutti alla cosa pubblica, sulla
consultazione e sulla comunicazione delle esperienze. Risulta, dunque,
la volontà dell’educazione progressiva di garantire il consolidamento
della democrazia, in quanto essa struttura cittadini riflessivi, capaci di
pensiero autonomo e originale, ed i cui principi costitutivi si
riassumono nell’idea dello sviluppo contemporaneo e congiunto
dell’individualità e della socialità del fanciullo, nel concetto che questi
deve essere sempre considerato come personalità distinta, come
individuo, e non come l’appendice di un corpo etnico o religioso o
come l’incarnazione di una idea147. Affinché una personalità possa
svilupparsi in autonomia è indispensabile che la sua crescita avvenga
in un contesto interattivo intergenerazionale al cui interno gli adulti
non impongono la logica della subordinazione, ma, riconoscendo la
diversità dei punti di vista individuali, sono capaci di fornire spazi di
Cfr. L. BELLATALLA, John Dewey e la cultura italiana del Novecento, ETS, Pisa,1999.
Cfr. L. BORGHI, John Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti,
La Nuova Italia, Firenze, 1951.
146
147
espressione e confronto di idee, per affrontare in modo dubitativo e
critico ogni situazione. Una personalità indipendente penetra in
maniera creativa nella comunicazione, introduce un ulteriore punto di
vista e conduce un’argomentazione razionale, mantenendo un clima di
rispetto; innesta i presupposti per “la creazione di una società
democratica nel verace senso di questa espressione, cioè costituita da
uomini atti a governare da sé e nemici di ogni autorità esterna”148.
Una soggettività libera è capace di agire e pensare autonomamente,
senza accettare o subire le pressioni dall’autorità esterna, sviluppa
progetti collaborativi, valuta e condivide scopi, soprattutto dialoga con
un crescente numero di soggetti, poiché è in grado di condividere il
processo di formazione con l’umanità, senza porre limiti di tipo
nazionale, etnico o religioso.
3.1 Francesco De Bartolomeis
I principi dell’attivismo hanno trovato in Italia un’energica difesa nel
gruppo di studiosi legato alla rivista Scuola e società, uomini che
operano innestando i postulati dell’attivismo nell’ambito della nostra
tradizione pedagogica, con l’intento di incoraggiare il progresso
educativo in direzione scientifica e sociale, avviando un cambiamento
nei metodi didattici.
Tra gli studiosi che si interessano al rinnovamento della didattica
Francesco De Bartolomeis149 è senza dubbio la più autorevole voce
italiana. Attraverso le sue opere, infatti, ha lasciato tracce significative
Ivi, p. 138.
Francesco De Bartolomeis, pedagogista e studioso di problemi d’arte, è stato per
oltre trent’anni titolare della cattedra di pedagogia e direttore dell’Istituto di pedagogia
dell’Università di Torino. Inoltre ha diretto la Scuola di Specializzazione in Psicologia,
Pedagogia, Psicopedagogia prima e successivamente la scuola di Perfezionamento in
Scienze dell’Educazione.
148
149
per la riflessione e la sperimentazione pedagogica, mostrando una
particolare attenzione sia alle istruzioni suggerite dalla scuola attiva
ma ancora di più al metodo dei laboratori.
L’esigenza di legare i laboratori didattici con la pedagogia nasce nel De
Bartolomeis nel 1951, al tempo in cui è impegnato nelle Università di
Firenze e di Pisa, ma già nel suo lavoro del 1948 Programmi elementari
e scuola attiva150 egli si occupa in modo diretto di problematiche
educative e scolastiche nella prospettiva della scuola attiva,
ricollegandosi ed ampliando il suo precedente lavoro Esame dei
programmi per le scuole elementari
151
dove, alla luce del Decreto
Ministeriale del 9 febbraio 1945, analizza i nuovi programmi di studio.
Nel testo del 1948 mette in risalto lo spirito autentico della scuola
attiva riguardo al quale erano in corso “equivoci e fraintendimenti”152.
Il tema dell’attivismo costituisce un elemento fondamentale e costante
della ricerca pedagogica del De Bartolomeis che nei testi menzionati
cerca una correlazione tra i nuovi programmi per la scuola elementare
e la scuola attiva, per evidenziare come questi “sono compenetrati
dallo spirito della scuola attiva e sino a quale punto il maestro,
ispirandosi ad essi, sia sicuro di poter realizzare tale spirito”153. Tratto
peculiare che lo studioso sottolinea nel suo lavoro è la scarsa presenza
nella scuola dei principi della scuola attiva. Pur riscontrando nei
Programmi Nazionali indicazioni precise quando, per esempio, si fa
riferimento alla scuola come comunità sociale e scuola democratica, la
normativa governativa rimane nell’ambito di indicazioni didattiche
formali in quanto non si è in grado di fornire i “mezzi pratici per
Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Programmi elementari e scuola attiva, La Nuova Italia,
Firenze, 1948.
151 Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Esame dei programmi per le scuole elementari, Studio
Editoriale Corsi Scolastici, Forlì, 1947.
152 F. DE BARTOLOMEIS, Programmi elementari …. cit. p. 23.
153 Ivi, p. 1.
150
realizzarla”154. L’educatore continua ad essere il punto centrale della
scena al contrario di quanto l’educazione nuova e la scuola attiva
suggeriscono. Il De Bartolomeis arriva a dare di tale situazione una
rappresentazione simbolica.“un insieme di frecce che partendo dal
centro che è il maestro, hanno ciascuna come punto d’arrivo l’alunno, i
rapporti tra gli alunni mancano assolutamente di rilievo educativo. Da
questa educazione è esclusa ogni tipo di socialità, di lavoro in comune,
di partecipazione degli alunni al disciplinamento e all’organizzazione
della comunità scolastica”155
L’iniziale tentativo di sperimentazione dei laboratori è portato avanti
attraverso esperimenti episodici, modesti e senza l’appoggio di una
struttura. Solo a partire dal 1972 ebbe la possibilità di sperimentare in
modo continuo ed organico la sua idea organizzando, nell’Istituto di
Pedagogia di Torino, i laboratori per le attività sperimentali156,
incoraggiato dal proposito di dedurre dagli esperimenti condotti dagli
studenti dell’Istituto, nonché dalla conseguente loro sistemazione
teorica, materiale sufficiente per elaborare una sistemazione dei
laboratori fondata su una “concezione produttiva e sociale della
cultura”157, allo scopo di portare innovazioni nella pratica scolastica
abituale. Un rinnovamento che doveva porsi in accordo con la politica
socioculturale del tempo considerando l’importanza che i nuovi temi
emergenti nella società rivestivano, come il rapporto studio/lavoro, la
conversione del lavoro in servizio sociale, la formazione professionale
come qualificazione nella formazione sociale, coerentemente con il
concetto di produttività culturale. Riprende il De Bartolomeis un
Ivi, p.7.
Ivi, p. 8.
156 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori. Per una scuola nuova necessaria e
possibile, Feltrinelli, Milano, 1978. p. 285.
157 Ivi, p. 8.
154
155
concetto già espresso da Dewey nell’opera Scuola e società158
ribadendo la necessità di considerare il contesto sia scolastico che
sociale nell’avviare qualsiasi tipo di innovazione, inquadrando il più
ampio ambito dei problemi sociali, economici e politici di una società
all’interno della quale le innovazioni andranno ad inserirsi159. La scuola
attiva rappresenta per De Bartolomeis il futuro dell’educazione,
finalmente dinamica, qualcosa che “vive, si muove, si sviluppa”160. Un
tipo di scuola che, non confidando nell’apprendimento mediante
l’insegnamento collettivo e lo studio ricettivo degli argomenti di un
programma prestabilito, permetteva agli allievi di affrontare in modo
partecipe, secondo un metodo personale e problematico, i compiti
della loro educazione all’interno di un ambiente organizzato
adeguatamente per lo scopo da raggiungere.
In tale tipo di scuola De Bartolomeis poneva in risalto come la
formazione culturale, sociale, morale e affettiva del soggetto emergesse
da una molteplicità di esperienze, con l’aiuto di tecniche e materiali
diversi, dai lavori manuali, dalle occupazioni individuali e collettive,
dalle responsabilità e dalle iniziative assunte dagli allievi mediante la
guida degli insegnanti, indirizzate alla realizzazione di una varietà di
servizi indispensabili alla vita della comunità scolastica. L’esperienza
debartolomeisiana della scuola connessa all’Istituto di Pedagogia,
sebbene nata come quella di Dewey all’interno dell’Università di
Chicago, se ne discosta nell’obiettivo di avviare innovazioni scolastiche
in ogni ordine e grado dell’istruzione e per tale ragione si avvale
dell’opera di insegnanti che rivestono un ruolo indispensabile per
definire la metodologia da impiegare nei laboratori, la quale non deve
Cfr. J. DEWEY, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1972.
Ivi.
160 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori… cit, pp. 10-12.
158
159
rimanere confinata nelle aule ma estendersi alle diverse istituzioni
formative..
Mediante l’applicazione dei laboratori De Bartolomeis concepiva una
metodologia che rispondendo alle esigenze di mutamento del lavoro
educativo non si limitasse esclusivamente agli obiettivi didattici ma
fosse estendibile a centri culturali, colonie di vacanze, iniziative di
educazione permanente, di riqualificazione del tempo libero,
interessando anche istituzioni formative non scolastiche. Emerge dal
pensiero del pedagogista che i laboratori si configurano come “luoghi
attrezzati di materiali, strumenti e macchine in cui si svolgono lezioni
diverse da quelle di tipo tradizionale. Si presentano, infatti, come
istituzionalmente avversi alla lezione, allo studio libresco, al distacco
dalle cose e dai problemi, ai rapporti formali tra docenti e studenti, a
norme disciplinari esterne161. L’utilizzo di strumenti e macchinari per
sviluppare le diverse attività non viene concepito nel senso di
vincolare la produttività dei laboratori alla tecnologia quanto piuttosto
a ricostituire per gli allievi spazi di comportamento alternativi a quelli
tradizionali e capaci di creare rapporti diversi da quelli consueti. La
diversa finalità consiste nell’operare in direzione di obiettivi che
abbiano la realtà di prodotto inteso nel modo più vario: la soluzione di
un pensiero cognitivo, uno strumento, un congegno, una modificazione
dell’ambiente.
La produttività dei laboratori si determina in un’attività che attraverso
il mezzo della ricerca tende a risolvere problemi reali. La possibilità di
risoluzione ai problemi è offerta sia dall’interesse degli studenti e degli
esperti per temi politici, sociali, economici, sia dalla conseguente
trattazione di questi temi che trasformano i laboratori in luoghi di
progettazione, di ricerca, di iniziative da realizzare anche al fuori delle
161
Ivi, pp. 13-15.
istituzioni scolastiche162. L’obiettivo di dilatare la realtà extrascolastica
è perseguibile, a parere del pedagogista, lavorando affinché i laboratori
non rimangano circoscritti nell’edificio scolastico, delimitati in aree
determinate e arginate, ma si affaccino all’esterno offrendo
opportunità di incontro tra gli allievi e la realtà sociale nella sua
interezza.
Il Sistema dei laboratori163 del De Bartolomeis rileva come i prodotti
delle
attività
laboratoriali,
materializzandosi,
documentano
palesemente ciò che in essi si è riusciti visibilmente a produrre
rinnovando “i modi di formarsi della cultura”164 e mutando la vita
dell’uomo
in
tutte
le
manifestazioni:
a
scuola,
nel
lavoro,
nell’organizzazione socio-politica, nei rapporti affettivi, e tale
“produttività fa sentire come primario il bisogno del compimento, delle
connessioni”165. Nella concezione di De Bartolomeis produzione
culturale è produzione sociale. L’esperienza realizzata da De
Bartolomeis nell’Istituto di Pedagogia di Torino, sebbene nata come
quella di Dewey all’interno dell’Università, si pone come obiettivo
quello di avviare innovazioni nella scuola di ogni ordine e grado e,
perciò, si avvale della partecipazione e della collaborazione degli
insegnanti indispensabili, a parere del pedagogista, per definire con
precisione la metodologia da impiegare nei laboratori. Il rinnovamento
metodologico non deve rimanere confinato nella scuola ma espandersi
anche verso le istituzioni formative non scolastiche. La metodologia dei
laboratori
è
connaturata
ad
una
impostazione
non
curvata
esclusivamente su obiettivi didattici ma, sempre in una prospettiva di
rinnovamento educativo e sociale, estesa ad altri luoghi ed iniziative,
162Cfr.
F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo integrato, La
Nuova Italia, Firenze, 1983.
163 F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori…., cit.
164 Ivi, p. 15.
165 Ivi, p.16.
interessando un’area sempre più ampia. Per De Bartolomeis i
laboratori si configurano come “luoghi attrezzati di materiali,
strumenti e macchine in cui si svolgono lezioni diverse da quelle di tipo
tradizionale. Essi infatti, si presentano come “istituzionalmente avversi
alla lezione, allo studio libresco, al distacco dalle cose e dai problemi, ai
rapporti formali tra docenti e studenti, a norme disciplinari
estrinseche”166. L’impiego di strumenti, materiali e macchine non
implica un legame accentrativo della produttività dei laboratori con la
tecnologia ma tende a ricreare per gli allievi spazi di comportamento
alternativi a quelli tradizionali e in grado di creare rapporti differenti
da quelli consueti. La diversità consiste nell’operare in direzioni di
obiettivi che si realizzino in un “prodotto” che può essere inteso in
modi diversi: la soluzione di un problema cognitivo, uno strumento, un
congegno, una modificazione dell’ambiente, ecc. “Il rapporto progettoprocesso-prodotto non è vincolato costitutivamente all’esclusivismo
tecnologico (…)
importa
verificare la
congruenza laboratori-
produttività culturale per una grande varietà di obiettivi”167. La
nozione di “produttività” dei laboratori costituisce un elemento
centrale della concezione pedagogica attorno a cui essi si strutturano.
Essa si precisa in “un’attività che, attraverso il mezzo della ricerca,
tende a risolvere problemi reali. La risolvibilità di tali problemi è
misurabile sia dall’interesse degli studenti e degli esperti per temi
politici, sociali, economici, sia dalla conseguente trattazione degli
stessi, trasformando i laboratori in luoghi di progettazione, di ricerca,
di iniziative da realizzarsi anche fuori dalle istituzioni scolastiche”168.
Ivi, p. 15.
Ibidem.
168 T. IAQUINTA. La scuola laboratorio. La teoria deweyana e l’interpretazione di
Francesco De Bartolomeis, Edizioni Scientifiche Calabresi, Rende (CS), 2005. p. 123.
166
167
De Bartolomeis nella strutturazione del Sistema pone in rilievo i
risultati delle attività svolte nei laboratori che, concretizzati in
prodotti, dimostrano chiaramente ciò che si è riusciti a produrre.
Questo muta, conseguentemente, “i modi di formarsi della cultura”169
arrivando a mutare il vivere dell’uomo in tutte le diverse
manifestazioni: a scuola, nel lavoro, nell’organizzazione socio-politica,
nei rapporti affettivi, ecc.
L’istituzione educativa che si da una struttura laboratoriale è, dunque,
per De Bartolomeis, forma indispensabile per avviare il rinnovamento.
Nei suoi diversi aspetti costitutivi: metodologie d’apprendimento,
metodologie
di
produzione,
interdisciplinarità,
rapporto
scuola/extrascuola, organizzazione degli spazi, attrezzature, arredi,
approccio psico-clinico (ossia l’interesse per i rapporti interpersonali,
per i gruppi, e per le difficoltà che in essi insorgono) trovano reale
rappresentazione i diversi elementi che la compongono. I laboratori
così intesi da De Bartolomeis sono relazionati in un Sistema e
rappresentano nel loro aspetto didattico-organizzativo l’elemento
trasformativo170.
L’innovazione residente nella metodologia si allontana dalle ordinarie
tecniche di animazione, in uso nella scuola di tipo tradizionale, che
appaiono vincolate agli interventi e alle idee dei singoli, apparendo
prive di strutture e di continuità istituzionale. La metodologia si
presenta con un carattere di esclusività rispetto ai diversi tentativi di
DE BARTOLOMEIS, Sistema dei laboratori, cit. p. 16.
De Bartolomeis nel Sistema dei laboratori, a pagina 66 chiarisce: “Il collegamento in
Sistema dei laboratori si origina fa tre motivi fondamentali: perché in nome della
interdisciplinarità si presentano collegati fra loro, perché non è possibile sapere in
anticipo di quale laboratorio specifico necessiterà la ricerca lungo il corso del suo
svolgimento, perché la molteplicità delle attività che si svolgeranno all’interno di essi
viene controllata da una programmazione che, in relazione agli obiettivi da
raggiungere, necessita di misure organizzative che vanno dalla regolazione della
mobilità alla verifica dei risultati e delle operazioni che conducono ad essi, e che
consente di evitare confusione, disordine e frammentazione”.
169
170Il
realizzazione. In essa è contemplata la possibilità di fronteggiare il
nuovo, l’imprevisto, contribuendo allo sviluppo completo delle
esperienze dello studente. L’aspetto peculiare è legato alla mancanza di
un metodo normativo che trova nel concetto del “gradiente”171 il
cardine di tale metodologia, la sua concretizzazione.
Il termine gradiente non si inserisce solo come innovazione linguistica
nel sistema dei laboratori, esso è l’espressione di una concezione più
alta e più ampia che si rifà alla attività di ricerca che è propria dei
laboratori. Quest’ultima non può procedere secondo un piano che
viene prestabilito ad inizio lavori, che non può essere dettagliato e
preciso, ma avanza con un ritmo graduale e personale che mette a
fuoco via via i diversi problemi che si presentano e scoprendo di volta
in volta ciò che di inaspettato la ricerca ci porta a considerare. Accade
così che “al posto di una progettazione unica e completa ci sono
gradienti di progettazione a cui corrispondono gradienti di
teorizzazioni”172. Gradiente allora esprime una articolata sequenza di
ricerca, costituita da elementi differenti: problemi, progettazioni,
operazioni, osservazioni, individuazione di proprietà, teorizzazione. Lo
svolgimento delle diverse fasi della ricerca procede attraverso il
passaggio dal gradiente sperimentato verso tutti gli elementi che
compongono il lavoro scientifico nel suo complesso. Nel sistema dei
laboratori il concetto di gradiente rappresenta l’elemento innovativo
perché l’intenzionalità è ciò che da l’input sia allo scopo da raggiungere
che alla motivazione nel perseguirlo. L’ordine da seguire nel
perseguire il risultato ne costituisce la sistematicità, in posizione
strumentale, che promuove lo sviluppo della creatività. De Bartolomeis
vede nei laboratori non esclusivamente il loro carattere operativo ma
171
172
Ivi, p. 68.
Ibidem.
la sintesi dei due momenti, quello operativo e quello del teorizzare, e
proprio in tale sintesi che trova coerenza l’idea della pedagogia intesa
come costruzione scientifica che diventa applicativa. Non vuole essere
questa una semplificazione, ma è certo che non è possibile rintracciare
nella sola pratica o nella sola teoria risoluzioni indubbie alle
problematiche educative. L’attività teorica volta ad attribuire significati
e spiegazioni senza la pratica, come legittimazione delle teorie e
sviluppo di nuova esperienza, risulta un processo incompleto. E’
indispensabile la sinergia tra le due forze. La prassi avverte il bisogno
di un sostegno che le derivi da collegamenti a prospettive generali, di
sistemi di spiegazioni, dunque di un processo di teorizzazione. La
teoria dal suo canto acquista la sua compiutezza quando assume forma
nel corso dell’esperienza, la quale a sua volta origina nuova esperienza.
In un sistema laboratoriale sarebbe riduttivo pensare che sia solo la
metodologia a costituire l’elemento innovatore di questa concezione.
Diversi altri elementi si caratterizzano come innovativi. Possiamo
prendere in considerazione l’unione studio-lavoro, il rinnovato ruolo
dell’insegnante, la formazione professionale nella formazione di base, il
collegamento delle attività di laboratorio con le aree avanzate della
cultura ed infine la valutazione. Tutti elementi già presenti nella
riflessione del pedagogista e che ritornano per recuperare spazio nella
metodologia dei laboratori arricchendo, con la pratica, l’articolata ed
ampia teorizzazione pedagogica relativa ai precedenti. Sono diversi gli
elementi del pensiero pedagogico del De Bartolomeis che trovano la
loro giusta collocazione in questa modalità metodologica. Possiamo
ricordare la ricerca, la sperimentazione, l’interdisciplinarietà, il già
richiamato nesso teoria-pratica, la produttività, la socializzazione, la
collaborazione, il rinnovato ruolo dell’insegnante, l’apprendimento
motivato degli studenti, il lavoro di gruppo. Questi solo per citare
alcuni
degli
elementi
che
rappresentano
l’antipedagogia,
l’antididattica, l’antiscuola, in un rovesciamento delle situazioni e
condizioni che appartengono alla scuola tradizionale e che designano il
laboratorio non come l’ambizioso progetto destinato a pochi ma come
il modo ordinario di fare scuola, se per essa si intende l’opportunità
data ad ognuno di costruire le conoscenze.
L’avvio della riflessione del De Bartolomeis ha radici nell’ipotesi
deweyana del laboratorio, anche se lo studioso italiano caratterizza il
tema in maniera del tutto originale: i laboratori sono l’espressione
innovativa del sistema scolastico che coincide con il modo di fare
scuola ed a cui è logicamente commesso un rinnovamento sociale.
Connessa all’esperienza dei laboratori è La pratica del lavoro di
gruppo173, un’opera che sviluppa il tema dell’attuazione della ricerca
specialmente come lavoro cooperativo. La premessa imprescindibile
per questo tema si basa sul superamento della tradizionale lezione
frontale, considerata come metodo prevalente e spesso unico per
l’insegnamento
Non si possono attuare innovazioni metodologiche se queste non sono
suscitate e supportate da rinnovate idee educative. Le metodologie
innovative hanno bisogno di essere coniugate con rinnovate idee
educative poiché le sole tecniche, la didattica in senso stretto, non
possono
trasformare
il
rapporto
insegnamento-apprendimento
rendendolo innovativo. Necessita l’esame delle differenti situazioni, le
motivazioni che mobilitano energie e le indirizzino verso obiettivi
concreti i quali determinano atteggiamenti e situazioni mai usate.
L’educatore, attraverso l’agire pratico e concreto della didattica, deve
Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, La pratica del lavoro di gruppo, Loescher Editore, Torino,
1978.
173
essere capace di affrontare le differenti situazioni e fronteggiare i
problemi che si presentano cercando i mezzi per risolverli174.
Il cooperative learning come strategia metodologica, superando la
lezione tradizionale, è conforme ad un’impostazione produttiva
dell’apprendimento ed è uno tra i metodi adatti per operare
rinnovamento.
I laboratori sperimentati nell’Istituto di Pedagogia di Torino,
coerentemente alle esigenze educative degli studenti e dei docenti,
unitamente alle pressanti richieste formative della società ed al
rinnovamento che si intravedeva nelle istituzioni scolastiche negli anni
Ottanta, maturano nel De Bartolomeis due considerevoli riflessioni sul
piano teorico e su quello operativo. La prima considerazione deriva
dalla consapevolezza che la “scuola a struttura laboratori” costituisca il
futuro pedagogico-didatttico delle istituzioni, che si realizza nel
perfezionamento e nell’evoluzione dell’organizzazione educativa dei
laboratori. La seconda considerazione nasce dal costante lavoro di
ripensamento e perfezionamento del modo nuovo di “fare scuola”,
determinato dalla consapevolezza che il Sistema dei laboratori, pur
presentando tutta una serie di singolari e innovative caratteristiche,
non è esaustivo dal punto di vista delle attività educative.
L’organizzazione educativa non sta solo nella possibilità di attrezzarsi
degli
strumenti
indispensabili
per
sviluppare
pienamente
e
completamente queste attività175. D’altronde tale concezione rende i
laboratori strettamente legati agli strumenti che rendono realizzabile
questo nuovo modello di apprendimento, distanziandosi dalla pur
apprezzabile idea di laboratorio come “stato mentale”, privo cioè di
uno spazio fisico ad esso destinato o scarsamente corredato da sussidi
Ibidem.
F. DE BARTOLOMEIS, Le attività educative. Organizzazione, strumenti e metodi, La
Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 205-211.
174
175
didattici. Una ulteriore esigenza si aggiunge: l’esigenza di far
incontrare ogni componente della scuola con le risorse del territorio.
Attraverso il coinvolgimento delle istituzioni educative locali si può
realizzazione un processo educativo aderente alla complessa realtà
sociale che non può essere affidata esclusivamente all’agenzia
educativa e alle sue contenute risorse. Queste consapevolezze
spingono il De Bartolomeis verso nuove riflessioni, alla ricerca di
soluzioni adeguate alle diverse necessità che la scuola fronteggia nel
suo cammino nella direzione dei laboratori. Le opere scritte dal 1980
al 1989 (Fare scuola fuori dalla scuola, Orientamenti pratici per un
nuovo tempo pieno176, Scalettone pedagogico, Orientamenti per il lavoro
educativo177, Programmazione e sperimentazione178, Produrre a
scuola179, Le attività educative. Organizzazione, strumenti e metodi180,
Scuola e territorio, Verso un sistema formativo allargato181, Lavorare per
progetti182 tendono verso la riflessione ed al soddisfacimento delle
esigenze derivanti dagli aspetti emergenti e indispensabili del nuovo
modo di fare scuola. Questi scritti risultano strettamente connessi tra
di loro indicando una direzione pedagogico-didattica tesa al
rinnovamento del sistema educativo. In essi risulta chiara la difficoltà
di un sistema che fatica a rinnovarsi ed il tema dei laboratori percorre
itinerari diversificati ma appartenenti tutti ad una unica concezione
della metodologia.
F. DE BARTOLOMEIS, Fare scuola fuori dalla scuola. Orientamenti pratici per un
nuovo tempo pieno, Tirrenia Stampatori, Torino, 1980.
177 F. DE BARTOLOMEIS, Scalettone pedagogico. Orientamenti per il lavoro educativo,
Feltrinelli, Milano, 1982.
178 F. DE BARTOLOMEIS, Programmazione e sperimentazione, La Nuova Italia, Firenze,
1982.
179 F. DE BARTOLOMEIS, Produrre a scuola, Feltrinelli, Milano, 1982.
180 F. DE BARTOLOMEIS, Le attività educative. Organizzazione strumenti e metodi, La
Nuova Italia, Firenze, 1983.
181 F. DE BARTOLOMEIS, Scuola e territorio. Verso un sistema formativo allargato, La
Nuova Italia, Firenze, 1983.
182 F. DE BARTOLOMEIS, Lavorare per progetti, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
176
Nel voler raccogliere, in una sintesi non esaustiva quanto piuttosto
orientativa, la concezione del pedagogista sul tema oggetto del lavoro
possiamo dire che la caratteristica preminente dei laboratori
debartolomeisiani consiste nella necessità di porre in relazione
l’apprendimento ed il produrre, affinché ci possa essere un risultato
oggettivo che testimoni quello che si riesce a fare. Con “risultato
oggettivo” si vuole evidenziare quanto il problema della ricerca nasca
insieme con la documentazione. De Bartolomeis chiarisce come
“l’apprendimento essendo una forma di lavoro implica la relazione
mezzi-obiettivi
e, quindi,
apertura ai mezzi più adeguati fino a
giungere alle tecnologie digitali. E gli obiettivi progettati, in virtù della
ricerca, devono diventare risultati documentati e valutabili. La
struttura a laboratori non è chiusa e autosufficiente. I collegamenti con
l’esterno sono assolutamente necessari per la realizzazione dei suoi
scopi”183. All’interno dei laboratori sperimentati dal pedagogista si
progettava e si rappresentavano strumenti per raggiungere all’esterno
problemi “a dimensione reale”184, integrandoli anche con materiale
illustrativo, pur di contribuire a migliorarne la comunicazione.
L’apertura della scuola al territorio, il cui riferimento di solito è vago e
generico e, ciò che è peggio, non rientra in un piano di attività
educative, nel lavoro del De Bartolomeis è potenzialmente un insieme
molto diversificato di laboratori non scolastici utilizzabile per finalità
formative. Sottolineo potenzialmente perché occorre una preparazione
adeguata per non ridursi a visitare l’esterno senza piani e strumenti, e
per farne invece un insieme di luoghi di ricerche dove si incontrano
T. IAQUINTA, Francesco De Bartolomeis un antipedagogista della pedagogia, Anicia,
Roma, 2010, p.243.
184 Ibidem.
183
educatori diversi dagli insegnanti. Cambia quindi radicalmente il modo
di concepire e di praticare le attività formative185.
185
Ivi, p. 244.
3.2 Franco Frabboni
“La letteratura scientifica in campo educativo converge nell’attribuire
al laboratorio la capacità di combattere il nozionismo e la dispersione
scolastica nel nostro Paese”186, questo è l’incipit di Frabboni in un
capitolo del suo lavoro dedicato al tema187. Il laboratorio si qualifica
come metodologia efficace per combattere due dei maggiori mali che
affliggono la scuola italiana: il nozionismo e la dispersione188. La
concezione frabboniana prospetta, per risolvere tali mali, soluzioni che
vogliono evitare alle aule scolastiche di assumere la connotazione di
gabbie, relazionali e cognitive, preminenti
ed autosufficienti,
consentendo sempre la possibilità di interazione con gli spazi interni
ed esterni alla scuola. Risulta evidente come il pedagogista si richiami
alla
pratica
formativa
delle
classi-aperte189
quale
modalità
organizzativa multispaziale ed integrata del plesso scolastico. Da
questa premessa ha origine la sua tesi sui laboratori, nella quale
sostiene che questi dovrebbero essere presenti nelle istituzioni
educative per creare aree polivalenti, diversamente denominate, ma
F. FRABBONI, Il laboratorio per imparare ad imparare, Tecnodid, Napoli, 2005, p. 24.
Ibidem.
188 Cfr. F. FRABBONI, Didattica e apprendimento, Sellerio, Palermo, 2006.
189 L'istituzione di classi aperte prevista dal 1977 venne disciplinata dall'art. 4 del DPR
275/99 nell’ambito dell’autonomia didattica che riconosce alle scuole, tra l’altro, la
possibilità de: “c) l'attivazione di percorsi didattici individualizzati (…)”; “d)
l'articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o
da diversi anni di corso”; prescrivendo il rispetto, nell’adozione di queste forme di
flessibilità organizzativa, “criteri di trasparenza e di tempestività”, come previsto dalla L.
241/90. Inoltre, prosegue il citato articolo 4: “5. La scelta, l'adozione e l'utilizzazione
delle metodologie e degli strumenti didattici, ivi compresi i libri di testo, sono coerenti con
il Piano dell'offerta formativa di cui all'articolo 3 e sono attuate con criteri di trasparenza
e tempestività(…)”. Per completezza si aggiunge che il DM 179/99 all'art. 1 ter autorizza
le scuole a sperimentare: “c) articolazione flessibile del gruppo classe, delle classi o
sezioni, anche nel rispetto del principio dell'integrazione scolastica degli alunni con
handicap (normativa di riferimento: Legge 517/77, Legge 148/90, art. 14 Legge 104/92,
artt. 5, 7, 10, 126, 128, 167 e 491 del D.Lvo 16 aprile 1994, n. 297, art. 2 Legge 8 agosto
1995, n. 352.
186
187
tutte riconducibili alla metodologia laboratoriale. A tale metodo va
affidato l’impegnativo onere di dare vita alla ri-modulazione della
tradizionale impostazione didattica.
Frabboni attribuisce ai laboratori capacità di interazione sociale e di
qualità cognitiva in ragione del loro modo “collettivo” di fare cultura
attraverso dinamiche di aggregazione-disaggregazione-riagreggazione
degli studenti in gruppi mobili ed eterogenei di studio, ricerca e
creatività. Il laboratorio, o la metodologia laboratoriale, ha la
prerogativa di innestare nella scuola esperienze che individuano come
elemento centrale dell’apprendimento la qualità più che la quantità
delle conoscenze. Il come che precede il sapere.
Nella sua riflessione la didattica laboratoriale, al pari della fisica
materialità dei laboratori scolastici, comprova la qualità della
istituzione educativa, concorrendo ad attribuirle responsabilità
formativa al punto che il pedagogista afferma: “dimmi che laboratori
hai e ti dirò che scuola sei”190. La sigla distintiva dei laboratori egli la
rintraccia nella possibilità che tale strumento/metodo ha di incrociare
interdisciplinarmente ogni tipo di conoscenza che permetta di eludere
le barriere costrittive innalzate dagli statuti disciplinari racchiusi nei
Programmi Scolastici ed assumendo, per questo loro singolare aspetto,
la “morfologia di un’aula a progetto”191. Nella idea frabboniana la
scuola italiana necessita di percorsi diacronici di ammodernamento dei
dispositivi strutturali e culturali e tale opportunità viene offerta dal
percorso della scuola dei laboratori che può dare nuova dimensione
all’egemonia di pratiche di insegnamento/apprendimento ancora
rinchiuse nelle classi. Nel loro interno il pedagogista vede un “culto
dell’allineamento geometrico dei banchi individuali, della cattedra,
190
191
F. FRABBONI, Il laboratorio, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 76.
Ibidem.
della lavagna e l’obbligo del libro di testo uguale per tutti. Con questo
fallimentare risultato: tra le sue pareti rintocca un’istruzione nutrita di
pasticche didattiche preconfezionate e surgelate”192
Il laboratorio, dunque, può positivamente superare una antica visione
“totalizzante” della scuola a favore dell’identità del metodo di bottega,
di officina di apprendimento, al cui interno si intraprendono processi
di analisi-riflessione-reinvenzione dei “saperi” la cui prerogativa è
propria degli spazi extrascolastici. Mission della scuola deve essere
prioritariamente quella di insegnare ad apprendere e inventare e molto
meno quella di informare.
Il fine educativo dell’agenzia educativa non è quello di attrezzare gli
utenti di una istruzione materiale, il quanto sapere, cercando di
agganciare contenuti e nozioni disciplinari, ma piuttosto il come
sapere, finalizzato alla padronanza della conoscenza e della logica di
ogni disciplina, alla capacità di determinare i problemi della
conoscenza, le strategie di scoperta e di metodo, i dispositivi intuitivi e
inventivi. Elementi, questi che fanno emergere con chiarezza come la
scuola dei laboratori si configuri la sola capace di far scoprire
intelligenze
e
creatività,
giungendo
alla
finalità
deweyana
dell’imparare a pensare e ad inventare193.
Frabboni affida ai laboratori il compito di stimolare gli apprendimenti
superiori convergenti per fare-ricerca e gli apprendimenti divergenti
per fare-creatività.
Le richieste che la società avanza alla scuola sono quelle di formare un
allievo-persona, soggetto irripetibile e inviolabile e non un allievomassa, attraverso conoscenze-competenze che siano di lunga durata e
che non evaporino rapidamente. L’attuazione di un così impegnativo
192
193
F. FRABBONI, La scuola dei perché, www.irreer.it/labform/relfrabboni.doc
Cfr. F. FRABBONI, La didattica motore della formazione, Pitagora, Bologna, 1999.
processo è affidata alla didattica, il cui scopo è quello di trasmettere
conoscenze e saperi, modelli e valori attraverso il passaggio dalla
scuola all’allievo194.
Il modello didattico costruito su un repertorio laboratoriale costituisce
il fil rouge che guida i diversi gradi della istruzione fino al lifelong
learning.
Tutte le caratteristiche che il pedagogista rintraccia nel laboratorio si
concretizzano
nella
promozione
della
motivazione,
nella
partecipazione attiva mediante il fare degli allievi, nella scoperta dei
perché e della loro risposta, nel rispetto degli “stili” cognitivi di chi la
frequenta,
favorendo
un
apprendimento
su-misura,
nel
ridimensionamento dell’immutabile dominio dell’aula-classe quale
unico luogo di capitalizzazione delle conoscenze forzatamente di tipo
trasmissivo-riproduttivo, nella possibilità di sviluppare un’istruzione
fondata sulla “ricerca”, quindi sull’imparare da soli, scoprendo
conoscenze ricche di attualità e di problematicità, spesso direttamente
verificabili ed ancora nella contribuzione ad una effettiva integrazione
dei soggetti con difficoltà di socializzazione e di apprendimento195.
Nella impostazione a laboratorio il protagonista della scena educativa è
l’allievo e la valorizzazione del suo mondo di cose e valori.
Laboratorialmente si può giungere a materializzare ogni azione in
quanto esso è lo spazio che consente di avviare l’analisi dei bisogni e
degli interessi di cui gli allievi sono portatori, del loro ambiente di vita,
del loro linguaggio e modo di pensare ma anche dei diversi livelli
cognitivi e della capacità di riproduzione, di comprensione di ognuno
per la costruzione e creazione di conoscenze. Il laboratorio è inteso
Cfr. F. FRABBONI, Didattica generale. Una nuova scienza dell’educazione, Milano,
Bruno Mondadori, 1999.
195 Cfr. F. FRABBONI, Il laboratorio per imparare…, cit.
194
come “officina di metodo”196 i cui arnesi di lavoro vengono utilizzati
per allenare le intelligenze e la fantasia, mandando in pensione la
didattica preconfezionata e ripetitiva.
I bisogni/motivazioni dello studente, quali la comunicazione, trovano
nel laboratorio la sede naturale per attribuire dimensione formativa ai
linguaggi verbali e non verbali così come il bisogno di socializzazione,
per la disponibilità strutturale che vede nel laboratorio la possibilità di
attività individuali e di gruppo che favorisce l’incontro tra le età, i sessi,
le etnie, Il movimento, l’autonomia, spazio irripetibile per accrescere
nell’allievo la percezione di un ambiente didattico che richiede
autosufficienza,
la
divergenza,
la
manualità,
la
fantasia
e
l’autoapprendimento. Aspetti che vengono fortemente marginalizzati
dalla società della cultura mediatica e consumistica ma che sono
riportati nel loro giusto significato dal metodo di laboratorio e che
danno soddisfazione ai bisogni espressi dal giovane. Non solo viene
attribuito al laboratorio il merito di risvegliare e movimentare tali
bisogni/motivazioni ma anche il pregio di stimolarne di nuovi ed
originali che si qualifichino come interessi formativi. A conferma della
attenzione che il laboratorio manifesta verso la comunicazione e la
socializzazione troviamo sostegno nelle parole di Hermann Giesecke
che hanno il pregio di richiamare l’attenzione sulla relazione
interpersonale quale perno dei processi formativi. Giesecke ritiene che
“l’interesse principale della pedagogia non consiste nella spiegazione
dei contenuti, e con ciò nella preoccupazione di scoprire la verità,
quanto piuttosto nella dimensione relazionale umana”197.
196
197
F. FRABBONI, Il laboratorio, cit. p. 12.
H. GIESECKE, La fine dell’educazione, Anicia, Roma, 1990, pp. 30-31.
Il laboratorio nella sua dimensione di ambiente culturale si qualifica
quindi come il contesto didattico di costruzione della conoscenza, della
ricerca e della creatività.
Frabbroni rintraccia, inoltre, la valenza pedagogica della didattica
laboratoriale per lo studente divers-abile poiché essa si contrappone
alla professionalità enciclopedica e solitaria dell’insegnante. Un
ambiente con tale struttura assicura una prossemica dalle polivalenti
modalità socio-affettive e cognitive, in sintonia con i processi formativi
dei soggetti con disabilità che chiedono di stare con gli altri e di agire
su oggetti concreti. La disponibilità di laboratori scolastici permette
allora di trovare adeguate soluzioni all’universo della diversità di
allievi mai identici.
L’innovazione del laboratorio è indissolubilmente connessa con
l’adozione di un nuovo metodo. La scuola dei laboratori è emblema di
un contesto formativo che si libera dalla logica cognitiva dei saperi
depositari, nozionistici ed enciclopedici, per abbracciare i saperi
euristici, problematici, costruttivi e concreti. Si affaccia cioè
nuovamente l’aspetto del laboratorio quale officina di metodo nella
quale l’intelligenza e la fantasia si allenano in direzione del doppio
traguardo deweyano dell’imparare ad imparare e dell’imparare a
creare. La ri-produzione delle conoscenze si fa spazio quando l’allievo
è messo di fronte alla trasmissione-acquisizione degli alfabeti di base,
la grammatica delle discipline, che gli forniscono il controllo delle
condotte linguistiche, matematiche, scientifiche, ecc.. Sono padronanze
monocognitive di uso sociale fondamentali per comunicare, osservare e
capire. Nella ri-costruzione delle conoscenze l’allievo approfondisce le
conoscenze
acquisite
intraprendendo
indagini
supplementari
attraverso i diversi mediatori didattici198, dalla lezione dell’insegnante
all’utilizzo dell’informatica, agendo su un piano metacognitivo nel
quale si producono indagini di secondo livello sul sapere trasmesso.
Giunge infine la re-invenzione e trasgressione delle conoscenze
durante le quali l’allievo accede alla attività di ritrascrizionetrascrizione-creazione personale dei materiali cognitivi raccolti ed
elaborati durante la prima fase monocognitiva (riproduttiva) e la
successiva fase metacognitiva (ricostruttiva).
Il laboratorio sul piano metodologico si configura quale ambiente
ideale per attività di Ricerca-Azione il cui elevato valore di metodo è
quello di stringere in un unicum teoria e prassi della formazione
educativa. La ricerca-azione valorizza la scuola quale soggetto attivo di
conoscenza e di cambiamento. E’ un modello inquisitivo di riconosciuto
valore scientifico nell’ambito delle procedure di indagine-scoperta in
ambito scolastico. Il suo pregio investigativo è quello di essere
epistemologicamente molto forte proprio per il suo rigoroso sistema di
ipotesi (teoria) e di efficaci strategie operative (prassi). Per questo suo
apparato concettuale e materiale la ricerca-azione appare idonea ad
interagire dialetticamente con le altre epistemologie della ricerca in
campo
pedagogico
(storica.
teoretica,
comparata,
empirica,
sperimentale e clinica), proponendosi quale punto di confluenza e di
sintesi di tale fenomenologia investigativa. Nella ricerca-azione tra i
destinatari rientrano anche i docenti in quanto essi fanno ricerca, ed il
laboratorio è il contesto adatto alla formazione-aggiornamento in
servizio dei docenti. Nella ricerca-azione il soggetto che investiga e
l’oggetto di investigazione sono posti in dinamiche metodologiche di
Per mediatore didattico si intende tutto ciò che conduce ad una azione produttiva
della conoscenza, sia essa materiale o immateriale. Per approfondire vedi: E. DAMIANO,
La lingua nel sistema dei mediatori didattici, in F. CAMPONOVO e A. MORETTI (a cura
di), Didattica ed educazione linguistica, La Nuova Italia, Firenze, 2000, pp. 55-76.
198
tipo circolare. L’uno e l’altro sono strettamente collegati all’interno di
un’esperienza sistemica e sinergica che appartiene alla ricerca che
attraverso l’azione genera un cambiamento nel circolo dei protagonisti
dell’indagine formativa. Tali legami non creano separazione nè
tantomeno gerarchizzazione tra gli attori della ricerca ma stabiliscono
invece
coinvolgimento
in
un’azione
inquisitiva
che
assicura
emancipazione individuale e trasformazione sociale199.
Sono cinque gli elementi qualitativi che, secondo Frabboni, qualificano
il laboratorio:
1. ridimensiona l’egemonia della aula-classe quale unico luogo di
erogazione delle conoscenze, esclusivamente di tipo trasmissivoriproduttivo;
2. favorisce negli studenti la motivazione e la volontà di fare nella
scoperta delle ragioni e nel cercare la risposta a queste;
3. rispetta gli stili cognitivi di ognuno;
4. incentiva un’istruzione fondata sulla ricerca, nell’imparare da soli.
5. riduce le difficoltà relazionali ed i ritardi cognitivi degli studenti che
possono trovarsi ai margini dei processi di socializzazione e di
apprendimento.
In sintesi il pedagogista riconosce ai laboratori meriti di natura sociale,
pedagogica e cognitiva.
Dal punto di vista sociale nei laboratori si riducono notevolmente le
cifre di selezione e di discriminazione dell’utenza che abitualmente
sono massicce in una classe statica e ritualistica e ciò porta a non
separare i piccoli dai grandi, gli ipodotati dai normodotati, gli scolari in
gruppi. In esso l’utenza è laboriosa, partecipante, interessata,
impegnata. In una parola potremmo dire che essa è attiva. L’utenza è
rappresentata da studenti, bambini ed adolescenti, che vivono il gusto
199
Cfr. F. FRABBONI, Didattica e apprendimento, cit.
della scoperta poiché in piena autonomia scoprono i propri interessi,
soddisfano curiosità, risolvono dubbi. Ancora, essi sono dotati di
dinamiche plurime di aggregazione-disagreggazione-riaggregazione
degli allievi in gruppi eterogenei di studio200.
Dal punto di vista pedagogico il laboratorio è capace di proporre
conoscenze che hanno al centro la qualità degli apprendimenti. Esso è
rivolto alle conoscenze meta cognitive, come il perché sapere, la
capacità di impostare con chiarezza logica i problemi cognitivi, le
strategie di scoperta e di metodo, le pratiche operative di applicazione
delle conoscenze, le procedure di intuizione e di invenzione di
soluzioni inedite, impreviste. Inoltre, nella sua morfologia didattica, il
laboratorio può riabilitare e rivitalizzare motivazioni infantili e
adolescenziali che possono essere depauperate e declassate nella
società mediale201.
Sul versante cognitivo il suo compito è quello di allenare gli
apprendimenti superiori convergenti e gli apprendimenti superiori
divergenti.
Scopo formativo del laboratorio, infine, non può essere l’istruzione
materiale202.
Ibidem.
Ibidem.
202 Cfr. F. FRABBONI, La scuola dei perché, op. cit.
200
201
3.3 Massimo Baldacci
Il primo aspetto che Baldacci rileva, a proposito dei laboratori, è quello
del loro offrirsi, dal punto di vista strettamente pedagogico, quale
strumento di innovazione scolastica, sia essa organizzativa, pedagogica
o didattica.
Nel suo aspetto Organizzativo esso prospetta una nuova prossemica
degli spazi scolastici; in quello Pedagogico il laboratorio accresce i
meccanismi di socializzazione conferendo un più ampio respiro
rispetto a quello che offre l’aula; in ambito Didattico, infine, incoraggia
un insegnamento fondato sulla ricerca anziché sulla lezione frontale.
Il pedagogista ritiene necessario, nell’affrontare l’argomento, fornire
una chiarificazione di significato. Egli offre due descrizioni: una ampia,
l’altra schematica.
Nel suo significato schematico, quello al quale, comunemente, si fa
riferimento, il laboratorio altro non è che uno spazio attrezzato in cui si
svolge un’attività centrata su un certo oggetto culturale203. Questa
definizione consente di giungere ad una prima identificazione delle
categorie che risultano anticipative rispetto alla prassi: l’oggettualità,
la spazialità e l’attività del laboratorio.
Per quanto attiene all’oggettualità il laboratorio è sempre riferito a
qualcosa di preciso: laboratorio di…., rimandando ad una progettualità
che troverà realizzazione in una specificità oggettuale; lo spazio ad
esso dedicato è determinato ed è rappresentato da attrezzature
proprie in un luogo prestabilito, andiamo nel laboratorio di…; un luogo
altro rispetto all’aula-madre; l’attività si realizza attraverso un lavoro
attivo, l’apprendere attraverso il fare.
Cfr, M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, in Bambini pensanti,
Settore servizi per l’infanzia, Divisione Servizi Educativi, Città di Torino, 2008.
203
Superando un primo approccio schematico per la definizione del
termine, la parola laboratorio è polisemica, viene cioè utilizzata con
diversi significati i quali necessitano di una ricostruzione la logica
Volendo dare al concetto una definizione ampia possiamo inserire nel
suo
significato
ogni
situazione
didattica
caratterizzata
dalla
partecipazione attiva all’apprendimento. In ragione di ciò tutto può
diventare laboratorio, anche uno spazio non intenzionalmente ad esso
dedicato. Secondo tale significato il termine ha una valenza
programmatica circa la “qualità della pedagogica dell’attività che si
svolgerà, pertanto il far laboratorio si fa tale in ragione della qualità
dell’attività”204
Le due accezioni a cui il pedagogista fa riferimento possono
corrispondere a due ipotetiche concezioni del laboratorio, di carattere
parziale e unilaterale.
Schematicamente possiamo riferirci al laboratorio come “spazio fisico”,
in quanto contiene l’attività, e come “contesto”, definendone il
significato dell’attività. Risulta, dunque, laboratorio come “territorio”,
semplice materialità, ed il laboratorio come “mappa”, status mentale
attivo e riflessivo.
La integrazione di questi due aspetti concettuali è necessità
pedagogica,
poiché
lo
spazio
materiale
che
non
contempli
l’atteggiamento mentale è inutile, ma è anche vero il contrario cioè che
l’atteggiamento senza condizioni materiali adeguate è impotente. Da
queste considerazione Baldacci giunge all’idea di laboratorio: esso è
spazio materiale unitamente all’atteggiamento mentale, come contesto
fisico e simbolico insieme; idea la cui funzione, squisitamente
metodologica, è quella di natura eminentemente antidogmatica di
204
Ivi, p. 1.
promuovere un’attenzione pedagogica equilibrata tra due componenti
della prassi educativa205.
3.3.1 Il setting del laboratorio
La spazialità del laboratorio fa riferimento alla prossemica, vale a dire
al linguaggio dello spazio. In esso le relazioni spaziali, le distanze, gli
orientamenti, le separazioni ecc. sono significanti poiché manifestano e
caratterizzano usi, dinamiche, rapporti per i quali un certo spazio è, o
sembra, fatto per questo fine. Significatività dello spazio che già Dewey
aveva considerato importante poiché dalle prossemiche e dagli
ambienti scolastici si possono ricostruire le funzioni didattiche
implicite, “come il biologo con un osso o due può ricostruire l’intero
animale così noi, se rievochiamo dinanzi alla nostra mente un’aula
scolastica ordinaria […] possiamo ricostruire l’unica attività educativa
che sia possibile svolgere in siffatto spazio.
3.3.2 Gli spazi tradizionali
Nella didattica tradizionale dalla prossemica dell’aula-madre risulta
chiaro come essa sia stata organizzata per la trasmissione culturale che
fa perno attorno all’insegnante che espone mentre l’alunno ascolta206.
In laboratorio la prossemica è diametralmente opposta.
Nel suo
interno tutto è disposto in modo da poter agire ed interagire. Le
richieste rivolte all’alunno nell’aula-madre sono di ascolto, quelle
rivolte allo studente in laboratorio sono di azione. Poiché ogni contesto
è identificato come tale sulla base di qualche segno segna-contesto la
205
206
Ivi, p.2.
J. DEWEY, Scuola e società, cit. p.24
prossemica del laboratorio può divenire il segna-contesto di un
contesto di apprendimento attivo. E’ un meta messaggio che identifica
la natura del contesto207.
Lo spazio laboratoriale veicola laboratorialità come spazialità di
situazione, innesca un atteggiamento mentale suscitando certe “attese”
nell’alunno quando viene condotto in laboratorio. Ecco che la spazialità
condiziona il comportamento ma anche l’atteggiamento. Frabboni
avanza l’ipotesi che l’aspetto prossemica, in quanto “segno”,
rappresenta l’aggancio tra la dimensione fisica e quella mentale del
laboratorio208.
3.3.3 Il fare in laboratorio
L’aula-madre è deputata all’ascolto poiché nella didattica di stampo
tradizionale si pensa che la conoscenza possa essere trasmessa
attraverso le parole. Di conseguenza l’allievo apprende attraverso
l’ascolto.
Baldacci mette in guardia dal considerare errato l’apprendimento
come una forma necessariamente passiva, perché di certo può esserci
un ascolto passivo e meccanico, in cui le parole sono solo memorizzate
ed un ascolto attivo, in cui l’alunno è impegnato attivamente nella
comprensione cercando di collegare il contenuto della comunicazione
con la propria esperienza e con le proprie conoscenze. Nonostante ciò
il mezzo verbale è unilaterale. L’istruzione attraverso il linguaggio è
affidata alle capacità riorganizzative delle conoscenze che l’individuo
207
208
G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976, pp. 313-314.
Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia…, cit.
possiede da altre fonti esperienziali209. Anche se la funzione
riorganizzatrice è potente e rappresenta un moltiplicatore di grande
forza delle possibilità di apprendimento dell’essere umano. Per questi
motivi l’apprendimento dall’esperienza è un elemento necessario della
formazione in quanto è il materiale dell’esperienza che viene
sistematizzato dall’istruzione verbale. Dall’esperienza si impara anche
e soprattutto al di fuori della scuola e prima ancora di iniziare la
frequenza scolastica. Tuttavia la scuola, mentre provvede a rifornire gli
alunni di strumenti cognitivi necessari per riorganizzare queste
esperienze, deve preoccuparsi anche di accrescere il loro bagaglio
esperienziale relativamente ad ambiti e modalità che si ritrovano meno
frequentemente nell’extrascuola.
Richiamando ancora Dewey210, Baldacci riafferma come l’esperienza
comprenda un aspetto attivo e uno passivo armonizzati in modo tale
che il primo, sotto forma di azione-tentativo, precede il secondo, nel
quale si sottostà alle conseguenze dell’azione compiuta. Pertanto
“imparare dall’esperienza significa fare una connessione reciproca fra
quel che facciamo alle cose e quel che ne godiamo o ne soffriamo di
conseguenza […], in queste condizioni il fare diventa un tentare: un
esperimento col mondo per scoprire che cos’è; e il sottostare diventa
istruzione: la scoperta di un nesso tra le cose”211.
L’apprendimento
dall’esperienza
laboratoriale in cui l’alunno è
rimanda
ad
una
situazione
attivamente impegnato nello
sperimentare, nell’osservare le conseguenze ecc..
L’apprendimento
attraverso
l’esperienza
diretta
non
implica
necessariamente immediatezza, essa è sempre mediata da qualche tipo
di azione in un ambito specifico. La conoscenza si ottiene attraverso
D. R. OLSON, Linguaggi, media e processi educativi, Loescher, Torino, 1976, p.122.
J. DEWEY, Democrazia ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 186.
211 Ivi, p. 187.
209
210
l’attività esecutiva in un certo campo culturale o medium212, non si
acquisisce indipendentemente dai mezzi usati ma secondo forme a
questi specifiche. Anche secondo Dewey il pensiero è specifico quando
sostiene che “… è desiderabile che l’insegnante si liberi dall’idea che il
pensiero sia un’unica inalterabile facoltà; che riconosca che “pensare” è
un termine che denota i vari modi in cui le cose acquistano significato
per l’individuo […]. Il pensiero è specifico, non un apparato meccanico
bell’è pronto, capace di volgersi indifferentemente e a piacere su tutte
le materie […] così lo sviluppo della mente si attua attraverso la
organizzazione logica delle materie trattate”213.
L’intreccio tra il carattere attivo dell’apprendimento con la specificità
della materia trattata diviene indispensabile. Nel caso del laboratorio
questo significa considerare l’apprendere in riferimento all’oggetto
specifico a cui fa riferimento214.
3.3.4 Specificità del laboratorio
Un laboratorio è specifico quando si riferisce a qualcosa di preciso:
laboratorio di … scienze, musica, ecc,. Tale oggettività può applicarsi
sia ai Laboratori disciplinari, detti anche “aule speciali”, quanto ai
laboratori pluridisciplinari, centrati su “occupazioni” trasversali alle
materie. E ancora esso può essere specifico per medium, per campo di
attività culturali, e/o per dominio, simbolico-conoscitivo.
L’apprendimento attivo innestato su questi ambiti di specificità tende
però a generare livelli logici di apprendimento differenti, che è
opportuno distinguere per evitare ambiguità che non permetterebbero
di cogliere con chiarezza la problematica formativa del laboratorio.
212D.
R. OLSON, Linguaggi, media… cit., pp. 108-109.
J. DEWEY, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 111.
214 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come…., cit.
213
Accettando solo il livello logico, l’apprendimento laboratoriale si
concretizza nella trattazione di tematiche specifiche relative ad un
certo ambito culturale. Per esempio nell’esecuzione di esperimenti,
osservazioni ecc. su singoli contenuti culturali. Questo livello induce
ad apprendere qualcosa sul dato argomento che ottimizzata la
conoscenza attraverso la connessione dei due aspetti dell’esperienza, il
compimento di certe azioni e l’osservazione di certe conseguenze, che
agisce anche sul piano motivazionale per la natura ludiforme
dell’attività.
Fermare
l’attenzione
solo
a
questo
livello
secondo
Dewey
significherebbe “trascurare il sottostante processo di formazione di
abiti, attitudini e interessi permanenti”215. Il richiamo è quello di
avanzare ad un secondo livello logico, più profondo, al cui interno si
apprendono non singoli e particolari contenuti, ma “abiti mentali”,
“atteggiamenti”, acquisendo modalità di funzionamento cognitivo
costanti. Queste due distinzioni sono estremamente importanti in
quanto se ci si ferma agli effetti di primo livello, al fatto che con
l’attività in laboratorio si può imparare qualcosa su un determinato
argomento, allora si può anche osservare che altre procedure, per
esempio il vedere un filmato sullo stesso argomento, possono essere
egualmente
efficaci.
Viceversa
se
si
pone
la
questione
dell’acquisizione di abiti mentali allora si deve convenire che assistere
a filmati e compiere esperienze laboratoriali portano, nel lungo
termine, ad effetti sensibilmente differenti.
Baldacci coglie l’analogia tra la differenza evidenziata da Dewey e
quella identificata da Bateson216 tra i “tipi logici” dell’imparare,
distinguendo il proto- apprendimento, o anche apprendimento di primo
215
216
J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 124.
G. BATESON, Verso un’ecologia…, cit., pp. 205ss.
livello,
relativo
all’imparare
deuteroapprendimento,
o
conoscenze
apprendimento
e/o
di
abilità,
secondo
dal
livello,
consistente nell’imparare ad apprendere una certa classe di compiti tra
loro simili.
Se il laboratorio ha specificità in un campo di attività culturale, un
aspetto di queste acquisizioni di secondo livello consiste nell’imparare
ad apprendere i compiti “simili” per “campo di attività”, ossia
nell’acquisire l’abito mentale specifico ad un certo medium, quindi una
intelligenza; secondo Olson217 un’abilità in un medium. L’acquisizione
di “abiti mentali” rappresenta un risultato formativo di lungo termine.
“Gli abiti mentali” possono essere considerati formae mentis simili a
quelle descritte da Haward Gardner218, cioè “mentalità” particolari per
dominio o medium. Secondo la tesi di Gardner, inoltre, una intelligenza
possiede un’abilità di risolvere problemi e produrre opere entro uno
specifico campo culturale. Costituisce, dunque, dominio-specifico ed
inevitabilmente lo spazio più adeguato è il laboratorio in quanto in
esso è quanto precisamente si fa.
La varietà delle intelligenze richiede un sistema di laboratorio capace
di sostenere forme costanti di stimolazione. Certamente è un rapporto
complesso quello tra “laboratori” ed “intelligenze” in quanto non vi è
necessariamente una corrispondenza uno-a-uno. Una determinata
attività può necessitare della cooperazione tra più intelligenze ed
anche una intelligenza può essere “distribuita” in più laboratori. Ciò
che rimane è la correlazione organica tra laboratorio e produzione, uno
stretto legame tra il laboratorio e il metodo dei progetti219.
Cfr. D.R. OLSON, Linguaggi, media…, cit.
Cfr. H. GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Feltrinelli,
Milano, 1987.
219 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, op. cit.
217
218
3.3.5 Connessioni laboratoriali
Il quadro della problematica formativa del laboratorio necessita di
ulteriori osservazioni sui livelli logici degli apprendimenti che in esso
possono realizzarsi. Baldacci si riaggancia a Dewey il quale ha
sostenuto che, sulla base della promozione di riflessione che vi si può
ritrovare220, si possono distinguere due generi di esperienza221: la
prima che è un procedimento per prove ed errori nel quale si osserva
che una certa azione e una certa conseguenza sono connessi, senza
cogliere o cercare di cogliere attivamente come tale connessione
avvenga, la seconda che un’esperienza è di natura riflessiva nella quale
il pensiero è intenzionato a cogliere la connessione tra le azioni, le
conseguenze ed il nesso che le collega.
Tenendo come punto di partenza quest’ultima riflessione, a riguardo
degli apprendimenti che si realizzano in laboratorio, si può ipotizzare
un aspetto di terzo livello rappresentato da una evoluzione dell’abito
mentale, quello che Dewey definisce “pensiero riflessivo”. Intendendo
con ciò una modalità di pensiero ordinata e consequenziale, guidata da
una finalità, quindi protesa ad una conclusione spingendosi attraverso
l’indagine, “… l’attiva, costante e diligente considerazione di una
credenza o di una forma ipotetica di conoscenza alla luce delle prove
che la sorreggono e delle ulteriori conseguenze alle quali essa tende,
costituisce il pensiero riflessivo”222.
Questo pensare in modo riflessivo non è un processo cognitivo che si
aggiunge agli altri
ma il modo in cui tali processi sono svolti223.
J. DEWEY, Democrazia ed educazione, cit., pp. 193-194.
Ibidem.
222 J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 68.
223 Ivi, pp. 121-122.
220
221
Considerare tale modalità come un ulteriore schema che si aggiunge
agli altri condurrebbe a commettere l’ errore che Ryle224 definisce
errore categoriale indicando, nel caso specifico, la maniera di
svolgimento di certe operazioni che vengono considerate aggiuntive è
da cercarsi accanto alle altre.
Il pensiero riflessivo può allora essere considerato dominio-generale
nel senso che tale processo ha una struttura analoga entro ciascun
particolare dominio conoscitivo. Rievoca per analogia il processo di
ridescrizione rappresentazionale ipotizzato dalla Karmiloff-Smith225
che si spinge oltre il livello modulare della mente.
Baldacci conclude il suo pensiero ipotizzando come questo imparare a
pensare in modo riflessivo consista, primariamente, nell’acquisizione
di un atteggiamento riflessivo, pari ad una propensione generale a
riflettere sulla propria attività in tutte le fasi del suo farsi. Accettando
che la riflessività è una modalità del pensiero dobbiamo concludere
che la sua educazione è indiretta in quanto “il problema del metodo
nella formazione di abiti di pensiero riflessivo è quello di stabilir[ne] le
condizioni […] il metodo include non soltanto ciò che [l’insegnante]
intenzionalmente escogita ed impiega ai fini dell’educazione mentale
ma anche ciò che fa senza riferimento cosciente ad essa, tutto ciò che
nell’atmosfera e nella condotta della scuola reagisce in certo modo
sulla curiosità, sulla responsabilità e sull’ordinata attività dei
fanciulli”226.
Baldacci segue le ipotesi deweyane, asserendo quanto il “contesto” sia
parte essenziale del metodo. Si può chiarire questa asserzione notando
che per Bateson l’apprendimento di livello logico superiore consiste
nell’apprendere il contesto dell’apprendimento di livello logico
Cfr. G. RYLE, Lo spirito come comportamento, Roma-Bari, Laterza, 1982.
Cfr. A. KARMILOFF-SMITH, Oltre la mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1995.
226 J. DEWEY, Come pensiamo, cit., pp. 122-123.
224
225
inferiore227. Il deuteroapprendimento implica, appunto, imparare il
contesto
del
proto
apprendimento.
Conseguentemente
nelle
esperienze in laboratorio non si apprende solo relativamente ai singoli
contenuti di quelle esperienze o sul medium che le accomuna, nel lungo
periodo si apprende anche il “contesto laboratoriale” basato
sull’atteggiamento investigativo-riflessivo, sulla disposizione a porsi
problemi e ad affrontarli attivamente in maniera riflessiva. Dewey
ritiene che esiste questa “disposizione generale” ad “affrontare in
modo altamente pensante i problemi che si presentano nel corso
dell’esperienza”228, tuttavia essa non dipende solo dalla conoscenza e
dalla padronanza di metodi di indagine, essa è influenzata da quelle
che lo studioso americano chiama “certe attitudini dominanti nel suo
stesso carattere”229 Questi atteggiamenti o attitudini per Dewey “sono
di per se stesse qualità personali, tratti del carattere [che] devono
essere coltivati”230 in quanto favorevoli all’uso del pensiero riflessivo e
di appropriati metodi di ricerca.
Per cogliere le implicazioni di queste posizioni i due termini
“coltivazione” e “tratti del carattere” devono essere minimamente
chiariti.
Occorre notare come la metafora della coltivazione231 rinvia ad un
preciso periodo che si interpone tra la semina ed il raccolto, un periodo
di attesa dei risultati che non si ottengono nell’immediato, ma nel
medio-lungo periodo e che richiede una costante cura. È evidente come
questa metafora rinvii ad una precisa strategia, ad una arco di tempo
lungo necessario ad impostare e coordinare i mezzi necessari per
Cfr. G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, cit.
J. DEWEY, Come pensiamo, cit. p. 97.
229 Ivi, p. 99.
230 Ibidem.
231 Cfr. N. FILOGRASSO, R. TRAVAGLINI, Dewey e l’educazione della mente, Franco
Angeli, Milano, 2004.
227
228
raggiungere obiettivi di lungo termine232. Ecco dunque che lo studioso
sottolinea la necessità di un richiamo curricolare, intendendo per
curricolo un dispositivo che permette di pensare il percorso formativo
nella sua complessità. “Il laboratorio è una strategia didattica. Ha un
ruolo e una rilevanza strategica nel curricolo scolastico, come
dispositivo di formazione indiretta della mente: struttura un contesto
che ha effetti di lungo termine e di secondo livello sugli abiti mentali,
creando le condizioni appropriate per il pensiero riflessivo233.
L’espressione “tratti del carattere” di Dewey si riferisce ad elementi
costanti della struttura mentale di una persona che, divenute abitudini,
lo caratterizzano.
Baldacci si interroga su quali siano le caratteristiche del contesto
laboratoriale che consente agli apprendimenti di primo livello di
passare al livello successivo, divenendo un abito mentale connesso al
pensiero riflessivo, ed ancora su quale debba essere il contesto
laboratoriale per poter favorire l’apertura mentale, la flessibilità, la
coerenza, la profondità.
Dewey risolve il quesito proponendo come soluzione il contesto
democratico nel quale il dubbio può abitarvi ed il problema porsi senza
obbedire a dogmi precostituiti, un contesto nel quale le idee trovano
accoglienza e rispetto, vengono vagliate con la discussione e con la
prova dei fatti
e dove il formatore si caratterizza per uno stile
democratico. Il significato di “cultura democratica è cultura accessibile
a tutti […] l’essenziale è che non vi siano ‘autorità’, che la cultura si
fondi su qualcosa che tutti possano verificare in comune, ‘vedere’
insieme […]. Una verità quindi costituita da ‘stipulazioni’ liberamente
232
233
Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come strategia didattica, cit.
Ivi, p. 5.
accettate234. Putman sottolinea come la “democraticità del contesto di
ricerca non sia soltanto una legittimazione etica ma anche
metodologica: un’interpretazione compiuta da un singolo individuo
isolato o che si sottrae alla discussione rischia di pervenire ad esiti
“soggettivi” nel senso deteriore del termine; viceversa una discussione
democratica e partecipata, basata su un’etica del discorso, mette capo
con maggiore probabilità ad un carattere intersoggettivo delle
conclusioni”235.
Per John Dewey, il filosofo della democrazia e il pedagogista
dell’intelligenza, così definibile giacché, come ha detto Visalberghi: “in
nessun pensatore vi è così intima e completa corrispondenza fra un
ideale etico-politico e l’interpretazione di quelle attività che si sogliono
considerare puramente conoscitive”236, lo sviluppo della democrazia è
collegato con quello del metodo sperimentale e pertanto col
laboratorio. Nella concezione del pensatore americano la democrazia è
strettamente legata alla fede nella possibilità dell’intelligenza liberata,
dunque la liberazione dell’intelligenza è legata alla fede nella
democrazia237.
G. PRETI, Praxis ed empirismo, Einaudi, Torino, 1975, p. 27.
H. PUTNAM, Il pragmatismo: una questione aperta, Edizioni Laterza, Roma-Bari,
2003, pp.82-83.
236 A. VISALBERGHI, John Dewey, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 4.
237 Cfr. M. BALDACCI, Il laboratorio come…, cit.
234
235
3.4 Luciana Bellatalla
La Bellatalla, come altri studiosi, prima di intraprendere qualsiasi
riflessione sui laboratori, avverte la necessità di precisarne il
significato. La studiosa ritiene che, prima di addentrarsi nella nozione
di laboratorio, il termine impone un necessario ed inevitabile
chiarimento terminologico allo scopo di liberare il campo da un atavico
equivoco che ne ingolfa il significato.
Il laboratorio nell’immaginario collettivo è identificato come uno
spazio a sé, dedicato ad una certa materia, il cui uso è riservato
esclusivamente agli specialisti di un determinato ambito disciplinare e
nel cui interno sono collocati strumenti peculiari. Questa superficiale
connotazione ne riduce la ricchezza di significato e la portata del
termine stesso.
Da un punto di vista meno generico si deve convenire che il laboratorio
è un ambiente artificiale, costruito per rispondere ai principi euristici
di un determinato settore di conoscenze238. La Bellatalla chiarisce
come esistono laboratori dove possiamo trovare simultaneamente e
compiutamente alcune caratteristiche ben precise: un progetto,
un’ipotesi da vagliare, un gruppo di sperimentatori (le risorse
intellettuali), una struttura (lo spazio) che permette di effettuare
simulazioni che possano suffragare le ipotesi, un set adeguato
all’oggetto di studio ed al contesto in cui esso viene ricostruito, un
processo di analisi, di lettura ed interpretazione dei risultati, una fase
di validazione dei risultati e di risposta al problema grazie al quale il
meccanismo si è messo in moto.
Cfr. L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma al modello, in AA.VV. La
scuola: paradigma e modelli, F. Angeli, Milano, 2007.
238
L’intero processo ha dei punti nodali costituiti dalla sinergia, teorica,
strumentale e procedurale, dal carattere della continuità, che consente
alle attività di ricerca in laboratorio di mantenere il legame con quelle
precedenti e con quelle che la seguiranno, e dal coinvolgimento del
ricercatore come elemento costitutivo dell’intero processo.
Ne deriva che il laboratorio non è solo un luogo fisico dove condurre la
ricerca ma anche luogo strettamente connesso alla relazione tra
ipotesi, strumenti e processi necessari a vagliarla; inoltre esso è
presupposto ineliminabile della ricerca e, per così dire, un luogo
mentale in quanto consente di elaborare ipotesi, di scegliere metodi e
di valutare concettualmente l’intero percorso messo in opera.
Guardandolo come luogo materiale con strumentazioni e risorse
concrete esso ci da una prima strutturazione; addentrandoci si evince
la presenza della dimensione intellettuale poiché esso si presenta come
un ambiente in continua costruzione nel quale si sviluppano efficaci
interazioni tra i soggetti, contesti e concetti. Dunque il laboratorio si
amplia: non è soltanto il luogo in cui si presentano e si validano ipotesi
scientifiche ma è anche lo spazio di costruzione attiva di situazioni
nelle quali i soggetti-ricercatori sono parte necessaria del processo e
destinati a trasformarsi durante il processo stesso239. Risulta che il
laboratorio manifesta non solo lo sviluppo della materia scientifica ma
anche la produttività dei ricercatori, connotandosi come spazio
artificialmente costruito per rendere possibile una trasformazione
effettiva sia concettuale, nel progresso delle conoscenze, sia a livello di
capacità di incidere sul reale.
Il laboratorio, allora, sviluppa peculiarità dalle quali non si può
prescindere: il progetto e la sperimentazione, condotti attraverso una
indagine organica e continua, tendente all’affinamento per diffonderne,
239
Ibidem.
successivamente, i risultati, permettendo circolazione alle idee ed
arricchendo una efficace ed ininterrotta relazione tra gruppi di
ricercatori. È un circuito questo che rompe la immutabilità del dato
acquisito, della routine consolidata e delle decifrazioni accettate senza
investigazione.
Applicando tale modello al mondo educativo risulta evidente come
quest’ultimo debba necessariamente rispondere ai principi scientifici
su cui il laboratorio è costruito perché possa essere autentico. Perché
una scuola possa definirsi scuola-laboratorio occorre che presenti
alcuni elementi cardine che rimodulino il percorso di insegnamentoapprendimento, considerato non come trasmissione di dati ma come
progetto in cui le diverse tappe sono ipotesi procedurali. Gli
protagonisti del progetto, pur con diverse funzioni e diverso bagaglio
di conoscenze, devono essere considerati parti indispensabili. La
relazione tra mezzi ed obiettivi da perseguire deve risultare chiara,
così come la scelta degli strumenti deve essere conforme al contesto di
riferimento. Il metodo di lavoro deve essere identificato, comunicato e
condiviso. L’esperienza riflessiva deve costituire l’obiettivo primario
dell’intero impianto240.
Le caratteristiche di un laboratorio scientifico sono assimilabili a
quelle del laboratorio scolastico. In entrambi, infatti, ritroviamo alcuni
elementi quali il luogo materiale, quello intellettuale e di condizione
per l’insegnamento/apprendimento, inteso come processo continuo di
ricerca secondo coordinate di complessità. Se ci troviamo in presenza
di un laboratorio che rispetti tutte le istanze e le qualità elencate si
potrà concludere che siamo in presenza di una scuola-laboratorio a
Cfr. AA.VV., Metacognizione ed educazione. Processi, apprendimenti, strumenti, Franco
Angeli, Milano, 2005.
240
paradigma scientifico, nella quale vi è coincidenza tra scienza e
modello.
Una scuola a paradigma scientifico può essere solo una scuola
strutturata come un laboratorio, poiché risponde alla idea regolativa
della conoscenza e del sapere, fatta di organicità, problematicità e
storicità, ma soprattutto dà soddisfazione all’educazione in quanto
rende, mediante la didattica laboratoriale, una rappresentazione di se
stessa. Una scuola nella quale, con continuità, si sperimentano pratiche
e si verificano dati disciplinari al fine di elaborare strategie, strumenti
metodologici e concettuali che permettano di rispondere alle
sollecitazioni sociali ed ai suoi problemi.241 Il modello scientifico non
presenta solo gli elementi predetti ma vuole dare pienezza al congegno
concettuale dell’educazione, “facendo della dimensione macroscopica
dell’educazione (la didattica laboratoriale, appunto, nelle sue varie
declinazioni) una rappresentazione della dimensione microscopica”242.
La scuola incorpora così tutte le categorie costitutive dell’educazione,
rendendole presenti ed operanti nel modello laboratoriale il cui perno
è la progettualità, la tensione verso un sapere formalizzato attraverso il
carattere sperimentale del processo di insegnamento/apprendimento,
la centralità della relazione educativa, il valore della comunicazione di
concetti e metodi mediante l’utilizzo di un linguaggio adeguato al
contesto, che miri a concretizzare i risultati e le tappe del processo di
insegnamento/apprendimento
in
concetti
coerenti
e
fondati
logicamente e metodologicamente.
Gli interrogativi che la scuola-laboratorio pone chiedono una prima
riflessione relativa al se e quanto i modelli laboratoriali, che nel corso
dei tempi si sono prospettati nella riflessione educativa e nella scuola,
241
242
L. BELLATALLA, Scuola secondaria. Struttura e saperi, Erickson, Trento, 2010.
L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma….,cit. p. 22.
hanno meritato e meritano questa connotazione. Vale a dire: i
laboratori scolastici e didattici si fregiano di questo attributo in
maniera corretta o per consuetudine lessicale? Riformulando la
domanda possiamo chiederci se e quanto questi di modelli sono vicini
al paradigma scientifico dell’educazione.
Il modello didattico laboratoriale, sempre presente nel corso della
storia dell’educazione e della scuola, pur diversificandosi a seconda dei
periodi e dei contesti sociali, ideologici e culturali, ha messo in risalto il
carattere scientifico della pedagogia ed ha,
ancora, ricercato gli
strumenti più efficaci di trasmissione culturale. È degli ultimi decenni
l’abitudine di attribuire la qualità laboratoriale alle diverse attività
ordinarie della e nella scuola. Spaziando dai tradizionali laboratori di
chimica e fisica ai laboratori linguistici o informatici o di educazione
all’immagine. Gli stessi manuali sono completati da appendici
didascalico-didattiche che suggeriscono orientamenti laboratoriali e
guide di approfondimento per degli studenti243. Nonostante tale
diffusione il laboratorio introdotto nella scuola è parziale e non
sempre, o non completamente, riconducibile al paradigma scientifico
dell’educazione. Anche in presenza di situazioni e/o strumenti in grado
di rendere certi apprendimenti più efficaci e coerenti con la struttura
epistemologica delle diverse discipline, non si può affermare di essere
dinanzi ad un modello in tutto e per tutto scientificamente fondato
anche se non mancano l’artificialità e la simulazione né la progettualità
dei percorsi, come mettono bene in evidenza, ad esempio, certi
suggerimenti intorno al laboratorio di storia244.
Cfr. AA.VV. Pedagogia: aspetti epistemologici e situazioni dell'esistenza, F. Angeli,
Milano, 2003.
244 Ivo Mattozzi, professore presso l’Università di Bologna, distingue tra operatività
dello studente, che può realizzarsi ovunque, anche senza mediazione didattica e con
lavoro individuale, e laboratorio vero e proprio, che richiama un ambiente attrezzato,
una forte interattività con il docente e materiali didattici strutturati, capaci di stimolare
243
È chiaro che la scuola deve trasmettere abitudine alla ricerca, spirito
critico, curiosità, più che contenuti didattici. Non è però definito in
modo chiaro quale sia il confine tra qualità progettuale degli
apprendimenti e ripetizione dei dati, visto che questa applicazione non
va a trasformare la struttura della scuola, ma a ricadere su piccole parti
del curricolo o su secondari aspetti della organizzazione didattica.
La scuola-laboratorio implica la modificazione dell’intera rete
scolastica,
dalla
didattica
agli
aspetti
organizzativi
solo
apparentemente marginali rispetto alla didattica. Possiamo avere
all’interno della scuola momenti laboratoriali senza avere una scuolalaboratorio. Generalmente nelle esperienze definite come laboratoriali,
sebbene si tenti di attivare la partecipazione degli studenti, la qualità
della relazione educativa non viene toccata da queste procedure, così
come il percorso di apprendimento non perde la sua unilateralità e la
sua monodirezionalità245.
Un esempio interessante di questa visione solo parzialmente
laboratoriale viene offerto dai laboratori linguistici che non sono di
fatto luoghi (fisici e mentali) di costruzione di percorsi linguistici ma
un
complesso
di
attrezzature
utili
in
quanto
funzionali
all’apprendimento delle strutture linguistico-grammaticali. Mancano,
cioè, le condizioni fondanti il luogo (fisico e mentale) del laboratorio e
manca, pertanto, anche un’idea regolativa di educazione, giacché la
massima preoccupazione di queste prospettive tanto raccomandate è
quella di comunicare agli scolari la mentalità del piccolo storico o del
le risposte dell’allievo (citato in P. Cattaneo, La didattica laboratoriale: presupposti
teorici e dimensione operative, in www.irresicilia.it
245 Nelle riflessioni degli studiosi più attenti, come Ivo Mattozzi, questi mettono in
guardia da frettolose definizioni, come quelle tra attività laboratoriali ed operatività, è
necessario riconoscere che, in larga parte, le indicazioni didattiche, in particolare quelle
contenute nei manuali scolastici, sono orientate alla operatività piuttosto che alla
laboratorialità e non rovesciano i termini della relazione tra maestro, disciplina da
apprendere ed alunno (che si manifesta attraverso la triade ascolto-assimilazioneripetizione), se non in modo apparente.
piccolo naturalista, in nome del rispetto e della comprensione dei
principi epistemologici e metodologici di una determinata disciplina
che, sebbene necessaria, non è fine a se stessa ma acquista significato
solo sullo sfondo integratore dell’idea regolativa di educazione e del
sistema dei saperi.
In queste raccomandazioni, dunque, il percorso di apprendimento è
limitato ad una o perfino a più discipline, ma raramente si iscrive in un
progetto
generale,
che
coinvolge
insegnamento/apprendimento
e
riesce
tutto
a
il
processo
sovvertire
l’idea
di
di
educazione ad esso sottesa246. Si invitano, è vero, gli studenti a
personali ricerche ma non all’interno di un piano di simulazione di
percorsi conoscitivi e di formulazione di ipotesi da valicare, nella
misura in cui la voce dell’insegnante, o direttamente o indirettamente
(attraverso il
manuale), fornisce indicazioni e contenuti da
approfondire, ma non sempre da valicare. Infine, questo tipo di
laboratorio, se attiva gli alunni non pretende però, sempre e
contemporaneamente, che l’insegnante si faccia ricercatore e divenga
esso stesso variabile in gioco nel processo scolastico laboratoriale.
Insomma
la
relazione
docente/discente,
nella
dimensione
genuinamente laboratoriale, mette in parentesi la sua inevitabile e
costitutiva asimmetria nello sforzo di simulazione di un progetto che
impegna al pari tutti i suoi attori, poiché in queste attività raramente si
invita il docente ad uno sdoppiamento tra la tensione comunicativa
(intrinseca al suo ruolo) e l’istanza osservativa e valutativa (intrinseca
ad un sapere come progetto e come processo).
Fraintendimenti giungono anche dalle linee programmatiche della
diverse riforme emanate dai vari ministri all’Istruzione e dalle
Cfr. L. BELLATALLA, La scuola che cambia: problemi tra competenza e conoscenza,
Edizione del Cerro, Pisa, 2004.
246
interpretazioni che ne vengono date nell’intenzione di metterle in
pratica. E sono proprio gli insegnanti che mettono in luce questo
fraintendimento, specialmente quando si impegnano e si ingegnano a
coniugare personalizzazione e modello didattico laboratoriale. Così, ad
esempio, ritorna l’assimilazione al modello del learning by doing con
l’aggravante che, secondo alcune interpretazioni, spetta all’alunno
darsi obiettivi e scegliere percorsi e contenuti “in riferimento alle sue
predisposizioni, propensioni, motivazioni”247, di volta in volta di ordine
sociale, culturale, relazionale. Senza voler entrare nel merito di una
simile affermazione, che contravviene al paradigma scientifico di
educazione e di scuola, è opportuno domandarsi che tipo di laboratorio
può essere quello in cui le regole della ricerca e del processo non
derivano dall’oggetto di ricerca, dal contesto e dal progetto, ma dalle
scelte individuali che, in quanto tali, sono spesso arbitrarie e scollegate
dal sistema. In conclusione si può affermare in primo luogo che allo
stato attuale ci sono molteplici tentativi di didattica laboratoriale,
anche se per lo più circoscritti agli ambiti disciplinari, e che, in secondo
luogo, il modello laboratoriale, più frequente e sostenuto nella nostra
scuola, mutua la sua struttura ed i suoi procedimenti dall’officina,
dall’idea dell’operatività, più che dal laboratorio scientifico, se per
officina ci riferiamo all’edificio nel quale, in genere, tutti partecipano
nello svolgimento di un lavoro, nella realizzazione di un prodotto che
viene commissionato piuttosto che a sviluppare progetti248.
3.4.1 Laboratorio come pedagogia sperimentale
247Cfr.
U. TENUTA, Classe come contesto laboratoriale, in “Rivista digitale della
didattica”, 2005 (www.rivistadidattica.com).
248 Cfr. L. BELLATALLA, G. GENOVESI, Storia della Pedagogia. Questioni di metodi e
momenti paradigmatici, Le Monnier, Catania, 2006.
La Bellatalla giunge, infine, ad un accostamento, quasi ad
una
“incorporazione” del modello laboratoriale di scuola nell’ambito della
Pedagogia Sperimentale, giacché la scuola è, per sua intrinseca
struttura, un laboratorio per eccellenza, senza necessità di momenti
sperimentali addizionali o paralleli. D’altra parte, da quando è emerso
con chiarezza che Pedagogia può essere considerato termine obsoleto
in quanto è più corretto parlare di Scienza dell’Educazione, questa
disciplina, in virtù del suo statuto epistemologico, non può essere che
costitutivamente sperimentale al punto da rendere superfluo questo
attributo. Questo ambito di ricerca, in quanto scienza, si è costruito
due laboratori privilegiati: la Scuola e la Storia stessa della Scienza
dell’Educazione. In entrambi, attraverso momenti particolari od
estrapolando aspetti, temi ed elementi, i ricercatori formulano ipotesi,
elaborano un progetto di ricerca, attuano un processo di indagine i cui
esiti sono la validazione dell’ipotesi e del processo medesimo.
L’esistenza di questi laboratori consente non solo la relazione
interattiva tra teoria (universitaria) e prassi (scolastica), ma anche di
far emergere in tutta la sua pienezza la dialettica tra dimensione
concettuale (o microscopica) e dimensione concreta e fattuale (o
macroscopica dell’educazione). Operativamente tale visione permette
di evidenziare e riaffermare la centralità del docente e la sua qualità di
ricercatore e non di esecutore o ripetitore di modelli e di dati249. Anzi,
per meglio chiarire, si precisa la sua qualità di ricercatore nell’ambito
della Scienza dell’Educazione in quanto le sue scelte didattiche e
l’organizzazione dei processi laboratoriali, sebbene incentrati sulla
disciplina che è chiamato ad insegnare, debbono rispondere prima di
tutto alle istanze del congegno concettuale dell’educazione. Oggi nel
parlare di pedagogia sperimentale ci si riferisce, per una tradizione
249
Cfr. L. BELLATALLA, Scuola laboratoriale: dal paradigma…., cit.
inaugurata con Lay250 e con Buyse251, al tentativo di dare, anche ai
risultati delle pratiche educative ed ai processi formativi, una struttura
assimilabile a quella dei processi fisici, giungendo alla valutazione
oggettiva degli esiti del processo formativo stesso. A fondamento di
tale posizione è posta la separazione tra il momento definito
sperimentale, perché artificiale, predisposto, fatto di tappe e di una
declinazione di obiettivi, tempi, risorse e strumenti ed il momento
dell’esperienza quotidiana che, anche quando è finalizzato a valutare e
controllare i risultati ottenuti, si appoggia a processi di valutazione di
carattere generalmente soggettivo.
Concludendo si può mettere in risalto quanto l’attività di laboratorio,
riguardando l’analisi di fatti educativi passibili di misurazione, sia in
stretta connessione con la realtà scolastica. La pedagogia sperimentale
è volta a stabilire il grado di apprendimento di alcune nozioni da parte
degli scolari252.
Il dibattito tra laboratorio e pedagogia sperimentale continua ancora
oggi in una cornice molto più articolata rispetto alle origini. Si continua
a parlare di gruppo sperimentale, distinto da quello di una classe
ordinaria, per indicare un gruppo di soggetti o un determinato
contesto nel quale una variabile viene manipolata allo scopo di
confrontare i risultati raggiunti con quelli di un gruppo similare non
esposto allo stesso processo253.
250Cfr.
L. ROSATI, Didattica della cultura e cultura della didattica. La sostenibile
leggerezza del sapere, Perugia, Morlacchi, 2004.
251Cfr. R. BUYSE, Un laboratoire de pédagogie expérimentale, Delachaux et Niestlé,
Genève, 1953.
252Cfr. K. MONTALBETTI, La pedagogia sperimentale di Raymond Buyse: ricerca
educativa, Vita e Pensiero, Milano, 2004.
253 Cfr. B. VERTECCHI, Interpretazioni della didattica, La Nuova Italia, Firenze, 1990.
CAPITOLO QUARTO
REALTA’ DI LABORATORIO
Le riforme educative approvate in Italia negli anni compresi tra il
1997254 ed il 1999255 hanno attribuito alle istituzioni scolastiche
nazionali una propria autonomia amministrativa, didattica e
organizzativa, pur nel contesto delle norme generali sull’istruzione
emanate dallo Stato. Nelle scuole tale autonomia ha suscitato molte
speranze considerando che questi provvedimenti legislativi hanno
prodotto avanzamenti sul piano giuridico-amministrativo, sul piano
della riorganizzazione della dirigenza, delle reti di scuole, dell’offerta
formativa, della maggiore flessibilità nell’utilizzo degli insegnanti e, per
quanto attiene il tema oggetto di questo lavoro, dell’ ambito didattico
mediante la norma che concedeva la determinazione autonoma del
20% del curricolo. Con le riforme sull’autonomia gli istituti ed i circoli
didattici del paese sono diventati un
più
autonomi nella
organizzazione e nella “pedagogia” progredendo di qualche passo nella
direzione della didattica. I cambiamenti più evidenti si sono registrati
sul piano organizzativo più che su quello educativo/didattico.
L’innovazione più tangibile è stata quella del Piano dell’Offerta
Formativa256 che ha indotto le scuole, o più realisticamente le
Cfr. Legge 15 marzo 1999 n. 59 art. 21 , la cosiddetta legge Bassanini.
Cfr. D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275.
256 Cfr. D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, art. 3.
254
255
minoranze attive nelle scuole, a porsi un problema di identità
istituzionale ed a ragionare in termini sistemici e di strategie.
L’introduzione del progetto d’istituto ha dato inizio al processo di
rinnovamento non solo dell’aspetto organizzativo ma anche didattico.
La norma sulla libertà di gestione del 20% del monte ore ha però
avuto un’applicazione limitata a causa delle rigidità esistenti nella
gestione delle risorse umane. L’innovazione didattica che prevedeva
l’inserimento di nuovi contenuti, saperi ed esperienze si è sviluppata
nell’area extra-curriculare piuttosto che in quella curriculare,
risultando come elemento addizionale ed accessorio e non sostitutiva
e costitutiva. Varie sono le ragioni dello scarso impatto della riforma
dell’autonomia sulla didattica potendosi chiamare in causa la poca
propensione all’innovazione di molti insegnanti, l’insufficiente spinta
dei dirigenti e l’eccessivo turn-over del personale educativo che
impedisce di radicare le pratiche innovative e di qualità.
La transizione tra il vecchio ed il nuovo modello di istruzione è
consistita nel passaggio da una scuola che basava la sua efficienza ed
efficacia prevalentemente sulla diffusione di nozioni e saperi secondo
programmi prescritti e definiti, focalizzando il proprio impegno solo
nel selezionare i contenuti da trasmettere, alla autonomia didattica
delle scuole che ha indotto gli educatori a porre particolare attenzione
al processo di insegnamento/apprendimento ed all’orientare la
capacità del singolo studente nella comprensione e nell’interpretazione
della realtà, complessa ed articolata, nella quale elaborare e
rielaborare il proprio progetto di vita. In una simile situazione
l’Istruzione ha riacquistato il suo ruolo centrale di formazione del
cittadino,
nella
consapevolezza
che
all’interno
della
società
contemporanea il giovane continua a ricevere informazioni e modelli
cognitivi e concettuali anche al fuori della realtà scolastica, ma che solo
in questa è possibile la realizzazione di momenti di riflessione,
d’approfondimento e di riprogettazione basati su conoscenze
epistemologiche razionali e coerenti. Proprio in tale cornice i
laboratori rappresentano l’espressione più interessante ed innovativa.
Il ricorso al modello formativo di tipo laboratoriale diventa quasi
obbligato poiché esso permette di collocare e sistematizzare in un
modo flessibile gli interventi educativi in un continuum caratterizzato
da costanti incrementi.
4.1 Laboratori nei progetti POF e PON
Nelle
nostre
istituzioni
educative
l’adozione
della
didattica
laboratoriale come metodologia “ordinaria” e quotidiana è ridotta
purtroppo a rare e sporadiche occasioni di apprendimento attivo. La
loro configurazione progettata dal De Bartolomeis, strutturata secondo
un Sistema dei laboratori257, ha registrato una realizzazione solo
marginale. Esiste tuttavia la possibilità di avvalersi di tale modalità
didattica mediante l’ormai consolidato ricorso ai numerosi e
diversificati progetti didattici che vengono programmati nell’offerta
educativa delle scuole. Alcuni progetti trovano collocazione nel già
citato POF elaborato all’avvio di ogni annualità scolastica in cui sono
esposte le diverse attività che l’Istituto realizzerà nel corso dell’anno
educativo. Essi sono espressione di input differenti provenienti dalle
sollecitazioni che le istituzioni educative ricevono dalla loro utenza,
dalle famiglie o, ancora, dalle esigenze educative che emergono dal
contesto
extrascolastico.
I
progetti
annuali
che
gli
istituti
predispongono sono rivolti in massima parte agli studenti ma, in
alcuni casi, anche alle loro famiglie. Essi sono il frutto della
progettazione dei docenti interni dell’istituto stesso i quali, solitamente
in orario pomeridiano, danno esecutività ai diversi progetti
preventivamente approvati dal Collegio dei Docenti ad inizio d’anno.
Frabboni ritiene che alla scuola del progetto vadano “medaglie di
limpida qualità pedagogica: identità formativa, che da senso e
significato ai percorsi cognitivi e relazionali; di progettualità didattica,
contro la casualità formativa”258. Una differente tipologia di progetti è
257
258
Cfr. F. DE BARTOLOMEIS, Sistema dei…., op. cit.
F. FRABBONI, Il laboratorio, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 68.
quella relativa ai Programmi Operativi Nazionali259 (PON) a titolarità
del
Ministero
dell’Istruzione,
dell’Università
e
della
Ricerca
“Competenze per lo sviluppo” e “Ambienti per l’apprendimento”,
finanziati rispettivamente col Fondo Sociale Europeo260 (FSE) e con il
Fondo Sociale di Sviluppo Regionale261 (FESR) approvati dalla
Commissione Europea. Essi rappresentano strumenti di pianificazione
elaborati dalle singole amministrazioni per declinare e raggiungere gli
obiettivi indicati dal Quadro Strategico Nazionale262 (QSN). Questi
Programmi mirano a sostenere l’innovazione e la qualità del sistema
scolastico in quattro regioni del sud d’Italia (Campania, Puglia, Calabria
e Sicilia) ed a colmare il divario con le altre aree territoriali del Paese e
dell’Unione Europea. Essi sono articolati in assi, obiettivi ed azioni
secondo una struttura determinata in sede comunitaria da tutti gli stati
dell’Unione. Per partecipare ai Programmi Operativi Nazionali gli
istituti educativi possono presentare, per come previsto dalle
disposizioni attuative, Piani Integrati e Progetti. Questa seconda
tipologia
di
interventi
didattico-educativi
è
aperta
a
figure
professionali extrascolastiche attraverso l’emanazione di bandi di
selezione pubblica con l’obiettivo di far giungere nelle scuole personale
esperto in un determinato settore disciplinare, proveniente da diversi
contesti lavorativi.
Il termine progetto ricorre frequentemente non solo nell’agire
pedagogico ma compare con accezioni contigue anche in contesti
Cfr. F. CARLUCCI, F. CAVONE, La grande Europa. Allargamento, integrazione,
sviluppo, F. Angeli, Milano, 2004.
260 Cfr. M. FRAGOLA, Il Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’unione europea
e il trattato della comunità europea, Giuffrè Editore, Milano, 2010.
261 Cfr. E. PERULLI, Rappresentare, riconoscere e promuovere, F. Angeli, Milano, 2007.
262 Cfr, AA.VV., Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza. Nuovi
percorsi formativi per la riforma del sistema educativo, F. Angeli, Milano,2005.
259
operativi e culturali distinti e distanti tra loro263. Il termine è molto
usato anche nelle programmazioni macrosociali (progetto ambiente,
progetto infanzia, progetto salute, ecc..) E nelle declinazioni operative
quotidiane (progetto di studio, progetto di lavoro). È perciò necessaria
una riflessione per condividere il senso che a tale termine viene
attribuito all’interno del contesto scolastico, per esplicitare il
significato
che
esso
può
assumere
nell’agire
professionale
dell’insegnante e per comprendere la ricaduta del suo operare
concreto.
Nei progetti previsti dalle scuole vengono dettagliatamente indicati sia
le strategie di funzionamento che la scuola mette in atto per la loro
realizzazione che gli indicatori di svolgimento dell’attività didattica.
Nell’accezione più ampia e condivisa il termine progetto indica
“l’ideare qualcosa e studiare in rapporto alle possibilità e ai modi di
attuazione”264. L’ampiezza della definizione richiama elementi specifici
dell’attività stessa che richiama tre momenti distinti tra loro ma ad
implicazione reciproca costante: il momento presente dell’ideazione
qui ed ora, il momento futuro della sua messa alla prova per la
realizzazione ed anche il momento passato relativo al vissuto da cui
scaturisce quell’ideazione particolare e specifica.
Nella letteratura si afferma che nella progettualità le attività del
simbolico sono in relazione con il bisogno di modificare il mondo in
rapporto e condivisione con l’altro, mentre la proiezione mobilita
l’immaginario e diventa il desiderio teso a modificare l’immagine
dell’altro e del proprio rapporto con esso265. La progettualità orientata
al simbolico mantiene costantemente presente il senso del mondo, la
Cfr. F. QUARTAPELLE (a cura di), Didattica per progetti, Franco Angeli, Milano,
1999.
264 Cfr. Voce: progettare in Devoto-Oli.
265 Cfr. D. NAPOLETANI, Individualità e gruppalità, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.
263
relazione con l’altro e le dimensioni di possibilità che, nell’intreccio
relazionale, sono richiamate e costantemente interrogate. L’attenzione
all’intreccio tra la domanda del mondo, quelle del soggetto e quelle
degli attori presenti sulla specifica scena di vita rendono possibile un
progetto e un’azione escludendone altre e richiamandone altre ancora,
come l’esperienza di generatività di ciascuno. Elementi fondamentali
del progettare sono dunque i vincoli presenti e il desiderio di creare e
generare qualcosa di nuovo. La radice della progettualità risiede nella
parte affettiva e pulsionale dei soggetti che la realizzano e di ciò
troviamo conferma nelle parole di Luigi Pagliarini “se non c’è
desiderio, non c’è progetto”266.
Mentre le dimensioni del presente e del futuro appaiono evidenti nella
dimensione operativa del progettare, meno esplicito è il legame con la
dimensione del passato. L’azione dell’ideare e del pensare nasce da
un’attività di secondo livello sulle informazioni di cui l’individuo
dispone, che sono state acquisite in un tempo precedente attraverso
strumenti diversi quali l’interazione con gli altri e con le cose, lo studio,
l’osservazione, l’esperienza concreta che hanno costituito il bagaglio di
risorse che consentono la relazione e l’incontro con il mondo.
Per progettare risulta necessario possedere un bagaglio conoscitivo ed
esperienziale acquisito dal singolo attore coinvolto nella progettazione
poiché ciascuno, nell’attività di progettazione, richiama ed utilizza le
esperienze precedentemente accumulate nei contesti di vita e
lavorativi senza tuttavia ripeterle pedissequamente ma utilizzando il
passato e costruendo, attraverso esso, la cultura267. Da questa lettura
del significato del termine progettare emerge la complicata realtà
dell’agire dell’insegnante così come la sua inevitabilità e necessità
266
Cfr. L. PAGLIARINI, Il coraggio di Venere, Cortina, Milano, 2003.
J. BRUNER, La fabbrica delle storie, Laterza, Roma-Bari, 2002.
267Cfr.
nell’attuale situazione culturale e operativa. Il docente si trova,
dunque, a dover riorganizzare le proprie lezioni corredandole di
materiale didattico utile alla applicazione di ciò che viene presentato
teoricamente, facendo in modo che i concetti divengano oggetto di
operalizzazione268.
L’odierna realtà scolastica, a causa della sua costante interazione di
storie, sollecitazioni e proposte, è caratterizzata dalla complessità della
nostra epoca, ponendo la dimensione progettuale come risultato
indispensabile e indifferibile dell’agire umano.
Il docente, nella scuola dell’autonomia, è chiamato a farsi progettista
educativo, mettendo in campo buone idee, vale a dire calibrate
sull’obiettivo, innovative e creative. Ma occorre però, soprattutto,
produrre progetti che siano credibili agli occhi dei discenti, convincenti
e realizzabili.
4.2 Caratteristiche del progetto
I
progetti269
scolastici
sono
erogati,
solitamente,
nelle
ore
extracurriculari, dopo che le ore mattutine di lezione sono state
impiegate nello svolgimento del curricolo formativo. I progetti didattici
nascono e si sviluppano attraverso il processo ricorsivo prassi-teoriaprassi: l’agire didattico prende vita dall’analisi dell’ambiente e dei
bisogni e si sviluppa, arricchito nelle metodologie e nei contenuti, dai
presupposti teorici, tornando a misurarsi con il contesto, con lo
svolgimento del processo formativo. La definizione di un metodo
268Cfr.
S. CHISTOLINI, Scienza e formazione. Manuale del laboratorio universitario di
pedagogia, F. Angeli, Milano, 2006.
269Cfr. I. BORDALLO, J. GINESTET, Didattica per progetti, La Nuova Italia, Firenze,
1999.
educativo si precisa a partire da alcuni principi metodologici e teorici,
collocati in un contesto precedentemente individuato e analizzato, e
sulla base delle relazioni e osservazioni rilevate nel corso
dell’intervento, nell’incontro/scontro con la prassi quotidiana nella
gestione della classe. È indispensabile che durante il processo esista un
costante controllo empirico dell’ipotesi congetturale, nella prospettiva
di una dialettica teoria-prassi. E’ però altrettanto fondamentale che gli
interventi didattici trovino conforto e stimoli nelle teorie pedagogiche.
La teoria “è la cifra speculativa che determina la comprensione del
processo educativo, inteso come ipotesi, non certezza; come possibilità
non come assioma. Gli assunti pedagogici sono, perciò, una sorta di
rete
speculativa
che
consente
di
analizzare,
interpretare,
concettualizzare criticamente i fatti che determinano la prassi
educativa”270; la teoria arricchisce il processo di conoscenza, di ascolto,
di restituzione e intervento-azione di e in quello specifico contesto in
cui si attua il percorso di apprendimento; nel nostro caso specifico la
realizzazione di un progetto a base laboratoriale. È importante
stabilire una connessione tra l’attività pratica e le influenze/riflessioni
teoriche, esplicitare con chiarezza quali
sono le coordinate
pedagogiche che hanno influenzato le ipotesi degli scenari laboratoriali
e che dovranno concorrere alla loro validazione. Sul piano
metodologico, pur trattando differenti argomenti, i progetti educativodidattici presentano generalmente una struttura laboratoriale, sia per
la loro differenziazione oraria, sia per la loro composita varietà e sia
per la mediazione didattica che si caratterizza come ponte
bidirezionale fra pensiero ed azione. Essi sembrano poter porsi come
strumenti per scardinare l’uniformità degli attuali curricoli che
270F.
FRABBONI, Pedagogia didattica Ricerca-Azione. Tre sullo stesso tandem?, in C.
SCURATI, G. ZANIELLO (a cura di), La Ricerca-Azione, Tecnodid, Napoli, 1993, p.49.
continuano a svilupparsi attraverso un’ottica rigidamente sequenziale
e graduale. La metodologia laboratoriale si presenta come mediatore
didattico del trattamento manifesto del transfert degli apprendimenti
(concettuali ed esperienziali) oltre che dell’integrazione di competenze
sociali e professionali.
L’attività laboratoriale viene strutturata tenendo conto del progetto da
realizzare, intorno alla natura degli apprendimenti che esso sviluppa e
alla tipologia dei processi che li generano. Considerando la dimensione
dell’articolazione a spirale di teoria e prassi, gli apprendimenti che
vengono prodotti non riguardano soltanto saperi decontestualizzati o
declinazioni di saperi in “saper fare” o “saper essere” ma convergono
sulla costruzione di competenze: i contenuti del progetto che fanno
riferimento ad una area disciplinare, le trame interdisciplinari,
indispensabili ed inevitabili, e le abilità che non costituiscono una
situazione di apprendimento in sé ma divengono un mezzo al servizio
del trattamento di determinate situazioni.
Mentre i docenti durante le ore di lezione mattutine continuano a
preferire le rassicuranti modalità tradizionali di insegnamento,
nonostante ciò abbia un costo in termini di solitudine professionale e
frustrazione, quando si trovano ad affrontare il lavoro di progettazione
di attività extrascolastiche abbandonano tale modello e si avvalgono
della didattica laboratoriale271. Le esperienze professionali hanno
dimostrato come il modello più adeguato per facilitare la realizzazione
del progetto educativo predisposto dalla scuola consista in una
modalità didattica che si distacchi nettamente dal metodo diurno e che
veicoli novità metodologica e, conseguentemente, atteggiamenti
Cfr. P. MAMONE, M. MAROTTA, Il laboratorio delle responsabilità, F. Angeli,
Milano, 2002.
271
differenti di docenti e discenti. Kolb272 nel 1984 sottolinea quanto il
soggetto che compie una esperienza di apprendimento basato sul fare
sia incoraggiato a ragionare sulla esperienza vissuta, sviluppi ipotesi,
modelli e teorie che vengono adottate e verificate nelle situazioni reali.
Questo permette a questi soggetti di riconoscere e sviluppare, sotto
l’attenta supervisione dell’educatore, un metodo di lavoro capace di
orientare le scelte operative. Imparare operando con gli altri permette
la creazione di processi di negoziazione, di conflitto socio-cognitivo, di
imitazione e di interiorizzazione che favoriscono l’apprendimento di
tutti i contenuti, poiché svolgono un ruolo fondamentale nei processi di
costruzione della conoscenza273. La scuola è il luogo nel quale mediante
l’attività di laboratorio è possibile imparare con gli altri e raramente il
gruppo classe tradizionale è capace di soddisfare le esigenze formative
e di socializzazione degli studenti. All’interno del laboratorio il gruppo
di lavoro è caratterizzato dalla interdipendenza, ovvero dalla
consapevolezza dei membri che lo compongono di dipendere gli uni
dagli altri per il raggiungimento degli obiettivi comuni274. I partecipanti
ai progetti si costituiscono e riconoscono come gruppo di studenti che
hanno aderito ad un processo formativo di lavoro e questo aiuta a
sviluppare competenze trasversali quali la possibilità di risolvere
problemi, di negoziare e di operare scelte, di prendere decisioni, di
riconoscere sé e l’altro e di cooperare. E’ in questo costituirsi come
gruppo di lavoro denominato Comunicazione275 che si realizza il
passaggio alla metodologia della ricerca. Questo scenario perciò, così
272Cfr.
D. A. KOLB, Experiential Learning: experience as the source of learning and
development, Prentice-Hall, New Jersey, 1984.
273Cfr. AA.VV. Discutendo si impara: interazione sociale e conoscenza a scuola, La
Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1991.
274Cfr. AA.VV. Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo: un modello di lettura della dinamica
di gruppo, una proposta di intervento nelle organizzazioni, Cortina Raffaello, Milano,
1992.
275Cfr. J. E. JONES, J.W. PFEIFFER, The 1973 Annual Handbook for Group Facilitators,
University Associates, San Diego, 1974.
come la metodologia laboratoriale, implica una dimensione sociale
dell’apprendimento, esso è aperto all’ambiente circostante e prevede
che gli allievi facciano parte integrante della sua elaborazione,
gestione, regolamentazione e valutazione276. Obiettivo principale di un
progetto è quello di promuovere competenze trasversali, l’insieme
delle quali costituisce una struttura metodologica che permetta al
soggetto di orientarsi, di imparare ad imparare, di attivare quel
processo di continua riflessione che gli consenta di apprendere
dall’esperienza secondo una procedura operativa che si articola
attraverso attività di risoluzione di problemi complessi in un contesto
d’uso e di confronto di conoscenze ed artefatti cognitivi.
Il laboratorio diventa inoltre il metodo attraverso il quale si discutono
e verificano collegialmente e operativamente sia i problemi cognitivi
che l’insegnamento/apprendimento scolastico ed extrascolastico pone,
sia quelli presentati dai modelli etico-sociali delle comunità di
appartenenza; si tratta di un luogo di elaborazione/produzione e/o di
studio-ricerca-creatività.
Nel
progetto/laboratorio
si
coniuga
l’apprendimento cognitivo, l’officina di metodo, di analisi e riflessione
sui saperi, lo spazio educativo di istruzione meta- cognitiva, di
apprendimento contestualizzato ed orientato277.
Ciò che spinge gli allievi alla partecipazione alle attività pomeridiane
che si diversificano nei progetti è il carattere innovativo del suo
svolgimento relativamente alla didattica versativa della prassi
mattutina.
276Cfr.
M. GINEPRINI, A. RONCALLO, La scrittura emergente. La scuola come
laboratorio di nuovi scenari, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001.
277Cfr. F. FRABBONI, Didattica generale. Una nuova scienza dell’educazione, Bruno
Mondadori, Milano, 1999.
4.3 I laboratori fuori dalla scuola
La classe, contesto educativo per eccellenza, ricco di dinamiche socio
affettive e per tradizione deputata alla costruzione delle conoscenze,
mediante le progettazioni inserite nei POF ed i progetti PON si apre
all’esterno, ad una molteplicità e varietà di situazioni, di ambienti, di
apprendimenti diversificati, legate ai contesti territoriali e sociali, nel
convincimento che una formazione integrata debba avvalersi non solo
delle opportunità offerte dalla scuola, ma anche quelle offerte da altre
agenzie educative e, più in generale, dal territorio stesso. Il quadro di
maggiore difficoltà e disagio sociale ed economico delle regioni del
Mezzogiorno rispetto a quelle del Centro Nord influenza anche il
sistema educativo che ha registrato negli ultimi dieci anni, grazie alle
progettazioni PON, un significativo miglioramento del livello di
istruzione della popolazione studentesca. L’indagine OCSE-PISA 2009
ha evidenziato, infatti, segnali di forte miglioramento nell’ ambito delle
competenze raggiunte dagli studenti, che in passato ha rappresentava
un’area di marcata criticità. Il divario fra le performance degli studenti
del Sud e quelli del Centro Nord appare così fortemente attenuato. Con
riferimento alla literacy la percentuale di studenti con scarse
competenze278, nel periodo 2000-2009, è passata, nel Mezzogiorno, dal
28,5% al 27,5% nel Mezzogiorno.
Vengono realizzate, dunque, progettazioni secondo la metodologia
laboratoriale per realizzare apprendimenti in aule decentrate, in tutti
gli ambienti, fisici e non, intra ed extrascolastici, in cui si può produrre
278Il
termine competenze include una componente di “sapere” e una componente di
“saper fare”, riflettendo così la definizione di literacy del PISA che fa riferimento alla
capacità di cercare, identificare, elaborare e comunicare informazioni. Vedi V.
GALLINA, Le competenze alfabetiche funzionali (letteralismo) e la ricerca IALS-SIALS,
in V. GALLINA, La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della
popolazione, Franco Angeli, Milano, 2000.
un apprendimento attivo che riconosca come “la seconda freccia
dell’arco della didattica porta il nome di ambiente279”. Nei laboratori
che si realizzano fuori dalle mura scolastiche si consolida l’educazione
alla riflessione critica mediante l’osservazione e la percezione, che
diventa realizzabile se la scuola riesce ad elevare l’ambiente ad aula
didattica decentrata che oltrepassa i suoi confini fisici. Solo il 14% delle
scuole utilizza in modo sistematico il territorio come luogo di
apprendimento.
Tale
percentuale
raggiunge
il
76%
per
l’apprendimento che ricade all’interno delle progettazioni che la scuola
realizza al di fuori dei confini della didattica ordinaria280. Tramite la
didattica laboratoriale la scuola integra educazione e formazione
complessiva del discente in un sistema educativo integrato281 nel quale
il laboratorio diviene ambiente di problematizzazione di qualsiasi
contesto che abbia prodotto perplessità, curiosità, interrogativi,
inciampi. Ciò può avvenire nel giardino pubblico, nel rione del paese,
nel museo, nella zona archeologica, nella case delle culture, ecc… Nella
scuola primaria tale opportunità di apprendimento ha una valenza
metodologica ancora più formativa in quanto l’allievo conquista
conoscenze con le procedure più naturali e nel mondo che ha
costantemente sotto gli occhi. Negli apprendimenti laboratoriali
extrascolastici l’insegnante e l’allievo si trovano in una posizione di
rapporto simmetrico in quanto la didattica è basata sul fare, sul
costruire, sullo scoprire con un apprendimento che realizza quanto
scrive Popper: “a vent’anni sognavo di poter un giorno fondare una
scuola in cui si potesse apprendere senza annoiarsi, e si fosse stimolati
279F.
FRABBONI, Sette frecce per l’arco della didattica, in F. FRABBONI, M. BALDACCI,
La qualità della didattica nella scuola che cambia, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 4974.
280Cfr. MIUR Autorità di gestione PON FSE e FERS 2007-2013.
281Cfr. G. BERTAGNA, Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di
istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soveria MannellI, 2006.
a porre problemi e a discuterli; una scuola in cui non si dovessero
sentire risposte non sollecitate a domande non poste; in cui non si
dovesse studiare al fine di superare gli esami”282.
Herbart sosteneva che “occorre ricercare le cose che si devono fare
successivamente e l’una per mezzo dell’altra e le cose che, invece, si
devono fare simultaneamente e ciascuna con la sua forza propria e
originaria […]. E poiché si dovrà cominciare simultaneamente da più
lati e sempre preparare molte cognizioni mediante le precedenti,
queste sono le due dimensioni secondo le quali occorre orientarsi
nell’insegnamento”283. Il laboratorio ha il merito di attribuire
all’insegnamento finalità concrete ed operative non solo circoscritte
alla trasmissione di conoscenze. Esso abbandona il suo tradizionale
carattere di trasmissione del sapere e si eleva a dignità di istruzione
educativa intesa come azione che aiuta ed orienta lo sviluppo della
persona, come attività che apre a nuove prospettive conoscitive. È
indubbio che i laboratori favoriscono l’apertura della scuola nel suo
complesso, stimolando anche quegli insegnanti che lavorano in modo
individualistico ed isolato. Il carattere peculiare dei laboratori richiede
ai docenti ambiti di competenza di carattere teorico che potrebbero
essere
definiti
anche
culturali
–
ovviamente
in
riferimento
all’extrascuola – poiché riguardano le dimensioni culturali, sociali,
psicologiche; competenze tecniche, definite anche didattiche e riferite
allo specifico campo di attività in cui l’operatore opera e di cui deve
essere esperto; competenze pedagogiche che potrebbero essere
definite anche internazionali perché riguardano la capacità di gestire il
gruppo e la conoscenza delle modalità operative riguardanti i processi
di comunicazione oltre alla individuazione di motivazioni da sollecitare
K. POPPER, La politica la scienza la scuola, Armando, Roma, 1997, p. 107.
F. HERBART, La rappresentazione estetica del mondo considerata come compito
fondamentale dell’educazione, Armando, Roma, 1996, p. 81.
282
283J.
nei giovani partecipanti; competenze gestionali da ricondurre a quelle
psicopedagogiche, comprendenti le conoscenze relative alle strategie
di programmazione, di organizzazione e di verifica di uno specifico
campo di attività. Esse, inoltre, dovrebbero consistere nelle capacità di
trovare soluzioni adeguate per lo svolgimento delle attività ed in quella
di lavorare collaborativamente con gli altri operatori284.
Possiamo dunque osservare come la didattica laboratoriale, nel suo
significato più ampio, sia sempre presente nelle azioni progettuali delle
scuole piuttosto che nella didattica tradizionalista. La didattica
laboratoriale viene assunta come metodologia comune a tutte le
attività extracurricolari in quanto funzionale allo sviluppo unitario
delle competenze personali dell’allievo attraverso l’utilizzo dei saperi
specifici di un determinato progetto educativo. Attraverso questo
approccio metodologico ogni azione educativa riesce ad offrire il
sapere che le è proprio come mezzo di lettura, interpretazione ed
azione unitaria dell’allievo nella realtà che lo circonda285.
Concludendo possiamo osservare come la parziale attuazione di una
scuola-laboratorio italiana sia stata realizzata attraverso il ricorso alle
diverse attività progettuali che l’istituzione educativa mette in atto, in
orari extracurriculari, per andare in contro alle esigenze della sua
popolazione e che possono trovare risposta solo mediante una risposta
altra.
La riforma dei saperi, di cui tanto si parla, in rapporto alle competenze,
inizia dalla affermazione di un diverso approccio metodologico teoriaprassi, che dovrebbe certamente interessare l’epistemologia delle
diverse discipline ma anche rispondere ad un atteggiamento
284Cfr.
G TASSINARI (a cura di), La pedagogia italiana nel secondo dopoguerra,
Mondadori, Milano, 1990.
285 Cfr. E. B. MORRIS, Gestire l’autonomia, Erickson, Trento, 1998.
esistenziale di fondo, inducendo la pedagogia a misurarsi con il vero
problema: lo sviluppo integrale della persona.
CONCLUSIONI
L’area
della
didattica
laboratoriale,
intesa
come
ordinaria
organizzazione didattica, costituisce nel nostro Paese un territorio
inesplorato dalla ricerca empirica e pochissimi sono gli studi che la
riguardano nonostante numerose siano le esperienze laboratoriali nei
diversi settori disciplinari.
Ipotizzare delle riflessioni conclusive non è semplice atteso l’intento di
voler operare con una ricognizione sulla teoria dei laboratori in Italia.
Nella storia della didattica laboratoriale dobbiamo attendere i primi
decenni del XX secolo per poter aprire quello spazio pedagogico che ha
dato inizio ai laboratori. Le teorizzazioni di alcuni dei più noti studiosi
come Reddie, Bertier, Manjon, Decroly, Kerschensteiner, Dewey,
Freinet, unitamente alle esperienze delle scuole nuove e dell’attivismo
hanno fatto, della didattica laboratoriale, il centro delle proprie
proposte pedagogiche e delle loro esperienze didattiche. La scuola
attiva post-deweyana fa riferimento al metodo dei progetti di
Kilpatrick, che ben si riagganciano nelle attuali possibilità progettuali
presenti nelle scuole italiane, al metodo Winnetka di Washburn, ma
soprattutto al piano Dalton di Parkhurst. Nelle loro proposte il
laboratorio è uno spazio e uno strumento per l’individualizzazione del
lavoro scolastico, nel quale le aule vengono sostituite con laboratori
specializzati, abolendo l’orario scolastico, la centralità della lezione,
suddividendo il programma in blocchi mensili, stipulando contratti di
lavoro con gli alunni ed evidenziando i loro progressi attraverso un
sistema di tabelle. L’altro modello di laboratorio, la scuola a tempo
pieno, fa riferimento, nella pedagogia italiana degli anni Sessanta, alla
figura di Francesco De Bartolomeis lo studioso che per primo ha
individuato nei laboratori, nelle metodologie ad essi connessi, una
corsia preferenziale per la scuola di qualità. Mentre la Parkhurst
trasforma la classe in laboratorio, De Bartolomeis considera il
laboratorio un’ulteriore risorsa della classe, senza la pretesa di
sostituirla in toto. I laboratori non eliminano la lezioni ma sono intesi
come locali attrezzati con materiali, strumenti, macchine, ecc. in cui si
svolge un’attività produttiva: luoghi di produzione culturale con i
mezzi della ricerca. Luoghi ai quali Frabboni attribuisce la funzione di
angoli didattici, aule specializzate, laboratori scientifici, laboratori
comunicativi, zone attrezzate, per rispondere alle variegate esperienze,
flessibili e diversi per interessi ed apprendimento. Lo scenario politico
italiano ha recentemente riaperto il discorso sui laboratori con la
Riforma Moratti. La novità riguarda prevalentemente la scuola
dell’infanzia con l’introduzione ufficiale dei laboratori al suo interno
basando la organizzazione didattica sui criteri della flessibilità,
continuità ed apertura. Nelle scuole secondarie di primo e secondo
grado, il metodo laboratoriale viene utilizzato, prevalentemente, nella
didattica extracurriculare, nella quale la scuola si apre a contenuti
differenti dalla programmazione disciplinare e guarda, invece, alle
problematiche sociali, agli interessi giovanili attraverso procedure che
impegnano attivamente gli studenti ma sempre attraverso un sistema
rigoroso di analisi e di discussione critica, atteggiamenti propri della
riflessione sulla cultura elevata. In questo modo la progettualità della
scuola ritrova la propria specificità a livello delle modalità cognitive
del lavoro didattico, situando la propria caratteristica distintiva a
livello metacognitivo, sul piano dei processi mentali di riflessioni sul
sapere.
Il termine Laboratorio risente delle mode del tempo, l’eccesso d’uso, in
alcuni periodi, può far perdere il senso più autentico del suo significato
sia sul piano pratico che epistemologico.
In pedagogia esso connota sempre una tendenza democratizzante
dell’educazione: dall’attivismo statunitense del primo Novecento alle
pratiche nostrane del tempo prolungato e del tempo pieno. Il valore
strategico che si può e si deve attribuire non solo al termine ma anche
al concetto che esso sottende apre un inevitabile contrasto dialettico
tra più tendenze visto che il laboratorio ha a che fare con le scienze, le
tecniche, i metodi d’indagine, la partecipazione attiva dei soggetti ma
anche con i luoghi privilegiati della ricerca per pochi eletti.
In noi, volendo richiamare una tendenza orientativa di parte, evoca alla
mente le botteghe artigiane del rinascimento dove l’apprendista
cresce, sotto il profilo culturale e umano, grazie alla guida di un
maestro. Un simbolo che può mantenere il suo fascino pure nel
disorientante mondo globalizzato, a patto di convergere almeno sul un
dato di partenza inequivocabile costituito dal fatto che occorre
muovere da un approccio plurale.
Se è fuori dubbio che il laboratorio ha rivestito, e riveste, un ruolo
importante, non solo nelle prassi didattiche dei vari ordini scolastici
ma anche nelle scelte di politica formativa, poiché è simbolo di
modernità, concretezza ed innovazione, non si può non considerare
che dietro questo emblema della operatività scientifica si possono
celare sia incertezze che vuoti teorici dal momento che, attualmente, è
chiamato a far bella mostra di sé nei documenti ufficiali di ogni ipotesi
modernistica della scuola.
Il pregiudizio dominante, nella contrapposizione tra lavoro manuale e
lavoro intellettuale, non deve condurre obbligatoriamente nella
direzione dell’inconsistenza culturale del primo dal momento che le
pratiche più autentiche del laboratorio mostrano pure il contrario
svelando la dimensione del lavoro intellettuale fatta di oziosità,
privilegio, perdita di tempo in questioni inutili in quanto non
direttamente produttive. Dove il laboratorio è spazio di generatività e
creatività lì scaturiscono spontaneamente momenti collaborativocooperativi capaci di lasciar trasparire autostima e motivazioni, oltre
che abilità e conoscenze su compiti concreti. Si tratta dunque di uno
spazio aperto, dialogico e relazionale, democratico per sua stessa
natura perché frutto della necessaria intersoggettività che caratterizza
la scienza. La storia della prassi di laboratorio ha però conosciuto
percorsi di chiusura, di ghettizzazione, di subordinazione all’interno di
gerarchie granitiche, di controllo della scienze. Anche ciò ha diritto di
far parte del sapere, diventando, se si vuole, un laboratorio d’indagine
storiografico-antropologica sulla tradizione dei laboratori. Laboratorio
e progresso non sono sinonimi, poiché quel lavorare che sta alla radice
latina del concetto può essere indirizzato nelle più svariate direzioni.
Certo presuppone un fine sperimentale, prefigura innovazione e
profitto, sia pure con i rischi che ogni impresa umana impone.
Il paradigma interpretativo è la cifra caratterizzante il laboratorio, le
esperienze concrete, costruttive e sperimentali, che precedono la
teoria, che a sua volta dipende dalla prassi, considerato che il sistema
teoretico è possibile partendo dall’esperienza, dall’azione, dalla pratica
educativa. Chiarisce Franco Frabboni che i fatti educativi forniscono al
sistema ipotetico-deduttivo elementi di osservazione irrinunciabili per
un
modello
scientifico
dei
laboratori
che
aspiri
ad
essere
epistemologicamente convalidato. Libero ed estraneo da ipoteche e
scudi protettivi di natura aprioristica-assiomatica-dogmatica286. La
scientificità consiste, allora, nel modo di osservare, che non è casuale
286
Cfr. F. FRABBONI, Il laboratorio,
ma orientato secondo protocolli condivisi d’interpretazione dei
fenomeni. “Dunque i laboratori dispongono di una specifica logica
formale, di un proprio dispositivo interpretativo. […] Se i laboratori
venissero “deteorizzati” resterebbero prigionieri, una volta in più, dei
loro stoici carcerieri dalla vocazione ascientifica”287 .
Il laboratorio deve essere luogo di elaborazione culturale vera, dove i
soggetti si confrontano in quanto “comunità di pratiche”, o di intenti
rivolti alla ricerca ed in cui lo stesso linguaggio diviene laboratorio
degli interessi polivalenti della pratica formativa.
287
Ivi, p. 85.
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