Limiti di validità dei patti parasociali

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Limiti di validità dei patti parasociali
 RULES Research Unit Law and Economics Studies Paper No. 2013‐7 Limiti di validità dei patti parasociali By Mario Libertini 1 MARIO LIBERTINI Limiti di validità dei patti parasociali (Univ. Bocconi – Milano – 11 dicembre 2012) [*] [Testo provvisorio] [*] Questo scritto è dedicato alla memoria di Paolo Ferro‐Luzzi 1.
Il riconoscimento legislativo della figura dei patti parasociali – avvenuto ormai, in Italia, da diversi anni ‐ costituisce solo un punto di partenza, per una riflessione più generale, che oggi si impone non meno di prima, sulla validità e l’efficacia di tali patti. In proposito, è noto che l’esperienza storica (comune a Italia, Germania e paesi di common law) vedeva, un secolo fa, affermata l’idea che la s.p.a., nata da una concessione statale della personalità giuridica, fosse retta da norme di ordine pubblico, sicché eventuali accordi fra azionisti (o fra azionisti e terzi), conclusi al di fuori delle regole organizzative legali della società, dovessero considerarsi nulli1. Dopo di allora, con un percorso avviatosi in Italia con qualche ritardo, e che ha investito – anche se con regole spesso differenziate – tanto le società di capitali “chiuse” quanto quelle aperte ai mercati finanziari2, si è assistito ad un processo di espansione e Cfr. R. KULMS, A Shareholder’s Freedom of Contract in Close Corporations – Shareholder Agreement in the USA and Germany, in European Business Organization Law Review, 2001, 685 ss. Nella dottrina italiana v., per riferimenti comparatistici generali, L. FARENGA, I contratti parasociali, Giuffrè, Milano, 1987, 13 ss. Per l’Italia v., p.e., C.VIVANTE, Trattato di diritto commerciale – II. Le società commerciali5, Vallardi, Milano, 1929, VIII (“Nessuno dei contraenti ha diritto di esigere l’osservanza di questi accordi”). Per l’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale successiva, in Italia, v. l’esauriente rassegna di G. RIOLFO, I patti parasociali, Cedam, Padova, 2003, 71 ss. Molto interessante è il confronto con l’esperienza maturata, in materia di patti parasociali, nella Russia postsovietica (cfr. K.L.PULEC, Legal Restraints on the Use of Shareholders’ Agreements for the Structuring of Foreign Investments in Russia, in 45 Cornell International Law Review, 487 ss. [2012]). Qui si è avuta, come in un percorso accelerato, un’esperienza simile a quella che, nei paesi capitalistici occidentali, è maturata nel giro di diversi decenni. Dopo l’apertura della Russia al capitalismo, la reazione dei tribunali è stata nel senso dell’assoluta illegalità dei patti parasociali. Dato l’effetto negativo di questa giurisprudenza sugli investimenti stranieri in Russia, nel 2009 è stata approvata una legge apposita che ammette i patti parasociali, ma con limiti di contenuto non molto chiari e con effetti limitati inter partes e la previsione del solo rimedio risarcitorio. 2 E’ stato per lungo tempo luogo comune, soprattutto nella letteratura anglosassone, che i patti parasociali siano un fenomeno tipico delle società di capitali a struttura chiusa. L’esperienza ha dimostrato che i patti parasociali possono essere uno strumento efficiente di riduzione dei costi transattivi anche nelle grandi 1
2 de’lʹambito di riconoscimento della validità dei patti e dei rimedi esercitabili da parte dei contraenti in caso di inadempimento. Questo percorso non può dirsi oggi compiuto con l’individuazione di confini perfettamente definiti. A prima vista esso è comunque caratterizzato da una progressiva affermazione di una logica contrattualistica, in contrasto con l’impostazione più arcaica, che privilegiava una concezione “reale” della personalità giuridica ed una correlativa logica istituzionalistica. In realtà, l’inquadramento dei problemi di disciplina dei patti parasociali è meno lineare di quanto possa pensarsi a prima vista, rispetto alle scelte sistematiche fondamentali del diritto societario, e, in particolare, all’alternativa fra impostazione contrattualistica e impostazione istituzionalistica. Se si segue fino in fondo la prima impostazione (i.e. se l’atto costitutivo di società è concepito come un contratto di durata fra i soci, avente ad oggetto la collaborazione fra più soggetti per le gestione in comune di una certa attività d’impresa), i patti parasociali vengono ad assumere, alternativamente, due caratteri: (i) o quello di contratti modificativi, o integrativi, del contratto principale (ciò è a dirsi quando parti dell’accordo siano gli stessi soggetti che hanno stipulato il contratto costitutivo della società); (ii) o quello di contratti collegati (in senso tecnico‐giuridico) al contratto di società (ciò sarebbe a dirsi per tutti gli accordi che siano stipulati solo da alcuni, e quindi non da tutti i soci, o per quegli accordi che siano stipulati da uno o più soci con soggetti terzi). Le conseguenze giuridiche di questa impostazione dovrebbero essere abbastanza nette: (i) in primo luogo, i patti parasociali assumerebbero, quando stipulati da tutti i soci, il carattere di vere e proprio “controscritture”, come tali valide in linea di principio, ma solo nei limiti sanciti dagli artt. 1414 ss., c.c.; mentre, per la prova di accordi verbali, vi sarebbero da applicare le regole che ne limitano l’ammissibilità, come patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento: artt. 2722, 2723 c.c.; invece, in caso di patti non totalitari, o comunque di patti fra soci e terzi (o fra soci e società, etc.), si dovrebbe parlare di collegamento negoziale, in senso proprio, con conseguente condizionamento legale del contratto collegato (il patto parasociale) alle regole di validità ed efficacia del contratto principale (il contratto di società); imprese (ove possono svolgere anche una funzione di tutela degli interessi degli investitori di minoranza. Cfr. D. GORDON SMITH e aa., Private Ordering with Shareholder Bylaws, in 80 Fordham Law Review, 127 ss. [2011]. 3 (ii) in secondo luogo, l’efficacia dei patti parasociali, una volta superato l’ostacolo relativo alla forma e alla prova, verrebbe rafforzata da questa impostazione, perché i patti (almeno quelli totalitari) sarebbero tendenzialmente parte integrante del contratto‐base, e quindi potrebbero direttamente integrare o modificare le regole relative allo svolgimento dell’attività sociale e all’esercizio dei diritti dei soci; (iii) infine, questa impostazione porterebbe a restringere l’ambito di validità dei patti parasociali, in quanto questi, proprio per il loro carattere integrativo o modificativo del contratto principale, o anche semplicemente nel caso di collegamento negoziale, andrebbero incontro agli stessi vizi di contenuto che potrebbero inficiare la validità di clausole statutarie della società. Se invece si segue un’impostazione istituzionalistica (i.e., con terminologia più arcaica, si valorizza l’idea della società come persona giuridica “reale”), l’inquadramento del problema della validità dei patti parasociali cambia radicalmente. In questa diversa prospettiva, la società è vista come una istituzione, costituita mediante un atto unilaterale, o una serie di atti unilaterali paralleli, e poi disciplinata, per ciò che riguarda lo svolgimento dell’attività, da regole proprie delle organizzazioni istituzionali (quindi: organi con diversa competenza, procedimenti formali di adozione delle deliberazioni, regole di esercizio di poteri funzionali, vizi di illegittimità degli atti interni [incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge], etc.). Se si accetta questa diversa prospettiva, i patti parasociali (quand’anche totalitari) non possono mai avere, per definizione, caratteri ed effetti modificativi o integrativi dell’atto‐
base (atto costitutivo + statuto). Da qui una limitazione dell’efficacia ai rapporti inter partes (anche se rimane aperto il problema ulteriore dei rimedi utilizzabili: v. infra, § 6). Per quanto riguarda, invece, i limiti di validità dei patti, una volta superata (come oggi impongono anche i testi normativi) l’antica idea per cui qualsiasi accordo “parasociale” sarebbe nullo per contrarietà all’ordine pubblico (in quanto esautorerebbe gli organi della società), i patti stessi assumono, piuttosto, il carattere di accordi strumentali o partecipativi rispetto all’attività di un’organizzazione data. Non c’è ragione per risolvere negativamente, in linea di principio, il problema della loro liceità e validità, ma occorre procedere ad un attento esame del contenuto e della funzione concreta di ciascun patto. In altri termini, l’inquadramento in una moderna impostazione istituzionalistica comporta due conseguenze importanti, in ordine alla disciplina dei patti: 4 (i) in primo luogo, è escluso in radice che i patti stessi possano incidere sulla validità e l’efficacia degli atti interni alla società: la loro efficacia è nettamente distinta e limitata ai rapporti inter partes (così come, per intenderci, un accordo o una delibera di partito non può mai direttamente incidere sulla validità di un voto parlamentare); (ii) contestualmente, però, si allarga di molto l’ambito della validità dei patti: proprio perché essi non possono incidere direttamente sulla disciplina dell’attività sociale, è ben possibile che, sia pure limitatamente ai rapporti inter partes, essi prevedano impegni e regole che, a livello statutario, sarebbero inammissibili (p.e. l’impegno a non modificare lo statuto, o alcune sue clausole, etc.). * * * 2. Se si guarda alla storia della giurisprudenza italiana in materia di patti parasociali, si può osservare che ambedue le prospettive, sopra disegnate, sono state presenti; ma in un quadro complessivo che non si presenta nitido e coerente. Infatti, in ordine al problema della validità dei patti parasociali, la giurisprudenza è stata per lungo tempo orientata verso un’idea di continuità con il contratto sociale, ed ha quindi considerato inammissibili patti che orientavano il processo decisionale interno secondo modalità non conformi alle regole procedimentali stabilite dalla legge; o patti che miravano al conseguimento di risultati non inseribili validamente in uno statuto (p.e. l’attribuzione di diritti amministrativi individuali ad un azionista, o l’esclusione di un azionista dagli utili o dalle perdite, etc.)3. Viceversa, in relazione al problema dell’efficacia dei patti parasociali, la giurisprudenza è stata costante nel senso di un’efficacia meramente inter partes e quindi meramente obbligatoria4, e pressoché costante (anche se con qualche dubbio recente: v. infra, § 6) nel negare anche la possibilità di un’esecuzione in forma specifica. In altri termini, ha seguito un orientamento che appare più coerente con la prospettiva istituzionalistica. Si noti, peraltro, che questa concezione dell’efficacia limitata dei patti parasociali è stata applicata, dalla nostra Corte di Cassazione, anche alle società di persone5. 3
Ampie informazioni, per la situazione immediatamente anteriore alla riforma del 2003, in R. TORINO, I contratti parasociali, Giuffrè, Milano, 2000. Per una esauriente rassegna, sempre relativa allo stesso periodo temporale, v. anche, v. L.F. D’ALESSANDRO, I patti parasociali, in CONS.NAZ.NOTARIATO, Studi e materiali, 1/2004 (Studi sulla riforma del diritto societario), 758 ss. 4 V. nota prec. 5 V. l’importante decisione di Cass.civ., sez. I, 19 marzo 2010, n. 6703 (in questo caso tutti i soci di una s.a.s. avevano concluso un patto parasociale riguardante alcune modifiche del contratto sociale, ma, in sede assembleare, uno dei soci si era rifiutato di approvare la delibera modificativa; la Cassazione sancisce la validità del patto, ma anche la sua efficacia meramente obbligatoria e non coercibile). 5 In altri termini, si potrebbe dire che la tradizione italiana ha oscillato – senza piena consapevolezza ‐ fra le due possibili impostazioni sistematiche, per giungere per sempre a risultati tendenzialmente restrittivi, sia in termini di validità, sia in termini di efficacia dei patti parasociali. Se si allarga la prospettiva, su un piano comparatistico, sembra di potere individuare un orientamento prevalente che, sotto ambedue i piani di operatività dei patti parasociali, tende verso risultati più favorevoli di quelli che possono desumersi dalla tradizione italiana. Da un lato, se pure è confermata l’idea dell’efficacia limitata inter partes dei patti parasociali (quindi dell’inopponibilità alla società), vi sono larghe aperture a favore dell’ammissibilità di rimedi esecutivi specifici, in caso di inadempimento dei patti; contemporaneamente, si ammette con maggiore larghezza, rispetto a quanto traspare dalla tradizione italiana, la validità di accordi, a cui la società rimane estranea6. In questo senso è particolarmente istruttiva l’esperienza tedesca. Qui, di fronte ad un dato testuale (§ 136.2 Aktiengesetz) che pone limiti alla possibilità dell’azionista di assumere impegni riguardanti l’esercizio del voto in assemblea, si è scelta un’interpretazione sistematica restrittiva, ammettendo con larghezza i sindacati di voto ed anche ammettendo la possibilità di esecuzione in forma specifica degli obblighi di sindacato, e pur continuando ad affermare che l’efficacia dei patti è solo obbligatoria e non incide sull’organizzazione della società7. * * * 6
Il punto è stato particolarmente discusso, in Gran Bretagna, in relazione al caso Russell v. Northern Bank Development Co. [1992]. In questo caso i maggiori azionisti e la società avevano concluso un patto volto ad escludere modifiche statutarie, e in particolare aumenti di capitale, per un certo periodo. Successivamente, in una situazione di sopravvenuti dissensi fra azionisti, il c.d.a. aveva convocato l’assemblea, mettendo all’o.d.g. l’aumento di capitale. Un azionista (Russell) aveva agito per ottenere una injunction che vietasse la deliberazione. La House of Lords [1992 – BCC 578] decise che “A shareholdersʹ agreement not to increase the share capital of a company was enforceable against the shareholders but not against the company”. In altri termini: il patto di immodificabilità dello statuto, certamente invalido se tradotto in una clausola statutaria, può essere tuttavia oggetto di un valido impegno interpersonale fra azionisti. L’adempimento del patto non può essere tuttavia imposto con rimedi specifici nei confronti della società. Per ampie informazioni sulla questione v. M.ANDENAS, Shareholders’ Agreements: Some EU and English Law Pespectives (http://www.lawschool.tsukuba.ac.jp/pdf_kiyou/tlj‐01/tlj‐01‐andenas.pdf [2007]). Nello stesso senso v., con larghe informazioni sulla casistica giudiziaria indiana (e critica ad orientamenti giurisprudenziali più restrittivi, in ordine alla validità dei patti), R. KISHORE SINGH, Shareholeders’ Agreements, in Law of Business Contracts in India, S. Bhat ed., Sage Publ., Los Angeles, 2009, 141 ss. Per indicazioni relative al diritto U.S.A. v. supra, nt. 1 e 2.
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V., per tutti, U. HÜFFER, Aktiengestz9, Beck, München, 2010, 761 ss. 6 3. Al fine di ricostruire la disciplina in materia di validità dei patti parasociali in diritto italiano, è opportuno, a mio avviso, muovere dalla rilevazione, sopra accennata, del nesso sistematico che si pone fra ambito di efficacia e ambito di validità dei patti parasociali. Le tesi più estreme (v. infra, § 6), che ammettono perfino la validità di delibere informali di organi societari, se pure nel solo caso di patti totalitari, porterebbero a dover ammettere che i limiti di validità dei patti sono gli stessi che devono riconoscersi in relazione alle delibere formali. In altri termini, quello che sarebbe un oggetto giuridicamente impossibile in una delibera assembleare (p.e. l’immodificabilità dello statuto) sarebbe tale anche in relazione ad un patto parasociale totalitario. C’è da dubitare che questa soluzione sia preferibile, sul piano sistematico. Sembra dunque opportuno approfondire le ragioni che stanno alla base della soluzione opposta (che ci sembra prevalente, come si è detto, su un piano comparatistico): cioè quella dell’ampia validità, ma della limitata efficacia dei patti parasociali. Per tentare di argomentare questa soluzione mi sembra opportuno tornare sul tema generale della contrapposizione fra contrattualismo e istituzionalismo, per ribadire che è giunto il momento di superare i preconcetti ideologici, che hanno inficiato il dibattito fra queste due prospettive di fondo del diritto societario (e, ancor prima, della teoria economica dell’impresa8). Occorre dunque rilevare preliminarmente che ambedue le concezioni (contrattualistica e istituzionalistica) possono essere sostenute da plausibili ragioni, sia sul piano strettamente giuridico, sia sul piano della considerazione della realtà sociale dell’impresa. Sul piano della realtà sociale è certo possibile che un’impresa nasca sulla base di un’effettiva volontà associativa di più persone fisiche, aventi l’intento di collaborare personalmente nella gestione di una certa attività economica. In tal caso, la piena applicazione a questo fenomeno della disciplina dei contratti di durata (interpretazione, esecuzione in buona fede, etc.) sembrerebbe del tutto appropriata. Ma è anche possibile che un’impresa nasca su un programma di pubblica sottoscrizione o (più realisticamente) presenti – ab initio, o ad un certo momento della sua crescita ‐ i caratteri sociologici di un’organizzazione stabile pluripersonale (e, tendenzialmente, impersonale). In tal caso, l’applicazione del modello normativo istituzionale (organi con diverse competenze, regole procedimentali rigide, regole amministrative di legittimità degli atti etc.) sembrerebbe più appropriata rispetto all’applicazione del modello normativo contrattualistico. 8
Cfr. A. LAI, Paradigmi interpretativi dell’impresa contemporanea. Teorie istituzionali e logiche contrattuali, Angeli, Milano, 2004.
7 Si deve subito aggiungere un’osservazione ovvia: le caratteristiche tipologiche della singola impresa, come formazione economico‐sociale, non hanno una corrispondenza biunivoca con la forma giuridica prescelta dai soggetti fondatori. Molte società di capitali “chiuse” sono caratterizzate da continua collaborazione personale di soci‐imprenditori (e perfino da vera affectio societatis), mentre qualche società di persone può presentare una complessità organizzativa elevata. Sul piano normativo, l’applicazione dell’uno o dell’altro modello non può fondarsi su pretesi caratteri ontologici dell’impresa, ma dovrebbe essere frutto di scelte legislative. Queste, tuttavia, non sono molto chiare, in termini generali. La s.p.a. è certo il tipo societario che è stato disciplinato dal legislatore in una logica più istituzionale, ma non si può dire che, dai testi normativi, si ricavino indicazioni stringenti in questa direzione. La scelta sistematica – che pure va fatta – richiede dunque un percorso argomentativo critico‐
sistematico, in via interpretativa. In questa direzione, ciò che mi sembra innegabile è che l’idea unitaria delle società, che sta alla base della disciplina del codice civile (con la definizione unitaria dell’art. 2247) ed è stata dominante nella dottrina meno recente (con la relativa valorizzazione dell’impostazione contrattualistica, sancita dalla definizione generale), ha ormai perduto terreno, di fronte all’enorme diversificazione – sociologica e normativa – dei diversi tipi di impresa, tendenzialmente sottostanti alle diverse forme societarie9. In questa prospettiva, la scelta legislativa più precisa riguarda il modello applicabile alle società quotate. Per queste ultime, la distanza del modello contrattualistico è diventata ormai abissale (si pensi alla divisione di poteri fra gli organi; alla disciplina della composizione degli organi interni, con la presenza obbligatoria di amministratori indipendenti o di minoranza; alla disciplina della “parità di generi”; nonché, e forse soprattutto, alla normativa sui diritti degli azionisti e alle regole di pubblicità e di partecipazione al processo deliberativo, che questa oggi detta). Voglio aggiungere – anche se questa idea mi sembra ormai sufficientemente diffusa – che l’accettazione di un modello normativo istituzionalistico non implica affatto, come La mancanza di un riferimento unitario vale, a maggior ragione, se si ritiene – come è corretto ‐ che “il fenomeno societario vada oggettivamente concepito nell’organizzazione dell’esercizio, del funzionamento e della responsabilità di impresa”, sicché la società debba essere considerata come “tipo di impresa caratterizzata da una particolare organizzazione del suo esercizio, della relativa responsabilità e del suo funzionamento” (P.FERRO LUZZI, Riflessioni sulla riforma; I: La società per azioni come organizzazione del finanziamento di impresa, in Riv.dir.comm., 2005, I, 673 ss.; si tratta di un’idea che l’a., alla cui memoria questo scritto è dedicato, ha più volte espresso anche in altri scritti). Peraltro, è luogo comune dell’analisi economica del diritto che la funzione del diritto societario è quella di predisporre forme giuridiche funzionali ai fondamentali elementi dell’organizzazione delle imprese commerciali (cfr. R.R.KRAAKMAN e aa., Diritto societario comparato, trad.it., Il Mulino, Bologna, 2006, 8 e passim). In ogni caso, la diversità tipologica che, nel testo, è riferita alle società, si attaglia pienamente anche alla figura socioeconomica dell’impresa. 9
8 conseguenza logica, l’accettazione di una concezione allargata, e tanto meno altruistica, dell’interesse sociale: implica soltanto una prospettiva sistematica in cui l’attività degli organi societari è normativamente disciplinata secondo la logica dei poteri funzionali (i.e. delle istituzioni), le cui finalità possono essere le più varie (e, fra queste, vi può essere anche quella della massima valorizzazione del capitale investito in un’impresa). Per le società “chiuse” la scelta legislativa non è altrettanto chiara. Personalmente ritengo tuttavia che, per tutte le s.p.a., una scelta a favore del modello istituzionalistico possa, in tutti i casi, desumersi dall’indicazione, formulata dal legislatore in modo rigido, della differente competenza dei vari organi societari. Per la s.r.l. e per le società di persone la scelta normativa è, invece, molto meno chiara. Dato che la nostra riflessione è dedicata soltanto alle s.p.a., e per di più essenzialmente alle s.p.a. quotate, la scelta sistematica si presenta, dunque, relativamente facile. La conseguenza, in relazione alla disciplina dei patti parasociali, dovrebbe essere quella sopra enunciata: ampia validità, ma limitata efficacia dei patti. * * * 4. Sviluppando le riflessioni ora svolte, si possono formulare diverse affermazioni, relative alla funzione e alla disciplina dei patti parasociali. In una prospettiva istituzionalistica deve convenirsi che l’impresa, in quanto organizzazione stabile per l’esercizio di un’attività, deve operare in base a regole di funzionamento sue proprie, che devono seguire un modello istituzionale e dunque avvalersi del relativo apparato di strumenti giuridici (competenza, procedimento, atto deliberativo, ecc.), che pur sono poco frequentati dalla cultura privatistica tradizionale. L’approccio sistematico corretto al diritto societario (almeno per le s.p.a.) è dunque quello che mi sembra potersi definire in termini di “istituzionalismo debole”, nel senso che deve far tesoro di alcuni strumenti normativi che sono propri della disciplina delle istituzioni, anche se deve poi prescindere da quei connotati di tipo politico‐solidaristico, che caratterizzavano le vecchie teorie istituzionali dell’impresa10. Su queste basi, il fenomeno dei patti parasociali si inserisce, sul piano sociologico, in una esperienza più generale per cui, data una certa realtà istituzionale11, gli interessi Mi permetto di richiamare M.LIBERTINI, Costituzione e conferimenti, in CONS.NAZ.NOTARIATO, Studi e materiali, 2/2004 (Studi sulla riforma del diritto societario), 30‐1; ID., Scelte fondamentali di politica legislativa e indicazioni di principio nella riforma del diritto societario del 2003. Appunti per un corso di diritto commerciale, in Rivista di diritto societario (ed. Giappichelli, Torino), 2008, 197 ss. Sull’intera problematica v. anche, come più recente, M.COSSU, Società aperte e interesse sociale, Giappichelli, Torino, 2006. 11
Ovviamente questo ragionamento viene svolto con riferimento alle sole situazioni tipiche, e non considera neanche, in questa sede, l’enorme problema relativo alle situazioni in cui alla “forma istituzionale” non 10
9 coinvolti nell’istituzione tendono ad aggregarsi anche con modalità spontanee, esterne rispetto a quelle formalmente imputabili alla vita istituzionale, ma pur sempre con il fine di influire sulla vita dell’istituzione (cioè per fini che, in termini sociologici, si direbbero di “partecipazione” alla vita dell’istituzione)12: così i partiti politici rispetto allo Stato, o le “correnti” rispetto ai partiti politici, ecc. La presenza di queste modalità partecipative extraistituzionali può avere effetti diversi sull’efficienza e sulla vitalità dell’istituzione: entro certi limiti può rafforzarla, perché semplifica i processi decisionali (in termini economici, riduce i costi transattivi derivanti dalla necessità di mettere d’accordo una pluralità di persone), consente di valorizzare apporti di idee e di proposte che avrebbero difficoltà a manifestarsi per le vie istituzionali formali, e – soprattutto ‐ consente di stabilizzare i programmi e le strategie; oltre un certo limite, la presenza di accordi e organizzazioni collaterali può portare però alla paralisi e all’inefficienza dell’istituzione principale, che può ridursi a semplice stanza di registrazione di decisioni formatesi altrove, e spesso senza la trasparenza e le garanzie procedimentali che le regole dell’organizzazione ufficiale invece sanciscono. In altri termini, nel delineare i possibili modelli di rapporto fra istituzione e iniziative od organizzazioni collaterali, possono individuarsi tre finalità fondamentali di tali iniziative od organizzazioni: - lecite (finalità di precostituire scelte individuali o collettive, comunque compatibili con gli scopi istituzionali ufficiali); - eversive (finalità di distruggere o boicottare dall’interno l’istituzione); - elusive (finalità incompatibili con gli scopi istituzionali ufficiali, o compatibili, ma perseguite mediante processi decisionali idonei ed eludere le regole decisionali interne all’istituzione). Com’è ovvio, il problema giuridico fondamentale di trattamento di tali fenomeni sta nel distinguere gli atti con finalità lecita, trattandoli come valide espressioni di autonomia privata, dagli atti con finalità illecita, da sanzionare con la nullità ed eventualmente con altri rimedi. Anche rispetto alle organizzazioni societarie gli schemi di classificazione e valutazione delle iniziative paraistituzionali, sopra sommariamente individuati, possono applicarsi utilmente, nel momento in cui deve operarsi il controllo causale del singolo patto parasociale13. In sostanza, il problema della validità dei patti parasociali dev’essere corrisponda alcuna “realtà istituzionale”, ma si abbia confusione di patrimoni e potere di decisione sostanzialmente personale. 12 Cfr., per esempio, A.SAVIGNANO, Partecipazione politica, in Enc.dir., XXXII, Giuffrè, Milano, 1982, 1 ss.; F.RANIOLO, La partecipazione politica, Il Mulino, Bologna, 2007. 13
In proposito, si deve segnalare un equivoco, di recente manifestatosi in dottrina (cfr. E.CERVIA, Patti parasociali e tutela d’urgenza, in Contratti, 2005, 340 ss.), secondo cui, essendo divenuti i patti parasociali, a seguito della riforma del 2003, un “negozio tipico”, il giudizio di meritevolezza dell’interesse sarebbe stato già espresso, in via generale ed astratta, dal legislatore. 10 prevalentemente risolto – come vedremo meglio infra, § 7 ‐ mediante l’esame della meritevolezza della “causa in concreto”, cioè dell’interesse concretamente perseguito dai partecipanti all’accordo14. S’intende poi che al patto parasociale saranno applicabili le regole generali sui rimedi contrattuali, sicché esso potrà essere, per esempio, annullabile per dolo o altro vizio della volontà. L’esistenza di tali vizi non si traduce però in nullità del patto15. * * * 5. Sul piano dell’efficacia dei patti , come si è più volte detto, in una logica istituzionalistica, diviene facilmente un punto fermo quello della netta separazione giuridica fra regole dell’istituzione e regole della partecipazione esterna. Si deve però ancora riflettere su questo punto: questa netta distinzione, che ha una sicura base ideologica nel campo pubblicistico (ove la distinzione tra la sfera del pubblico e quella del privato costituisce una delle basi fondamentali della cultura politica liberale), ha una parallela giustificazione nel campo delle società di capitali? o finisce per trasportare, nel campo delle regole dell’impresa capitalistica, logiche di pubblico interesse che – almeno secondo l’ideologia liberista che ha dominato nell’ultimo quarto di secolo ‐ sarebbero ad essa del tutto estranee? A mio avviso, le regole di stampo istituzionalistico (con ciò che ne consegue, in termini di efficacia dei patti parasociali) hanno una giustificazione anche in una prospettiva di efficienza dell’impresa. Dovrebbe ritenersi invece acquisito (a cominciare dal fondamentale lavoro di G.B.FERRI, Causa e tipo nel negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1965), che la tipizzazione di un negozio da parte del legislatore può riguardare svariati livelli della disciplina negoziale (l’oggetto, i soggetti, ed anche –ma non necessariamente‐ una determinata funzione tipica), ma non può esaurire il problema del controllo della funzione concretamente svolta dal singolo negozio, che può risultare non meritevole di tutela o addirittura illecita anche quando il negozio si avvale di schemi legalmente tipici. Può dunque darsi un negozio legalmente tipico ma avente causa illecita. V. da ultimo Trib. Pesaro, 13 giugno 2009, in Pluris – Cedam/Utet, secondo cui “I patti parasociali devono ritenersi illegittimi solo quando il contenuto dellʹaccordo si ponga in contrasto con norme imperative o sia idoneo a consentire lʹelusione di norme o principi generali dellʹordinamento, ma non quando sia destinato a realizzare un risultato pienamente consentito dallʹordinamento”. Queste formule giurisprudenziali possono essere pienamente approvate solo se per “risultato consentito dall’ordinamento” si intende l’oggetto o il contenuto degli atti deliberativi che assemblea o amministratori adottano, in ottemperanza al patto parasociale, e non ci si riferisca a pretesi principi di incondizionata autonomia dell’esercizio del diritto di voto o del potere gestionale degli amministratori. 14
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In tal senso Cass.civ., sez. I, 18 luglio 2007, n. 15693, in Società, 2009, 197, con nota adesiva di D.PISELLI. 11 In primo luogo, è da considerare il guadagno di efficienza che deriva dalla maggiore certezza giuridica, derivante dall’applicazione delle regole istituzionali. Ciò ha ovviamente massima importanza in relazione alle misure organizzative, che attengono a ruoli e doveri di persone diverse, operanti in azioni complementari, a diversa destinazione di beni etc.; e, inoltre, incidono spesso su interessi di soggetti estranei al patto (ed anche diversi dai soci). Ma le ragioni di certezza, da sole, non basterebbero, se poi costringessero a pagare, in termini di giustizia dei rapporti, prezzi tali da scoraggiare gli investimenti in società. Credo però che, a favore di una logica istituzionale, vi siano anche ragioni più profonde di efficienza dell’organizzazione societaria (i.e. dell’organizzazione della grande impresa capitalistica). Il punto cruciale è che le regole istituzionali del diritto societario, con l’operatività del principio di maggioranza e del procedimento collegiale, hanno una ratio di sostegno del dinamismo interno dell’impresa: esse, infatti, consentono di modificare le regole organizzative più facilmente di quanto accadrebbe se si applicasse una regola contrattuale pura, cioè una regola di rispetto “reale” di accordi interpersonali fra soci (o, addirittura, di accordi interpersonali fra soci e terzi). Se ciò accadesse, il dinamismo interno dell’organizzazione societaria ne verrebbe inficiato. D’altra parte, se si ammettesse una tutela rafforzata dei patti parasociali, sì da considerarli idonei a modificare tacitamente lo statuto sociale, questa soluzione dovrebbe riverberarsi in direzione negativa sul problema della validità dei patti parasociali. In altri termini, se può accettarsi con relativa facilità una soluzione favorevole alla validità di un certo patto (p.e. di immodificabilità dello statuto), finché questa soluzione è destinata ad avere effetti solo inter partes, allo stesso risultato non si potrebbe più giungere se al patto si attribuisse un’efficacia rafforzata, tale da incidere su norme permanenti dell’organizzazione societaria. In ultima analisi, la netta distinzione del piano dell’organizzazione societaria da quello dei patti fra soci o fra soci e terzi, in vario modo connessi all’attività sociale, sembra una soluzione efficiente, in grado di favorire la partecipazione attiva di soggetti interessati all’attività sociale (consentendo la formulazione di programmi diversi, anche dialetticamente contrastanti), senza peraltro irrigidire l’organizzazione societaria. * * * 6. Su questa base si può tentare di precisare le soluzioni applicabili, in relazione al problema dell’efficacia (esclusivamente) inter partes dei patti parasociali. Come si è più volte detto, è luogo comune che l’efficacia dei patti sia esclusivamente inter partes, sicché gli stessi non possono incidere sulla validità ed efficacia di atti interni 12 all’organizzazione societaria (in tal senso si parla spesso, ma con formulazione tecnicamente sfocata, di efficacia puramente obbligatoria, e non “reale” dei patti parasociali). Si deve però notare che questo orientamento si traduce, in realtà, in quattro diverse massime di decisione: (i)
l’eventuale violazione del patto parasociale non può mai costituire ragione di invalidità di un atto di un organo della società16 (i.e. non invalida il diritto di voto espresso, in violazione dell’impegno parasociale, all’interno di un organo della società); (ii)
gli obblighi derivanti dal patto parasociale non sono suscettibili di esecuzione in forma specifica, mediante decisioni giudiziarie costitutive, ai sensi dell’art. 2932 c.c., aventi effetto diretto sull’organizzazione societaria; (iii)
gli obblighi derivanti dal patto parasociale non sono suscettibili di condanne inibitorie o riparatorie di carattere specifico, perché queste realizzerebbero effetti interferenti con l’organizzazione societaria17; (iv)
gli obblighi derivanti dal patto parasociale non possono dar vita a pretese azionabili della società nei confronti di soggetti partecipanti al patto [in questo caso si tratta di punto affermato solo da una giurisprudenza maggioritaria]18. 16
Cfr. Cass.civ., sez. I, 23 novembre 2001, n. 14865; App.Milano, 11 agosto 2000, in Giur.it., 2001, 1906; Trib. Varese, 1 marzo 1999, in Società, 1999, 864; Trib. Roma, 20 dicembre 1996, in Giur.comm., 1997, II, 119; Trib. Reggio Emilia, 11 ottobre 1996, in Giur.comm., 1999, II, 377. Analogamente, è fuori discussione che la società sia priva di legittimazione passiva nelle cause intentate da un socio contro un altro, per violazione di un patto parasociale (v. Cass.civ., sez. I, 22 marzo 2010, n. 6898). 17 In giurisprudenza, v. da ultimo Trib. Modena, 3 dicembre 2010, in Società, 2011, 832, con nota critica di R.TORINO. In precedenza Trib, Roma, 20 dicembre 1996, in Giur.comm., 1997, II, 119, con nota di M.SONNINO; Trib. Ancona, 10 giugno 1998, in Dir. Lav. Marche, 2000, 76; Trib. Belluno, 27 marzo 2010, in Giur.it., 2011, 128.. In dottrina, nello stesso senso, v. per tutti F.GALGANO – R.GENGHINI, Il nuovo diritto societario3, Cedam, Padova, 2006, 130, per cui “la sola sanzione giuridica che assiste i contratti parasociali è l’obbligazione di risarcimento del danno”; nonché V.SALAFIA, I patti parasociali, in Il nuovo diritto societario, a cura di S.Ambrosini, Giappichelli, Torino, 2005, I, 208. Nel testo si è riassunto l’orientamento “ortodosso” in modo un po’ diverso, dal momento che, nelle intenzioni di chi ha espresso le opinioni richiamate, non è detto che si escluda, in linea di principio, la possibilità di una riparazione in forma specifica, e probabilmente neanche di un’esecuzione in forma specifica, degli obblighi del patto, se e in quanto tali rimedi possano esperirsi senza direttamente incidere sull’organizzazione societaria. 18 Nel senso dell’inapplicabilità della norme sul contratto a favore di terzo Trib. Milano, 31 maggio 1999, in Giur.milanese, 2000, 89; Trib. Milano, 19 aprile 2010, in Giur.it., 2010, 1621. Nello stesso senso, con riferimento ad un patto parasociale di non concorrenza, Trib. Arezzo, 13 luglio 2011, in Corr. Merito, 2011, 1149. 13 L’analisi del tema dell’efficacia dei patti parasociali dev’essere opportunamente disaggregata, esaminando distintamente questi quattro profili. * * * 6.1. La prima massima sopra enunciata può dirsi pressoché consolidata, anche a livello comparatistico19. Tuttavia, si deve osservare che, negli anni recenti, l’idea della impermeabilità della organizzazione societaria agli accordi parasociali (“Trennungsprinzip”, per la dottrina tedesca) è stata messa in discussione, da diverse posizioni dottrinali e in diversi paesi. In questa direzione si è espressamente valorizzata la prospettiva contrattualistica. Si è quindi affermato, non solo in Italia, che l’orientamento tradizionale (con la relativa, radicale separazione degli effetti) sarebbe formalistico e contrario al principio di buona fede. Questi argomenti sono stati utilizzati per sostenere la possibilità di esecuzione in forma specifica dei patti; ma, in alcune posizioni più avanzate, si è giunti ad ammettere anche la possibilità di integrazioni/modificazioni implicite del contratto sociale, derivanti da patti parasociali20. Peraltro, si deve subito precisare che ciò è avvenuto solo per i patti totalitari, e quindi in relazione a società (anche di capitali, ma) “chiuse”. Non ci sono invece dubbi sul fatto che il Trennungsprinzip debba valere in pieno per i patti non totalitari e quindi, ovviamente, per qualsiasi patto parasociale inerente a società “aperte”. Credo comunque che, nell’ordinamento italiano, la soluzione tradizionale debba essere confermata per tutte le s.p.a. In effetti, per quanto riguarda l’ipotetico rimedio invalidativo, mi sembra che esso sia certamente escluso per il fatto che l’annullamento di atti deliberativi è ammesso solo in caso di “non conformità alla legge o allo statuto” (artt. 2377, 2388), e quindi non anche per violazione di obblighi giuridici nascenti da fonte non legale, né statutaria; tanto più che tutto il sistema è orientato nel senso della tassatività delle cause di invalidità delle deliberazioni di organi societari. In senso contrario, come più recente, App. Milano, 25 settembre 1998, in Corr.giur., 1999, 226. V. anche infra, nt. .. 19
Qualche decisione controcorrente si è però avuta nel diritto francese (benché, anche in Francia, il quadro generale sia nel senso della intangibilità degli atti societari, ancorché posti in essere in violazione di patti parasociali). V. in materia C. MESSI, L’exécution forcée des pactes d’actionnaires, Univ. Robert Schuman, Strasbourg, 2004. 20 Di recente, una brillante difesa di questa tesi può leggersi in M.I. SÁEZ LACAVE, Los pactos parasociales de todos los socios en Derecho español. Una materia en manos de los jueces, in InDret, 3/2009, 1 ss. In Italia, questo orientamento è stato accolto dal Lodo arb. (Portale / Bianchi / Sacchi), 7 giugno 2000, in Riv. dell’arbitrato, 2001, 287 ss., con nota parzialmente critica di F. PERNAZZA (è dubbio però che, in tale decisione, la tesi richiamata nel testo costituisca unica ratio decidendi). 14 * * * 6.2. Quanto al secondo dei punti sopra elencati, credo che anche questa conclusione debba essere confermata. Infstti, essendo rimasto un punto fermo – come si è detto ‐ che l’eventuale violazione di un patto parasociale non può costituire ragione di invalidità di un atto di un organo della società, né di un atto di alienazione di azioni21, sembra poi incoerente ammettere un’esecuzione in forma specifica, in senso pieno (i.e. con effetti verso la società), del patto parasociale. Le stesse recenti ordinanze cautelari, che hanno imposto ad un socio di rispettare il patto parasociale (v. § 6.3), contengono, in realtà, un dispositivo puramente monitorio, cioè volto a trasformare in condanna (pur sempre azionabile solo inter partes) l’accertamento dell’esistenza di un determinato obbligo comportamentale, nascente dal patto parasociale. Cosa ben diversa sarebbe l’esecuzione in forma specifica costitutiva, ex art. 2932 c.c., atta a sostituire un determinato atto societario (esercizio del diritto di voto, delibera dell’organo amministrativo, ecc.)22 o a realizzare coattivamente un certo tipo di trasferimento delle partecipazioni sociali. Peraltro, per quest’ultima fattispecie, la soluzione dell’efficacia limitata inter partes continua a trovare una precisa base testuale nell’art. 1379 c.c.23. In proposito, a parte ogni possibile rilievo sulla astratta esperibilità tecnico‐
organizzativa e processuale di rimedi giudiziari sostitutivi di deliberazioni di organi societari24, sembra comunque sistematicamente inammissibile che l’ordinamento possa consentire una tutela anticipatoria piena di un certo obbligo che, se violato, non darebbe poi luogo ad alcun rimedio invalidativo. In altri termini, la mancanza (certa) del rimedio invalidativo, che è un rimedio specifico ex post, impedisce di ammettere un provvedimento giudiziario sostitutivo, che avrebbe carattere di rimedio specifico ex ante. Tutto ciò è sufficiente a riconoscere che la mancanza di un rimedio invalidativo contro gli atti societari contrari ad impegni parasociali impedisce di ammettere un rimedio costitutivo per l’esecuzione inter partes del patto (i.e. un rimedio che si risolverebbe in una 21
Nel caso genovese infra citato (nt. ) c’è stato anche un ordine di non iscrivere nel libro dei soci una cessione di quote avvenute in violazione di una clausola statutaria di prelazione. Ma ciò, ovviamente, non ha nulla a che vedere con un’ipotetica efficacia reale di un patto parasociale. 22
In tal senso E.MACRI’, L’efficacia dei patti parasociali, in Banca borsa tit.cred., 2006, II, 247, secondo cui l’unico limite all’applicabilità dell’art. 2932 c.c. è quello della determinatezza dell’obbligo assunto mediante il patto parasociale. In senso contrario, circa l’applicabilità dell’art. 2932 c.c., Trib. Napoli, 18 febbraio 1997, in Società, 1997, 935 e, da ultimo, proprio con riferimento ad un preliminare di costituzione di società di capitali, Cass.civ., sez. I, 2 agosto 2012, n. 13904. Per ampi riferimenti sul dibattito italiano, e sulle ragioni contrarie all’applicabilità dell’art, 2932 c.c. al diritto di voto nelle assemblee societarie, v. anche R. TORINO (nt. 3), 354 ss. 23
Cfr. A.PAVONE LA ROSA, I patti parasociali nella nuova disciplina della società per azioni, in Giur.comm., 2004, I, 9. 24
Cfr. V.SALAFIA (nt. 17), 211‐2. 15 decisione giudiziaria sostitutiva del voto espresso dal socio o dall’amministratore, o di un certo atto di disposizione delle azioni). La stessa conclusione non dovrebbe estendersi, tuttavia, ai patti parasociali aventi ad oggetto la circolazione delle azioni, e in particolare la prelazione: in proposito, invece, la giurisprudenza italiana è restia ad ammettere un’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c., con effetti verso la società, anche con riferimento a casi di violazione di clausole statutarie di prelazione25. * * * 6.3. Riguardo, invece, al terzo dei punti sopra elencati, la solidità dell’orientamento giurisprudenziale che non ammette l’esecuzione specifica dei patti parasociali, neanche limitatamente ai rapporti inter partes, è sembrata incrinarsi a seguito di recenti pronunce26, che hanno ordinato in via d’urgenza ad un socio di votare secondo quanto stabilito in sede parasociale27. Alcuni commentatori hanno parlato di avvenuto riconoscimento dell’efficacia “reale” al patto parasociale28 o di caduta della distinzione fra “sociale” e “parasociale”29. Non sono mancate specifiche adesioni30. Il punto merita però più approfondita riflessione. In linea di principio, si deve riconoscere che quanto sopra detto, in ordine all’inapplicabilità dell’art. 2932 c.c., non è ancora sufficiente per negare la possibilità di una 25
Cfr. Trib. Busto Arsizio, 9 marzo 2012, in Società, 2012, 580; Trib. Catania, 20 novembre 2002, in Dir.fall., 2003, II, 310, con nota di G. RAGUSA MAGGIORE. Da ultimo, viene considerato legittimo il rifiuto di cancellazione dal libro soci di un azionista che aveva acquistato le azioni in modo irregolare rispetto alla prelazione statutaria anche da Cass.civ., sez. III, 23 luglio 2012, n. 12797 (ma in questo caso ha inciso sulla decisione anche il lungo tempo trascorso fra il verificarsi dell’acquisto irregolare e il momento dell’esercizio dell’azione giudiziaria da parte del prelazionario leso). 26
Trib. Genova, 8 luglio 2004, in Società, 2004, 1265; Trib. Milano, 20 gennaio 2009, in Società, 2009, 1129, con nota adesiva di F.CARTOLANO e C.CELLA. 27 La stessa soluzione è tradizionalmente affermata nell’ordinamento inglese (il precedente è Puddephatt v. Leith [1916] 1 Ch 200) e nell’ordinamento tedesco (v. nt. 6). Con questo non può dirsi che la soluzione sia assolutamente dominante, su un piano comparatistico. P.e., C.E. RIVA – G. REGOJO, Comparative Study of Shareholders’ Agreements in Closely Held Corporations in Brazil, Colombia and Mexico, in Latin American Law & Business Report, Sept. 2009, 9, informano che la maggior parte degli ordinamenti dei paesi latino‐americani (con l’eccezione di Brasile e Colombia) ammettono solo il risarcimento del danno per equivalente, in caso di inadempimento di un patto parasociale. 28
G.SEMINO, I patti parasociali hanno assunto efficacia reale?, in Società, 2004, 1267 ss.; E.MACRI’ (nt. 22), 238 ss. Analogamente C.FONTANA, Brevi note in tema di “efficacia” dei patti parasociali dopo la riforma, in Vita not., 2004, 1427 ss. (che tuttavia si esprime in senso critico verso l’ordinanza). 29
E.CERVIA (nt. 13), 342 ss. 30
In dottrina, un tentativo impegnato di dimostrazione dell’assunto è svolto da E. MACRI’, Patti parasociali e attività sociale, Giappichelli, Torino, 2007, spec. cap. III. Nello stesso senso anche D. PROVERBIO, I patti parasociali. Disciplina, prassi e modelli contrattuali, IPSOA, Milano, 2010, 29 ss. 16 decisione di condanna specifica, cioè di una condanna ad un facere (i.e. votare in un certo modo), accompagnata dai mezzi di coazione, diretta o indiretta, della condanne ad un facere (fra cui le astreintes dell’art. 614‐bis, c.p.c.); negare tale possibilità significherebbe, poi, che la violazione del patto parasociale sarebbe sanzionata esclusivamente con il risarcimento per equivalente del danno derivante dall’inadempimento del patto. Si può riconoscere, in effetti, che, quando si parla di efficacia meramente obbligatoria dei patti parasociali, spesso si ha in mente proprio una soluzione di questo tipo. Si deve allora riflettere sul fatto che una soluzione di questo tipo comporta, in realtà, il riconoscimento di una tutela attenuata delle obbligazioni derivanti da patti parasociali, rispetto a quelle derivanti da altri vincoli obbligatori. In effetti, la Cassazione si è pronunciata chiaramente proprio a favore di un’efficacia attenuata dei patti parasociali, affermando che la validità (oggi riconosciuta in linea di principio) dei patti si regge sulla considerazione che “al socio non è in alcun modo appunto, impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta lʹinteresse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere del suo inadempimento”31. Queste considerazioni si pongono chiaramente in termini di efficienza economica della soluzione. La soluzione non mi sembra priva di fondamento sistematico: esistono indicazioni normative (artt. 844, comma 2, c.c.; 2058, comma 2, c.c.; art. 2933, comma 2, c.c.) nel senso che i rimedi specifici (sia a livello di condanne inibitorie o risarcitorie, sia a livello di tutele esecutive) non devono essere concessi quando siano antieconomici (eccessivamente onerosi per il debitore, o pregiudizievoli “per l’economia nazionale”)32. Si tratta di norme chiaramente ispirate ad una ratio di efficienza economica. A me sembra che le ragioni già sopra esposte (certezza giuridica; favor per il dinamismo interno nell’organizzazione societaria) portino a sostenere questa soluzione, confermando l’intuizione giurisprudenziale e riconoscendo che l’inadempimento del patto parasociale può avere, come unica conseguenza, il risarcimento del danno per equivalente. Qualcuno potrebbe obiettare che questo giudizio di efficienza è puramente intuitivo e non fondato su un’analisi scientifica. A ciò si può replicare che il ragionamento è fondato su argomenti di ragione, di carattere storico‐sociologico, non meno significativi. 31
Cass.civ., sez. I, 5 marzo 2008, n. 5963. Storicamente, questa scelta del codice italiano, costituisce un’evoluzione positiva rispetto al principio “Nemo ad factum cogi potest”, sancito anche nell’art. 1142 del Code civil, in base alla quale “Toute obligation de faire ou de ne pas faire se résout en dommages et intérêts en cas dʹinexécution de la part du débiteur”. Alla rigida norma della tradizione civilistica si sostituisce una clausola generale, che attribuisce al giudice un potere discrezionale di risoluzione dei conflitti in materia di esecuzione degli obblighi di fare. 32
17 Inoltre, a favore della soluzione c’è anche un argomento logico‐sistematico, ricavabile dall’art. 123, comma 3, t.u.b., che riduce ex lege l’efficacia vincolante dei patti parasociali (ammettendo un diritto di recesso ad nutum, ad effetto immediato) in caso di o.p.a. Giova però precisare che il principio dell’inefficacia dei patti rispetto all’organizzazione societaria non impedisce di attribuire agli stessi, in quanto espressione di volontà negoziale dei soci, la possibilità di creare una prassi all’interno della vita societaria, poi idonea a fungere da elemento interpretativo di clausole statutarie33. * * * 6.4. Un punto, sul quale l’opinione limitativa circa l’efficacia del patto non merita – a mio avviso ‐ accoglimento, è invece quello sopra riassunto sub (iv), secondo cui gli obblighi derivanti dal patto parasociale non potrebbero dar vita a pretese azionabili della società nei confronti di soggetti partecipanti al patto. Questo punto non ha nulla a che vedere con il problema dell’ipotetica efficacia reale dei patti, ma si riconduce al problema dell’efficacia diretta delle stipulazioni a favore di terzo, che nel nostro ordinamento trova una soluzione certamente positiva nell’art. 1411 c.c. Non si vede allora perché, potendo certamente la società stipulare contratti diretti con i propri soci e far valere le relative pretese, non possa anche esercitare pretese derivanti da un contratto a favore della società medesima, quando tale contratto presenti tutti i requisiti richiesti dall’art. 1411 c.c.34. * * * 7. Su queste basi sistematiche si può ora affrontare il tema dei limiti di validità dei patti parasociali. In proposito, si deve però fare una precisazione preliminare: questo problema non può essere affrontato ricercando soluzioni uniformi fondate soltanto sull’esame del contenuto del patto. Occorre invece ammettere che le soluzioni debbano essere differenziate, sulla base di due criteri: I)
secondo una plausibile impostazione, largamente ispirata al dato comparatistico ma presente anche nella dottrina italiana35, il problema della validità dei patti non può risolversi in modo univoco per tutti i tipi e 33
In tal senso Trib. Genova, 9 aprile 2003, in Mass.Giur.Lav., 6/2004, 6. Cfr. in tal senso soprattutto G. SANTONI, Patti parasociali, Jovene, Napoli, 1985, 172 ss.; nonché L. FARENGA (nt. 1), . 35
Cfr. D.PISELLI, La validità e l’efficacia dei patti parasociali dopo la riforma societaria, in Società, 2009, 199 ss. 34
18 sottotipi di società (p.e. un certo tipo di patto può essere incompatibile con i principi in materia di società quotate ed essere invece ammissibile in una società chiusa e, a maggior ragione, in una s.r.l.); in questa prospettiva, è chiaro che, per le società quotate, i criteri di validità devono essere tendenzialmente più restrittivi di quelli che possono valere per società “chiuse”; II)
una seconda differenziazione attiene alla considerazione dei soggetti stipulanti il patto parasociale: così, è intuitivo che la società stessa può assumere validamente certi tipi di impegni riguardanti la gestione dell’impresa (p.e. covenants, patti di controllo contrattuale), ma non anche impegni riguardanti i diritti dei soci o il funzionamento degli organi sociali; ulteriori limiti possono individuarsi per gli impegni sottoscritti dagli amministratori; una maggiore autonomia, invece, deve riconoscersi per i patti sottoscritti dagli azionisti, e via dicendo36. * * * 7.1 . Un primo limite alla validità, concettualmente molto semplice ma di rara evenienza, riguarda il caso in cui il patto sia espressamente vietato da una norma imperativa. L’esempio più significativo sembra essere quello dei patti “volti ad escludere o a rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso” nei casi in cui questo sia previsto direttamente dalla legge (art. 2437, comma 6, c.c.). L’uso dell’espressione “patti”, nel testo normativo, rende poco plausibile un’interpretazione restrittiva, riferita alle sole clausole statutarie. Ne consegue l’invalidità dei patti parasociali che abbiano concreti effetti disincentivanti rispetto all’esercizio del diritto di recesso ex lege, anche solo sotto il profilo dei criteri di liquidazione della partecipazione37. Rimangono invece validi i patti parasociali limitativi del diritto di recesso con riferimento ai casi di recesso statutario. Un altro esempio di patti parasociali espressamente vietati da norme imperative si ha nell’art. 21.5, legge 3 maggio 2004, n. 112, con riguardo alla R.A.I.38. 36
Punto largamente discusso in Gran Bretagna, anche in relazione alla prassi colà presente di rafforzare la portata dei patti, facendoli sottoscrivere anche al rappresentante legale della società. 37
Cfr. M.VENTORUZZO, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, in Riv.soc., 2005, 416 ss. 38
“Sono, inoltre, vietati i patti di sindacato di voto o di blocco, o comunque gli accordi relativi alla modalità di esercizio dei diritti inerenti alle azioni della RAI‐Radiotelevisione italiana Spa, che intercorrano tra soggetti titolari, anche mediante soggetti controllati, controllanti o collegati, di una partecipazione complessiva superiore al limite di possesso azionario del 2 per cento, riferito alle azioni aventi diritto di voto, o la presentazione congiunta di liste da parte di soggetti in tale posizione”.
In attuazione della norma di legge, il divieto dei patti è ribadito nell’art. 13 dello statuto della R.A.I., approvato con D.M. 8 ottobre 2004. 19 L’esempio della R.A.I. (il cui statuto vieta espressamente – naturalmente, per quando la società sarà privatizzata ‐ la stipulazione di patti parasociali fra azionisti) consente di porre il problema in termini più ampi: è valida una clausola statutaria di divieto di patti parasociali (tutti, o di qualche tipo) fra azionisti? A mio avviso sì, in linea di principio: così come sono oggi certamente valide clausole statutarie (p.e. in materia di divieto di alienazione delle azioni) che un tempo si ritenevano necessariamente limitate al livello “parasociale” (i.e. contrattuale semplice), non si vede perché debbano essere vietate clausole statutarie che incidano, in direzione diversa dal divieto di alienazione, sull’autonomia contrattuale “esterna” degli azionisti. Si tratterebbe, infatti, di clausole indirettamente incidenti sul sistema di governo societario. La soluzione sopra indicata vale, a mio avviso, anche per i patti legalmente tipici, descritti nell’art. 2341‐bis, c.c., e nell’art. 122 t.u.b. Il fatto che il legislatore abbia espresso una diretta valutazione positiva, circa la meritevolezza dell’interesse perseguito con questi tipi di patti, non significa che abbia espresso una valutazione di funzionalità necessaria degli stessi rispetto al buon funzionamento della società (cioè, per fare un paragone, una valutazione analoga a quella che l’art. 49 della Costituzione ha fatto per i partiti politici). Non vedo dunque perché debba precludersi all’autonomia statutaria il potere di dettare una regola organizzativa diversa, che vieti certi patti parasociali. In tal caso, il patto contrario alla clausola statutaria potrà qualificarsi a sua volta come nullo, per contrarietà ad una regola imperativa statutaria39. * * * 7.2. Un diverso problema di contrarietà a norme imperative si pone per i patti caratterizzati da una clausola di segretezza. Nelle società quotate questi sono certamente nulli, per espressa disposizione dell’art. 122, comma 3, t.u.b.. Una disposizione analoga non c’è, invece, per le società non quotate, nell’art. 2341‐ter, c.c.. In proposito, ferma restando la nullità (per violazione diretta di norma imperativa) della clausola di segretezza in sé considerata, si potrebbe a prima vista pensare che le sole sanzioni applicabili siano quelle endosocietarie (sospensione del diritto di voto in assemblea, etc.) e che il patto rimanga per il resto vincolante, quanto agli effetti obbligatori inter partes. Tale soluzione non sembra però convincente: le forme di pubblicità del patto attengono al corretto svolgimento della funzione partecipativa propria dello stesso (cioè di 39
E’ vero che la non conformità allo statuto comporta, come regole, l’annullabilità della deliberazione (artt. 2377, 2388 c.c.). Ma il primato della regola dell’annullabilità è proprio del regime delle deliberazioni, che costituiscono elementi necessari della dinamica interna di un’attività organizzata. Nella logica contrattuale, che è quella propria dei patti parasociali, la sanzione normale, in caso di violazione di norme imperative, è invece la nullità. 20 quella funzione che lo rende meritevole di tutela, per l’ordinamento); il volere mantenere un patto segreto implica la volontà delle parti di dare vita ad una forma di partecipazione alla vita societaria diversa da quella che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela; perciò il patto segreto deve considerarsi, a mio avviso, nullo anche nelle società soggette all’art. 2341‐ter40. Però, quando si passa alle società “chiuse”, per le quali la legge non pone alcun obbligo di disclosure, dovrebbe riemergere, in linea di principio, la soluzione opposta, cioè quella della validità del patto di riservatezza, stipulato fra i contraenti. Resta salvo però il caso in cui questo patto implichi la violazione di espressi obblighi di informazione, che il contraente abbia nei confronti di altri soggetti: si pensi ad un patto, avente ad oggetto determinate scelte gestionali, che sia stipulato da uno o più amministratori, con l’impegno a tenerlo segreto nei confronti degli azionisti. * * * 7.3.
Una seconda categoria di patti nulli è costituita da quelli aventi oggetto illecito. Sono tali quelli in cui la prestazione, a cui una o più parti si impegnano, è di per sé contra legem. Questa conseguenza è ovvia per i patti parasociali che abbiano oggetto illecito perché impegnano le parti all’esecuzione di prestazioni vietate da norme esterne al diritto societario (compimento di reati e simili). Non diversa è la conclusione se il patto prevede impegni a prestazioni di per sé contrastanti con norme imperative di diritto societario: p.e. un patto con cui un sindaco si impegni a non rilevare un certo illecito commesso dagli amministratori, o anche solo a comportarsi in modo non rispettoso dei suoi doveri di indipendenza; o un amministratore si impegni a comportarsi in modo contrastante con i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, etc. Sono invece, in linea di principio, validi tutti quei patti che prevedano l’impegno a compiere atti o comportamenti che, di per sé, potrebbero essere frutto di libere determinazioni dell’azionista o comunque del soggetto che ha sottoscritto il patto. Così, per fare qualche esempio tratto dalla giurisprudenza recente, i patti relativi alle nomine da effettuare per gli organi societari41; o relativi ad una futura ricapitalizzazione della società o ad una sua trasformazione42. Così pure, non si estende al patto parasociale la norma 40
Sostanzialmente in tal senso E.MACRI’ (nt. 30), il quale parla tuttavia di “inesigibilità”, anziché di “nullità”, del patto segreto. Naturalmente la nullità del patto segreto non esclude che esso possa avere, invece, piena rilevanza come illecito, anche penale (cfr. Trib. Milano, 31 ottobre 2011, in Pluris – Utet/Cedam; Trib. Milano, 28 maggio 2011, in Pluris – Utet/Cedam). 41
Cfr. Cass.civ., sez. I, 22 marzo 2010, n. 6898. 42
Cass.civ., sez. I, 18 luglio 2007, n. 15963. 21 imperativa dell’art. 34, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, relativo alla composizione dei collegi arbitrali nelle liti endosocietarie43. Su questa base può anche ritenersi, in contrasto – in questo caso ‐ con la giurisprudenza44, che siano valide, in linea di principio, le clausole con cui dei soci si impegnino a votare per la rinunzia all’azione sociale di responsabilità contro determinati amministratori (salvo il caso di motivi illeciti comuni alle parti o di violazione dell’art. 1229 c.c.): infatti, la rinunzia all’azione di responsabilità è, di per sé, una scelta lecita, ai sensi dell’art. 2393 c.c.; dato che l’impegno verte su materia patrimoniale, non vi sono ragioni di principio di ordine personale, che ostino all’assunzione di un vincolo da parte dell’azionista. Ovviamente, ancora più ampia è la possibilità di riconoscere come validi i patti più svariati, che incidano sugli atti di disposizione delle proprie partecipazioni, da parte di un socio. In particolare, ciò vale anche per le società quotate, nelle quali clausole limitative di tal genere non potrebbero essere inserite in statuto. Quanto detto vale non solo per le clausole classiche, come gradimento e prelazione, ma anche per figure più incisive, come le clausole di riscatto, o le clausole di drag‐along e tag‐along, per le quali è ancora dubbia – a mio avviso, senza valide ragioni45 – la tesi dell’inseribilità diretta nello statuto sociale. 43
Trib. Prato, 15 giugno 2010, in Società, 2010, 1504, con nota adesiva di F.CORSINI; Trib. Pescara, 19 ottobre 2009, in Notariato, 2010, 392, con nota adesiva di V.SANGIOVANNI. 44
V. Cass.civ., sez. I, 28 aprile 2010, n. 10215. 45 Le clausole statutarie c.d. di drag‐along sono, com’è noto, quelle che attribuiscono ai titolari di partecipazioni di controllo, in occasione della cessione a terzi di tali partecipazioni, il potere di imporre la contestuale cessione delle partecipazione dei soci di minoranza (c.d. “trascinamento”). Civilisticamente, le clausole si traducono, tipicamente, nell’attribuzione statutaria di un diritto di opzione, sulle azioni della minoranza, a favore di un terzo che potrà essere successivamente determinato da parte dell’azionista di maggioranza. Rispetto a tale problema, la rilevanza giuridica attribuita a tale clausola può essere – a seconda delle varie opinioni – nel senso della validità piena, in quello della validità condizionata alla contestuale presenza di misure di garanzia dell’attribuzione all’azionista di un corretto valore patrimoniale (in tal senso la prima giurisprudenza in materia: v. Trib. Milano, 1 aprile 2008, in Giur.it., 2009, 381, con nota di R. WEIGMANN) o ancora nel senso della nullità. E’ evidente che, in una prospettiva propriamente contrattuale, una regola statutaria che ponga oggettivamente (i.e. senza suo espresso consenso) l’azionista, attuale o futuro, in posizione di soggezione nei confronti di un terzo (non ancora determinato) titolare di opzione, appare difficilmente giustificabile. E in effetti, in una prospettiva contrattualistica, si era affermato (V. Buonocore) che l’unico diritto individuale ed intangibile dell’azionista fosse quello relativo alla titolarità della partecipazione azionaria. Ma è altrettanto evidente (e v. per tutti R. WEIGMANN, supra cit.) che, in una logica di efficienza dell’impresa, l’omogeneità della compagine sociale e la stabilità del controllo possono essere elementi positivi e, in qualche caso, essenziali. Ugualmente essenziale può essere la possibilità per il terzo di disporre dell’intero capitale, affinché egli sia indotto ad effettuare un’operazione di acquisto del controllo; in tale prospettiva la clausola diviene uno strumento per facilitare il funzionamento del mercato del controllo, ma anche per elevare contestualmente il valore di scambio delle partecipazioni societarie (in tal modo incentivando anche l’investimento iniziale). Per queste ragioni, ritengo che debba ammettersi la validità 22 L’esame dell’oggetto del patto non è però, di per sé, esaustivo. Certamente, in prima battuta, ci si deve chiedere se la prestazione costituente oggetto del patto sia in sé lecita o meno, a confronto con le norme imperative del diritto societario. Se la risposta è positiva, deve concludersi che il patto ha oggetto lecito ed è valido, in linea di principio; ma ciò vale a meno che la “causa in concreto” del patto stesso non porti alla violazione di principi propri del diritto societario. Ecco perché l’esame dell’oggetto del patto consente di dare una risposta esauriente solo “in negativo” (cioè quando la prestazione prevista è direttamente in contrasto con una norma imperativa di diritto societario). Non anche per ciò che riguarda l’eventuale risposta “in positivo”: l’astratta liceità dei comportamenti previsti non esclude che la combinazione di fattori, risultante dal meccanismo del patto, sia contraria all’ordine pubblico economico. Perciò il capitolo più importante della problematica della validità dei patti parasociali attiene al controllo della causa degli stessi, intesa come funzione socioeconomica concretamente perseguita dall’accordo46. della clausola e che sia anche ragionevole l’applicazione analogica dell’art‐ 2437‐sexies, c.c., riguardante le azioni riscattabili. Tutto ciò vale anche a prevenire il “potere di ricatto” del socio di minoranza, che potrebbe pretendere un prezzo eccessivo per la cessione delle proprie azioni al nuovo titolare del controllo. Tutto ciò rende poi inaccettabile l’idea che clausole di tal genere, pur ammissibili in linea di principio, possano essere introdotte nello statuto solo all’unanimità (così, invece, Trib. Milano, 25 marzo 2011, in Corr. Mer., 2011, 692, con nota adesiva di F. MASSA; in Notariato, 2011, 395, con nota critica di P. DIVIZIA; e in Riv. Dir. Societ., 2011, 652 ss., con nota adesiva di E. MALIMPENSA). A favore della modificabilità a maggioranza dello statuto, con riferimento alla clausola in esame, vale anche l’analogia funzionale con le clausole di gradimento o di prelazione, che sono anch’esse finalizzate a garantire l’omogeneità della compagine sociale. Il ragionamento sopra svolto ha come premessa, evidentemente, una lettura dell’intera disciplina della s.p.a. in funzione di un concetto idealtipico, qual è quello di un’impresa capitalistica medio‐grande, con organizzazione stabile e tendenzialmente aperta ai mercati dei capitali (e, di conseguenza, della posizione tipica dell’azionista come quella di “investitore” e non di “proprietario”). Se invece la stessa disciplina viene letta alla luce di un diverso “tipo ideale” (qual è quello dell’accordo di cooperazione fra individui per la gestione in comune di un affare, con il rafforzamento della visione dominicale dell’azionista), le norme sulle azioni riscattabili e sulla modificabilità a maggioranza delle clausole restrittive della circolazione appariranno eccezionali (in senso proprio) e le clausole statutarie di drag‐along inammissibili (i.e. non introducibili validamente in statuto neanche all’unanimità, e piuttosto confinate al profilo parasociale). Sull’intera questione v., da ultimo, l’accurata trattazione di C. ANGELICI, Fra “mercato” e “società”: a proposito di venture capital e di drag along, in Dir. banca merc. finanz., 2011, 23 ss., il quale tuttavia nega la funzionalità della clausola a fini di efficienza dell’impresa e ne afferma l’invalidità per un presunto contrasto con il divieto di imposizione all’azionista di prestazioni ulteriori rispetto al conferimento (divieto che ha, in realtà, tutt’altra funzione, cioè quella di rafforzare la regola della responsabilità limitata e quindi favorire gli investimenti in società di capitali; funzione coerente, e non contrastante, con quella delle clausole di drag‐
along).
46
L’assunto esposto nel testo esigerebbe forse una digressione sul problema della permanenza del requisito della causa in senso oggettivo nella disciplina dei contratti, a fronte delle forti pressioni “anticausalistiche” che vengono dall’evoluzione del diritto europeo dei contratti. Ho cercato di difendere, in linea generale, la tesi della necessaria permanenza del controllo causale “oggettivo”, almeno nella disciplina dei contratti d’impresa, in M. LIBERTINI, Il ruolo della causa negoziale nei contratti d’impresa, in Jus, 2009, 273 ss., a cui mi permetto di rinviare.
23 * * * 7.4.
Passando dunque al tema dei patti parasociali nulli per illiceità della causa, un primo rilievo riguarda la facilità (anche in questo caso) di individuare esempi di patti illeciti per contrarietà a principi di ordine pubblico esterni rispetto al diritto societario. Un’applicazione di questa regola, può aversi per i patti parasociali che, per il loro contenuto, violino il divieto antitrust delle intese anticoncorrenziali47. Nessun ostacolo può poi ravvisarsi, in questo caso, alla legittimazione di terzi interessati (oltre che delle stesse parti) ad esercitare l’azione di nullità di patti parasociali che costituiscano intese vietate dalle norme antitrust. Un capitolo a parte, in questa prospettiva, si apre per l’eventuale dichiarazione di nullità di patti parasociali che presentino finalità elusive (frode alla legge) di norme imperative esterne al diritto societario. Per esempio, una recente pronuncia di merito parla (se pure in un obiter dictum) della nullità di un patto parasociale per pretesa violazione del divieto del patto commissorio48. 47
Cfr. H. LESGUILLONS, Le droit de la concurrence et les accords entre actionnaires, in Revue des affaires internationales. 2005, 153 ss., ove sono esaminate le diverse possibili interferenze fra patti parasociali e norme antitrust. Naturalmente, l’ipotesi più significativa è quella dei patti parasociali che danno vita a forme di controllo congiunto di una società (ipotesi espressamente prevista dall’art. 7, l. 287/1990) e, come tali, richiedono l’autorizzazione dell’autorità antitrust per essere messi legittimamente in esecuzione. In tal caso, l’autorizzazione vale come condicio iuris di efficacia del patto parasociale, e non incide sulla validità del patto (di invalidità si deve invece parlare in casi di reiterazione o di esecuzione volontaria di un patto, malgrado il diniego di autorizzazione da parte dell’Autorità). Vi è comunque, anche nell’esperienza italiana, una casistica riguardante patti parasociali ritenuti incompatibili con il divieto antitrust delle intese. V., p.e., AGCM, provv. n. 3743 (I157) del 21 marzo 1996, Associazione Librai Italiani / Editori; Cass.civ., sez. I, 31 gennaio 2007, n. 2201; Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2009, n. 2208. Per l’argomentazione della tesi secondo cui la nullità delle intese anticoncorrenziali ex art. 101 T.F.U.E. (o ex art. 2, l. 287/1990) attiene sempre ad un vizio della causa, e non dell’oggetto, rinvio ancora al mio scritto, cit. alla nt. prec., nonché a M. LIBERTINI, Le intese illecite, in Trattato dei contratti, dir. da P.Rescigno e E.Gabrielli – I contratti nella concorrenza, a cura di A.Catricalà e E.G abrielli, Utet, Torino, 2011, 82 ss. 48
Trib. Milano, 19 settembre 2011, in Società, 2012, 9, con nota parzialmente critica di E.E.BONAVERA. In questo caso si trattava di un patto di opzione gratuita su un pacchetto azionario, in cui uno dei soci partecipanti all’accordo aveva concesso l’opzione come garanzia impropria dell’adempimento di un importante contratto di fornitura di un impianto, che un’impresa terza si era impegnata a costruire a favore della società. Il Tribunale rigetta l’azione dell’altro socio, titolare del diritto di opzione, accertando negativamente la sussistenza dell’inadempimento, ma poi si pronuncia, come obiter dictum, anche sulla nullità dell’accordo parasociale, per pretesa violazione del patto commissorio. Questa decisione costituisce un esempio – non isolato – della tendenza della nostra giurisprudenza ad applicare estensivamente il divieto del patto commissorio, Tendenza che – a mio avviso – non merita di essere assecondata, perché, al di là delle tradizionalissime ragioni di equità e di tutela del debitore debole 24 Conclusione su cui si può senz’altro convenire (mettendo da parte, in questa sede, ogni critica sull’ambito, ancora troppo estensivo, che la nostra giurisprudenza continua ad attribuire a tale divieto). Il problema della frode alla legge si pone però, con altrettanto interesse, per la violazione di norme imperative del diritto societario. Per esempio, di recente è stato dichiarato nullo un patto tendente a distribuire beni sociali a determinati azionisti, in violazione delle norme imperative in materia di liquidazione49. In questa prospettiva si colloca anche la casistica, abbastanza ampia, che riguarda patti parasociali considerati elusivi del divieto del patto leonino. Anche qui la soluzione del problema dipende dalla ratio che si riconosce al divieto e dalla conseguente maggiore o minore ampiezza del suo ambito applicativo. Si può, in linea di principio, convenire con la giurisprudenza più recente, che è incline a superare un criterio formale e a verificare in concreto se il patto (soprattutto nella figura del patto di esonero dalle perdite) persegua un interesse meritevole di tutela50 (il che dovrebbe portare alla conseguenza di riconoscere la validità del patto, nella grande maggioranza dei casi). Lo stesso criterio deve valere, a mio avviso, per i c.d. patti di finanziamento, su cui ancora si appuntano critiche, per una presunta incompatibilità con il principio della responsabilità limitata del socio nelle società di capitali51. (che pur possono ancora presentarsi, di fatto, in qualche caso), non vedo altre ragioni che giustifichino – al giorno d’oggi – il divieto; sicché sembra più ragionevole un’applicazione restrittiva dello stesso. Ciò non toglie che, almeno in linea di principio, possa aversi qualche caso di nullità di patti parasociali per violazione del divieto del patto commissorio, come di altre norme imperative di carattere civilistico. 49 Cfr. Cass.civ., sez. I, 31 agosto 2005, n. 17585. 50 Cfr. Trib. Milano, 6 febbraio 2012, in Giur.it., 2012, 1600, secondo cui è valido un patto parasociale di esonero dalle perdite, in cui la relativa clausola “comunque trovi elementi di bilanciamento e giustificazione nel contesto (di gruppo di imprese) in cui esso è stipulato, sicché esso adempia a una funzione meritevole di tutela”. Conf. Trib. Milano, 31 dicembre 2011, in Giur.it., 2012, 621.
Ancora più agevole, soprattutto a seguito della riforma dell’art. 2346 c.c., il riconoscimento della validità di patti con cui un soggetto si impegna a sottoscrivere con mezzi propri le azioni che saranno intestate ad altri soci (cfr. App. Roma, 24 gennaio 2008, in Obbl. e contr., 2008, 555). Più frequentemente, la giurisprudenza recente si è occupata del problema cin riferimento a clausole di opzione di acquisto e vendita di azioni a prezzo predefinito, ormai configurate come operazioni normali dei mercati finanziari, in contrasto con la più antica opinione che vedeva in esse un contrasto con il divieto del patto leonino (cfr. Trib. Milano, 13 settembre 2011, in Società, 2011, 1344; in dottrina E. BARCELLONA, Clausole di put & call a prezzo predefinito — Fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Giuffrè, Milano 2004; non mancano però pronunce che presentano ancora qualche resistenza, richiedendo prove precise della meritevolezza dell’interesse perseguito [Trib. Milano, 30 dicembre 2011, in Società, 2012, 335]; da segnalare è però anche il rifiuto della giurisprudenza ad estendere il divieto di esonero dalle perdite dalla disciplina dell’associazione in partecipazione: Cass.civ., sez. I, 1 ottobre 2008, n. 24376). 51 In tema v., da ultimo, P.MONTALENTI, Impresa a base familiare e società per azioni, in Riv.soc., 2012, 401, che li ritiene validi solo in presenza di limiti temporali o quantitativi (ma, in realtà, i limiti temporali sono necessari per tutti i patti parasociali; per quelli a tempo indeterminato il diritto di recesso ex lege mi sembra sufficiente – contrariamente all’opinione espressa da M. – per ritenere che l’accordo parasociale non sia lesivo di principi di ordine pubblico). 25 Un altro caso di possibile elusione di norma imperativa societaria (nella specie: l’art. 2372, comma 5, c.c.) viene ravvisato nelle clausole di patti parasociali che attribuiscano ad uno o più amministratori voce in capitolo nella determinazione dell’orientamento del voto di uno o più azionisti in assemblea52. Anche questo mi sembra un caso emblematico, in cui il bilanciamento fra regole di validità e regole di efficacia può indurre ad ammettere la validità di un patto che, in determinate situazioni, può ben perseguire interessi meritevoli di tutela (tanto più che può esservi coincidenza personale fra socio e amministratore). I problemi più interessanti si pongono, però, non tanto con riferimento alla frode alla legge, cioè alla violazione elusiva di norme imperative del diritto societario, quanto piuttosto con riferimento alla pretesa violazione di principi di ordine pubblico del diritto societario. Si pone qui uno dei problemi “classici”, in tema di validità dei patti parasociali, che è quello degli eventuali limiti, oltre i quali non potrebbe essere vincolata la libertà di scelta del socio, o del titolare di cariche sociali. Per quanto riguarda il socio, la giurisprudenza ante riforma era incline a dichiarare invalidi i patti che ne limitavano eccessivamente la libertà d’azione: così (almeno fino agli anni più recenti) per i patti a tempo indeterminato53; così per i patti che “esproprino” sostanzialmente (per esempio, attraverso meccanismi di deposito fiduciario) il diritto di voto del socio. Oggi il problema è testualmente superato per i patti a tempo indeterminato, per i quali l’art. 2341‐bis, comma 2, c.c., e l’art. 122, comma 2, t.u.f., hanno sancito la validità, accompagnandola con un diritto di recesso con preavviso (soluzione peraltro conforme a principi generali e già raggiunta in via interpretativa dalla giurisprudenza54). Il problema rimane aperto, invece, per i patti “rafforzati”, cioè quelli che non si limitino a stabilire obblighi di comportamento o a creare un’organizzazione interna, ma adottino misure tecniche di protezione o clausole penali elevate, o altri accorgimenti atti a rendere improbabile l’eventuale defezione del socio aderente al patto55. Nella dottrina più recente sembra prevalere la tesi secondo cui, una volta riconosciuta la validità di un patto 52
Così, da ultimo, D.PISELLI (nt. 35), 202, secondo cui simili patti sarebbero validi solo nelle s.r.l. Cfr. Cass.civ., sez. I, 20 settembre 1995, n. 9975, in Corr.giur., 1995, 1278. 54
Cfr. Cass.civ., sez. I, 23 novembre 2001, n. 14865, in Arch.civ., 2003, 38; Trib. Lodi, 12 giugno 2002, in Giur.it., 2002, 1888. 55
Ivi compreso il trust di diritto straniero (cfr. F.LOLLI, Patto parasociale attuato a mezzo di trust, in Trusts, 2004, 645). 53
26 parasociale avente un certo contenuto, non si potrebbe sindacare la validità di clausole accessorie, tendenti a rafforzare l’adempimento del patto stesso56. In effetti, sembra anche a me che, in materia di clausole rafforzative dell’adempimento, i limiti all’autonomia privata siano solo quelli sanciti dalla legge (per esempio, la riduzione equitativa della penale ex art. 1384 c.c.). D’altra parte, la preoccupazione che il sindacato azionario possa generare situazioni di “espropriazione” della partecipazione del socio sembra in larga parte scongiurata, sul piano sostanziale, da un’interpretazione sistematica che tenga conto della norma dell’art. 2372, comma 3, c.c., per cui la delega di voto “è sempre revocabile nonostante ogni patto contrario”. Norma che sembra chiaramente ispirata ad un’esigenza di tutela dell’indipendenza decisionale del socio, sicché può essere interpretata come un’indicazione di principio, non limitata al profilo esterno della procura. Se alla disposizione si attribuisce un significato di principio, ne diviene possibile l’applicazione anche alle situazioni sottostanti alla delega di voto o ad essa funzionalmente analoghe (mandato, intestazioni fiduciarie, ecc.)57. In altri termini, si può riconoscere un’indicazione di principio per cui, nei rapporti con la società, l’azionista non è formalmente vincolato da impegni che abbia assunto all’esterno, sul piano parasociale. Ciò non significa che tali impegni siano invalidi. E’ da confermare piuttosto che le preoccupazioni di ordine sistematico nei confronti dei patti parasociali troppo rigidi possono essere meglio affrontate sul piano dell’efficacia esterna, che non su quello della validità dei patti. Altra preoccupazione, ampiamente rappresentata in dottrina anche dopo la riforma, è quella dei patti orientativi dell’azione dell’organo amministrativo (e quindi, in certo senso, limitativi dell’autonomia, pur funzionalmente vincolata, dell’amministratore). A differenza dei sindacati di voto, oggi nettamente legittimati nella communis opinio, per i patti di gestione ancora spesso si ritiene che, quando comportino l’assunzione di un obbligo giuridico in capo al componente dell’organo amministrativo, essi siano contrari all’ordine pubblico, perché incompatibili con la piena responsabilità degli amministratori nella gestione dell’impresa sociale58. 56
R.LENER, Appunti sui patti parasociali nella riforma del diritto societario, in Riv.dir.priv., 2004, 51 ss., che riprende l’opinione già espressa da P.Trimarchi e R.Costi; in senso contrario v. però ancora, per esempio, F.GALGANO – R.GENGHINI (nt. 17), 135. 57
In tal senso P.FIORIO, in Il nuovo diritto societario, a cura di G.Cottino e aa., Zanichelli, Bologna, 2004, 136 ss. 58
In giurisprudenza, v. da ultimo Trib. Modena, 3 dicembre 2010, in Società, 2011, 832, con nota critica di R.TORINO. In dottrina v. P.SCHLESINGER, Oggetto delle clausole dei sindacati di voto, in Sindacati di voto e sindacati di blocco, a cura di F.Bonelli e P.G.Jaeger, Giuffrè, Milano, 1993, 115; A.PAVONE LA ROSA (nt. 23), 6; F.GALGANO – R.GENGHINI (nt. 17), 133; P.FIORIO (nt. 57), 139‐140; P.MONTALENTI (nt. 51), 401‐2. Di recente, la tesi è stata sostenuta con impegno da C. PAZ‐ARES, Fundamento de la prohibición de los pactos de voto para el consejo, in InDret, 4/2010, 3 ss. (ove ampie indicazioni di dottrina e giurisprudenza spagnole, favorevoli o contrarie alla tesi). L’argomentazione centrale di P.‐A., che fa capo ad una scelta sistematica di 27 L’argomento, tuttavia, non sembra più forte dell’altro, oggi superato, che considerava principio di ordine pubblico quello della libertà di formazione del voto dell’azionista in assemblea. Che l’azione dell’organo amministrativo possa essere orientata da programmi e controlli aventi fonte esterna è, in linea di principio, del tutto legittimo59: basterebbe richiamare la disciplina dei gruppi (e, più in generale, la stessa possibilità di controllo “esterno”, c.d. contrattuale, di una società su un’altra: v. art. 2359); nonché la stessa ammissibilità dei patti di joint venture, espressamente contemplati dall’art. 2341‐bis, ult. comma; per non parlare dei covenants inseriti in contratti di finanziamento conclusi dalla società (e anch’essi qualificabili come patti parasociali, in senso lato60). Si considerino, infine, le complesse regole vincolanti l’organo amministrativo, che sono solitamente ammesse nelle società di autoproduzione in mano pubblica, al fine di assicurare il “controllo analogo” del socio pubblico sull’amministrazione della società (per tale scopo è anzi solitamente ritenuta legittima – a torto, ritengo61 – anche la previsione di clausole statutarie di deroga al principio dei pieni poteri di gestione dell’organo amministrativo). In relazione a questa ipotesi si è anzi discusso, in giurisprudenza, persino della possibilità dei terzi interessati (utenti) di impugnare patti parasociali che disciplinino in modo insufficiente (i.e. non idoneo a garantire i risultati di servizio universale) il “controllo analogo” del soggetto pubblico in socità di autoproduzione in mano pubblica (c.d. in house providing)62. applicazione rigorosa delle regole del mandato collettivo (e del dovere fiduciario di esecuzione personale del mandato), risponde ad una concezione contrattualistica (oserei dire “estrema”) del diritto societario, molto diversa da quella che sta alla base delle osservazioni svolte nel testo. 59
Si noti, incidentalmente, che l’ammissibilità di sindacati di gestione vincolanti l’azione dell’organo amministrativo, nei limiti delle scelte legittime compatibili con l’interesse sociale, appare oggi come l’unica via possibile per consentire la sopravvivenza delle società in mano pubblica destinate a produrre servizi in house, dopo che Corte Giust. CE, 11 maggio 2006, C‐340/04, Carbotermo c. Comune di Busto Arsizio, ha sancito che la disciplina normale della s.p.a., attribuendo all’organo amministrativo larga autonomia, non consente quel controllo pieno dell’ente pubblico (“controllo analogo a quello che l’ente ha sui propri uffici”), che solo rende compatibile l’affidamento in house con i principi del diritto della concorrenza. 60
V. per esempio, da ultimo, A.MUNARI, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, Giuffrè, Milano, 2012, 332 ss. 61 Ho tentato di argomentare questa tesi in M. LIBERTINI, Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell’attività ed autonomia statutaria, in Il diritto delle società oggi – Innovazioni e persistenze, a cura di P.Benazzo e aa., Utet, Torino, 2011, 471 ss. 62
Il caso si è posto dinanzi a T.A.R, Piemonte, sez. 15 giugno 2010, n. 2848, in relazione ad una delibera comunale di approvazione di un patto parasociale relativo alla gestione della farmacia comunale. Il ricorso, presentato da un’associazione di consumatori, è stato rigettato nel merito, perché non risultavano provato il pregiudizio al pubblico interesse, paventato dal ricorrente (il che significa che è stato, comunque, ritenuto ammissibile in punto di legittimazione e di interesse ad agire). 28 Tutto ciò non intacca, peraltro, la competenza formale dell’organo amministrativo in ordine alla gestione dell’impresa sociale e la relativa responsabilità in caso di violazione dei principi di corretta gestione63. La funzione di indirizzo del patto può dunque legittimamente esprimersi, purché si limiti ad orientare la scelta fra diversi indirizzi strategici, o anche diverse soluzioni concrete, purché si tratti di indirizzi e di soluzioni compatibili con i principi di corretta gestione. In caso di atti di indirizzo incompatibili con qualsiasi plausibile ricostruzione dell’interesse sociale, sarà potere‐dovere dell’amministratore disattendere l’atto di indirizzo stesso. Problema diverso è quello del patto di gestione (che potrebbe essere anche segreto) stipulato dal singolo amministratore (o da più amministratori, ma uti singuli) con un soggetto esterno, ed avente ad oggetto la soggezione a poteri di indirizzo del soggetto esterno. Si è ritenuto, in giurisprudenza, che un patto di tal genere costituisca violazione dei doveri fiduciari dell’amministratore della società e sia pertanto giusta causa di revoca64. La soluzione è condivisibile, nel caso in cui l’amministratore abbia agito sua sponte, ad insaputa degli azionisti (già solo per la violazione dei doveri di corretta informazione, almeno verso gli altri componenti dell’organo amministrativo), ma ciò per la violazione del rapporto fiduciario fra azionisti e amministratori. Ciò non comporta però un automatico giudizio di illiceità del patto concluso dall’amministratore con il terzo, se tale contenuto non era di per sé intrinsecamente illecito. Credo dunque che debbano essere oggi ridimensionate le preoccupazioni, che emergevano dalla giurisprudenza meno recente, con dichiarazioni di nullità di patti parasociali che “svuoterebbero” l’organizzazione societaria, attribuendo pieni poteri ad un singolo azionista65. Questa preoccupazione può essere forse accettata solo per ipotesi estreme, in cui il patto parasociale prefiguri un assetto organizzativo paralizzante e distruttivo per la società e per l’impresa. Ma in tal caso la contrarietà all’ordine pubblico (i.e. l’illiceità della causa del patto parasociale) potrebbe essere facilmente inquadrata nel giudizio di nullità, in conformità all’orientamento giurisprudenziale66, di quei patti che perseguano finalità “eversive” rispetto allo scopo tipico della società (per esempio patti miranti a realizzare la disgregazione del patrimonio sociale, l’insolvenza della società ecc.). 63
Cfr. Trib. Milano, 30 ottobre 2008, in Giur.it., 2009, 647, In dottrina, nello stesso senso, E.MACRI’ (nt. ), 222 ss. 64 Cass.civ., sez. I, 24 maggio 2012, n. 8221; Trib. Torino, 31 maggio 2006, in Giur.it., 2007, 665. 65
V. Pret. Firenze, 12 agosto 1985, in Foro it., 1986, I, 546 (che giunge ad inibire l’esercizio del diritto di voto al socio‐tiranno). 66
Cfr. Cass.civ., sez. I, 27 luglio 1994, n. 7030; Cass.civ., sez. I, 22 dicembre 1989, n. 5778.; App.Milano, 5 giugno 1987, in Nuova giur.civ.comment., 1988, I, 505; App.Milano, 15 dicembre 2000, in Giur.it., 2001, 2110. Dopo la riforma, l’orientamento è stato confermato da Cass.civ., sez. I, 11 gennaio 2005, n. 350, in Contratti, 2006, 543, con nota sostanzialmente adesiva di C.FAVILLI. 29 30