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Fango, identità e oblio
/ 06.02.2017
di Paolo Di Stefano
E se uno volesse scomparire? Dopo essere stato sulla scena per anni, dopo aver combattuto la
propria battaglia professionale o sociale, dopo essere stato o essersi sentito protagonista, volesse
sottrarsi, rientrare nell’ombra? È possibile, tranne in un caso. Il diritto all’oblio, previsto sulla carta,
per i social network non è realizzabile. Una volta che hai accettato di entrare in Facebook, YouTube,
Google, Twitter, Instagram o nelle altre reti sociali, non ne puoi più uscire: tecnicamente impossibile
scomparire. Sei nella grande pattumiera universale della Rete e ci resti. Non basta un clic. È ciò che
si definisce una situazione kafkiana: oppure una di quelle distopie che somigliano molto al mondo
narrato da George Orwell (6 per la capacità visionaria).
Il caso più drammatico è stato quello, recente, della giovane donna napoletana i cui video porno le
sono sfuggiti di mano e hanno cominciato a circolare contro la sua volontà, scatenando vignette,
montaggi, canzoni, burle, parodie in qualsiasi forma nello spazio virtuale e nella vita reale. Una
catena inarrestabile, un meccanismo cosiddetto «virale» (3– all’aggettivo) che ha costretto la
poveretta ad abbandonare il lavoro, a fuggire di casa, a rintanarsi in luoghi sconosciuti, a cercare di
cambiare identità, a provare la denuncia penale, a chiedere inutilmente che quel materiale venisse
cancellato, a tentare un paio di volte il suicidio e infine a togliersi la vita per la disperazione,
impiccandosi con un foulard in uno scantinato.
È vero che una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha sancito nel maggio 2014 che ogni
cittadino ha il diritto di richiedere la rimozione dal motore di ricerca dei contenuti che lo riguardano,
ma c’è poco da fare: i tempi di reazione di un tribunale sono infinitamente più lenti di quelli di
internet, che diffonde milioni di materiali in un battito di ciglia. Puoi pure implorare di scomparire
ma non ce la farai mai a ottenere di essere del tutto cancellato, perché in definitiva ciò che riguarda
la tua persona semplicemente non ti appartiene e prima o poi tutto riemerge a furia di rimestare
nella grande pattumiera. Non possiedi il copyright della tua identità: senza saperlo – per distrazione,
per ignavia, per precipitazione – nel momento in cui hai accettato di far parte di un social network,
hai ceduto la tua identità a un ente superiore (o inferiore) che la gestirà autonomamente. Video,
messaggi, fotografie che hai «postato» (3– al neologismo) non ti appartengono più. Devi sapere
(prima di entrarci) che internet non ammette pentimenti: se in passato hai lasciato una traccia
fotografica di cui ora ti vergogni, è complicato tornare indietro. È nota la storia dell’imprenditore
spagnolo che aveva subìto un pignoramento (registrato su internet) e che, nonostante il «fattaccio»
fosse ormai chiuso definitivamente da anni, non riusciva più a stabilire rapporti di lavoro perché il
web continuava a rovinargli la reputazione riportando a galla quel vecchio incidente giudiziario.
Ne La tentazione dell’oblio (un saggio-pamphlet uscito da Franco Angeli, 5–), l’ingegnere elettronico
Andrea Barchiesi, esperto nel ripulire la reputazione online, spiega come tutelare la propria
riservatezza nel web. La «stretta di mano digitale», avverte, è un gesto pressoché inevitabile che
rischia di vincolarti per sempre. Il fatto è che sopravvivono, senza selezione, tutti i rottami, i detriti
inquinanti, le scorie infette… Se lo dice lui, c’è da crederci. Dunque, bisognerebbe utilizzare i social
network con cautela, il che assomiglia tanto a una figura retorica classica, l’«adynaton», che segnala
un’impossibilità del tipo «arare il mare» o il biblico passaggio del cammello nella cruna di un ago…
Se Lapo Elkann (1+ alla simpatia) pensa davvero, come ha annunciato qualche giorno fa, di ritirarsi
a vita privata dopo avere scelto una sguaiata sovraesposizione per terra, per mare e per cyberspazio,
si sbaglia di grosso: «Da oggi – ha scritto ai suoi affezionati “seguaci” (513 mila su Instagram, 350
mila su Facebook) – la mia vita sarà offline». Minacciando subito, però: «Non è un addio ma un
arrivederci». Anche lui conosce l’adynaton? Non è escluso. Tempo fa il politico Maurizio Gasparri, su
Twitter, si è lasciato sfuggire un passato remoto alquanto inusuale («chiesimo», voce del verbo
chiedere): ebbene, di fronte allo scandalo dei puristi e allo scherno di tanti «followers», il senatore
ha prontamente (ed elegantemente) scaricato la responsabilità dello strafalcione sullo staff che gli
gestisce i social ed è andato avanti tranquillamente.
C’è chi non è sfiorato dalla tentazione dell’oblio, al punto da pagare uno «staff» per alimentare di sé,
a futura memoria, la grande pattumiera universale. Memorabili e felici anche nel fango.