le poesie di Natalia Ginzburg
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le poesie di Natalia Ginzburg
con il patrocinio del COMUNE DI RAVENNA Assessorato Pari Opportunità presentano Poesie Natalia Ginzburg scrisse molte poesie durante l’infanzia e l’adolescenza. A 13 anni ne inviò alcune a Benedetto Croce per avere un suo parere. Il filosofo le rispose garbatamente che non erano molto belle. Non molto tempo dopo Natalia scoprì la sua vocazione per la narrativa e interruppe la sua produzione lirica. Restano comunque tre esempi di quanto creò in età matura. Stagioni Chi ha dimenticato l’inverno Non merita la primavera, Chi ha dimenticato la campagna Non deve camminare in città. La ragazza usciva sola E amava camminare in silenzio: Siccome non portava il cappello Riusciva sgradita alla gente. Le sue spalle curve e magre Dicevano: io non voglio nessuno; Io voglio soltanto Camminare in città. Chi non riconosce il volto Della passione, non deve Non deve esistere al mondo. Selezione a cura di Enrica Cavina, in occasione del seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg www.gentesdeyilania.org 1 La ragazza che fumava, sdraiata Sul divano, che taceva sola, Non bisogna dimenticarla Se pure è finito il suo tempo, Se il suo corpo ha dato dei figli Come una donna può fare. Chi ha veduto il cielo al tramonto Non deve dimenticare il mattino, Poiché la vita che ci è data È questa: morire e nascere, Nascere e morire, ogni giorno. La ragazza che usciva il silenzio Non c’è più, ma forse i suoi figli, Nati dal suo corpo, un giorno Vorranno uscire da soli, In silenzio, a sfidare la gente. La poesia Stagioni fu scritta nel gennaio del 1941, durante il confino a Pizzoli, ma fu pubblicata solo nel 1946. In questa poesia, secondo Luigi Surdich, è concentrato l’universo segreto e profondo di Natalia Ginzburg ed esprime la sua costante propensione a investigare, nella loro contiguità e alternanza, le ambivalenze, le polarità della realtà. Memoria Gli uomini vanno e vengono per le strade della città. Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse. Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene. Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso, ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto. Ma era l'ultima volta. Era il viso consueto, solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre. E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle che spezza vano il pane e versavano il vino. Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo a guardare il suo viso per l'ultima volta. Se cammini per strada, nessuno ti è accanto, se hai paura, nessuno ti prende la mano. E non è tua la strada, non è tua la città. Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri, degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali. Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra, e guardare in silenzio il giardino nel buio. Allora quando piangevi c'era la sua voce serena; e allora quando ridevi c'era il suo riso sommesso. Ma il cancello che a sera s'apriva resterà chiuso per sempre; e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa. Natalia Ginzburg dedicò questa poesia al marito Leone Ginzburg. Fu pubblicata nel 1944 sulla rivista «Mercurio» e venne definita «sensazione autobiografica». Selezione a cura di Enrica Cavina, in occasione del seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg www.gentesdeyilania.org 2 Non possiamo saperlo Non possiamo saperlo. Nessuno l'ha detto. Forse là non c'è altro che una rete sfondata, Quattro sedie spagliate e una vecchia ciabatta Rosicchiata dai topi. C'è caso che Dio sia un topo E che scappi a nascondersi appena arriviamo. E c'è caso che invece sia la vecchia ciabatta Rosicchiata e consunta. Non possiamo sapere. Forse Dio ha paura di noi e scapperà, e a lungo Noi dovremo chiamarlo e chiamarlo coi nomi più dolci Per indurlo a tornare. Da un punto lontano Della stanza lui ci fisserà immobile. Forse Dio è piccolo come un granello di polvere, E potremo vederlo soltanto col microscopio, Minuscola ombra azzurra sul vetrino, minuscola Ala nera perduta nella notte del microscopio, E noi là in piedi, muti, sospesi a guardare. Forse Dio è grande come il mare, e spumeggia e tuona. Forse Dio è freddo come il vento d'inverno, Forse ulula e romba come un rumore assordante, E dovremo portare le mani alle orecchie, Agghiacciati e tremanti, rimpiattendoci al suolo. Non possiamo sapere com'è Dio. E di tutte le cose Che vorremmo sapere, è la sola veramente essenziale. Forse Dio è noioso, noioso come la pioggia, E quel suo paradiso è una noia mortale. Forse Dio ha gli occhiali neri, una sciarpa di seta, Due volpini al guinzaglio. Forse ha le ghette, Sta seduto in un angolo e non dice parola. Forse ha i capelli tinti, ha una radio a transistor, E si abbronza le gambe sul tetto d'un grattacielo. Non possiamo sapere. Nessuno sa niente. Forse appena arrivati ci manda allo spaccio A comprargli del pane e salame ed un fiasco di vino. Forse Dio è noioso, noioso come la pioggia E quel suo paradiso è la solita musica, Svolazzare di veli, di piume, di nuvole, Un odore di gigli recisi, una noia di morte, E ogni tanto una mezza parola per passare il tempo. Forse Dio sono due, una coppia di sposi Abbandonati al sonno ad un tavolo d'osteria. Forse Dio non ha tempo. Ci dirà di andarcene E tornare più tardi. Noi andremo a passeggio; Selezione a cura di Enrica Cavina, in occasione del seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg www.gentesdeyilania.org 3 Siederemo su di una panchina a contare i treni che passano, Le formiche, gli uccelli, le navi. A quell'alta finestra, Dio s'affaccerà a guardare la notte e la strada. Non possiamo sapere. Nessuno lo sa. C'è anche caso che Dio abbia fame e ci tocchi sfamarlo, Forse muore di fame, e ha freddo, e trema di febbre, Sotto una coperta sudicia, piena di cimici, E dovremo correre in cerca di latte e di legna, E telefonare a un medico, e chissà se subito Troveremo un telefono, e il gettone, e il numero, Nella notte affollata, chissà se avremo abbastanza denaro. La poesia Non possiamo saperlo fu pubblicata la pr ima volta sulla rivista «Paragone» nel giugno del 1965 ed esprime l’atteggiamento interrogativo verso l’ignoto che caratterizzò lo sguardo della Ginzburg. È a suo tempo cifra del suo fare disilluso quando analizza la realtà che la circonda. Selezione a cura di Enrica Cavina, in occasione del seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg www.gentesdeyilania.org 4