Ti ho sposato per allegria

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Ti ho sposato per allegria
ErreTiTeatro 30
Ti ho sposato per allegria
di Natalia Ginzburg
con Chiara Francini e Emanuele Salce
e con Anita Bartolucci, Giulia Weber, Barbara Bedrina
scena Paola Comencini
costumi Sandra Cardini
disegno luci Gianni Staropoli
regia Piero Maccarinelli
Lo spettacolo
«Dov’è il mio cappello?». “Ti ho sposato per allegria” comincia così. Comincia, sembra di capire,
da un sorriso sfrontato e ironico dinnanzi all’impossibile.
C’è un’impossibile famigliola, con tanto di suocera, cognatina, e governante, tutti insieme a fare il
teatrino delle proprie parti, dentro a un gioco di parodia che (segretamente) gioca con l’impossibile
vocazione drammaturgia dell’autrice. Questo star sul filo (di seta, elegante e fragile) doveva essere
il brivido preferito della Ginzburg che sfida tutte le regole della buona scrittura drammatica
inventandosi un teatro delle assurdità che tuttavia non rassomiglia – né tecnicamente, né
ideologicamente – al greve teatro dell’assurdo, di marca comunque e sempre maschile ed
esistenzialista. Approda a una forma apparentemente impropria (i monologhi fiume, divertentissimi,
e all’apparenza teatralmente impossibili) provocatoriamente, o meglio, sfrontatamente fragile e
tuttavia, là dove pare disfarsi in frivolezza, farsi irresistibile.
Al centro di “Ti ho sposato per allegria” c’è appunto una ragazzina in pericolo che si è fatta donna e
ha deciso, come si conviene ad una donna, che era tempo di sposarsi. L’uomo che la sposerà avrà
fatto un pensiero simile, forse, ma da un’altra prospettiva: la prospettiva adulta. Gli uomini nel
teatro della Ginzburg mi pare siano tutti molto adulti. Ciò non impedisce loro di essere insensati,
anzi, ma lo sono dalla prospettiva comicamente più greve di chi ragiona – o ci prova – sul senso
della propria vita ricercando somiglianze: coi propri simili adulti normali.
Le ragazze della Ginzburg, invece, soffrono e splendono d’una vocazione per l’originalità, propria e
altrui. La ragazza e l’uomo si vedono e poco dopo si sposano. Un matrimonio fatto per allegria. Ma
poi il matrimonio si fa famiglia e con essa arrivano le regole, una delle quali è che bisogna essere
uguali a tutte le altre famiglie. Nasce il gioco (divertentissimo e insieme triste) della “casa”.
E con esso, per uguale allegria, la Ginzburg fa nascere il gioco del suo teatro.
Durata: due ore e 10 minuti con intervallo
L'autrice
Scrittrice e drammaturga, Natalia Ginzburg (1916-1991) è stata figura di primo piano nella letteratura
italiana del Novecento. Nata a Palermo, da famiglia ebraica di origine triestina, Natalia Levi, iniziò a scrivere
giovanissima: a soli diciott'anni uscì il suo primo racconto, “I bambini”, sulla rivista “Solaria”. La sua
esistenza s'intreccia fortemente e tragicamente alle vicende italiane: il padre, Giuseppe Levi, professore
universitario, e i suoi tre fratelli furono arrestati e processati per antifascismo; e il marito Leone Ginzburg,
noto e stimato docente universitario di letteratura russa e strenuo antifascista, con il quale aveva condiviso gli
anni del confino, morì nel carcere di Regina Coeli nel '44.
Al primo romanzo, “La strada che va in città” (1942), uscito sotto pseudonimo ripubblicato nel 1945, seguì
nel 1947 “È stato così”, vincitore del premio “Tempo”. Nel 1950 Natalia Ginzburg sposò Gabriele Baldini,
illustre critico e docente di letteratura inglese (scomparso nel 1969). Proseguì intanto la sua carriera
letteraria: da “Tutti i nostri ieri” (1952) al volume di racconti “Valentino”(1957 - Premio Viareggio), a “Le
voci della sera” (1961); nel '62 “Le piccole virtù”; e poi il fortunato “Lessico famigliare” (1963 – Premio
Strega). Negli anni settanta, oltre alle raccolte di saggi “Mai devi domandarmi” ('70) e “Vita immaginaria”
('74), al romanzo “Caro Michele” ('73) e il racconto “Famiglia” ('77) furono pubblicati i testi teatrali, in due
raccolte: “Ti ho sposato per allegria e altre commedie” ('70), e “Paese di mare e altre commedie” ('73). Dopo
il successo de “La famiglia Manzoni”, Natalia Ginzburg (nel frattempo eletta al Parlamento come
indipendente nelle liste del Pci nel 1983), scrisse il romanzo epistolare “La città e la casa”.
Note di regia:
Natalia Ginzburg è una delle più raffinate e a acute scrittrici italiane degli ultimi anni. La sua lingua,
secca, essenziale, talora tagliente, con il suo gusto e gioco della ripetizione, risulta una delle più
interessanti nel panorama della scrittura teatrale. Inoltre il suo tema d’elezione, “la famiglia”
affrontata nei suoi romanzi e nel suo teatro, è un tema che per anni ho seguito come direttore
artistico di Artisti Riuniti e come regista. Mi ha sempre interessato ogni declinazione del tema
familiare. Inevitabile quindi l’incontro con questo testo propostomi da Roberto Toni. Giuliana e
Pietro sono una famiglia, giovane e strana, attorno a cui ruotano le figure familiari della madre di
Giuliana, solo evocata, e della madre e della sorella di Pietro. Il padre, il maschio, è assente. Un
solo uomo, Pietro, e quattro donne, il maschio è già stato disarcionato dalla Ginzburg dal suo
piedistallo nella prima metà degli anni Sessanta. E’ il femminile che interessa l’autrice, la figura
della madre “che si dà pena” e quella della probabile futura madre, Giuliana “un giorno sarà madre
anche lei?” chiede la madre a Giuliana. L’autrice vuole parlarci di Giuliana, della donna, delle sue
amiche Topazia ed Elena, l’ottimista e la pessimista, della leggerezza del femminile, della sua vitale
importanza. Il maschio vive di luce riflessa, Pietro è in questo quadro perché ha sposato Giuliana
“per allegria”. Insomma si declinano i diversi modelli femminili, le molteplici possibilità di essere
donna. Giuliana passa in punta di piedi nella vita, sfiorandola con grazia: ma non è una farfalla, non
ha il pungiglione, quindi non è nemmeno una vespa. E’ graziosa e porta allegria, il suo pensiero è
liquido, il suo apparente saltare “di palo in foglia” o “di palo in frasca” trova degli argini di
improvvise profondità. Sorprende per la sua grazia e la sua allegria, ma anche per il suo modo di
affrontare la vita e i suoi valori. Vive nel presente, il suo futuro e il suo passato sono per lei meno
interessanti e lo diventano inevitabilmente anche per noi, disponibili a farci trascinare dal suo
transitare fra emozioni e vita. Testo atemporale per eccellenza, non ha bisogno di essere trasportato
all’oggi. Perché è già oggi. Anche se scritto negli anni Sessanta, forse gli ultimi anni in cui una
generazione di scrittori e intellettuali ha saputo proiettare ombre di preveggenza su questi nostri
anni più poveri e grigi. Il testo ha bisogno di interpreti “leggeri”, ma capaci di improvvise
profondità, e mi sembra che li abbiamo trovati.
Piero Maccarinelli
ESTRATTI DI RECENSIONI
“… Gran parte del merito va agli interpreti: la madre....che è Anita Bartolucci; Pietro che è
l’impeccabile Emanuele Salce (ricordo che il padre ne trasse un film con Monica Vitti); e in specie
Chiara Francini, attrice di una vitalità irrefrenabile sia nella gestualità sia nella vocalità.”
Franco Cordelli – Corriere della Sera – 22.01.2014
“Diverte Ti ho sposato per allegria, primo testo teatrale della scrittrice, oggi ben interpretato da
Chiara Francini ed Emanuele Salce”
Domenico Rigotti – Avvenire – 10/01/2014
“. …. In tutto ho scritto, fino a oggi, dieci commedie. La prima nel luglio del '64, l'ultima
nell'agosto dell'88. La prima per Adriana Asti, l'ultima per Giulia Lazzarini. Le altre che stanno in
mezzo, per nessuno.
La prima è Ti ho sposato per allegria; credo che sia la più allegra delle mie commedie. L'intervista è
l'ultima.
La prima l'ho scritta subito dopo aver risposto a una domanda che una rivista di teatro rivolgeva agli
scrittori: perche non scrivete commedie? Ho risposto che non ne scrivevo perche non riuscivo a
immaginare una commedia scritta da me senza subito detestarla. Era vero. Pensare a una possibile
commedia mia mi ispirava un profondo malessere.
Altri hanno risposto che non gli andava, adducendo motivazioni diverse. Subito dopo si sono messi
a scrivere commedie. Così anch'io. Quella domanda di quella rivista ha generato numerose
commedie.
In quei giorni, quando la rivista era uscita con le varie risposte, è venuta da me l'attrice Adriana
Asti, che io conoscevo bene, e mi ha detto di fare una commedia dove lei potesse avere una parte.
Le ho detto che lo credevo improbabile. Poi sono partita per la campagna. Qui ero sola e mi
annoiavo e mi sono messa a pensare che specie di commedia potevo scrivere. M'incuriosiva vedere
se quel malessere persisteva o spariva.
Sul principio avevo in mente le seguenti cose: la faccia di Adriana Asti e il suo sorriso ironico; e il
Teatro Carignano di Torino, dove ero stata per la prima volta quando avevo otto anni, a vedere una
commedia che mi era sembrata magnifica: non ne ricordavo nulla salvo il titolo, Peg del mio cuore,
e una ragazza sottile con un gran cappello di paglia. Forse per questo ho cominciato una commedia
partendo da un cappello. Nelle prime battute compariva un cappello. Però si era trasformato in un
cappello da uomo. Via via che scrivevo il Teatro Carignano spariva. Non sentivo nessun malessere.
Di Adriana Asti ho fatto una ragazza sottile e gracile; era sottile e gracile ma l'ho fatta più sottile e
più gracile e più piccola di quanto non fosse. Ne ho fatto una ragazza molto piccola, disordinata e
randagia. Vedevo venir fuori una commedia allegra. Come mai fosse allegra, non lo so. Lo non ero
allegra. Ma forse veniva fuori allegra per quel grande e ilare stupore che uno prova quando fa una
cosa che aveva comandato a se stesso di non fare mai. O forse veniva fuori allegra perché la
scrivevo in fretta, senza piegarmi a respirare malinconie, o fermandomi a respirarle solo per brevi
istanti. La scrivevo in fretta nel timore di non riuscire a concluderla. In fretta e per noia. Sapevo
bene che non bisogna mai scrivere per noia: la noia è quasi sempre infeconda. Alla noia non si deve
ubbidire. Però via via che scrivevo la noia spariva. L 'ho finita in una settimana. Quando uno scrive
certe volte sta fermo, certe volte cammina e certe volte corre. Questa volta avevo la sensazione non
di correre ma di sdrucciolare. Mi affidavo al caso, come quando ero molto giovane, quando
scrivevo alla cieca e senza sapere dove diavolo volessi arrivare. Mi sembrava di essere ripiombata
nell'infanzia.
Era una commedia con dei monologhi interminabili. Pensavo che nessuna attrice mai sarebbe
riuscita a impararli a memoria. Come commedia, mi sembrava del tutto inutilizzabile.
Quella casa dove stavo era nuova e non avevano ancora messo il telefono. Per andare a telefonare
bisognava camminare una ventina di minuti fra sentieri e vigne. Il telefono pubblico era in un bar
sulla strada. La teleselezione non c'era e per telefonare a Roma bisognava prendere un
appuntamento telefonico e aspettare diverse ore. A Adriana Asti ho telefonato piu volte. Una volta
per dirle che avevo finito una commedia ma i monologhi erano troppo lunghi e lei non poteva
impararli a memoria. Mi ha detto di spedirgliela e gliel'ho spedita.
Dentro a quel bar e camminando fra quelle vigne nell'andare e nel tornare, ho scoperto che a quella
commedia che avevo scritto per noia e in fretta e sdrucciolando e affidandomi al caso, in realtà ero
in qualche modo legata e speravo molto che qualcuno la recitasse.
Un'altra volta ho telefonato e Adriana Asti mi ha detto che la commedia le andava bene e che i
monologhi tanto lunghi non le creavano nessun problema…”
Natalia Ginzburg - Luglio 1989