Shock economy. L`ascesa del capitalismo dei disastri

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Shock economy. L`ascesa del capitalismo dei disastri
Naomi Klein
SHOCK ECONOMY
Traduzione di Ilaria Katerinov
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata 2007
by Klein Lewis Productions Ltd. (c) 2007 KCS Libri S.p.A., Milano Titolo originale dell'opera: THE
SHOCK DOCTRINE by Naomi Klein Ad Avi, ancora una volta
Hanno scritto di Shock Economy
"È un libro brillante, coraggioso e terrorizzante. È né più né meno che la storia segreta di ciò che
chiamiamo "libero mercato". Dovrebbe essere una lettura obbligatoria." - Arundhati Roy
"Shock Economy è un libro così importante e rivelatore che potrebbe diventare il catalizzatore, il punto
critico, lo spartiacque per il movimento che si batte per la giustizia economica e sociale." -
Tim Robbins
"Naomi Klein è una giornalista investigativa senza pari. Percorre i continenti con gli occhi ben aperti e un
cervello che funziona a pieni giri. Scopre connessioni a cui non avremmo mai pensato, e modelli che
finora ci erano sfuggiti." - Howard Ziim
"Naomi Klein è oggi una delle più importanti voci del giornalismo americano, come dimostra questo
libro. Ha esaminato la globalizzazione in ogni suo aspetto, e così facendo ci ha fornito una nuova visione
del disastro in Iraq, e un nuovo metodo per capire perché ci siamo finiti. E lo fa con uno stile limpido che
rende le sue pagine quasi divertenti." - Seymour M. Hersh
"Questo capolavoro è una misurata ma furiosa chiamata alle armi. Naomi Klein è Antigone di fronte al re,
l'antidoto a quel senso di inevitabilità che ci invita ad accettare l'omicidio come legittima politica
economica. Ha l'audacia di credere davvero nella giustizia e il coraggio di descrivere i costi umani di
un'ideologia per la quale l'adorazione dei mercati non è sufficiente; bisogna uccidere per alimentarli.
Boein è l'avanguardia, il fuoco, la resistenza." -John Cusack
"Un testo di importanza inestimabile. Chi somministra gli shock ha imparato che il modo più efficace per
distruggere il senso di identità di qualcuno è cancellare il passato. Una volta cancellato il passato, si può
declinare in mille modi uno slogan che, nonostante la sua finta innocenza, è politicamente corrotto: taglio
netto. Ricominciare da capo. Nuovo inizio. È questa la demagogia del neoliberismo." - John Berger su
Internazionale
Ogni mutamento è mutamento del tema.
César Aira, Cumpleanos, 2001
Introduzione
Il fascino della tabula rasa. Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo Ma la terra era
corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni
uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: "È
venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li
distruggerò insieme con la terra".
Genesi 6,11
"Shock e sgomento" / "Shock and Awe" sono azioni che generano paure, pericoli e distruzione
incomprensibili per la popolazione, per elementi/settori specifici della società che pone la minaccia, o
per i leader. La natura, sotto forma di tornado, uragani, terremoti, inondazioni, incendi incontrollati,
carestie ed epidemie, può generare "Shock and Awe".
Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance.
[Shock e sgomento. Come ottenere rapidamente il predominio], la dottrina militare per la guerra
americana in Iraq.
Ho conosciuto Jamar Perry nel settembre 2005, al grande centro d'accoglienza gestito dalla Croce Rossa
a Çaton Rouge, Louisiana. Era in fila per la cena, distribuita con parsimonia da giovani e sorridenti
adepti di Scientology. Ero appena stata fermata per aver parlato agli sfollati senza essere scortata da
qualcuno dell'ufficio stampa, e ora stavo facendo del mio meglio per confondermi nella folla: una
canadese bianca in un mare di afroamericani del Sud. Mi infilai nella coda per la cena, dietro Perry, e gli
chiesi di parlarmi come se fossi una vecchia amica, cosa che lui fece di buon grado.
Nato e cresciuto a New Orleans, era fuggito dalla città inondata una settimana prima. Dimostrava circa
diciassette anni, ma mi disse di averne ventitré. Lui e la sua famiglia avevano atteso a lungo gli autobus
per l'evacuazione; non vedendoli arrivare, si erano messi in marcia sotto il sole cocente.
Infine si erano ritrovati lì, in un enorme centro congressi, un tempo teatro di convention farmaceutiche e
"Carneficina nella Capitale: Il Meglio del Wrestling", ma che ora era invaso da duemila letti da campo e
una folla di gente arrabbiata ed esausta, guardata a vista da nervosi soldati della Guardia nazionale
appena tornati dall'Iraq.
La notizia che quel giorno stava facendo il giro del centro d'accoglienza era che Richard Baker, un
importante membro repubblicano del Congresso nonché loro concittadino, aveva detto a un gruppo di
lobbisti: "Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Noi non
sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi". Joseph Canizaro, uno dei più ricchi costruttori di New
Orleans, aveva da poco espresso sentimenti analoghi: "Credo che abbiamo di fronte una tabula rasa da
cui ripartire. E grazie a questa tabula rasa abbiamo grandi opportunità". Per tutta quella settimana
l'Assemblea legislativa statale della Louisiana a Baton Rouge aveva brulicato di lobbisti aziendali intenti
ad assicurarsi quelle grandi opportunità: meno tasse, meno regole, manodopera meno costosa e "una città
più piccola e più sicura" - che in pratica valeva a dire radere al suolo le case popolari e sostituirle con
condomini. A sentire tutti i discorsi su "nuovi inizi" e
"tabula rasa", si rischiava di dimenticare il brodo tossico di macerie, rifiuti chimici e resti umani che
distava solo qualche miglio di autostrada.
Jamar non riusciva a pensare ad altro. "A me non sembra davvero un modo per ripulire la città. Quel che
vedo io è che nelle zone povere sono morte un sacco di persone. Persone che non avrebbero dovuto
morire."
Parlava a voce bassa, ma un uomo più anziano in fila davanti a noi lo sentì e si voltò di scatto. "Ma cosa
diavolo crede quella gente a Baton Rouge? Questa non è un'opportunità. È una stramaledetta tragedia.
Sono ciechi?"
Una madre con due bambini intervenne. "No, non sono ciechi, sono cattivi. Ci vedono benissimo."
Tra coloro che videro opportunità nelle acque che sommersero New Orleans ci fu Milton Friedman,
grande guru del movimento per il capitalismo sfrenato, nonché l'uomo cui dobbiamo la bibbia
dell'economia globale contemporanea basata su un'estrema mobilità. Benché novantatreenne e piuttosto
cagionevole di salute, "zio Miltie" - così lo chiamavano i suoi seguaci - trovò le energie per scrivere un
editoriale per il "Wall Street Journal" tre mesi dopo la rottura degli argini. "La maggior parte delle
scuole di New Orleans è in rovina" osservò Friedman "come lo sono le case dei bambini che le
frequentavano. Quei bambini ora sono sparsi per il Paese. Questa è una tragedia. Ma è anche
un'opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo."
L'idea di Friedman era che, invece di spendere parte dei miliardi di dollari destinati alla ricostruzione
per ripristinare, migliorandolo, il preesistente sistema delle scuole pubbliche a New Orleans, il governo
avrebbe dovuto fornire alle famiglie dei buoni spesa, da usare presso istituzioni private, molte delle quali
a scopo di lucro, sovvenzionate dallo Stato. Era essenziale, scriveva Friedman, che questo mutamento
epocale del sistema scolastico non fosse una misura provvisoria, d'emergenza, ma piuttosto "una riforma
permanente".
Una rete di think tanks conservatori si gettò sulla proposta di Friedman e calò sulla città dopo l'uragano.
L'amministrazione di George W. Bush appoggiò i loro piani con decine di milioni di dollari per
convertire le scuole di New Orleans in "scuole charter", ovvero scuole pubbliche gestite da enti privati
secondo le proprie regole. Le scuole charter sono fonte di profonde diseguaglianze negli Stati Uniti, e in
particolare a New Orleans, dove vengono viste da molti genitori afroamericani come un modo di
ribaltare le conquiste del movimento per i diritti civili, che garantiva a tutti i bambini lo stesso standard
educativo. Per Milton Friedman, d'altro canto, l'intero concetto di sistema scolastico statale puzzava di
socialismo. A suo parere, la funzione dello Stato era quella di
"proteggere la nostra libertà sia dai nemici esterni sia dai nostri concittadini: mantenere la legalità e
l'ordine, conferire forza operativa ai contratti privati, salvaguardare la competitività di mercato". In altre
parole, garantire il servizio di polizia e l'esercito; ogni altra cosa, ivi compresa l'istruzione gratuita,
costituiva un'indebita ingerenza nel mercato.
In stridente contrasto con la lentezza geologica nella riparazione degli argini e nel ripristino della rete
elettrica, la vendita all'asta del sistema scolastico di New Orleans si svolse con rapidità e precisione
militari. Nel giro di diciannove mesi, quando la maggior parte dei cittadini poveri era ancora in esilio, il
sistema delle scuole pubbliche di New Orleans era stato quasi completamente rimpiazzato da scuole
charter gestite da privati. Prima dell'uragano Katrina, il comitato dei direttori d'istituto gestiva 123 scuole
pubbliche; ora solo quattro. Prima di quell'uragano, c'erano state sette scuole charter private in città; ora
ce n'erano trentuno. Gli insegnanti di New Orleans erano stati rappresentati da un sindacato forte; ora il
contratto sindacale era stato stracciato, e tutti i suoi 4700
membri erano stati licenziati.(N.B.: alcuni insegnanti, tra i più giovani, furono riassunti dalle scuole
charter, con salari ridotti; ma tutti gli altri no)
New Orleans era adesso, secondo il "New York Times", "il principale laboratorio nazionale per l'uso su
larga scala delle scuole charter", mentre l'American Enterprise Institute, un think tank friedmaniano,
esclamava raggiante che "Katrina ha ottenuto in un giorno [...] ciò che i riformatori scolastici della
Louisiana non erano riusciti a ottenere in anni di tentativi". Gli insegnanti delle scuole statali, intanto,
mentre vedevano i soldi destinati alle vittime dell'inondazione impiegati per cancellare un sistema
pubblico e sostituirlo con uno privato, chiamavano il progetto di Friedman
"un esproprio educativo".
Definisco "capitalismo dei disastri" questi raid orchestrati contro la sfera pubblica in seguito a eventi
catastrofici, legati a una visione dei disastri come splendide opportunità di mercato.
L'editoriale su New Orleans si rivelò l'ultimo suggerimento pubblicamente espresso da Friedman; meno
di un anno dopo, il 16 novembre 2006, morì all'età di novantaquattro anni. Privatizzare il sistema
scolastico di una città americana di media grandezza potrà sembrare un'impresa modesta per l'uomo
osannato come il più influente economista dell'ultimo mezzo secolo, un uomo che contava tra i suoi
discepoli parecchi presidenti degli Stati Uniti, primi ministri britannici, oligarchi russi, ministri delle
finanze polacchi, dittatori del Terzo mondo, segretari del partito comunista cinese, direttori del Fondo
monetario internazionale e gli ultimi tre direttori della Federal Reserve americana. Eppure, la sua
determinazione a sfruttare la crisi di New Orleans per affermare una versione fondamentalista del
capitalismo fu anche un commiato particolarmente appropriato per questo professore alto un metro e
sessanta e pieno di energie, che all'apice della carriera si era descritto come "un predicatore all'antica
che declama il sermone domenicale".
Per più di trent'anni, Friedman e i suoi potenti seguaci avevano perfezionato proprio questa strategia:
attendere il verificarsi di una grande crisi o di un grande shock, quindi sfruttare le risorse dello Stato per
ottenere un guadagno personale mentre gli abitanti sono ancora disorientati, e poi agire rapidamente per
rendere "permanenti" le riforme.
In uno dei suoi saggi più influenti, Friedman formulò la panacea tattica che costituisce il nucleo del
capitalismo contemporaneo, e che io definisco "dottrina dello shock". Osservava che "soltanto una crisi reale o percepita - produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese
dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare
alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile
diventa politicamente inevitabile". Alcune persone accumulano cibo in scatola e acqua in previsione di
grandi disastri; i friedmaniani accumulano idee per il libero mercato. E quando la crisi colpisce - ne era
convinto il professore dell'Università di Chicago - è fondamentale agire in fretta, imporre un mutamento
rapido e irreversibile prima che la società tormentata dalla crisi torni a rifugiarsi nella "tirannia dello
status quo". Friedman stimava che "una nuova amministrazione dispone di un periodo di sei-nove mesi in
cui realizzare i principali cambiamenti; se non coglie l'opportunità di agire incisivamente in quel periodo,
non avrà un'altra occasione del genere".
Variazione sul tema del consiglio di Machiavelli per cui i danni andavano inflitti tutti assieme, questa si
sarebbe dimostrata una delle eredità strategiche di Friedman più durature.
Friedman imparò a sfruttare uno shock o una crisi su larga scala verso la metà degli anni Settanta, quando
fece da consigliere al dittatore cileno, il generale Augusto Pinochet. Non solo i cileni erano in stato di
shock dopo il violento colpo di Stato di Pinochet, ma il Paese era anche traumatizzato da una grave
iperinflazione. Friedman consigliò a Pinochet di imporre una trasformazione fulminea dell'economia:
tagli fiscali, libero scambio, privatizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale e deregulation. Alla fine,
anche i cileni videro le loro scuole pubbliche rimpiazzate da istituti privati sovvenzionati mediante buoni
spesa. Era la più estrema trasformazione in senso capitalistico mai tentata sino ad allora, e divenne
famosa come la "Rivoluzione della Scuola di Chicago", dato che molti degli economisti di Pinochet
avevano studiato con Friedman presso quella università.
Friedman predisse
che la velocità, la subitaneità e la portata dei mutamenti economici avrebbero provocato reazioni
psicologiche nell'opinione pubblica tali da "facilitare l'adattamento". Coniò un'espressione per indicare
questa tattica dolorosa: "trattamento shock" economico. Negli anni che seguirono, ogni volta che i governi
hanno imposto radicali programmi di libero mercato, il trattamento shock, o
"shockterapia", è stato il metodo favorito.
Pinochet facilitò l'adattamento anche attraverso le sue personali shockterapie: quelle applicate nelle tante
camere di tortura del regime, inflitte sui corpi agonizzanti di chi era considerato un potenziale ostacolo
sulla strada della trasformazione capitalistica. Molti, in America Latina, vedevano un legame diretto tra
gli shock economici che impoverivano milioni di persone e l'ampia diffusione della tortura che puniva le
centinaia di migliaia di persone che credevano in un diverso tipo di società. Come disse lo scrittore
uruguaiano Eduardo Galeano: "Come salvare detta disuguaglianza se non a colpi di tortura con
l'elettricità?".
Esattamente trent'anni dopo che queste tre distinte forme di shock erano calate sul Cile, la stessa formula
è riemersa, con molta più violenza, in Iraq. Prima è venuta la guerra, con lo scopo secondo gli autori
della dottrina militare Shock and Awe (Shock e sgomento) - di "controllare la volontà dell'avversario, le
sue percezioni e il suo intelletto, e renderlo letteralmente incapace di agire o reagire". Poi è venuta la
shockterapia economica, imposta, in un Paese ancora in fiamme, da L.
Paul Bremer, il governatore dell'Iraq nominato dagli Stati Uniti: privatizzazione selvaggia, completa
libertà di scambio, un'aliquota d'imposta unica al 15 per cento, un governo di proporzioni ridottissime. Il
ministro iracheno del Commercio ad interim, Ali Abdul-Amir Allawi, disse all'epoca che i suoi
connazionali erano "stufi di essere cavie per esperimenti. Ci sono già stati abbastanza shock al sistema,
non ci serve questa shockterapia economica". Quando gli iracheni opposero resistenza, furono rastrellati
e portati in prigioni dove avrebbero subito fisicamente e psicologicamente altri shock, decisamente meno
metaforici.
Ho iniziato a studiare il fenomeno della dipendenza del libero mercato dal potere dello shock quattro
anni fa, nei primi giorni di occupazione dell'Iraq. Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad, dove
avevo raccontato dei falliti tentativi di Washington di far seguire alla dottrina Shock and Awe la
shockterapia, sono andata in Sri Lanka, diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004, e lì ho
assistito a un'altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si
erano uniti allo scopo di sfruttare l'atmosfera di panico per consegnare l'intero litorale a imprenditori che
vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le
loro case vicino al mare. "Con un crudele rovescio di fortuna, la natura ha offerto allo Sri Lanka
un'opportunità unica, e da questa grande tragedia sorgerà un importante polo del turismo internazionale"
annunciò il governo dello Sri Lanka. Quando poi l'uragano Katrina colpì New Orleans, e la pletora di
politici conservatori, think tanks e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e fantastiche
opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese, adesso,
era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed
economica.
La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vuole ben altro che una tabula rasa: vogliono
salvare il salvabile e iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto, vogliono riaffermare il proprio
legame con i luoghi in cui sono cresciuti. "Mentre ricostruisco la città mi sembra di ricostruire me stessa"
diceva Cassandra Andrews, residente della Lower Ninth Ward, una delle zone più colpite di New
Orleans, mentre spazzava via i detriti. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a
restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la
"ricostruzione" iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto
rimaneva della sfera pubblica, per poi rimpiazzarlo in tutta fretta con una specie di Nuova Gerusalemme
aziendale: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare
ciò che spettava loro di diritto.
Mike Battles l'ha espresso nel modo migliore: "Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse
concrete". Il trentaquattrenne ex agente segreto della Cia parlava di come il caos nell'Iraq post-invasione
avesse aiutato la sua sconosciuta agenzia di sicurezza privata, la Custer Batdes, a ricevere circa cento
milioni di dollari in contratti governativi. Le sue parole potrebbero fungere da slogan per il capitalismo
contemporaneo: paura e disordine sono i catalizzatori per ogni nuovo balzo in avanti.
Quando ho iniziato questa ricerca sull'intersezione tra superprofitti e megadisastri, pensavo di essere di
fronte a una mutazione fondamentale del modo in cui la spinta a "liberare" i mercati si faceva strada in
tutto il mondo. Sono stata parte attiva del movimento no global che fece il suo debutto mondiale a Seattle
nel 1999, e quindi ero abituata a vedere questo genere di politiche, imposte facendo pressioni ai summit
dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), o come clausole dei prestiti del Fondo monetario
internazionale (Fmi). Le tre richieste tipiche - privatizzazione, deregulation e sostanziosi tagli alla spesa
sociale - erano di solito molto malviste dai cittadini; ma quando si firmavano gli accordi c'era almeno il
pretesto di un'intesa tra i governi che gestivano i negoziati, oltre al consenso tra i presunti esperti. Ora, lo
stesso programma ideologico veniva imposto con i mezzi più apertamente coercitivi: sotto
un'occupazione militare straniera in seguito a un'invasione, o subito dopo un cataclisma naturale. L'11
settembre sembra aver concesso a Washington il via libera per smettere di chiedere ai Paesi se
desiderano la versione americana di
"economia di mercato e democrazia" e iniziare a imporla con la forza militare dello Shock and Awe.
Approfondendo la storia della diffusione su scala planetaria di questo modello di mercato, tuttavia, mi
sono resa conto che l'idea di sfruttare crisi e disastri era stato fin dall'inizio il modus operandi del
movimento promossa da Milton Friedman: il fondamentalismo capitalista ha sempre avuto bisogno dei
disastri per imporsi. Certo, i disastri stessi erano sempre più grandi e scioccanti; ma ciò che stava
accadendo in Iraq e a New Orleans non era un'invenzione nuova, post-11 settembre. Piuttosto questi
esperimenti di sfruttamento delle crisi costituivano il culmine di tre decenni di stretta osservanza della
dottrina dello shock.
Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso.
Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani nella nostra epoca, usualmente considerate
semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l'intento
deliberato di terrorizzare l'opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l'introduzione di
"riforme" radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la
"sparizione" di trentamila persone - molte delle quali attivisti di sinistra - a opera della junta fu un passo
essenziale per l'imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era
stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di piazza
Tienanmen, e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di
trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori
troppo spaventati per rivendicare
i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli
edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell'opposizione: fu questo a spianare la strada
per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese.
La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il
disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza
per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in una democrazia
occidentale. L'attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell'ex
Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l'unica
causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare
il terreno alla shockterapia economica.
Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati
apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni Ottanta, fu una crisi di indebitamento a
obbligare i Paesi alla scelta tra "privatizzazione o morte", per usare le parole di un funzionario del Fmi.
Messi in ginocchio dall'iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che
accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li
avrebbe salvati da un disastro ben peggiore. In Asia, fu la crisi finanziaria del 1997-98 paragonabile, per gli effetti devastanti, alla Grande depressione - a trasformare, aprendo a forza i loro
mercati, le cosiddette Tigri asiatiche in quella che il "New York Times" ha definito "la svendita per
cessata attività più grande del mondo". Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali
trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario: come Friedman aveva
ben compreso, l'atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi
dagli elettori e consegnare il Paese a economisti "tecnocrati".
Naturalmente, ci sono stati casi in cui l'adozione di politiche liberiste ha avuto luogo in modo
democratico; si sono visti politici vincere le elezioni con programmi intransigenti, e gli Stati Uniti di
Ronald Reagan ne sono l'esempio migliore; un caso più recente è quello dell'elezione di Nicolas Sarkozy
in Francia. In questi casi, tuttavia, i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione
dell'opinione pubblica e sono stati obbligati a temperare e modificare i loro piani economici radicali,
accettando cambiamenti parziali al posto di una conversione totale. Il punto cruciale è che il modello
economico di Friedman può essere parzialmente imposto in una democrazia, ma per attuarlo in tutta la sua
portata ideale sono richieste condizioni di natura autoritaria. Perché la shockterapia economica potesse
essere applicata senza vincoli - come lo fu in Cile negli anni Settanta, in Cina negli Ottanta, in Russia nei
Novanta e negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 - è sempre stato necessario un qualche ulteriore
grosso trauma collettivo che sospenda temporaneamente o sopprima completamente le consuetudini
democratiche.
Questa crociata ideologica ha visto la luce nei regimi autoritari del Sudamerica, e nei suoi più ampi
territori di ultima conquista - Russia e Cina - coesiste ancora oggi, in tutta serenità e generando grandi
profitti, con una leadership dal pugno di ferro.
La shockterapia torna a casa.
Il movimento di Friedman, la Scuola di Chicago, ha conquistato territori in tutto il mondo a partire dagli
anni Settanta, ma fino a poco tempo fa la sua ideologia non era mai stata applicata pienamente nel suo
Paese di origine. Certo, Reagan aveva fatto passi avanti, ma gli Stati Uniti avevano comunque un sistema
di welfare, sicurezza sociale e scuole pubbliche, in cui i genitori si aggrappavano, nelle parole di
Friedman, al loro "irrazionale attaccamento a un sistema socialista".
Quando i repubblicani assunsero il controllo del Congresso nel 1995, David Frum, canadese trapiantato
in America e futuro autore dei discorsi di George W. Bush, era fra i cosiddetti neoconservatori che
propugnavano una rivoluzione economica basata sulla shockterapia negli Stati Uniti. "Ecco come penso
che dovremmo procedere. Anziché fare piccoli tagli - un po' qua, un po' là
- propongo di eliminare, in un solo giorno quest'estate, trecento programmi, ciascuno dei quali costa
meno di un miliardo di dollari. Forse questi tagli non faranno una gran differenza, ma - ragazzi avranno un grande valore simbolico. E si possono fare subito."
All'epoca Frum non ottenne la sua shockterapia domestica, soprattutto perché non c'era una vera crisi su
cui far leva. Ma nel 2001 la situazione cambiò. Al momento degli attacchi terroristici, la Casa Bianca era
piena di discepoli di Friedman, tra cui il suo amico intimo Donald Rumsfeld. La squadra di Bush è
riuscita a cogliere l'attimo di vertigine collettiva con una prontezza di riflessi sconcertante: non, come ha
sostenuto qualcuno, perché l'amministrazione abbia dolosamente pianificato la crisi, bensì perché le
figure centrali dell'amministrazione, veterani di precedenti esperimenti di capitalismo dei disastri in
America Latina e nell'Europa dell'Est, facevano parte di un movimento che implora le crisi come i
contadini pregano per la pioggia in tempi di siccità, e come gli evangelici fondamentalisti supplicano di
essere rapiti in cielo appena prima della fine del mondo. Quando il disastro colpisce, sanno all'istante
che il momento tanto atteso è finalmente giunto.
Per trent'anni, Friedman e i suoi seguaci avevano sistematicamente sfruttato i momenti di shock negli altri
Paesi - i loro equivalenti dell'11 settembre - a iniziare dal colpo di Stato di Pinochet, l'11
settembre 1973. L'11 settembre 2001 accadde che l'ideologia covata nelle università americane e
fortificata nelle istituzioni di Washington potè tornare finalmente a casa.
L'amministrazione Bush usò fin da subito la paura generata dagli attacchi non solo per lanciare la
cosiddetta "Guerra al Terrore", ma per assicurarsi che essa fosse un'impresa quasi completamente volta
al profitto, una nuova e fiorente industria che avrebbe soffiato nuova vita nella stagnante economia
americana. Lo si comprende meglio se lo si chiama "complesso del capitalismo dei disastri": possiede
tentacoli molto più lunghi rispetto al complesso militare-industriale contro cui Dwight Eisenhower aveva
messo in guardia alla fine della sua presidenza. Questa è una guerra globale combattuta a ogni livello da
aziende private il cui coinvolgimento è pagato con denaro pubblico, con un mandato vitalizio per
proteggere la patria americana in eterno, eliminando il
"male" oltreconfine, in ogni sua forma. Nel giro di pochi anni, il complesso ha già espanso il suo mercato
potenziale, dalla lotta al terrorismo al peacekeeping internazionale, alle amministrazioni locali, alla
risposta ai sempre più frequenti di
sastri naturali. Il fine ultimo delle grandi
imprese al centro del complesso è riportare il modello di governo for-profit, che avanza così
rapidamente in circostanze straordinarie, entro il funzionamento ordinario e quotidiano dello Stato.
Il fine ultimo è privatizzare il governo.
Per mettere in moto il complesso del capitalismo dei disastri, l'amministrazione Bush ha subappaltato,
senza alcun dibattito pubblico, molte delle funzioni più delicate e importanti del governo: dall'assistenza
sanitaria per l'esercito agli interrogatori dei prigionieri, alla raccolta e gestione di informazioni riservate
su ciascun cittadino. Il ruolo del governo in questa guerra senza fine non è quello di un amministratore
che dirige una rete di appaltatori, ma di un imprenditore dalle tasche gonfie, che fornisce il capitale
necessario per l'avviamento del complesso ma diventa anche il miglior cliente dei servizi che il
complesso offre. Per citare solo due dati che mostrano la portata della trasformazione: nel 2003, il
governo americano mise sotto contratto 3512 agenzie private per esercitare funzioni di sicurezza; nei
ventidue mesi fino all'agosto 2006, il dipartimento per la Sicurezza nazionale ha firmato più di 115.000
contratti di questo tipo. L'industria globale della
"sicurezza interna" - economicamente insignificante fino al 2001 - è ora un settore da duecento miliardi di
dollari. Nel 2006, la spesa del governo americano per la sicurezza interna raggiungeva una media di 545
dollari per famiglia.
E questo è solo il fronte interno della Guerra al Terrore: i soldi veri servono a portare la guerra altrove.
Oltre alle industrie militari, che hanno visto i loro profitti impennarsi grazie alla guerra in Iraq,
mantenere l'esercito americano è oggi una delle economie di servizio più fiorenti del pianeta.
Due Paesi che hanno entrambi un McDonald's non hanno mai combattuto una guerra tra loro"
dichiarò incautamente l'editorialista del "New York Times" Thomas Friedman nel dicembre 1996.
Non solo fu smentito nel giro di due anni, ma, grazie al modello della guerra for-profit, oggi l'esercito
americano va in guerra con Burger King e Pizza Hut a rimorchio, appaltando ristoranti per le truppe nelle
basi militari, dall'Iraq alla "mini-città" attualmente in costruzione a Guantanamo.
Poi ci sono gli aiuti umanitari e la ricostruzione. Aiuti e ricostruzione for-profit, sperimentati per la prima
volta in Iraq, sono già diventati il nuovo paradigma globale, ed è ininfluente che la distruzione iniziale sia
provocata da una guerra preventiva, come l'attacco di Israele al Libano nel 2006, o da un uragano. Il
flusso dei nuovi disastri aumenta di continuo, a causa della scarsità di risorse e dei mutamenti climatici, e
far fronte a queste emergenze è, semplicemente, un mercato in ascesa troppo allettante per lasciarlo alle
organizzazioni non-profit. Perché mai dovrebbe essere l'Unicef a ricostruire le scuole quando può farlo la
Bechtel, una delle più grandi imprese di costruzione degli Stati Uniti? Perché mandare i rifugiati del
Mississippi in case popolari vuote, quando possono essere ospitati su navi da crociera Carnival? Per-che
impiegare forze di pace dell'Onu in Darfur, quando agenzie di sicurezza private come la Blackwater sono
alla ricerca di nuovi clienti? Ed è questa la differenza del dopo-11 settembre: prima, le guerre e i disastri
offrivano opportunità a un settore ristretto dell'economia - per esempio i costruttori di jet da
combattimento, o le aziende che ricostruivano i ponti bombardati. Il fine economico primario delle
guerre, tuttavia, era quello di offrire un mezzo per aprire nuovi mercati che erano stati isolati e generare
boom del dopoguerra. Oggi invece, le risposte alle guerre e ai disastri sono così completamente
privatizzate che sono esse stesse il nuovo mercato. Non c'è bisogno di aspettare la fine della guerra per il
boom: il mezzo è il messaggio.
Un vantaggio decisivo di questo approccio postmoderno è che, in termini commerciali, non può fallire.
"L'Iraq è stato meglio del previsto": con queste parole un analista finanziario ha definito un trimestre
particolarmente positivo per l'industria energetica Halliburton. Era l'ottobre 2006, il mese più violento
dell'anno fino ad allora, con 3709 civili iracheni morti. Eppure, pochi azionisti restarono impassibili di
fronte a una guerra che aveva generato venti miliardi di dollari in ricavi per questa sola azienda.'
Fra il commercio d'armi, i soldati privati, la ricostruzione forprofit e l'industria della sicurezza nazionale,
il risultato emerso dall'impronta data dall'amministrazione Bush alla shockterapia cost-11
settembre è una nuova economia pienamente articolata. E stata costruita nell'era Bush, ma ora esiste in
maniera del tutto autonoma da una particolare amministrazione, e resterà ben salda finché non verrà
identificata, isolata e sfidata l'ideologia suprematista del business che ne costituisce la premessa. È
dominata dalle aziende americane ma è globale: le aziende britanniche, per esempio, portano la loro
esperienza in materia di onnipresenti telecamere a circuito chiuso, le ditte israeliane offrono la loro
expertise nella costruzione di recinti e muri ad alta tecnologia, e l'industria canadese del legname invia
rappresentanti in giro per il mondo per vendere case prefabbricate che sono svariate volte più costose di
quelle prodotte localmente. "Credo che nessuno prima d'ora avesse mai guardato alla ricostruzione delle
aree colpite da disastri come a un vero mercato immobiliare" dice Ken Baker, direttore generale di un
gruppo leader nel commercio di legname. "È una strategia a lungo termine per diversificare."
Fatte le debite proporzioni, il complesso del capitalismo dei disastri è paragonabile ai boom del
"mercato emergente" e delle telecomunicazioni negli anni Novanta. Anzi, gli addetti ai lavori sostengono
che i contratti oggi sono ancora migliori che nei giorni delle dot.com, e che la bolla della sicurezza ha
preso il posto delle altre scoppiate in precedenza. Insieme ai profitti in rapida crescita dell'industria
delle assicurazioni (che in proiezione dovrebbero aver raggiunto la cifra record di 60 miliardi di dollari
nel 2006 nei soli Stati Uniti), e agli utili elevatissimi dell'industria del petrolio (che contribuisce a
generare le catastrofi da cui trae profitto), l'economia dei disastri ha fatto molto per salvare il mercato
mondiale dalla grave recessione che rischiava alla vigilia dell'11
settembre."
Quando si tenta di ripercorrere la storia della crociata ideologica che è culminata nella radicale
privatizzazione della guerra e del disastro, si ripresenta un problema: l'ideologia è in realtà proteiforme,
sempre pronta a cambiar nome e assumere nuove identità. Friedman si definiva un liberal, ma i suoi
seguaci americani, che associavano i liberals alle tasse alte e agli hippie, tendevano a identificarsi come
"conservatori", "economisti classici", "fautori del libero mercato" e, più tardi, favorevoli alla
Keaganomics o al laissez-faire. In gran parte del mondo, la loro ortodossia è nota come "neoliberismo",
ma spesso è chiamata ree trade o semplicemente "globalizzazione".
Solo dalla metà degli anni Novanta il movimento intellettuale, capeggiato dai think tanks di destra con cui
Friedman era associato da tempo - la Heritage Foundation, il Cato Institute e l'American Enterprise
Institute - ha iniziato a definirsi "neoconservatore", una visione del mondo che ha sfruttato la forza della
macchina militare Usa al servizio di obiettivi economici.
Tutte queste incarnazioni hanno in comune la devozione a una santa trinità - eliminazione della sfera
pubblica, liberazione delle corporation da qualunque vincolo e spesa sociale ridotta all'osso ma nessuno di questi nomi sembra perfettamente adeguato per definirne l'ideologia. Friedman qualificava
il suo movimento come un tentativo di liberare il mercato dallo Stato, ma l'esperienza di ciò che accade
quando la sua visione è applicata al mondo reale è ben diversa. In ogni Paese in cui negli ultimi trent'anni
sono stati applicati i principi della Scuola di Chicago, ciò che è emerso è una potente alleanza di dominio
tra poche enormi corporation e una classe di politici quasi invariabilmente ricchi: e i confini tra i due
gruppi sono sfumati e sempre mutevoli. In Russia, i soggetti privati nell'alleanza sono chiamati
"oligarchi"; in Cina, "principini"; in Cile, "piranha"; negli Stati Uniti, sono i "pionieri" della campagna
Bush-Cheney. Ben lungi dal liberare il mercato dallo Stato, questi gruppi politici e aziendali si sono
semplicemente fusi insieme, scambiandosi favori per assicurarsi il diritto di appropriarsi di risorse
preziose che prima erano di pubblico dominio: dai pozzi di petrolio russi ai poderi collettivi della Cina
ai contratti di ricostruzione in Iraq concessi senza aste d'appalto.
Una definizione più consona per un sistema che cancella i confini tra il Big Government e il Big Business
non è liberal, conservatore o capitalista, ma corporativista. Le sue caratteristiche principali sono enormi
trasferimenti di beni pubblici ai privati, spesso accompagnati dall'esplosione del debito pubblico, uno
iato sempre più largo tra gli scintillanti ricchi e i poveri usa-e-getta, e un nazionalismo guerrafondaio che
giustifica spese illimitate per la sicurezza. Per chi si trova all'interno della bolla di estrema ricchezza
creata da questo sistema, non può esserci modo più conveniente per organizzare una società. Ma a causa
degli evidenti svantaggi per la vasta maggioranza della popolazione che resta fuori dalla bolla, tra le
altre caratteristiche dello Stato corporativo ci sono gli arresti di massa, la sorveglianza aggressiva
(ancora una volta, con il governo e le grandi aziende che si scambiano favori e contratti), la riduzione
delle libertà civili e spesso, anche se non sempre, la tortura.
La tortura come metafora.
Dal Cile alla Cina all'Iraq, la tortura è stata un partner silenzioso nella rivoluzione liberista globale.
La tortura, però, è ben più che uno strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si
ribella: è anche una metafora della logica alla base della dottrina dello shock.
La tortura - o, nel linguaggio della Cia, "interrogatorio coercitivo" - è un insieme di tecniche pensate per
indurre nei prigionieri uno stato di assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare
concessioni contro la loro volontà. La logica di fondo è resa esplicita in due manuali della
Cia,,desecretati nei tardi anni Novanta. In essi si spiega che per piegare le "fonti che oppongono
resistenza" bisogna creare rotture violente tra i prigionieri e la loro capacità di dare senso al mondo che
li circonda. In primo luogo, si elimina ogni input sensoriale (con cappucci in testa, tappi alle orecchie,
manette, isolamento totale), poi si bombarda il corpo con stimoli estremi (luci stroboscopiche, musica a
tutto volume, percosse, elettroshock).
Lo scopo di questa fase di "ammorbidimento" è provocare una specie di uragano nella mente: i
prigionieri subiscono una regressione tale, e sono così spaventati, che non riescono più a pensare
razionalmente né a proteggere i propri interessi. È in questo stato di shock che la maggior parte dei
prigionieri dà a chi li interroga ciò che questi desidera: informazioni, confessioni, abiura di convinzioni
precedenti. Uno dei manuali della Cia fornisce una spiegazione particolarmente esplicita: "C'è un
intervallo - che può essere estremamente breve - di animazione sospesa, una sorta di shock o paralisi
psicologica. È provocata da un'esperienza traumatica o subtraumatica che fa esplodere, per dir così, il
mondo che è familiare al soggetto, oltre all'immagine che egli ha di sé entro quel mondo. Gli specialisti
riconoscono questo effetto quando si manifesta e sanno che in quel momento la fonte è molto più aperta ai
suggerimenti, molto più disposta a collaborare, di quanto non fosse appena prima di subire lo shock".
La dottrina dello shock imita alla perfezione questo processo, cercando di ottenere su vasta scala ciò che
la tortura ottiene su una singola persona in una cella per interrogatori. L'esempio più chiaro è stato lo
shock dell'11 settembre, che, per milioni di persone, ha "fatto esplodere il mondo a loro familiare" e ha
dato il via a un periodo di forte disorientamento e regressione, che l'amministrazione Bush ha sfruttato
con estrema abilità. All'improvviso ci siamo ritrovati a vivere in una sorta di Anno Zero, in cui tutto ciò
che sapevamo del mondo fino a quel momento poteva essere sbrigativamente definito "pensiero pre-11
settembre". I nordamericani, che peraltro non erano mai stati grandi esperti di storia, sono diventati "un
foglio bianco" sul quale "possono essere scritte le parole più nuove e più belle", come Mao disse del suo
popolo. Un nuovo esercito di esperti si è materializzato all'istante per scrivere nuove e bellissime parole
sulla ricettiva tela delle nostre coscienze postraumatiche: "scontro di civiltà", hanno scritto. "Asse del
Male", "islamofascismo", "sicurezza nazionale". Mentre tutti ci preoccupavamo delle nuove e mortifere
guerre tra culture, l'amministrazione Bush è stata in grado di ottenere quello che prima dell'11 settembre
poteva solo sognare: combattere guerre privatizzate all'estero e affidare la sicurezza della patria a un
complesso di aziende.
È così che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario - il colpo di Stato, l'attacco
terroristico, il crollo dei mercati, la guerra, lo tsunami, l'uragano - getta l'intera popolazione in uno stato
di shock collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono più efficaci, nel
rendere malleabili intere società, di quanto la musica assordante e i pugni nella cella di tortura non
indeboliscano i prigionieri. Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la
sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto
con le unghie e con i denti. Jamar Perry e gli altri sfollati al centro d'accoglienza di Baton Rouge
avrebbero dovuto perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i pescatori
dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia ai proprietari di alberghi. Gli
iracheni, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero dovuto essere così scioccati e terrorizzati da
rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende pubbliche e alla loro sovranità,
cedendoli alle basi militari e alle zone verdi americane.
La grande bugia.
Nel torrente di parole scritte nei necrologi di Milton Friedman, il ruolo della crisi, dello shock e del
disastro fu a malapena menzionato. Piuttosto, la morte dell'economista fornì un'occasione per raccontare
di nuovo la storia ufficiale di come la sua versione del capitalismo radicale fosse diventata ortodossia
governativa in quasi ogni angolo del globo. E una versione romanzata della storia, ripulita dalla violenza
e dalla coercizione così intimamente intrecciata con questa crociata, e rappresenta il più riuscito colpo di
propaganda degli ultimi tre decenni. La versione dice più o meno quanto segue.
Friedman ha dedicato la vita a combattere una pacifica battaglia di idee contro chi credeva che i governi
avessero il dovere di intervenire nel mercato per smussarne gli angoli. Era convinto che la storia "avesse
preso una strada sbagliata" quando i politici avevano iniziato a dar retta a John Maynard Keynes,
architetto intellettuale del New Deal e del moderno Stato sociale. Il crollo del 1929 aveva convinto i più
che l'approccio del laissez-faire fosse fallito, e che i governi dovessero intervenire nell'economia per
redistribuire la ricchezza e limitare le grandi concentrazioni. In quei giorni bui per il laissez-faire,
quando il comunismo conquistò l'Est, il welfare state sedusse l'Occidente e il nazionalismo economico
mise radici nel Sud postcoloniale, Friedman e il suo mentore, Friedrich von Hayek, tennero viva con
pazienza la fiamma di una versione pura del capitalismo, non toccata dai tentativi keynesiani di mettere in
comune la ricchezza collettiva per costruire società più giuste.
"L'errore fondamentale, a mio avviso" scrisse Friedman in una lettera a Pinochet nel 1975, era stato
"credere che sia possibile far del bene con i soldi degli altri".''" Pochi lo ascoltarono: i più insistettero
che i loro governi potevano e dovevano far del bene. Friedman fu sbrigativamente liquidato da "Time"
nel 1969 come "un folletto o uno scocciatore", ed erano in pochi a venerarlo come un profeta.
Alla fine, dopo decenni di esilio intellettuale, vennero gli anni Ottanta e il dominio di Margaret Thatcher
(che chiamava Friedman "un combattente per la libertà intellettuale") e Ronald Reagan (che fu visto con
in mano una copia di Capitalismo e libertà, il manifesto di Friedman, durante la campagna elettorale per
la presidenza). Finalmente c'erano leader politici che avevano il coraggio di liberare e svincolare i
mercati nel mondo reale. Stando a questa versione ufficiale, dopo che Reagan e la Thatcher ebbero
pacificamente e democraticamente liberato il mercato, la libertà e la prosperità che seguirono furono così
palesemente desiderabili che quando i dittatori iniziarono a cadere, da Manila a Berlino, le masse
chiesero a gran voce la
Reaganomics accanto ai loro Big Mac.
Quando infine l'Unione Sovietica collassò, il popolo dell'"impero del male" era impaziente di unirsi alla
rivoluzione friedmaniana, così come i comunisti convertiti al capitalismo in Cina.
Voleva dire che il vero liberismo globale non aveva più ostacoli, e in esso le grandi imprese, finalmente
affrancate, non solo erano libere a casa loro, ma erano libere di varcare ogni confine senza vincoli,
diffondendo la prosperità in tutto il mondo. Ora c'era consenso su come la società dovesse essere
governata: i leader politici dovevano essere eletti, e le economie dovevano seguire le regole di
Friedman. Era, come disse Francis Fukuyama, "la fine della storia": "il punto finale dell'evoluzione
ideologica dell'umanità". Quando Friedman morì, la rivista "Fortune" scrisse che "la marea della storia
era con lui"; il Congresso americano approvò una risoluzione che lo lodava come
"uno dei più importanti patroni della libertà nel mondo, non solo nell'economia ma in ogni campo"; il
governatore della California Arnold Schwarzenegger fece celebrare il Milton Friedman Day nell'intero
Stato il 29 gennaio 2007, e parecchie città e cittadine fecero lo stesso. Il "Wall Street Journal"
riassumeva efficacemente questa versione ordinata della storia con il titolo: Freedom Man.
Questo libro è una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia ufficiale: che il trionfo del capitalismo
senza regole sia nato dalla libertà, che il liberismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia. Al
contrario, mostrerò che questo fondamentalismo capitalista è stato invariabilmente partorito dalle più
brutali forme di coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo come su innumerevoli corpi individuali.
La posta in gioco è alta. Il corporativismo sta per conquistare le sue ultime frontiere: le economie chiuse
e basate sul petrolio del mondo arabo, e i settori delle economie occidentali che a lungo sono stati
protetti dal profitto - incluse la risposta alle emergenze e la creazione di eserciti. Poiché non si finge
neppure di cercare il consenso popolare prima di privatizzare funzioni economiche tanto vitali, sia in
patria sia fuori, serve un'escalation di violenza e disastri sempre maggiori per far avanzare la causa.
Eppure, poiché il vero significato degli shock e delle crisi è stato così efficacemente cancellato dalla
storia ufficiale della crociata corporativista, le tattiche estreme usate in Iraq e a New Orleans sono
spesso scambiate per semplici incompetenze o favoritismi della Casa Bianca di Bush. In realtà, gli
exploit di Bush rappresentano il culmine, molto violento e molto creativo, di una campagna lunga
cinquant'anni per la totale liberazione delle grandi imprese, che non sarà frenata da una singola elezione
in un singolo Paese. Piuttosto, è la stessa ideologia che dev'essere identificata, isolata e sfidata.
Qualsiasi tentativo di incolpare le ideologie per i crimini commessi dai loro seguaci dev'essere
intrapreso con grande cautela. E troppo facile dire che coloro dai quali dissentiamo non sono solo in
errore ma sono tirannici, fascisti, genocidi. È anche vero però che certe ideologie sono un pericolo per la
gente e necessitano di essere identificate per quello che sono. Sono quei sistemi chiusi, quelle dottrine
ideologiche che non possono coesistere con altri sistemi di valori: i loro seguaci disprezzano la diversità
e pretendono una tabula rasa su cui costruire. Il mondo com'è oggi va cancellato per edificarne uno nuovo
e perfetto. È una logica che affonda le radici nelle fantasie bibliche di grandi inondazioni e grandi
incendi, una logica che conduce ineluttabilmente alla violenza. Le ideologie che aspirano a
quell'impossibile foglio bianco che si può raggiungere solo con un qualche cataclisma sono le ideologie
pericolose.
Di solito sono i sistemi ideologici basati sull'estremismo religioso e sul concetto di razza che richiedono
l'eliminazione di altri gruppi al fine di perseguire una visione purista del mondo. Ma in seguito al crollo
dell'Unione Sovietica, c'è stata una potente resa dei conti collettiva con i grandi crimini commessi nel
nome del comunismo. Gli archivi sovietici sono stati aperti ai ricercatori, che hanno così potuto contare i
morti per carestie forzate, campi di lavoro e omicidi politici. Il processo ha scatenato un acceso dibattito
su quanto le uccisioni fossero ispirate dall'ideologia in sé, o invece dalla sua distorsione da parte di
seguaci come Stalin, Ceausescu, Mao e Pol Pot.
"È stato il comunismo in carne e ossa a imporre la repressione all'ingrosso, culminata in un regno di
terrore spalleggiato dallo Stato" scrive Stéphane Courtois, coautore del discusso Libro nero del
comunismo. "L'ideologia è, dunque, innocente?" Certo che ne ha. Non ne consegue che tutte le forme di
comunismo siano intrinsecamente genocide, come qualcuno ha affermato, ma è stata senza dubbio
un'interpretazione della teoria comunista, un'interpretazione dottrinaria, autoritaria e contraria a ogni
pluralismo, che ha condotto alle purghe staliniane e ai campi di rieducazione di Mao. Il comunismo
autoritario è, ed è bene che sia, per sempre macchiato da quei laboratori.
Ma che ne è allora della crociata contemporanea per liberare i mercati mondiali? I colpi di Stato, le
guerre e i massacri che servono a installare e mantenere i regimi a favore delle grandi società non sono
mai stati trattati come crimini del capitalismo, ma sono stati liquidati come eccessi di dittatori troppo
zelanti, come fronti caldi della Guerra fredda, e ora della Guerra al Terrore. Se i più decisi oppositori
del modello economico corporativista sono sistematicamente sterminati - in Argentina negli anni Settanta,
in Iraq oggi - quella soppressione è giustificata come parte della lotta sporca contro il comunismo o il
terrorismo: quasi mai come la lotta per l'avanzamento del capitalismo puro.
Non sto affermando che tutte le forme di sistema di mercato sono per forza violente. È
assolutamente possibile, certo, avere un'economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non
necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una
sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell'economia - come una compagnia
petrolifera pubblica - saldamente in mano statale. È parimenti possibile richiedere che le grandi aziende
paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi
tassino e redistribuiscano la ricchezza così che le aspre ineguaglianze che affliggono lo Stato corporativo
siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.
Keynes aveva proposto esattamente questo genere di economia mista, regolata, dopo la Grande
depressione: una rivoluzione nell'approccio politico che creò il New Deal e trasformazioni analoghe in
tutto il mondo. È stato proprio quel sistema di compromessi, controlli ed equilibri che la
controrivoluzione di Friedman mirava a smantellare metodicamente Paese dopo Paese. Vista in questa
luce, la variante fondamentalista del capitalismo propria della Scuola di Chicago ha, in effetti, qualcosa
in comune con altre pericolose ideologie: quel tipico desiderio di irraggiungibile purezza, di imbiancare
la tela e tirar su dal nulla la società ideale.
Questo desiderio di disporre del potere divino di creazione ex novo costituisce precisamente il motivo
per cui gli ideologi del libero mercato sono così attratti dalle crisi e dai disastri. Una realtà non
apocalittica è semplicemente incompatibile con le loro ambizioni. Da trentacinque anni, ciò che anima la
controrivoluzione di Friedman è stata l'attrazione per un tipo di potere, libertà e senso di possibilità che è
disponibile solo in tempi di mutamento cataclismatico - quando le persone, con le loro abitudini ostinate
e le loro domande insistenti, vengono spazzate via - momenti in cui la democrazia sembra concretamente
impossibile. Chi crede nella dottrina dello shock è convinto che solo una grande discontinuità un'inondazione, una guerra, un attacco terroristico - possa generare quelle tele vaste e bianche tanto
intensamente desiderate. In questi momenti malleabili, in cui siamo psicologicamente e fisicamente
sradicati, gli artisti del reale tuffano le mani e iniziano il loro lavoro di ricreazione del mondo.
Parte Prima.
Due dottor Shock. Ricerca e Sviluppo.
Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi.
George Orwell, 1984.
La rivoluzione industriale fu soltanto l'inizio di una rivoluzione tanto estrema e radicale quanto mai
una rivoluzione potè infiammare le menti dei settari, tuttavia il nuovo credito era completamente
materialista e sostenere che tutti i problemi umani potessero essere risolti per mezzo di una quantità
illimitata di beni materiali.
Karl Polanyi, La grande trasformazione
1.
La camera di tortura.
Ewen Cameron, la Cia e lo sforzo maniacale di cancellare e rifare la mente umana.
Le loro menti appaiono come una tabula rasa su cui possiamo scrivere.
I medici Cyril J. Kennedy e David Anchel, a proposito dei benefici dell'elettroshock, 1948.
Sono andato all'ammazzatoio per osservare questa cosiddetta "macellazione elettrica", e ho visto che
ai suini sono applicate grosse pinze metalliche sulle tempie, poi collegate alla corrente elettrica (125
volt). Appena applicate le pinze, gli animali hanno perso conoscenza, si sono irrigiditi, e poi, dopo
qualche secondo, sono stati scossi da convulsioni, non diversamente dai nostri cani da laboratorio. In
questa fase di incoscienza (coma epilettico), il macellaio ha potuto pugnalare e dissanguare gli
animali senza difficoltà.
Ugo Cerletti, psichiatra, su come "inventò" l'elettroshock, 1954.
"Non parlo più con i giornalisti" dice la voce tesa all'altro capo del telefono. E poi uno spiraglio:
"Cosa vuole?".
Penso di avere circa venti secondi per esporre i miei argomenti, e non sarà facile. Come posso spiegare a
Gail Kasmer cosa voglio, quale strada mi ha condotto da lei?
La verità sembra assurda: "Sto scrivendo un libro sullo shock. Su come i Paesi sono scioccati - dalle
guerre, dagli attacchi terroristici, dai colpi di Stato e dai disastri naturali. E poi su come vengono
scioccati un'altra volta - dalle grandi aziende e dai politici che sfruttano la paura e il disorientamento di
quel primo shock per imporre la shockterapia economica. E poi su come le persone che osano opporre
resistenza a questa strategia dello shock vengono, se necessario, scioccate per la terza volta - dalla
polizia, dai soldati e dagli interrogatori in prigione. Voglio parlare con lei perché lei è, secondo i miei
calcoli, tra le persone più scioccate al mondo, essendo lei una dei pochi sopravvissuti ancora in vita
degli esperimenti segreti della Cia sull'elettroshock e le altre
"tecniche di interrogatorio speciali". E a proposito, ho ragione di credere che le ricerche compiute su di
lei negli anni Cinquanta alla McGill University siano ora applicate ai prigionieri di Guantanamo e di Abu
Ghraib".
No, questo è un discorso che non posso fare. Quindi le dico: "Di recente sono stata in Iraq, e sto cercando
di capire il ruolo svolto dalla tortura in quel Paese. Ci dicono che serve a ottenere informazioni, ma io
credo che ci sia dell'altro: credo possa avere a che fare con il progetto di costruire un Paese modello, per
cancellare le persone e poi cercare di ricostruirle da capo".
C'è una lunga pausa, e poi un tono di voce diverso nella risposta, ancora tesa ma... È una specie di
sollievo? "Lei ha appena descritto con esattezza quello che la Cia e Ewen Cameron hanno fatto a me.
Hanno cercato di cancellarmi e rifarmi. Ma non ha funzionato."
In meno di ventiquattr'ore, mi ritrovo a bussare alla porta dell'appartamento di Gail Kastner in una tetra
casa di riposo a Montreal. "È aperto" dice una voce appena udibile. Gail mi aveva detto che avrebbe
lasciato la porta aperta perché è difficile per lei alzarsi in piedi. Sono le piccole fratture alla spina
dorsale che diventano più dolorose con il progredire dell'artrite. Il suo mal di schiena è solo uno dei
ricordi delle sessantatré volte in cui i lobi frontali del suo cervello sono stati invasi da scariche elettriche
di 150/200 volt, mentre il suo corpo era scosso da convulsioni violente sul tavolo, provocandole fratture,
slogature, tagli alle
labbra, denti rotti.
. mi accoglie da una lussuosa poltrona ortopedica blu. Può avere venti posizioni, scoprirò in seguito, e lei
la sistema, come un fotografo che cerca di mettere a fuoco. È in poltrona che passa i suoi giorni e le sue
notti, alla ricerca, tentando di evitare il sonno e quelli che chiama "i suoi sogni elettrici". È
allora che vede "lui": il dottor Ewen, psichiatra morto da tempo, che tanti anni fa le somministrava quegli
shock, insieme ad altri tormenti. "Ho ricevuto |due visite dal Mostro Eminente" la scorsa notte" annuncia
appena
entro. "Non voglio metterla a disagio, ma è stato a causa della sua telefonata improvvisa, con tutte quelle
domande."
Mi rendo conto che la mia presenza qui è, con tutta probabilità, ingiusta. Questa sensazione si acuisce
quando osservo l'appartamento e vedo che non c'è posto per me. Ogni superficie è ricoperta da torri di
carte e libri, ammonticchiati in modo precario ma chiaramente secondo una qualche forma di ordine. I
libri sono tutti segnati con foglietti ingialliti. Pavimento, divano, sedie, tavolini, tavolo della cucina sono
completamente ricoperti. Gail mi indica l'unica superficie libera della stanza, una sedia di legno che non
avevo notato, ma va leggermente nel panico quando chiedo dieci centimetri di spazio per il registratore.
Il tavolino vicino alla sua poltrona è fuori questione: vi risiedono circa venti pacchetti vuoti di sigarette.
Matinee Regular, disposte in una perfetta piramide.
(Gail mi aveva avvertita per telefono di essere una grande fumatrice: "Mi spiace, ma fumo. E
mangio male. Sono grassa e fumo. Spero non sia un problema".) Sembra che Gail abbia colorato di nero
l'interno dei pacchetti, ma guardando meglio mi accorgo che si tratta in realtà di parole, scritte in una
grafia minuscola ed estremamente densa: nomi, numeri, migliaia di parole.
Nel corso della giornata che passiamo a parlare, Gail spesso si china a scrivere qualcosa su un pezzetto
di carta o un pacchetto di sigarette: "Un appunto per me stessa" spiega "o non me ne ricorderei". I
foglietti e le scatole di sigarette sono, per Gail, qualcosa di più di un sistema di archivio poco
convenzionale. Sono la sua memoria.
Da tutta la sua vita adulta, la mente continua a tradire Gail: i fatti evaporano all'istante; i ricordi, se ci
sono (e molti non ci sono), sono come istantanee sparse a caso sul pavimento. Spesso ricorda alla
perfezione un evento - è ciò che chiama "frammento di memoria" - ma se le si chiede una data, può
sbagliarsi anche di due decenni. "Nel 1968" dice. "No, 1983." E dunque tiene liste e conserva tutto, come
prova che la sua vita è accaduta davvero. All'inizio Gail si scusa per il disordine. Ma poi dice:
"È stato lui a farmi questo! Questo appartamento è parte della tortura!".
Per molti anni, Gail è stata sconcertata dai vuoti di memoria, e dalle altre idiosincrasie. Per esempio, non
sapeva perché una piccola scossa elettrica dal pannello di apertura del garage le provocasse un
incontrollabile attacco di panico. O perché le tremavano le mani mentre attaccava l'asciugacapelli alla
presa di corrente. Ma soprattutto, non capiva come mai riuscisse a ricordare quasi tutto della sua vita
adulta, ma quasi nulla prima dei vent'anni. Quando incontrava qualcuno che sosteneva di conoscerla
dall'infanzia, diceva fingendo: "So chi sei ma non mi viene in mente dove ti ho già visto".
Gail pensava che fosse tutto parte della sua precaria salute mentale. Tra i venti e i quarant'anni aveva
sofferto di depressione e dipendenza da farmaci, e a volte aveva crisi tanto violente che si ritrovava in
ospedale, in stato di incoscienza. La sua famiglia l'aveva ripudiata, lasciandola così sola e disperata che
sopravviveva cercando cibo nei cassonetti fuori dai negozi di alimentari.
Da qualche indizio intuiva che qualcosa di ben più traumatico era accaduto. Prima che la sua famiglia
tagliasse i ponti con lei, Gail e la sua gemella monozigote litigavano spesso a proposito di un'occasione
in cui Gail era stata molto male e Zella aveva dovuto prendersi cura di lei. "Non hai idea di cosa ho
passato" diceva Zella. "La facevi sul pavimento del salotto e ti succhiavi il pollice e parlavi come un
bambino piccolo e volevi il biberon di mio figlio. Questo ho dovuto sopportare!"
Gail non sapeva come prendere le recriminazioni di sua sorella. Farla sul pavimento? Pretendere il
biberon del nipote? Non ricordava di aver mai fatto cose così strane.
Dopo i quarantacinque anni, Gail iniziò una relazione con un uomo di nome Jacob, che definisce la sua
anima gemella. Sopravvissuto all'Olocausto, Jacob attribuiva grande importanza alla memoria e al tema
della perdita. Per Jacob, morto più di dieci anni fa, gli anni che Gail aveva inspiegabilmente rimosso
erano fonte di grande turbamento. "Dev'esserci una ragione" diceva. "Dev'esserci una ragione."
Nel 1992, Gail e Jacob passarono davanti a un'edicola che esponeva un titolo a caratteri cubitali:
Esperimenti di lavaggio del cervello: le vittime saranno risarcite. La Kastner iniziò a scorrere l'articolo,
e alcune espressioni balzarono subito in risalto: "parlata infantile", "perdita di memoria",
"incontinenza", "Dissi: "Jacob, compra questo giornale". Seduti in un caffè lì vicino, lessero una storia
incredibile su come, negli anni Cinquanta, la Cia avesse finanziato un medico di Montreal perché
eseguisse strani esperimenti sui suoi pazienti psichiatrici, tenendoli addormentati e in isolamento per
settimane, e poi somministrando dosi enormi di elettroshock oltre a un cocktail di farmaci sperimentali
che comprendeva la droga psichedelica Lsd e l'allucinogeno Pcp, comunemente noto come polvere degli
angeli. Gli esperimenti, che facevano regredire i pazienti a stadi infantili, preverbali, erano stati eseguiti
all'Allan Memorial Institute della McGill University sotto la supervisione del direttore, il dottor Ewen
Cameron. I finanziamenti della Cia a Cameron erano stati rivelati nei tardi anni Settanta in seguito a una
richiesta basata sul Freedom of Information Act, e la vicenda aveva provocato un'inchiesta del Senato
statunitense. Nove ex pazienti di Cameron si unirono per far causa alla Cia oltre che al governo canadese,
che aveva contribuito a finanziare le ricerche di Cameron. Nel corso di lunghi processi, i legali dei
pazienti sostennero che gli esperimenti avevano violato tutti gli standard dell'etica medica. Quelle
persone si erano rivolte a Cameron per lievi problemi psichiatrici - depressione postparto, ansia,
addirittura problemi matrimoniali - ed erano state usate, senza saperlo e senza autorizzazione, come cavie
umane per soddisfare la sete di informazioni della Cia su come controllare la mente umana. Nel 1988 la
Cia accettò di pagare, e distribuì un totale di 750.000 dollari di risarcimento ai nove querelanti:
all'epoca, la cifra più alta mai pagata dall'agenzia di intelligence. Quattro anni dopo, il governo canadese
avrebbe accettato di risarcire con 100.000 dollari ogni paziente che avesse partecipato agli esperimenti.
Non solo Cameron svolse un ruolo di primo piano nello sviluppo delle tecniche di tortura attualmente in
uso negli Stati Uniti, ma i suoi esperimenti contribuiscono a mettere in luce la logica di fondo del
capitalismo dei disastri. Come gli economisti liberisti, convinti che solo un disastro su larga scala - un
grande disfacimento - può preparare il terreno per le loro "riforme", così Cameron era convinto che,
infliggendo una serie di shock alla mente umana, avrebbe potuto disfare e cancellare le menti difettose, e
poi ricostruire nuove personalità su quella preziosa e sfuggente tabula rasa.
Quando Gail si imbatté in quell'articolo di giornale, non sapeva nulla di tutto questo. Aveva vagamente
sentito parlare, negli anni, di una storia che riguardava la Cia e la McGill, ma non aveva seguito la
vicenda: non aveva mai avuto a che fare con l'Allan Memorial Institute. Ma in quel momento, seduta lì
con Jacob, si concentrò su ciò che i pazienti dicevano delle loro vite: le amnesie, la regressione. Dice
Gail: "Mi resi conto che quelle persone dovevano aver passato quello che avevo passato io. Dissi:
"Jacob, dev'essere questa la ragione".
Nella bottega dello shock.
Gail Kastner scrisse all'Allan Memorial Institute per richiedere la sua cartella clinica. All'inizio le
dissero che non avevano carte su di lei, ma alla fine ottenne tutte e 138 le pagine che la riguardavano. Il
medico che l'aveva ricoverata si chiamava Ewen Cameron.
Le lettere, gli appunti e i diagrammi nella cartella clinica di Gail raccontano una storia straziante, che
parla di governi e medici che abusano del loro potere, ma anche delle scelte limitate offerte a una ragazza
diciottenne negli anni Cinquanta. La cartella inizia con la valutazione della paziente al momento del
ricovero: studia alla scuola per infermiere della McGill, scrive Cameron, eccelle negli studi, e si è
dimostrata "finora un individuo ragionevolmente equilibrato". Soffre però di ansia, provocata - scrive
semplicemente il medico - dal padre violento, un uomo "profondamente inquietante" che ha perpetrato
"ripetuti attacchi psicologici" contro la figlia.
Nei loro primi appunti, le infermiere mostrano simpatia per Gail: avevano in comune l'amore per la
professione infermieristica, e la descrivono come "allegra", "socievole" e "ordinata". Ma nei mesi che
passò sotto le loro cure, Gail subì una radicale trasformazione della personalità, meticolosamente
documentata nella sua cartella: dopo qualche settimana, "mostrava comportamenti infantili, esprimeva
idee bizzarre, apparentemente soffriva di allucinazioni e atteggiamenti distruttivi". Gli appunti riferiscono
che quella ragazza così intelligente adesso riusciva a contare solo fino a sei; in seguito è descritta come
"manipolatrice, ostile e molto aggressiva"; poi, passiva e indolente, incapace di riconoscere i familiari.
La diagnosi finale è "schizofrenia [...] con tratti marcati di isteria": molto più grave dell'"ansia" che
aveva mostrato all'arrivo.
La metamorfosi senza dubbio aveva a che fare con i trattamenti elencati nella cartella: alte dosi di
insulina, che avevano indotto coma ripetuti; strane combinazioni di stimolanti e tranquillanti; lunghi
periodi in cui era tenuta in un sonno chimicamente indotto; e una quantità di elettroshock otto volte
superiore alla dose standard dell'epoca.
Gli appunti delle infermiere documentano gli incessanti tentativi di Gail di sfuggire ai suoi medici:
"Cerca di trovare vie d'uscita [...] afferma di essere maltrattata [...] rifiuta la terapia
elettroconvulsionante (Tec) dopo l'iniezione". Queste lamentele erano sistematicamente usate come
pretesti per un'altra visita a quello che i colleghi più giovani di Cameron chiamavano la "bottega dello
shock".
Dopo aver riletto più volte la sua cartella clinica, Gail Kastner si trasformò in una sorta di archeologa
della sua stessa vita, impegnata a raccogliere e studiare ogni cosa che potesse aiutarla a capire cosa fosse
successo in quell'ospedale. Scoprì che Ewen Cameron, cittadino americano nato in Scozia, aveva
raggiunto i vertici della sua professione: era stato presidente dell'American Psychiatric Association,
della Canadian Psychiatric Association e della World Psychiatric Association. Nel 1945, era stato uno
dei tre psichiatri americani chiamati a dimostrare la sanità mentale di Rudolf Hess al processo di
Norimberga.'
Quando Gail iniziò la sua indagine, Cameron era morto da tempo, ma aveva lasciato dozzine di articoli
scientifici e conferenze. Erano stati pubblicati anche molti libri sui finanziamenti della Cia agli
esperimenti di controllo della mente: libri che contenevano molti dettagli sul rapporto di Cameron con
l'agenzia.
Nota: Tra di essi: Anne Collins, In the Sleep Room (vincitore del Governor General Award); John
Marks, The Search for the Manchurian Candidate; Alan Scheflin e Edward Option Jr., The Mind
Manipulators; Walter Bowart, Operation Mind Control; Gordon Thomas, Journey Into Madness; Harvey
Weinstein, A Father, a Son and the CIA, scritto da uno psichiatra figlio di un paziente di Cameron.
Gail li lesse tutti, sottolineando brani significativi, tracciando cronologie e facendo controlli incrociati
delle date, che riscontrava sulla sua cartella clinica. Quel che riuscì a capire fu che all'inizio degli anni
Cinquanta, Cameron aveva abbandonato l'approccio freudiano standard che usava la "terapia della
parola" per ricercare le "cause profonde" delle malattie mentali dei pazienti.
La sua ambizione non era quella di curare o "riparare" i suoi pazienti, ma di ricostruirli da capo, usando
un metodo che chiamava psychic driving, "ricondizionamento mentale".
Stando agli articoli da lui pubblicati all'epoca, era convinto che l'unico modo per insegnare ai pazienti
nuovi e salutari comportamenti fosse quello di penetrare nelle loro menti e "spezzare i vecchi pattern
psicologici". La prima fase era il de-patterning, "decondizionamento", il cui scopo era straordinario:
riportare la mente a uno stadio che Aristotele avrebbe definito come una tavoletta da scrittura su cui non è
ancora stato vergato nulla - una tabula rasa. Cameron credeva di poter raggiungere quello stadio
attaccando il cervello all'improvviso con ogni stimolo che potesse interferire con il suo funzionamento
normale. Era un'operazione Shock and Awe contro la mente.
Nei tardi anni Quaranta, l'elettroshock stava guadagnando popolarità presso gli psichiatri europei e
nordamericani. Provocava danni meno permanenti di quelli inflitti da una procedura chirurgica come la
lobotomia, e sembrava funzionare: i pazienti isterici spesso si tranquillizzavano, e in alcuni casi la
scarica elettrica sembrava rendere la mente più lucida. Ma erano solo osservazioni, e neppure i medici
che avevano sviluppato la tecnica erano in grado di fornire una spiegazione scientifica di come
funzionasse.
Erano però consapevoli degli effetti collaterali. Non c'era dubbio che la Tec potesse provocare amnesie;
era di gran lunga il disturbo più frequente tra quelli legati al trattamento. L'altro effetto indesiderato
ricorrente, strettamente legato alla perdita di memoria, era la regressione. In dozzine di studi clinici, i
medici notarono che immediatamente dopo il trattamento, i pazienti si succhiavano il pollice, si
raggomitolavano in posizione fetale, dovevano essere imboccati per mangiare e chiamavano a gran voce
le loro madri (spesso scambiando medici e infermiere per i propri genitori).
Questi comportamenti di solito erano di breve durata, ma in caso di somministrazioni particolarmente
tese e violente, i medici constatavano una regressione completa: il paziente non sapeva più camminare né
parlare. Marilyn Rice, un'economista che a metà degli anni Settanta guidò un movimento per i diritti dei
pazienti e contro la Tec, ,ha descritto in modo vivido come si è sentita quando i suoi ricordi e gran parte
di ciò che aveva appreso sono stati cancellati dall'elettroshock:
"Ora so cosa deve aver provato Eva, creata già adulta dalla costola di qualcun altro, senza un passato. Mi
sento vuota come Eva".
Nota: Ancora oggi, sebbene la Tee - una tecnica molto più raffinata e che comprende procedure volte a
garantire sicurezza e comfort ai pazienti - sia diventata un trattamento rispettabile e spesso efficace per la
psicosi, la perdita di memoria a breve termine resta un effetto collaterale. Alcuni pazienti riportano ancor
oggi danni alla memoria a lungo termine.
Per la Rice e altri, quel senso di vuoto rappresentava una perdita irreparabile. Cameron, d'altra parte,
guardava lo stesso vuoto e vedeva qualcos'altro: la tabula rasa, ripulita dalle cattive abitudini, su cui
nuovi schemi potevano essere incisi. Per lui, la "massiccia perdita di tutti i ricordi" provocata dalla Tec
intensiva non era uno spiacevole effetto collaterale, bensì lo scopo precipuo del trattamento, il mezzo per
riportare il paziente a uno stato
primitivo, "molto prima che comparissero pensieri e comportamenti schizofrenici". Come i falchi
guerrafondai che vogliono bombardare un Paese fino a farlo "tornare all'età della pietra", Cameron
vedeva la shockterapia come un mezzo per riportare all'infanzia i suoi pazienti, per farli regredire
completamente. In un articolo del 1962, egli descrive lo stato in cui voleva ridurre pazienti come Gail
Kastner: "Non c'è solo una perdita dell'immagine spaziotemporale, ma anche della sensazione che
quell'immagine dovrebbe essere presente. In questa fase il paziente può mostrare una varietà di altre
manifestazioni, come la perdita di una seconda lingua o della consapevolezza del proprio stato civile. In
forme più avanzate, può essere incapace di camminare senza supporto, di mangiare da solo, e può
presentare doppia incontinenza [...] Tutti gli aspetti della sua funzione mnemonica sono profondamente
turbati".
Per raggiungere questo stadio, Cameron usava un'apparecchiatura relativamente nuova, chiamata PageRussell, che somministrava fino a sei scariche consecutive anziché una sola. Deluso dal fatto che i
pazienti sembravano aggrapparsi a ciò che rimaneva della loro personalità, li disorientava ulteriormente
con eccitanti, tranquillanti e allucinogeni: clorpromazina, barbiturici, Amobarbital, ossido di diazoto,
Desoxyn, Seconal, Nembutal, Veronal, Melicone, Thorazine, Largactil e insulina.
Cameron scrisse in un articolo del 1956 che questi farmaci servivano a "disinibire [il paziente] così che
le sue difese possano essere ridotte".
Una volta ottenuto il "decondizionamento completo", e spazzata via la personalità preesistente, poteva
iniziare la fase di ricondizionamento. Consisteva nel far ascoltare al paziente la riproduzione di messaggi
registrati su cassetta: "Tu sei una buona madre e moglie e tutti apprezzano la tua compagnia". In quanto
comportamentista, credeva che se avesse potuto far assorbire ai pazienti i messaggi nella cassetta, essi
avrebbero iniziato a comportarsi diversamente. I pazienti, sotto shock e ridotti quasi allo stato vegetativo
da tutte le droghe, non potevano far altro che ascoltare i messaggi: dalle sedici alle venti ore al giorno,
per settimane; in un caso, Cameron trasmise lo stesso messaggio in continuazione per 101 giorni.
Nota: Se Cameron fosse stato un po' meno potente nel suo campo, di certo le sue audiocassette
"ricondizionanti" sarebbero state liquidate come una sciocchezza. L'idea gli venne da un'inserzione
ritagliata da un giornale, che pubblicizzava il Cerebrophone: un fonografo da comodino con casse a
forma di cuscino, reclamizzato come "un metodo rivoluzionario per imparare una lingua straniera nel
sonno".
A metà degli anni Cinquanta, diversi ricercatori della Cia si interessarono al lavoro di Cameron. Era
l'inizio dell'isteria della Guerra fredda, e l'agenzia aveva appena avviato un programma segreto dedicato
alla ricerca sulle "tecniche speciali di interrogatorio". Un memorandum della Cia, oggi desecretato,
spiega che il programma "esaminava e investigava numerose e inusuali tecniche di interrogatorio, tra cui
vessazioni psicologiche e questioni come "l'isolamento totale" e "l'uso di farmaci e sostanze chimiche".
Denominato in codice dapprima "Project Bluebird" (merlo azzurro), poi "Project Artichoke" (carciofo),
fu infine chiamato MKUltra nel 1953. Nei successivi dieci anni, l'MKUltra avrebbe speso 25 milioni di
dollari in ricerca per trovare nuovi modi di piegare la volontà dei prigionieri sospettati di essere
comunisti e doppiogiochisti. 80 istituzioni furono coinvolte nel programma, tra cui 44 università e 12
ospedali.
Le entità coinvolte avevano molte idee creative su come estorcere informazioni a persone che avrebbero
preferito non divulgarle; il problema era trovare modi per mettere alla prova quelle idee.
Nei primi anni del Project Bluebird e del Project Artichoke, le attività somigliavano a quelle di un film
di spionaggio tragicomico, per cui gli agenti della Cia si ipnotizzavano a vicenda e mettevano Lsd nei
bicchieri dei colleghi per vedere cosa succedeva (in almeno un caso, suicidio); per non parlare delle
torture inflitte alle presunte spie russe.
I test somigliavano più a drammatici scherzi da caserma che a seri esperimenti, e i risultati non fornirono
il genere di certezza scientifica che l'agenzia desiderava. Per questo avevano bisogno di molte cavie
umane. Si fecero molti tentativi, ma erano rischiosi: se si fosse venuto a sapere che la Cia stava
sperimentando farmaci pericolosi sul suolo americano, l'intero programma avrebbe rischiato la chiusura.
Ed è qui che nacque l'interesse della Cia per i ricercatori canadesi. I loro rapporti risalgono al primo
giugno 1951, quando vi fu un incontro trinazionale di agenzie di intelligence e docenti universitari
all'hotel Ritz-Carlton di Montreal. L'argomento dell'incontro era la crescente preoccupazione, nella
comunità di intelligence occidentale, che i comunisti avessero in qualche modo scoperto come "lavare il
cervello" ai prigionieri di guerra. Ne era prova il fatto che i soldati americani prigionieri in Corea si
mettevano davanti alle telecamere - in apparenza volontariamente
- per denunciare il capitalismo e l'imperialismo. Secondo i verbali desecretati del meeting al Eitz, i
presenti Omond Solandt, presidente del Defence Research Board canadese, sir Henry Tizard, presidente
del British Defence Research Policy Committee, oltre a due rappresentanti della Cia erano convinti che le potenze occidentali avessero urgente bisogno di scoprire come facessero i
comunisti a strappare simili impressionanti confessioni. Stabilito ciò, il primo passo consisteva nel
condurre "uno studio clinico di casi reali", per vedere come funzionasse il lavaggio del cervello. Lo
scopo di questa ricerca non era iniziare a usare il controllo della mente come arma offensiva: era quello
di preparare i soldati occidentali per le tecniche di coercizione che avrebbero potuto subire se fossero
stati presi prigionieri.
La Cia, naturalmente, aveva altri interessi. Eppure, anche negli incontri a porte chiuse come quello al
Ritz, sarebbe stato impossibile, a così breve distanza dalle rivelazioni sulle torture naziste che avevano
sollevato orrore in tutto il mondo, affermare che l'agenzia era interessata a sviluppare metodi alternativi
di interrogatorio.
Tra i partecipanti al meeting del Ritz c'era il dottor Donald Hebb, direttore dell'istituto di psicologia alla
McGiU University. Stando ai verbali desecretati, Hebb, nel tentativo di chiarire il mistero delle
confessioni dei soldati, ipotizzò che i comunisti manipolassero i prigionieri mettendoli in isolamento
spinto e bloccando gli input sensoriali. I capi dell'intelligence furono favorevolmente impressionati, e tre
mesi più tardi Hebb ottenne un fondo di ricerca dal dipartimento della Difesa canadese, per condurre una
serie di esperimenti segreti sulla deprivazione sensoriale. Per venti dollari al giorno Hebb convinse 63
studenti della McGill a farsi isolare in una stanza con una benda sugli occhi, cuffie che trasmettevano
rumore bianco e tubi di cartone che coprivano le braccia e le mani per interferire col senso del tatto. Per
giorni, gli studenti galleggiavano in un mare di nulla, occhi, orecchie e mani incapaci di aiutarli a
orientarsi, vivendo nelle loro sempre più vivide immaginazioni. Per appurare se questa deprivazione li
rendeva più malleabili al "lavaggio del cervello", Hebb iniziò a trasmettere registrazioni di voci che
parlavano dell'esistenza dei fantasmi o della disonestà della scienza: idee che gli studenti avevano detto
di ritenere discutibili prima che iniziasse l'esperimento.
In un rapporto confidenziale sulle scoperte di Hebb, il Defence Research Board affermava che la
deprivazione sensoriale causava
evidentemente un'estrema confusione, oltre ad allucinazioni tra gli studenti sottoposti al test; e che
"un significativo temporaneo abbassamento dell'efficienza intellettiva si è verificato durante e
immediatamente dopo il periodo di deprivazione percettiva". Inoltre, la fame di stimoli rendeva gli
studenti sorprendentemente ricettivi alle idee espresse nelle registrazioni audio; e, anzi, non pochi di loro
svilupparono un interesse per l'occulto che durò settimane dopo la fine dell'esperimento. Era come se la
confusione per la deprivazione sensoriale riuscisse a cancellare parzialmente le loro menti, e poi gli
stimoli ne riscrivessero gli schemi di attività.
Una copia dello studio principale di Hebb fu inviata alla Cia, quarantuno copie alla marina americana e
quarantadue all'esercito. La Cia inoltre monitorò direttamente le scoperte attraverso un ricercatore
allievo di Hebb, Maitland Baldwin, che, all'insaputa di Hebb, faceva rapporto all'agenzia. Non sorprende
che l'interesse fosse così vivo: Hebb stava dimostrando che l'isolamento intensivo interferiva con la
lucidità di pensiero e rendeva i soggetti più vulnerabili alla suggestione risorse inestimabili per chi conduce un interrogatorio. Alla fine, Hebb comprese che le sue ricerche
avevano un potenziale enorme: potevano essere usate non solo per evitare che i soldati catturati subissero
il lavaggio del cervello, ma anche come una specie di manuale per la tortura psicologica.
Nell'ultima intervista concessa prima della morte, nel 1985, Hebb disse: "Era chiaro, quando scrivemmo
il nostro rapporto al Defence Research Board, che stavamo descrivendo eccezionali tecniche di
interrogatorio".
Il rapporto di Hebb sottolinea che quattro soggetti "affermarono spontaneamente che entrare in quelle
stanze era una forma di tortura", il che voleva dire che costringerli a resistere oltre la loro soglia di
sopportazione - due o tre giorni - avrebbe inequivocabilmente violato l'etica medica.
Consapevole delle limitazioni che questo poneva all'esperimento, Hebb annotò nel rapporto che
"risultati più chiari" non erano disponibili poiché "non [era] possibile costringere i soggetti a trascorrere
dai 30 ai 60 giorni in condizioni di isolamento percettivo".
Impossibile per Hebb, era invece perfettamente fattibile per il suo collega alla McGiU nonché acerrimo
rivale accademico, il dottor Ewen Cameron (venendo meno alla consueta cortesia accademica, Hebb
avrebbe in seguito definito Cameron "di una stupidità criminale"). Cameron si era già persuaso che la
distruzione violenta delle menti dei suoi pazienti fosse l'inevitabile primo passo nel loro cammino verso
la sanità mentale, e dunque non fosse una violazione del giuramento di Ippocrate. Quanto al consenso, i
pazienti erano alla sua mercé; i moduli standard per il consenso garantivano a Cameron un potere
assoluto di cura, che comprendeva addirittura la lobotomia frontale completa.
Benché fosse in contatto con l'agenzia da anni, nel 1957 Cameron ottenne dalla Cia la prima sovvenzione,
riciclata attraverso un'organizzazione di facciata detta Society for the Investigation of Human Ecology. E
con l'arrivo dei soldi della Cia, l'Allan Memorial Institute iniziò a somigliare sempre meno a un ospedale
e sempre più a una macabra prigione.
Dapprima, furono aumentati sensibilmente i dosaggi di elettroshock. I due psichiatri che avevano
inventato la controversa apparecchiatura per l'elettroshock Page-Russell avevano raccomandato quattro
trattamenti per ciascun paziente, per un totale di ventiquattro shock individuali. Cameron iniziò a usare la
Page-Russell sui suoi pazienti due volte al giorno per trenta giorni: la terrificante cifra di 360 shock
individuali a ciascun paziente, molto più di quanto avessero ricevuto i primi pazienti, come Gail. Al già
vertiginoso assortimento di farmaci che dava ai suoi pazienti, Cameron aggiunse droghe più sperimentali,
psicotrope, che erano di particolare interesse per la Cia: l'Lsd e il Pcp.
Per fare terra bruciata delle menti arricchì il suo arsenale con altre armi: deprivazione sensoriale e
terapia del sonno, un duplice processo che, sosteneva Cameron, avrebbe ancor più "ridotto le difese
dell'individuo", rendendo il paziente ancor più ricettivo ai messaggi registrati sulle cassette. Quando
giunsero i dollari della Cia, Cameron usò il denaro della sovvenzione per convertire le stalle del vecchio
maneggio dietro l'ospedale in cabine d'isolamento. Rimise a nuovo il seminterrato, dotandolo di una
stanza che chiamava "camera di isolamento". Insonorizzò la stanza, vi diffuse rumore bianco, spense le
luci e fece indossare a tutti i suoi pazienti occhiali neri e "timpani di gomma", oltre ai tubi di cartone su
braccia e mani "per impedirgli di toccare il suo corpo interferendo così con la percezione di sé", come
scrisse Cameron in un articolo del 1956. Mentre gli studenti di Hebb si sottraevano a deprivazioni
sensoriali meno intense di queste dopo solo un paio di giorni, Cameron teneva lì i suoi pazienti per
settimane; una di loro restò intrappolata nella cabina d'isolamento per trentacinque giorni.
Cameron denutrì ulteriormente i sensi dei suoi pazienti nella cosiddetta stanza del sonno, in cui erano
tenuti in una trance chimicamente indotta per venti-ventidue ore al giorno, con le infermiere che li
giravano ogni due ore per prevenire le piaghe da decubito e li svegliavano solo per i pasti e per andare al
bagno. I pazienti erano tenuti in questo stato per un tempo variabile dai quindici ai trenta giorni, anche se
Cameron riferì che "ad alcuni pazienti sono stati somministrati fino a 65
giorni di sonno continuo". Il personale dell'ospedale non doveva permettere ai pazienti di parlare e non
forniva loro informazioni su quanto tempo sarebbero dovuti restare nella stanza. Per assicurarsi che
nessuno riuscisse a sfuggire a quest'incubo, Cameron diede a un gruppo di pazienti piccole dosi di curaro,
che induce paralisi, rendendoli letteralmente prigionieri del loro stesso corpo.
In un articolo del 1960, Cameron disse che esistono "due fattori principali" che ci consentono di
"mantenere un'immagine del tempo e dello spazio", che ci permettono, in altre parole, di sapere dove
siamo e chi siamo. Queste due forze sono: "(a) il nostro continuo input sensoriale, e (b) la nostra
memoria". Con l'elettroshock, Cameron annichiliva la memoria; con le sue cabine di isolamento,
annichiliva gli input sensoriali. Intendeva costringere i pazienti a perdere completamente il senso della
propria collocazione spaziotemporale. Quando si accorse che alcuni pazienti tenevano il conto dell'ora
del giorno basandosi sui pasti, Cameron ordinò ai cuochi di rimescolare il tutto, cambiando le ore dei
pasti e servendo zuppa per colazione e porridge per cena.
"Variando questi intervalli e cambiando il menu rispetto all'ora preventivata, siamo stati in grado di
spezzare questa strutturazione" raccontò Cameron con soddisfazione. Anche in questo modo, scoprì che
nonostante i suoi sforzi una paziente aveva mantenuto una connessione col mondo esterno prestando
attenzione al "rombo estremamente attutito" di un aereo che passava sopra l'ospedale ogni mattina alle
nove.
Per chiunque abbia familiarità con le testimonianze dei sopravvissuti alla tortura, questo dettaglio è
straziante. Quando si chiede ai prigionieri come abbiano fatto a sopravvivere a mesi o anni di isolamento
e brutalità, citano spesso le campane di una chiesa lontana, o il richiamo del muezzin alla moschea, o i
bambini che giocavano nel parco. Quando la vita è costretta entro le quattro mura della cella di una
prigione, il ritmo di questi suoni diventa un'ancora di salvezza, una prova che il prigioniero è ancora
umano, che esiste un mondo oltre la tortura. "Quattro volte ho sentito il cinguettio degli uccelli all'alba:
così seppi che erano passati quattro giorni" ha detto un sopravvissuto dell'ultima dittatura in Uruguay,
ricordando un episodio di tortura particolarmente brutale. La donna nel seminterrato dell'Allan Memorial
Institute, che si sforzava di udire il motore di un aereo in una nube di buio, droghe ed elettroshock, non
era una paziente in cura da un medico; era, da ogni punto di vista, una prigioniera sotto tortura.
Ci sono molti e sostanziosi indizi che Cameron fosse perfettamente consapevole che stava simulando
condizioni di tortura e che, in quanto fervente anticomunista, gli piacesse l'idea che i suoi pazienti
facessero parte di uno sforzo bellico nel quadro della Guerra fredda. In un'intervista a una rivista
popolare nel 1955, paragonò esplicitamente i suoi pazienti a prigionieri di guerra che affrontano
interrogatori, e disse che costoro, "come i prigionieri dei comunisti, tendevano a opporre resistenza [al
trattamento] e quindi si è reso necessario abbattere le loro difese". Un anno dopo, scrisse che lo scopo
del decondizionamento era "il concreto "sfinimento" delle difese", e osservò che "analogo a questo è il
crollo dell'individuo sotto interrogatori continui". Nel 1960 Cameron teneva ormai regolari conferenze
sulle sue ricerche nell'ambito della deprivazione sensoriale, non soltanto di fronte ad altri psichiatri ma
anche all'esercito. In un discorso tenuto in Texas alla base aerea di Brooks, non affermò di curare la
schizofrenia, e anzi ammise che la deprivazione sensoriale
"produce i sintomi primari della schizofrenia": allucinazioni, forte ansia, perdita di contatto con la realtà.
Negli appunti per la conferenza, accenna al fatto che la deprivazione sensoriale era seguita da un
"sovraccarico di stimoli": un riferimento al suo uso dell'elettroshock e ai nastri audio riprodotti
all'infinito, e un'anticipazione di tecniche di interrogatorio che sarebbero state usate in futuro."
Il lavoro di Cameron fu finanziato dalla Cia fino al 1961, e per molti anni non fu chiaro cosa facesse il
governo americano delle sue scoperte, posto che se ne facesse qualcosa. Nei tardi anni Settanta e negli
Ottanta, quando le prove delle sovvenzioni Cia finalmente uscirono allo scoperto nelle udienze al Senato
e poi nel rivoluzionario processo di azione collettiva intentato dai pazienti contro l'agenzia, giornalisti e
politici in gran parte accettarono la versione dei fatti offerta dalla Cia, ovvero che si stavano conducendo
ricerche sulle tecniche di lavaggio del cervello, per proteggere i soldati americani fatti prigionieri; la
maggior parte dell'attenzione si concentrò sul sensazionale dettaglio che il governo aveva finanziato gli
allucinogeni. In realtà, gran parte dello scandalo, quando finalmente scoppiò, fu che la Cia e Ewen
Cameron, nei loro esperimenti, avevano distrutto delle vite umane con leggerezza e senza un valido
motivo: le ricerche si erano rivelate completamente inutili. Tutti a quel punto sapevano che il lavaggio
del cervello era un mito della Guerra fredda. La Cia, da parte sua, fece di tutto per avallare questa
versione dei fatti, preferendo essere considerata un branco di buffoni incompetenti e rovinati dalla
fantascienza piuttosto che essere accusata di aver finanziato un laboratorio di torture presso una
rispettabile università.
Quando John Gittinger, lo psicologo della Cia che per primo aveva proposto di finanziare Cameron, fu
obbligato a testimoniare di fronte al Senato, definì gli aiuti a Cameron "uno stupido errore... Un errore
madornale". Quando i senatori chiesero a Sidney Gottlieb, ex direttore del progetto MKUltra, di spiegare
perché avesse ordinato la distruzione di tutti gli archivi del programma da 25 milioni di dollari, costui
rispose che "il progetto MKUltra non aveva condotto a risultati di un qualche valore per l'agenzia". Nelle
rivelazioni emerse sull'MKUltra negli anni Ottanta - sia le inchieste giornalistiche sia i libri - gli
esperimenti sono invariabilmente descritti come "controllo della mente" e "lavaggio del cervello". La
parola "tortura" non è usata quasi mai.
La scienza della paura.
Nel 1988, il "New York Times" condusse una rivoluzionaria inchiesta sul coinvolgimento degli Stati
Uniti nelle torture e negli omicidi compiuti in Honduras. Fiorendo Caballero, che aveva condotto gli
interrogatori nell'ambito del Battaglione 3-16, famigerato per la sua brutalità, raccontò al "Times"
che lui e ventiquattro suoi colleghi erano stati portati in Texas e addestrati dalla Cia. "Ci hanno insegnato
metodi psicologici, per studiare le paure e le debolezze di un prigioniero. Fallo stare in piedi, non
lasciarlo dormire, tienilo nudo e isolato, mettigli ratti e scarafaggi nella cella, dagli cibo cattivo, servigli
animali morti, gettagli addosso acqua fredda, cambia la temperatura." Ma c'era una tecnica che Caballero
ha omesso dal suo elenco: l'elettroshock. Inés Murillo, prigioniera ventiquattrenne che fu "interrogata" da
Caballero e dai suoi colleghi, raccontò al "Times" di aver subito così tante scariche elettriche che gridò e
cadde a terra. "Le urla ti escono fuori" aggiunse.
"Sentii puzza di fumo e mi resi conto che stavo bruciando per le ustioni provocate dall'elettricità.
Dissero che mi avrebbero torturata finché non fossi impazzita. Non gli credetti, Ma poi mi aprirono le
gambe e misero gli elettrodi sui genitali."'' La Murillo aggiunse che c'era qualcun altro nella stanza: un
americano che suggeriva le domande agli uomini che la interrogavano, e che gli altri chiamavano "Mister
Mike".'"
Le rivelazioni condussero a udienze del Comitato per l'intelligence del Senato, in cui il vicedirettore
della Cia, Richard Stolz, confermò che "Caballero aveva effettivamente frequentato un corso della Cia
sullo sfruttamento delle risorse umane o sulle procedure di interrogatorio". Il "Baltimore Sun" si appellò
al Freedom of Information Act per chiedere che i materiali usati per il corso frequentato da gente come
Caballero fossero resi pubblici. Per molti anni la Cia si rifiutò di fornirli; ma poi, sotto minaccia di un
processo, e nove anni dopo la pubblicazione dell'inchiesta, la Cia tirò fuori un manuale intitolato Kubark
Counterintelligence Interrogation. Era un nome in codice: "Kubark", secondo il "New York Times", è "un
criptonimo, KU è un dittico casuale e BARK è il nome in codice usato a quel tempo dall'agenzia per
riferirsi a se stessa". Il manuale segreto, di 128 pagine, verte sui metodi per "interrogare fonti reticenti",
ed è basato in larga parte sulle ricerche commissionate dall'MKUltra; e gli esperimenti del dottor Ewen
Cameron e di Donald Hebb hanno lasciato tracce molto vistose. I metodi spaziano dalla deprivazione
sensoriale alle posizioni di stress, dall'uso dei cappucci al dolore. (Il manuale ammette subito che molte
di queste tattiche sono illegali, e consiglia a chi conduce l'interrogatorio di richiedere "preventiva
approvazione del Quartier generale [...] in ciascuna delle seguenti circostanze: 1. Se dev'essere inflitto
dolore fisico; 2. Se verranno usati, per indurre acquiescenza, metodi o materiali medici, chimici o
elettrici".
Il manuale è datato 1963, l'ultimo anno del programma MKCUltra e due anni dopo la fine degli
esperimenti di Cameron finanziati dalla Cia. Il manuale afferma che se le tecniche descritte nelle sue
pagine sono usate in modo appropriato, riusciranno a "distruggere la capacità di resistenza" di una fonte
non collaborativa. Si scopre che era questo il vero scopo dell'MKUltra: non studiare il lavaggio del
cervello (quello era un progetto collaterale), bensì sviluppare un sistema scientificamente fondato per
estorcere informazioni da "fonti refrattarie". In altre parole: tortura.
Il manuale afferma sin dalla prima pagina che descriverà i metodi di interrogatorio basati su
"approfondite ricerche, tra cui esperimenti scientifici condotti da specialisti su argomenti strettamente
connessi". Rappresenta una nuova era della tortura moderna, raffinata e metodica: ben lontana dalla
tortura imprecisa e cruenta che aveva rappresentato lo standard sin dai tempi dell'Inquisizione spagnola.
In una sorta di prefazione si legge: "Un servizio di intelligence in grado di affrontare i suoi problemi
avvalendosi di conoscenze moderne e pertinenti può godere di grandi vantaggi nei confronti di un
servizio che invece conduce i suoi affari in clandestinità come nel diciottesimo secolo [...] Non è più
possibile trattare adeguatamente il tema degli interrogatori senza riferirsi alla ricerca psicologica
condotta negli ultimi dieci anni". Le pagine successive contenevano un manuale pratico per fare a pezzi le
personalità.
Il manuale contiene una corposa sezione sulla deprivazione sensoriale che si riferisce a "svariati
esperimenti svolti alla McGiU University". Spiega come costruire camere di isolamento e sottolinea che
"la deprivazione di stimoli induce regressione sottraendo alla mente del soggetto ogni contatto con il
mondo esterno e dunque forzandola a ripiegarsi su se stessa. Allo stesso tempo, la fornitura calcolata di
stimoli durante l'interrogatorio tende a far sì che il soggetto regredito veda in chi lo interroga una figura
paterna". La richiesta basata sul Freedom of Information Act produsse anche una versione aggiornata del
manuale, pubblicata nel 1983 e destinata all'uso in America Latina. "La finestra dovrà essere posta in alto
sul muro con la possibilità di impedire l'ingresso della luce" dice il manuale.
Nota: La versione del 1983 è praticamente identica ma è adattata all'uso didattico, comprende cioè
domande per il ripasso e amichevoli promemoria ("Ricordate sempre di inserire batterie nuove prima di
ogni sessione").
Era precisamente questo che Hebb temeva: che i suoi esperimenti di deprivazione sensoriale fossero
usati come "efficaci tecniche di interrogatorio". Ma è il lavoro di Cameron, e la sua ricetta per alterare
"l'immagine spaziotemporale", che forma il nucleo centrale del manuale Kubark. Il manuale descrive
varie tecniche elaborate per decondizionare i pazienti nel seminterrato dell'Allan Memorial Institute: "Il
principio è che le sessioni dovrebbero essere pianificate in modo da stravolgere il senso di ordine
cronologico della fonte non collaborativa [...] Alcuni soggetti possono essere fatti regredire attraverso
una ripetuta manipolazione del tempo, mandando avanti e indietro gli orologi e servendo i pasti a orari
inusuali: dieci minuti o dieci ore dopo il pasto precedente. Giorno e notte si confondono".''
Ciò che più catturò l'immaginazione degli autori del Kubark, più ancora di ciascuna singola tecnica, fu il
fatto che Cameron si era concentrato sulla regressione: l'idea che, se un adulto viene privato della
consapevolezza di chi è e di dove si trova nello spazio e nel tempo, può essere trasformato in un bambino
non autosufficiente, la cui mente è una tabula rasa suggestionabile. Gli autori insistono ripetutamente su
questo punto: "Tutte le tecniche usate per infrangere le resistenze della persona interrogata - dal semplice
isolamento all'ipnosi e all'uso di narcotici, sono essenzialmente modi di accelerare il processo di
regressione. Il soggetto interrogato regredisce dalla maturità verso uno stadio più infantile, i suoi tratti di
personalità acquisiti o strutturati vengono a cadere". È a quel punto che il prigioniero entra nello stato di
"shock psicologico" o "animazione sospesa" cui si accennava prima: il momento migliore per il
torturatore, il momento in cui "la fonte è molto più aperta alle suggestioni, molto più portata a
collaborare".
Alfred W. McCoy, uno storico dell'Università del Wisconsin che ha documentato l'evoluzione delle
tecniche di tortura a partire dai tempi dell'Inquisizione nel suo libro Question of Torture: CIA
Interrogation from the Cold War to the War on Terror (Questione di tortura: gli interrogatori della Cia
dalla Guerra fredda alla Guerra al Terrore), descrive la formula del manuale Kubark deprivazione seguita da iperstimolazione sensoriale - come "la prima vera rivoluzione nella crudele
scienza del dolore dopo più di tre secoli". E secondo McCoy, questo non sarebbe potuto accadere senza
gli esperimenti svolti alla McGill negli anni Cinquanta. "Spogliati dei loro bizzarri eccessi, gli
esperimenti del dottor Cameron, basati sulle precedenti innovazioni del dottor Hebb, posero le basi
scientifiche per il metodo di tortura psicologica in due fasi elaborato dalla Cia."
Ovunque il Kubark è stato usato nell'insegnamento, sono emersi certi tratti comuni, tutti intesi a indurre,
approfondire e prolungare lo shock: i prigionieri sono catturati nel modo più traumatizzante e
disorientante possibile, in raid notturni oppure all'alba, come istruisce il manuale. Sono immediatamente
incappucciati o bendati, spogliati e picchiati, poi sottoposti a qualche forma di deprivazione sensoriale.
E dal Guatemala all'Honduras, dal Vietnam all'Iran, dalle Filippine al Cile, l'elettroshock è usato
ovunque.
Com'è ovvio, tutto questo non dipende unicamente dall'influenza di Cameron o del MKUltra. La tortura è
sempre improvvisazione,
una combinazione di tecniche apprese e dell'istinto umano per la brutalità che si scatena ovunque regni
l'impunità. E a metà degli anni Cinquanta, l'elettroshock era ormai usato come tecnica di tortura in modo
sistematico dai francesi in Algeria contro il movimento di liberazione nazionale, spesso con l'aiuto di
psichiatri. In questo periodo, i leader militari francesi conducevano seminari presso una scuola di
"contro-insurrezione" dell'esercito americano a Fort Bragg, nel North Carolina, in cui insegnavano agli
studenti le tecniche affinate in Algeria. È anche evidente, tuttavia, che il particolare uso dell'elettroshock
fatto da Cameron - dosi massicce che non solo infliggevano dolore fisico, ma servivano a cancellare
personalità strutturate - fece un'impressione positiva sulla Cia. Nel 1966, la Cia inviò tre psichiatri a
Saigon, armati di una macchina Page-Russell, lo stesso genere di apparecchio per l'elettroshock usato da
Cameron; fu usato per uccidere diversi prigionieri. Secondo McCoy: "Di fatto, stavano testando sul
campo la capacità delle tecniche di "decondizionamento" di Cameron di alterare il comportamento
umano".
Per i funzionari dell'intelligence statunitense, questo tipo di approccio pragmatico era una cosa rara.
A partire dagli anni Settanta, il ruolo preferito dagli agenti Usa era stato quello di mentore o istruttore,
non di interrogatore diretto. Le testimonianze sulle torture in Centro America negli anni Settanta e Ottanta
sono piene di riferimenti a misteriosi individui di madrelingua inglese che entravano e uscivano dalle
celle, suggerendo domande, offrendo consigli. Dianna Ortiz, una suora americana che fu rapita e torturata
in una prigione guatemalteca nel 1989, ha testimoniato che gli uomini che l'hanno stuprata e bruciata con
sigarette per più di cento volte facevano rapporto a un uomo che parlava spagnolo con un forte accento
americano, e che loro chiamavano "il capo".
Jennifer Harbury, il cui marito fu torturato e ucciso da un funzionario guatemalteco al soldo della Cia, ha
documentato molti di questi casi nel suo importante libro Truth, Torture and the American Way (Verità,
tortura e lo stile americano).
Benché autorizzato da successive amministrazioni a Washington, il ruolo degli Stati Uniti in queste guerre
sporche doveva essere tenuto segreto, per ovvi motivi. La tortura, fisica o psicologica che sia, viola
chiaramente il divieto assoluto imposto dalla Convenzione di Ginevra su "qualsiasi forma di tortura o
crudeltà", oltre al Codice di giustizia militare dello stesso esercito americano, che vieta la "crudeltà" e
l'oppressione" dei prigionieri. Il manuale Kubark avvisa il lettore a pagina 2 che le tecniche ivi
esposte comportano "il serio rischio di procedimenti penali", e la versione del 1983 è ancora più
esplicita: "L'uso della forza, della tortura mentale, delle minacce, degli insulti, o dell'esposizione a
trattamenti spiacevoli e inumani di qualsiasi genere come ausilio all'interrogatorio è proibito dalla legge,
sia internazionale sia americana". In parole semplici, ciò che stavano insegnando era illegale,
intrinsecamente segreto. Se qualcuno avesse fatto domande, gli agenti Usa istruivano i loro studenti
provenienti dai Paesi in via di sviluppo con i metodi moderni e professionali della polizia: non potevano
essere ritenuti responsabili degli "eccessi" che potevano verificarsi fuori dalle loro classi.
Questa insistenza sulla "smentibilità plausibile" (la possibilità per un governo di smentire il proprio
coinvolgimento in operazioni top secret) fu abbandonata l'11 settembre 2001. L'attacco terroristico alle
Torri Gemelle e al Pentagono fu un tipo di shock diverso da quello immaginato nelle pagine del manuale
Kubark, ma gli effetti furono sorprendentemente simili: profondo disorientamento, estrema paura e ansia,
regressione collettiva. Come l'interrogatore che, seguendo il Kubark, si poneva come una "figura
paterna", l'amministrazione Bush usò prontamente quella paura per interpretare il ruolo del genitore
protettivo, pronto a prendere le difese della "patria" e del suo vulnerabile popolo con ogni mezzo
necessario. Il mutamento nella politica americana, esemplificato dalla celebre frase del vicepresidente
Dick Cheney sulla necessità di "agire nel lato oscuro", non significò per l'amministrazione Bush
l'adozione di tattiche che sarebbero apparse ripugnanti ai suoi predecessori più umani (come fin troppi
democratici hanno sostenuto, invocando quello che lo storico Garry Wills chiama il mito tipicamente
americano della "originale assenza di peccato"). Piuttosto, la vera svolta fu che ciò che prima era
compiuto per interposta persona, a distanza sufficiente per poter poi negare di esserne a conoscenza, ora
sarebbe stato fatto direttamente, e sarebbe stato apertamente difeso.
Nonostante si sia parlato molto di tortura "esternalizzata", cioè appaltata a terzi, la vera innovazione
dell'amministrazione Bush è stata appunto l'internalizzazione: i prigionieri sono torturati da cittadini
americani in carceri gestite dagli americani, e trasportati direttamente in Paesi terzi con aerei statunitensi
attraverso la tecnica delle "consegne straordinarie" (extraordinary renditions). È questo che differenzia il
regime di Bush: dopo gli attacchi dell'11 settembre, esso ha osato rivendicare il diritto di torturare senza
vergogna. Questo ha reso l'amministrazione passibile di azione penale: un problema che essa ha
affrontato subito, modificando opportunamente le leggi. La catena di eventi è ben nota: l'allora segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld, autorizzato da George W.
Bush, decretò che i prigionieri catturati in Afghanistan non erano protetti dalle Convenzioni di Ginevra
poiché erano "combattenti nemici", non prigionieri di guerra; un'interpretazione confermata dall'allora
consigliere legale della Casa Bianca, Alberto Gonzales (successivamente eletto Procuratore generale). A
questo punto, Rumsfeld approvò una serie di pratiche speciali di interrogatorio da usarsi nella Guerra al
Terrore. Tra di esse c'erano i metodi illustrati nei manuali della Cia: "uso di strutture di isolamento per
un massimo di trenta giorni", "privazione della luce e degli stimoli uditivi", "il detenuto potrà essere
incappucciato durante il trasporto e gli interrogatori",
"rimozione degli abiti" e "uso delle fobie individuali dei detenuti (come la paura dei cani) per indurre
stress". Secondo la Casa Bianca, la tortura era ancora bandita; ma ora, per qualificarsi come tortura, il
dolore inflitto doveva "essere equivalente in intensità al dolore che accompagna un trauma fisico grave,
come l'arresto di un organo". Stando alle nuove regole, il governo americano era libero di usare i metodi
che aveva sviluppato in tutta segretezza negli anni Cinquanta, solo che ora poteva farlo alla luce del sole.
Così, nel febbraio del 2006 l'Intelligence Sciences Board, l'organo consultivo della Cia, pubblicò un
rapporto scritto da un veterano interrogatore del dipartimento di Difesa in cui sosteneva apertamente che
"un'attenta lettura del manuale Kubark è essenziale per chiunque sia alle prese con un interrogatorio".
Messa sotto pressione dal Congresso e dal Senato, oltre che dalla Corte Suprema, l'amministrazione Bush
è stata costretta a rivedere la propria posizione in senso leggermente più moderato, quando il Congresso
ha approvato il Military Commissions Act nel 2006. Ma benché l'amministrazione abbia usato la nuova
legge per sostenere di aver rinunciato completamente all'uso della tortura, ha lasciato grossi buchi che
consentono agli agenti e agli appaltatori della Cia di continuare a usare i metodi del Kubark come la
deprivazione sensoriale e l'iperstimolazione, e altre
"tecniche creative" tra cui la simulazione di annegamento (water-boarding). Prima di firmare la legge,
Bush vi ha allegato un signing statement (una clausola limitativa) con cui rivendica il proprio diritto "a
interpretare il senso e l'applicazione delle Convenzioni di Ginevra" come più ritiene opportuno. Il "New
York Times" ha parlato di "riscrittura unilaterale di oltre duecento anni di tradizione e legge".
Una delle prime persone che si sono trovate faccia a faccia con il nuovo stato di cose è José Padilla,
cittadino americano ed ex membro di una gang. Arrestato nel maggio 2002 all'aeroporto O'Hare di
Chicago, fu accusato di voler costruire una "bomba sporca". Anziché essere accusato e trascinato in un
processo, Padilla fu dichiarato combattente nemico, il che lo privò di ogni diritto. Portato in un carcere
della marina a Charleston, South Carolina, Padilla racconta che gli fu iniettata una droga, forse Lsd o
Pcp, e che fu sottoposto a deprivazione sensoriale intensiva: lo tenevano in una cella minuscola con le
finestre oscurate, e gli erano proibiti orologi e calendari. Ogni volta che usciva dalla cella era
ammanettato, gli venivano bendati gli occhi e doveva indossare pesanti cuffie che filtravano ogni suono.
Padilla restò in queste condizioni per 1307 giorni, senza poter parlare con nessuno fatta eccezione delle
persone che, mentre gli ponevano le domande, inondavano i suoi sensi denutriti con luci e forti rumori.
(tm)
Padilla ottenne un'udienza nel dicembre 2006, anche se le accuse riguardo la bomba sporca, per le quali
era stato arrestato, erano cadute. Fu accusato di avere contatti con i terroristi, ma c'era poco che potesse
fare per difendersi: secondo la testimonianza degli esperti le tecniche cameroniane di regressione erano
pienamente riuscite nell'intento di distruggere l'adulto che Padilla era stato un tempo - il che era
precisamente il motivo per il quale quelle tecniche erano state ideate. "Le ripetute torture inflitte al signor
Padilla gli hanno provocato danni sia mentali sia fisici" disse il suo avvocato alla corte. "Il trattamento
riservato dal governo al signor Padilla gli ha strappato la sua personalità." Uno psichiatra che lo valutò
concluse che "non è in grado di partecipare alla propria difesa". Il giudice nominato da Bush decretò che
Padilla era perfettamente in condizioni di sostenere il processo. Il fatto che abbia avuto addirittura un
processo pubblico rende il caso di Padilla straordinario. Migliaia di altri prigionieri trattenuti nelle
prigioni gestite dagli Stati Uniti, che a differenza di Padilla non erano americani, sono stati sottoposti a un
regime di tortura simile senza che i loro torturatori dovessero rispondere pubblicamente delle proprie
azioni in sede processuale.
A Guantanamo molti prigionieri si consumano lentamente. Mamdouh Habib, un australiano che è stato
detenuto lì, ha dichiarato che "Guantanamo è un esperimento [...] e gli esperimenti che fanno riguardano il
lavaggio del cervello". In effetti, nelle testimonianze, nei rapporti e nelle fotografie che sono uscite da
Guantanamo, si direbbe che l'Allan Memorial Institute degli anni Cinquanta sia stato trasportato a Cuba.
Fin dal loro arrivo i prigionieri sono sottoposti a deprivazione sensoriale intensiva, con cappucci, occhi
bendati e cuffie isolanti. Restano per mesi in celle d'isolamento, da cui li fanno uscire solo per
bombardare i loro sensi con cani che abbaiano, luci stroboscopiche e ripetizioni in loop di pianto di
neonati, musica a tutto volume e gatti che miagolano.
Per molti prigionieri, gli effetti di queste tecniche sono stati identici a quelli subiti dai pazienti dell'Allan
Memorial Institute: regressione totale. Un prigioniero rilasciato, cittadino britannico, disse ai suoi
avvocati che ora c'è un intero settore della prigione, il Delta Block, riservato ad
"almeno cinquanta" detenuti che versano in uno stato allucinatorio perenne. Una lettera desecretata,
inviata dall'Fbi al Pentagono, parla di un prigioniero importante sottoposto "a isolamento intensivo per
oltre tre mesi", il quale "mostrava un comportamento caratteristico dei traumi psicologici estremi
(parlare a persone immaginarie, riferire di udire voci, accovacciarsi nella cella coperto da un lenzuolo
per ore)". James Yee, ex cappellano musulmano dell'esercito Usa, che lavorava a Guantanamo, ha
sostenuto che i prigionieri del Delta Block presentano i sintomi classici della regressione estrema. "Mi
fermavo a parlare con loro, e loro rispondevano con una voce infantile, dicendo cose senza senso. Molti
di loro ripetevano a squarciagola cantilene puerili, in continuazione. Alcuni stavano in piedi sulle reti
d'acciaio delle brande e si comportavano come bambini; mi ricordavano il gioco del Re della Montagna
che facevo con i miei fratelli quando eravamo piccoli." La situazione peggiorò drasticamente nel gennaio
2007, quando 165 prigionieri furono spostati in una nuova ala della prigione, nota come Camp Six
(campo sei), dove le celle d'isolamento in acciaio impedivano qualsiasi contatto umano. Sabin Willett, un
avvocato che rappresenta diversi prigionieri di Guantanamo, avvertì che se la situazione non fosse
mutata, "vi ritroverete in un manicomio".
I gruppi di attivisti per i diritti umani fanno rilevare che Guantanamo, per quanto atroce, è in realtà la
migliore delle operazioni di interrogatorio condotte all'estero dagli Stati Uniti, perché è in parte
monitorata dalla Croce Rossa e dagli avvocati. Un numero imprecisato di prigionieri è scomparso
all'interno della rete dei cosiddetti "siti neri" (black sites) in giro per il mondo, così come in prigioni
gestite da terzi, dove sono stati spediti dagli agenti Usa attraverso "consegna straordinaria". I prigionieri
che sono sopravvissuti a questi incubi testimoniano di aver affrontato l'arsenale delle tattiche di shock
ispirate a Cameron.
L'imam di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr (noto come Abu Omar) fu rapito per strada a Milano da
un gruppo di agenti della Cia e dei servizi segreti italiani. "Non capivo nulla di ciò che stava
succedendo" scrisse poi. "Cominciarono a tirarmi pugni allo stomaco e dappertutto. Mi avvolsero
completamente la testa e la faccia con nastro adesivo, ritagliando aperture per il naso e la bocca perché
potessi respirare." Lo trasferirono in Egitto, dove restò in una cella buia, in cui
"scarafaggi e ratti mi camminavano addosso", per quattordici mesi. Nasr rimase in prigione in Egitto fino
al febbraio 2007, ma riuscì a far uscire una lettera di undici pagine con il resoconto degli abusi subiti.
Scrive di aver subito ripetute torture tramite elettroshock. Secondo il resoconto del "Washington Post", fu
"legato a una rastrelliera di ferro soprannominata "la sposa" e colpito con laser elettrici"
oltre a essere "legato a un materasso bagnato sul pavimento. Mentre uno degli uomini che lo
interrogavano sedeva su una sedia di legno appoggiata sulle spalle del prigioniero, un altro azionava un
interruttore, riversando scariche di elettricità nelle molle del materasso". L'elettroshock gli fu applicato
anche ai testicoli, secondo Amnesty International.
Nota: c'è ragione di credere che l'utilizzo dell'elettroshock a fini di tortura sui prigionieri catturati dagli
americani non sia isolato, una circostanza trascurata in quasi tutte le discussioni volte a stabilire se gli
Stati Uniti stanno davvero praticando la tortura oppure soltanto "interrogatori creativi".
Jumah al-Dossari, un prigioniero di Guantanamo che ha tentato il suicidio più di una dozzina di volte, ha
testimoniato per iscritto al suo avvocato che mentre era sotto custodia Usa a Kandahar,
"l'investigatore portò un piccolo apparecchio, simile a un telefono cellulare, che però serviva per
l'elettroshock. Cominciò a darmi scosse elettriche sul viso, sulla schiena, sugli arti e sui genitali". E
Murat Kurnaz, originario della Germania, subì un trattamento simile in una prigione statunitense a
Kandahar. "Erano gli inizi, quindi non c'erano regole. Avevano il diritto di fare qualunque cosa. Ci
picchiavano ogni volta. Usavano l'elettroshock. Mi hanno infilato la testa sott'acqua.""
Ricostruzione mancata.
Verso la fine del nostro primo incontro, chiesi a Gail Kastner di parlarmi ancora dei suoi "sogni
elettrici". Mi disse che sognava spesso file di pazienti che entravano e uscivano da un sonno indotto da
droghe. "Li sento gridare, lamentarsi, mugolare, gente che dice no, no, no. Ricordo com'era svegliarsi in
quella stanza, ero sudata, avevo la nausea, vomitavo - e avevo una stranissima sensazione alla testa.
Come se invece di una testa avessi una massa informe." Nel descrivere questa esperienza, Gail sembrò
improvvisamente distante, abbandonata nella sua poltrona blu, il respiro che diventava un rantolo.
Abbassò le palpebre, e al di sotto vidi i suoi occhi muoversi rapidamente.
Portò una mano alla tempia destra e disse, con una voce che suonava roca e alterata dalla droga:
"Sto avendo un flashback. Deve distrarmi. Mi parli dell'Iraq: mi racconti quant'era orribile".
Mi concentrai per ricordare un racconto di guerra che fosse adatto a questa strana circostanza, e mi venne
in mente qualcosa di relativamente innocuo a proposito della vita nella Zona Verde. Il volto di Gail si
rilassò lentamente, e i respiri si fecero più profondi. I suoi occhi azzurri misero di nuovo a fuoco i miei.
"Grazie" disse. "Ho avuto un flashback."
"Lo so."
"Come lo sa?"
"Perché me l'ha detto lei."
Si chinò su un pezzetto di carta e scrisse qualcosa.
Dopo aver lasciato Gail quella sera, continuai a pensare a ciò che non avevo detto quando mi aveva
chiesto di parlarle dell'Iraq. Quel che avrei voluto dirle ma non c'ero riuscita è che lei mi ricorda l'Iraq;
che non riesco a non pensare che ciò che è successo a lei, una persona distrutta, e ciò che è accaduto
all'Iraq, un Paese distrutto, siano due manifestazioni diverse ma connesse della stessa, terrificante logica.
Le teorie di Cameron si basavano sull'idea che far regredire i suoi pazienti a uno stato caotico mediante
l'elettroshock avrebbe creato le precondizioni per far rinascere cittadini modello, cittadini sani. Questa
riflessione non è di grande conforto per Gail, con la sua colonna vertebrale fratturata e i ricordi distrutti,
ma Cameron, nei suoi scritti, considerava i suoi atti di distruzione come atti di creazione, un dono per i
suoi fortunati pazienti che, grazie alla sua instancabile opera di ricondizionamento, sarebbero rinati.
Su questo fronte Cameron ha fallito miseramente. Per quanto profonda fosse la loro regressione, i pazienti
non assorbivano, non accettavano mai i messaggi ripetuti all'infinito sui suoi nastri. Pur essendo un genio
nella distruzione delle persone, non era capace di ricrearle. Uno studio successivo, condotto quando
Cameron aveva già lasciato l'Allan Memorial Institute, rilevò che il 75 per cento dei suoi ex pazienti
stavano peggio rispetto a prima di essere ricoverati. Dei pazienti che prima del ricovero avevano un
impiego a tempo pieno, oltre la metà non era più in grado di svolgerlo; e molti, come Gail, soffrivano di
tutta una serie di nuovi malanni fisici e psicologici. Il ricondizionamento psichico non funzionava,
neanche un po', e l'Allan Memorial Institute finì per mettere al bando la pratica.
Il problema, ovvio con il senno di poi, era la premessa di fondo su cui poggiava la sua teoria: l'idea che,
perché possa esservi guarigione, tutto ciò che c'era prima debba essere cancellato, svuotato.
Cameron era sicuro che se avesse spazzato via le abitudini, gli schemi mentali e la memoria dei suoi
pazienti, sarebbe infine giunto in quel luogo immacolato. Ma per quanto continuasse ostinatamente a
scioccare, drogare e disorientare, non ci arrivava mai. Si rivelò vero l'opposto: più duramente colpiva,
più i suoi pazienti cadevano a pezzi. Le loro menti non erano "ripulite", piuttosto erano nel caos: la
memoria spezzata, la fiducia tradita.
I fautori del capitalismo dei disastri condividono con lui questa incapacità di distinguere tra la
distruzione e la creazione, tra infliggere dolore e curare. È una sensazione che ho provato spesso quando
ero in Iraq, intenta a scandagliare nervosamente il panorama ferito in cerca della prossima esplosione.
Coloro i quali credono fermamente nel potere redentore dello shock, gli architetti dell'invasione
angloamericana, pensavano che il loro uso della forza sarebbe stato così travolgente, così impetuoso, che
gli iracheni sarebbero caduti in una sorta di animazione sospesa, non diversa da quella descritta nel
manuale Kubark. In quella finestra di opportunità, gli invasori dell'Iraq avrebbero fatto passare un'altra
serie di shock - stavolta economici - che avrebbero imposto una democrazia liberista ideale sulla tabula
rasa dell'Iraq del dopo-invasione.
Ma non c'era nessuna tabula rasa, solo macerie e un popolo arrabbiato e distrutto: un popolo che, quando
ha opposto resistenza, è stato colpito con altri shock, alcuni dei quali basati proprio sugli esperimenti
subiti da Gail Kastner tanti anni fa. "Siamo molto bravi a rompere le cose. Ma il giorno in cui potrò
passare più tempo a ricostruire questo posto, anziché combattere, quello sarà un gran bel giorno" ha
osservato il generale Peter W. Chiarelli, comandante della Prima divisione di cavalleria dell'esercito
americano, un anno e mezzo dopo la fine ufficiale della guerra. Quel giorno non arrivò mai. Come
Cameron, i dottor Shock dell'Iraq sono capaci di distruggere ma non di ricostruire.
2
L'altro dottor Shock.
Milton Friedman e la ricerca di un laboratorio laissez-faire.
I tecnocrati dell'economia possono essere capaci di strutturare una riforma fiscale qua, una nuova
legge sulla sicurezza sociale là, o un regime modificato di tassi di scambio da un'altra parte; ma non
hanno mai veramente il lusso di una tabula rasa su cui installare nella sua totalità, in piena fioritura
per dir così, la loro struttura preferita di politiche economiche.
Prof. Arnold Harberger, docente di economia all'Università di Chicago, 1998.
Pochi ambienti accademici sono circondati da un alone mitologico pari a quello del dipartimento di
Economia dell'Università di Chicago negli anni Cinquanta: un luogo profondamente consapevole di
essere non soltanto una scuola, ma una Scuola di Pensiero. Non si trattava soltanto di formare gli studenti;
bisognava costruire e rafforzare la Scuola di economia di Chicago, l'invenzione di una cricca di
accademici conservatori le cui idee rappresentavano un bastione rivoluzionario contro il pensiero
dominante dell'epoca, quello "statalista". Varcare la soglia del Social Science Building, su cui campeggia
la scritta "La scienza è misura", ed entrare nella leggendaria sala mensa, dove gli studenti mettevano alla
prova il loro ardore intellettuale osando sfidare i loro titanici professori, non significava perseguire un
obiettivo prosaico, come una laurea. Significava andare in guerra. Nelle parole di Gary Becker,
economista conservatore e premio Nobel: "Eravamo guerrieri in battaglia contro la maggior parte dei
nostri colleghi".
Come il dipartimento psichiatrico di Ewen Cameron alla
McGill negli anni Cinquanta, il dipartimento di Economia dell'università di Chicago era alla mercé di un
uomo ambizioso e carismatico, fermamente deciso a rivoluzionare dalle fondamenta la sua professione.
Quell'uomo era Milton Friedman. Anche se c'erano molti mentori e colleghi all'Università di Chicago che
credevano quanto lui nel laissez-faire estremo, fu l'energia di Friedman a dare alla scuola il suo fervore
rivoluzionario, Becker lo ricorda così: "La gente mi chiedeva sempre: "Perché sei così emozionato? Hai
un appuntamento con una bella donna?". E io rispondevo: "No, vado a lezione di economia!". Essere
allievo di Milton era davvero una cosa magica".
La missione di Friedman, come quella di Cameron, si basava sul sogno di ritornare a uno stato di salute
"naturale", uno stato in cui tutto fosse in perfetto equilibrio, anteriore alle distorsioni introdotte dalle
interferenze umane. Ma mentre Cameron sognava di ricondurre la mente umana a quello stato di vuoto,
Friedman sognava di decondizionare intere società, di riportarle a uno stato di capitalismo puro, ripulito
da tutti gli agenti di distorsione - disposizioni governative, barriere commerciali e intrecci di interessi.
Inoltre, come Cameron, anche Friedman credeva che, quando un'economia è profondamente distorta,
l'unico modo per tornare allo stato edenico, di pre-caduta, fosse quello di infliggere deliberatamente
degli shock dolorosi: soltanto una "medicina amara"
avrebbe consentito di disfarsi di quelle distorsioni e di quegli schemi errati. Cameron aveva usato
l'elettricità per infliggere i suoi shock; Friedman scelse lo strumento della linea politica: l'approccio
"shockterapeutico" che consigliava con forza ai politici intraprendenti nei Paesi in difficoltà. Ma a
differenza di Cameron, che aveva potuto mettere subito alla prova le sue teorie su pazienti inconsapevoli,
Friedman avrebbe dovuto attendere vent'annie molti colpi di scena e peripezie storiche - prima di avere
anche lui l'occasione di mettere in pratica nel mondo reale i suoi sogni radicali di cancellazione e
rifacimento.
Frank Knight, uno dei fondatori della Scuola di Chicago, riteneva che i professori dovessero
"inculcare" nei loro studenti l'idea che la teoria economica fosse "un elemento sacro del sistema", non
un'ipotesi aperta al dibattito.'' Il nucleo della sacra dottrina di Chicago era che le forze economiche di
offerta, domanda, inflazione e disoccupazione erano analoghe alle forze naturali: fisse e immutabili. Nel
mercato autenticamente libero che si immaginava nelle aule e nei libri di testo di Chicago, queste
forze erano in perfetto equilibrio: l'offerta comunicava con la domanda così come la Luna attrae le maree.
Se le economie soffrivano per l'inflazione troppo alta, secondo la dottrina del monetarismo di Friedman
era colpa di politici sprovveduti, che avevano fatto entrare troppo denaro nel sistema, anziché lasciare
che il mercato trovasse il suo equilibrio. Come gli ecosistemi sono in grado di autoregolarsi, di tenersi in
equilibrio, così il mercato, lasciato a se stesso, avrebbe dato vita all'esatto numero di prodotti al prezzo
esattamente adeguato, realizzati da lavoratori che percepivano salari perfettamente sufficienti a comprare
quei prodotti: un Eden di piena occupazione, creatività sconfinata e inflazione zero.
Secondo il sociologo di Harvard Daniel Beli, questo amore per un sistema idealizzato è il tratto
caratteristico del liberismo radicale. Il capitalismo è visto come "un'aurea combinazione di movimenti" o
"un orologio celestiale [...] un'opera d'arte, così affascinante da far pensare ai celebri quadri di Apelle,
che aveva dipinto un grappolo d'uva così realistico che gli uccelli accorrevano a beccarlo".'
La sfida per Friedman e i suoi colleghi era dimostrare che un mercato reale potesse comportarsi come
nelle loro deliranti fantasie. Friedman fu sempre fiero del suo approccio all'economia come scienza
esatta e rigorosa, come la fisica o la chimica. Ma le scienze esatte potevano osservare il comportamento
degli elementi per mettere alla prova le proprie teorie. Friedman non era in grado di indicare
un'economia realmente esistente a prova del fatto che, se tutte le "distorsioni" fossero state eliminate,
sarebbe rimasta una società rigogliosa e in perfetta salute, dal momento che nessun Paese rispondeva ai
suoi criteri ideali di sistema laissez-faire. Non potendo testare le loro teorie nelle banche centrali e nei
ministeri del commercio, Friedman e colleghi dovettero accontentarsi di complesse e ingegnose
equazioni matematiche e modelli al computer, elaborati nel seminterrato del dipartimento di Scienze
sociali.
Fu l'amore per i numeri e i sistemi a spingere Friedman a intraprendere una carriera in questo campo.
Nell'autobiografia scrive che l'epifania giunse quando un insegnante di geometria al liceo disegnò il
teorema di Pitagora alla lavagna, e poi, affascinato dalla sua eleganza, citò Vode a un'urna greca di
Keats: "[...] bellezza è verità e verità bellezza; e questo è tutto quel che sappiamo al mondo, e tutto quel
che dobbiamo sapere". È quella stessa passione estatica per un sistema compiuto e bello che Friedman
avrebbe trasmesso poi a generazioni di economisti, insieme alla ricerca della semplicità, dell'eleganza e
del rigore.
Come tutte le fedi fondamentaliste, l'economia della Scuola di Chicago è, per i veri fedeli, un circolo
virtuoso. La premessa iniziale è che il libero mercato è il sistema scientifico perfetto, in cui gli individui,
agendo in base ai propri interessi, creano i benefici massimi per tutti. Ne consegue ineluttabilmente che,
se qualcosa va storto all'interno di un'economia liberista - se l'inflazione si impenna o la disoccupazione
sale - l'unica spiegazione possibile è che il mercato non è veramente libero. Dev'esserci qualche
interferenza, qualche distorsione nel sistema. La soluzione proposta dalla Scuola di Chicago è sempre la
stessa: un'applicazione più rigida e più completa delle norme fondamentali.
Alla morte di Friedman, nel 2006, gli autori di necrologi faticarono a riassumere la portata della sua
eredità. Uno di loro commentò che "il mantra friedmaniano del libero mercato, dei liberi prezzi, della
scelta per il consumatore e della libertà economica è responsabile della prosperità economica di cui oggi
godiamo". Ciò è parzialmente vero. La natura di quella prosperità globale chi ne partecipa, chi no, da
dove è venuta - è una questione molto discussa, naturalmente. E però innegabile che le regole del
liberismo delineate da Friedman, e le sue sagaci strategie per imporle, abbiano reso alcune persone
estremamente ricche, e abbiano garantito loro qualcosa di molto simile alla libertà completa: libertà di
ignorare i confini nazionali, di evitare tasse e leggi e di accumulare nuove ricchezze.
Questa abilità nel concepire pensieri assai profittevoli sembra avere le sue radici nella prima infanzia di
Friedman, quando i suoi genitori, immigrati dall'Ungheria, comprarono una fabbrica di abbigliamento a
Rahway, nel New Jersey. L'appartamento di famiglia era nello stesso palazzo del negozio, che, scrisse
Friedman, "oggi sarebbe definito sfruttamento della manodopera". Ed erano tempi duri per gli sfruttatori
di manodopera: i marxisti e gli anarchici riunivano i lavoratori immigrati in sindacati per chiedere norme
di sicurezza e fine settimana liberi; e nelle riunioni del dopolavoro dibattevano la teoria del
cooperativismo. In quanto figlio del padrone, Friedman potè senza dubbio identificarsi con il punto di
vista opposto in queste discussioni. Alla fine, la fabbrica di suo padre fallì, ma nelle conferenze e in
televisione Friedman ne parlava spesso, definendola un caso esemplare per illustrare i benefici del
capitalismo deregolamentato: la prova che anche gli impieghi peggiori e meno garantiti sono un primo
gradino nella scala della libertà e della prosperità.
Gran parte del fascino dell'economia della Scuola di Chicago era che, in un'epoca in cui le idee della
sinistra radicale sul potere dei lavoratori stavano prendendo piede in tutto il mondo, quella teoria forniva
un mezzo radicale esattamente quanto idealistico, per difendere gli interessi dei proprietari. Non si
trattava di difendere il diritto dei proprietari di fabbriche a pagare salari bassi: il libero mercato,
sosteneva Friedman, era la forma più pura di "democrazia partecipativa", perché
"ogni cittadino può votare - per così dire - per il colore della cravatta che preferisce". Mentre la sinistra
prometteva la libertà dei lavoratori dai padroni, dei cittadini dalla dittatura, dei Paesi dal colonialismo,
Friedman prometteva la "libertà individuale", un progetto che elevava i singoli cittadini al di sopra di
qualsiasi impresa collettiva e li rendeva liberi di esprimere il loro assoluto libero arbitrio attraverso le
proprie scelte di consumo. "L'aspetto più emozionante erano le stesse qualità che rendevano il marxismo
così affascinante per molti altri giovani in quegli anni" ricordò l'economista Don Patinkin, che aveva
studiato a Chicago negli anni Quaranta, "la semplicità unita all'apparente completezza logica; l'idealismo
combinato con il radicalismo". I marxisti avevano la loro utopia dei lavoratori, e gli studiosi di Chicago
avevano la loro utopia degli imprenditori; entrambi sostenevano che, se avessero avuto via libera, ne
sarebbero seguiti perfezione ed equilibrio.
Il problema, come sempre, era quello di come arrivare in quel luogo meraviglioso partendo da qui. I
marxisti erano stati chiari: la rivoluzione - sbarazzarsi del sistema attuale, rimpiazzarlo con il socialismo.
Per la Scuola di Chicago, la risposta non era così semplice. Gli Stati Uniti erano già un Paese capitalista,
ma a loro avviso lo erano in maniera appena accennata. Negli Stati Uniti e in tutte le economie che si
presumevano capitaliste, c'era fin troppa interferenza nel sistema, sostenevano quelli di Chicago. Per
rendere i prodotti più a buon mercato, i politici fissavano i prezzi; per far sì che i lavoratori fossero meno
sfruttati, stabilivano salari minimi; per assicurare a tutti l'accesso all'educazione, la lasciavano in mano
allo Stato. Queste misure spesso sembravano andare a vantaggio della gente, ma Friedman e colleghi
erano convinti - e lo "dimostrarono" con i loro modelli matematici che in realtà danneggiassero
gravemente l'equilibrio del mercato e l'abilità dei suoi vari segnali di comunicare l'un con l'altro. La
missione della Scuola di Chicago era dunque quella di purificare:
affrancare il mercato da tutte quelle interruzioni, così che il libero mercato potesse agire liberamente.
Per questo motivo, per gli studiosi di Chicago il vero nemico non era il marxismo. La fonte del problema
era piuttosto da ricercarsi nelle idee dei keynesiani in America, dei socialdemocratici in Europa e dei
teorici dell'economia dello sviluppo in quello che allora si chiamava Terzo mondo.
Costoro credevano non in un'utopia ma in un'economia mista: per gli accademici di Chicago, uno
sgradevole miscuglio di capitalismo per la manifattura e distribuzione dei prodotti di consumo,
socialismo per l'educazione, proprietà statale per beni essenziali come i servizi idrici, e ogni genere di
legge ideata per temperare gli estremi del capitalismo. Come il fondamentalista religioso che pur
controvoglia rispetta i fondamentalisti delle altre fedi e gli atei convinti, ma disdegna il credente
superficiale, così la Scuola di Chicago dichiarò guerra a questi economisti dalle idee eclettiche. Ciò che
volevano non era esattamente una rivoluzione, ma una Riforma capitalista: un ritorno al capitalismo
incontaminato.
Molto di questo purismo veniva da Friedrich von Hayek, il guru personale di Friedman, anche lui docente
a Chicago per un breve periodo negli anni Cinquanta. L'austero professore austriaco sosteneva che ogni
intervento del governo nell'economia avrebbe portato la società sulla "via della schiavitù" e doveva
quindi essere evitato. Secondo Arnold Harberger, a lungo docente a Chicago,
"gli austriaci" - come si chiamava la sua cricca entro la cricca - erano così zelanti che per loro
l'interferenza da parte dello Stato non era soltanto sbagliata, ma era "maligna [...] E come se lì fuori ci
fosse un disegno molto bello ma molto complesso, perfettamente armonico in se stesso, vedete, e se c'è un
dettaglio che non dovrebbe esserci, be', è orribile [...] è un neo che macchia quella bellezza".
Nel 1947, quando Friedman si unì a Hayek nella Mont Perelin Society, un club di economisti di
orientamento liberista così chiamato per via della sua sede in Svizzera, era preferibile non dire davanti a
persone distinte che il business doveva governare il mondo come meglio credeva. Il ricordo del crollo in
Borsa del 1929 e della Grande depressione era ancora vivo: i risparmi di una vita bruciati in un giorno
solo, i suicidi, le mense per i poveri, i rifugiati. Le dimensioni di questo disastro creato dal mercato
avevano condotto all'insistente richiesta di una forma di governo decisamente interventista. La
Depressione non segnò la fine del capitalismo, ma fu, come John Majmard Keynes aveva sentenziato
qualche anno prima, "la fine del laissez-faire", del mercato che si auto-regola. Il periodo che va dagli
anni Trenta all'inizio dei Cinquanta fu un'era di sfrenato faire:l'etica ottimistica del New Deal lasciò il
posto allo sforzo bellico, furono avviate opere pubbliche per creare nuovi posti di lavoro, furono
inaugurati nuovi programmi sociali per evitare che sempre più persone si unissero all'estrema sinistra. A
quel tempo il compromesso tra destra e sinistra non era una brutta parola, ma parte di ciò che molti
vedevano come una nobile missione per prevenire la nascita di un mondo in cui, come scrisse Keynes al
presidente Franklin D. Roosevelt nel 1933, "l'ortodossia e la rivoluzione" restano da sole "a
combattersi". John Kenneth Galbraith, erede di Keynes negli Stati Uniti, disse che l'obiettivo primario dei
politici e degli economisti doveva essere "evitare la depressione e prevenire la disoccupazione".
La Seconda guerra mondiale rese ancora più urgente la lotta alla povertà. Il nazismo aveva attecchito in
Germania mentre il Paese era preda di una devastante depressione, provocata dai pesanti risarcimenti
imposti dopo la Grande guerra e aggravati dal crollo del 1929. Keynes aveva avvertito da subito che se il
mondo avesse scelto un approccio laissez-faire alla sempre più drammatica povertà della Germania, le
ripercussioni sarebbero state feroci: "La vendetta, oso predire, non tarderà". Queste parole non furono
tenute in conto all'epoca, ma quando l'Europa occidentale fu ricostruita dopo la Seconda guerra mondiale,
i poteri occidentali adottarono il principio secondo cui le economie di mercato dovessero garantire un
tenore di vita abbastanza dignitoso perché i cittadini delusi non tornassero a cercare un'ideologia più
affascinante, che fosse il fascismo o il comunismo. Fu questo imperativo pragmatico a condurre alla
creazione di quasi tutto ciò che oggi associamo ai bei vecchi tempi del capitalismo "rispettabile": la
sicurezza sociale negli Stati Uniti, la sanità pubblica in Canada, il welfare in Gran Bretagna, le tutele per
i lavoratori in Francia e Germania.
Un'atmosfera simile, ma più radicale, si stava diffondendo nei Paesi in via di sviluppo, generalmente
sotto il nome di developmentalism, cioè economia dello sviluppo, o nazionalismo del Terzo mondo. I
teorici dello sviluppo sostenevano che i loro Paesi sarebbero finalmente sfuggiti al ciclo della povertà
solo a patto di adottare una strategia di industrializzazione rivolta verso l'interno, invece di dipendere
dall'esportazione di risorse naturali (i cui prezzi erano in declino) verso l'Europa e il Nordamerica.
Costoro
proponevano di regolamentare - o addirittura di nazionalizzare - petrolio, minerali e altre industrie
chiave, perché una fetta degli introiti potesse essere impiegata per un processo di sviluppo guidato dal
governo.
Già negli anni Cinquanta i teorici dello sviluppo, come i keynesiani e i socialdemocratici nei Paesi
ricchi, erano in grado di portare ad esempio una serie di successi. Il laboratorio più avanzato della
dottrina dello sviluppo era la punta meridionale dell'America Latina, ovvero il Cono del Sud: Cile,
Argentina, Uruguay e parte del Brasile. L'epicentro era la Commissione economica delle Nazioni Unite
per l'America Latina, con sede a Santiago del Cile, e guidata dall'economista Raul Prebisch tra il 1950 e
il 1963. Prebisch formò squadre di economisti nella teoria dello sviluppo e li spedì a fare da consiglieri
per tutti i governi del continente. Politici nazionalisti come Juan Perón in Argentina misero in pratica le
sue idee con decisione, riversando soldi pubblici in infrastrutture come autostrade e acciaierie, dando
sussidi generosi alle aziende locali perché costruissero nuove fabbriche, producendo a ritmi sostenuti
automobili e lavatrici, e scoraggiando le importazioni con tariffe proibitive.
In questo periodo di rapidissima espansione, il Cono del Sud iniziò a somigliare più all'Europa e al
Nordamerica che non al resto dell'America Latina o ad altre parti del Terzo mondo. Gli operai nelle
nuove fabbriche diedero vita a potenti sindacati che negoziarono salari da classe media, e i loro figli
furono mandati a studiare nelle neonate università pubbliche. L'enorme divario tra l'élite che giocava a
polo e le masse contadine iniziò a ricomporsi. Negli anni Cinquanta, l'Argentina aveva ormai la classe
media più vasta del continente, e il vicino Uruguay vantava un tasso di alfabetismo del 95 per cento e
sanità pubblica gratuita per tutti. La teoria dello sviluppo ebbe un tale successo, per un certo periodo, che
il Cono del Sud divenne un simbolo potente per tutti i Paesi poveri del mondo: la dimostrazione che, con
politiche intelligenti e pratiche, applicate in modo aggressivo, il divario di classe tra Primo e Terzo
mondo poteva essere colmato.
Questo successo delle economie gestite dall'alto, nel Nord keynesiano e nel Sud della teoria dello
sviluppo, generò un umore piuttosto cupo nelle aule del dipartimento di Economia dell'Università di
Chicago. I loro acerrimi rivali accademici a Harvard, Yale e Oxford erano chiamati da presidenti e primi
ministri per domare la belva del mercato. Quasi nessuno pareva interessato alle audaci idee di Friedman,
secondo cui la belva doveva essere
lasciata a briglia sciolta. C'era qualche eccezione, però: alcune persone erano profondamente interessate
alle idee della Scuola di Chicago; erano in pochi, ma erano potenti.
Per i magnati delle multinazionali americane, che dovevano vedersela con Paesi in via di sviluppo
decisamente meno ospitali e con sindacati più forti ed esigenti in patria, il boom del dopoguerra fu un
periodo difficile. L'economia cresceva a ritmi sostenuti, si creavano enormi ricchezze, ma proprietari e
azionisti erano obbligati a redistribuirne gran parte sotto forma di tasse e salari.
Stavano tutti bene, ma con un ritorno alle regole precedenti al New Deal alcune persone avrebbero potuto
stare molto meglio.
La rivoluzione keynesiana contro il laissez-faire si stava dimostrando molto onerosa per il settore
industriale. Era chiaro che per riconquistare il terreno perduto serviva una controrivoluzione in senso
anti-keynesiano, il ritorno a una forma di capitalismo ancor meno regolata che prima della Depressione.
Questa non era una crociata che Wall Street poteva guidare da sola, non nel clima di quegli anni. Se
Walter Wriston, amico stretto di Friedman e direttore della Citibank, si fosse fatto avanti per chiedere
l'abolizione del salario minimo e delle imposte societarie, sarebbe stato accusato di essere un barone e
un rapinatore. Ed è qui che entrava in gioco la Scuola di Chicago. Divenne ben presto chiaro che quando
Friedman, brillante matematico e oratore prestigioso, portava le stesse argomentazioni, esse apparivano
in maniera molto diversa. Si potevano liquidare come errate, ma erano circonfuse di un'aura di
imparzialità scientifica. Il vantaggio enorme di poter diffondere opinioni imprenditoriali attraverso
istituzioni accademiche (o quasi) non soltanto attirò alla Scuola di Chicago fiumi di donazioni, ma in
breve generò la rete globale di think tanks conservatori che avrebbe ospitato e alimentato i missionari
della controrivoluzione in tutto il mondo.
Tutto ciò riporta al risoluto messaggio di Friedman: il New Deal è stato un fallimento totale. È stato
allora che tanti Paesi, "compreso il mio, hanno sbagliato strada". Per riportare i governi sulla retta via,
Friedman, nel suo primo libro divulgativo, Capitalismo e libertà, enunciò quelle che sarebbero diventate
le nuove regole del liberismo globale, e che negli Stati Uniti avrebbero costituito il programma
economico del movimento neoconservatore.
In primo luogo, i governi devono rimuovere tutte le regole e le norme che sono d'intralcio
all'accumulazione del profitto. In secondo
luogo, devono vendere tutte le risorse di loro proprietà da cui le industrie potrebbero trarre profitto.
E in terzo luogo, devono ridurre drasticamente i fondi per la spesa sociale. Entro questa formula tripartita
di deregulation, privatizzazione e tagli, Friedman inseriva molte misure specifiche. Le tasse, se proprio
devono esistere, devono essere basse, e ricchi e poveri vanno tassati con la stessa percentuale. Le
industrie devono poter vendere i loro prodotti in tutto il mondo, e i governi non devono tentare di
proteggere le industrie locali o la proprietà locale. Tutti i prezzi, compreso il costo del lavoro, devono
essere fissati dal mercato. Non dev'esserci salario minimo. Friedman proponeva di privatizzare la sanità,
le poste, la scuola, le pensioni, persino i parchi nazionali. In breve, e senza troppe remore, ciò che
chiedeva era l'abbandono del New Deal: quella scomoda tregua fra lo Stato, le industrie e la forza lavoro
che aveva impedito le rivolte popolari dopo la Grande depressione. La controrivoluzione di Chicago
rivoleva indietro le tutele che i lavoratori erano faticosamente riusciti a ottenere, i servizi che ora lo
Stato forniva per smussare le asperità del mercato.
E voleva ben altro: voleva espropriare ciò che lavoratori e governi avevano costruito in quei decenni di
frenetici lavori pubblici. Le risorse che Friedman consigliava allo Stato di vendere erano il risultato di
anni di investimenti di denaro pubblico, ingegno umano e strategie gestionali, che le avevano costruite e
avevano dato loro valore: tutta questa ricchezza pubblica, secondo Friedman, andava trasferita in mani
private per una questione di principio.
Benché sempre velata dal linguaggio della matematica e della scienza, la visione di Friedman coincideva
esattamente con gli interessi delle grandi multinazionali, che per loro stessa natura richiedono mercati
nuovi, vasti e non regolamentati. Nella prima fase dell'espansione capitalista, quella crescita vorace era
offerta dal colonialismo: "scoprire" nuovi territori e appropriarsi di terre senza pagare, poi estrarre
ricchezza dal suolo senza ricompensare la popolazione locale. La guerra di Friedman al welfare state e al
Big Government prometteva una nuova fonte di arricchimento rapido: solo che stavolta, anziché
conquistare nuovi territori, lo Stato stesso avrebbe costituito la nuova frontiera, e i suoi servizi pubblici e
le sue risorse sarebbero stati messi all'asta per pochi spiccioli.
La guerra contro l'economia dello sviluppo.
Negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, l'accesso a quei livelli di ricchezza era ancora inattingibile, e lo
sarebbe rimasto per decenni. Anche con un repubblicano duro e puro alla Casa Bianca, com'era Dwight
Eisenhower, non c'era speranza di una radicale svolta a destra simile a quella che gli economisti di
Chicago suggerivano: i servizi pubblici e la tutela dei lavoratori erano troppo popolari, ed Eisenhower
aveva lo sguardo fisso alle prossime elezioni. Benché in patria ci fosse poco interesse a rovesciare il
keynesianismo, Eisenhower si mostrò capace e volenteroso di intraprendere azioni immediate e radicali
per sconfiggere l'ideologia dello sviluppo all'estero. Era una guerra in cui l'Università di Chicago
sarebbe stata coinvolta con un ruolo di primo piano.
Quando Eisenhower s'insediò alla Casa Bianca nel 1953, in Iran c'era un primo ministro fautore della
dottrina dello sviluppo, Mohammad Mossadeq, che aveva già nazionalizzato la compagnia petrolifera; e
l'Indonesia era nelle mani del sempre più ambizioso Achmed Sukarno, che proponeva di unire tutti i
governi del Terzo mondo in una superpotenza che potesse porsi in una posizione paritaria con l'Occidente
e il Blocco sovietico. Il dipartimento di Stato mostrava una particolare preoccupazione nei confronti del
sempre maggiore successo dell'economia nazionalista nel Cono del Sud in America Latina. In un periodo
nel quale grandi porzioni del globo si volgevano allo stalinismo e al maoismo, le proposte di
"sostituzione delle importazioni" erano in realtà abbastanza centriste. Eppure, l'idea che il Sudamerica
meritasse il suo New Deal incontrava nemici potenti. I proprietari terrieri feudali del continente erano
perfettamente a loro agio con lo status quo, che garantiva loro alti profitti e un rifornimento continuo di
contadini e braccianti poveri da far lavorare nei loro campi e nelle loro miniere. Ora, erano scandalizzati
nel vedere i loro profitti dirottati per far crescere altri settori, i loro lavoratori che chiedevano la
redistribuzione delle terre e il governo che manteneva artificialmente basso il prezzo dei loro raccolti
perché il cibo potesse essere a buon mercato. Le aziende americane ed europee che facevano affari in
America Latina iniziarono a esprimere lamentele simili ai propri governi: i loro prodotti erano bloccati
al confine, i loro dipendenti chiedevano paghe più alte e - cosa più allarmante di tutte - giravano voci di
una nazionalizzazione in massa, dalle miniere di proprietà straniera alle banche, per finanziare i sogni
latinoamericani di indipendenza economica.
Sotto la pressione di questi interessi industriali, nei circoli di politica estera americani e britannici prese
piede un movimento che cercava di far rientrare i governi fautori dell'ideologia dello sviluppo nella
logica binaria della Guerra fredda. Non lasciatevi ingannare dalla facciata moderata e democratica,
avvertivano questi falchi: il nazionalismo del Terzo mondo è il primo passo sulla strada del comunismo
totalitario, e dovrebbe essere stroncato sul nascere. Due dei principali promotori di questa idea erano
John Foster Dulles, segretario di Stato di Eisenhower, e suo fratello Alien Dulles, capo della neonata
Cia. Prima di assumere incarichi pubblici, entrambi avevano lavorato al leggendario studio legale
newyorchese Sullivan & Cromwell, dove avevano rappresentato molte delle industrie che più avevano da
perdere da un'affermazione della dottrina dello sviluppo, tra cui la J.P. Morgan & Company, la
International Nickel Company, la Cuban Sugar Cane Corporation e la United Fruit Company. Gli esiti
dell'ascendente dei Dulles furono immediati: nel 1953 e nel 1954, la Cia organizzò i suoi primi due colpi
di Stato, entrambi contro governi del Terzo mondo che si identificavano molto più in Keynes che in
Stalin. Il primo fu nel 1953, quando un complotto della Cia riuscì a rovesciare Mossadeq in Iran,
rimpiazzandolo con il brutale scià.
L'altro fu il golpe in Guatemala, sponsorizzato dalla Cia e compiuto sotto l'egida diretta della United
Fruit Company. L'azienda, che esercitava ancora influenza sui fratelli Dulles dai tempi della Cromweli,
era indignata perché il presidente Jacobo Arbenz Guzman aveva espropriato parte delle sue terre
inutilizzate (pagandole profumatamente) nell'ambito di un progetto per trasformare il Guatemala, nelle sue
parole, "da Paese arretrato, a economia prevalentemente feudale, in un moderno Stato capitalista": un
obiettivo che sembrava inaccettabile. Ben presto Arbenz si ritrovò fuori dal gioco, e la United Fruit tornò
al comando.
Annientare la teoria dello sviluppo nel Cono del Sud, dove era molto più radicata, era una sfida ben più
ardua. Stabilire come ottenere questo risultato fu l'argomento della conversazione fra due americani che
si incontrarono a Santiago del Cile nel 1953. Uno dei due era Albion Patterson, direttore
dell'Amministrazione per la cooperazione internazionale in Cile - che sarebbe poi diventata l'agenzia Usa
per lo sviluppo internazionale (Usaid) -, e l'altro era Theodore W. Schultz, presidente del dipartimento di
Economia all'Università di Chicago. Patterson era molto preoccupato per l'esasperante influenza di Raul
Prebisch e degli altri
economisti "rosa" (ovvero della sinistra moderata) in Sudamerica. "Quello che dobbiamo fare è cambiare
la formazione degli uomini, per influenzare l'educazione, che attualmente è in pessimo stato" aveva
sottolineato a un collega." Questo obiettivo coincideva con la convinzione di Schultz che il governo
statunitense non stesse facendo abbastanza per combattere la guerra intellettuale contro il marxismo: "Gli
Stati Uniti devono fare il punto dei loro programmi economici all'estero
[...]. Noi vogliamo che [i Paesi poveri] realizzino la propria salvezza economica relazionandosi con noi
e usando il nostro sistema per ottenere il proprio sviluppo economico" disse.
I due uomini misero a punto un piano che avrebbe trasformato Santiago, focolaio di economia statalista,
nell'esatto opposto ossia un laboratorio per esperimenti di liberismo all'avanguardia, dando così a Milton
Friedman ciò che desiderava: un Paese in cui mettere alla prova le sue preziose teorie. Il piano originario
era semplice: il governo americano avrebbe finanziato l'istruzione in materia economica degli studenti
cileni presso quella che era unanimemente riconosciuta come la scuola più rabbiosamente anti "rosa" del
mondo: l'Università di Chicago. A Schultz e ai suoi colleghi d'università, a loro volta, sarebbero stati
pagati i viaggi a Santiago per condurre ricerche sull'economia cilena e per addestrare studenti e
professori nei fondamenti del pensiero della Scuola di Chicago.
Ciò che differenziava questo piano da altri programmi statunitensi di addestramento che sovvenzionavano
studenti latinoamericani - e ce n'erano parecchi - era la sua caratterizzazione apertamente ideologica.
Scegliendo Chicago come luogo di addestramento dei cileni - una scuola in cui i professori dedicavano la
vita a predicare un quasi completo smantellamento del governo - il dipartimento di Stato americano
dichiarava guerra all'ideologia dello sviluppo, di fatto spiegando ai cileni che il governo Usa aveva
deciso quali idee la sua élite di studenti avrebbe dovuto e non voluto imparare. Si trattava di un
intervento così sfacciato negli affari sudamericani che, quando Albion Patterson avvicinò il rettore
dell'Università del Cile, la principale università del Paese, e gli offrì una sovvenzione per organizzare il
programma di scambio, il rettore rifiutò la sua offerta.
Disse che avrebbe partecipato soltanto se il suo ateneo avesse avuto voce in capitolo su chi educava gli
studenti negli Stati Uniti. Patterson non era interessato e si rivolse al rettore di un istituto più piccolo,
l'Università Cattolica del Cile: una scuola molto più conservatrice che non aveva un dipartimento di
Economia. Il rettore della Cattolica accettò subito l'offerta, e così nacque quello che sarebbe stato
conosciuto a Washington e a Chicago come "il Progetto Cile".
"Siamo qui per competere, non per collaborare" disse Schultz dell'Università di Chicago, spiegando
perché il programma sarebbe stato riservato a pochi e selezionatissimi studenti cileni. Questo
atteggiamento combattivo fu esplicito fin dall'inizio: l'obiettivo del Progetto Cile era produrre guerrieri
ideologici che avrebbero vinto la battaglia di idee contro gli economisti "rosa"
latinoamericani.
Lanciato ufficialmente nel 1956, il progetto vide cento studenti cileni seguire corsi di laurea avanzati
all'Università di Chicago tra il 1957 e il 1970; le loro rette e spese erano pagate dai contribuenti e da
fondazioni statunitensi. Nel 1965, il programma fu esteso a studenti di tutta l'America Latina, con una
partecipazione massiccia dall'Argentina, dal Brasile e dal Messico.
L'espansione fu finanziata attraverso una sovvenzione dalla fondazione Ford, e condusse alla creazione di
un Centro per gli studi economici latinoamericani presso l'Università di Chicago.
Nell'ambito di questo programma, in un dato momento c'erano sempre dai quaranta ai cinquanta
latinoamericani che studiavano economia a livello post-lauream: circa un terzo della popolazione
complessiva del dipartimento. In programmi analoghi a Harvard o al Mit, non c'erano più di quattro o
cinque latinoamericani. Era un risultato strabiliante: in soli dieci anni, l'ultraconservatrice Università di
Chicago era diventata la destinazione preferita per i latinoamericani intenzionati a studiare economia
all'estero, un fatto che avrebbe cambiato il corso della storia di quella regione per decenni.
Indottrinare gli ospiti con l'ortodossia della Scuola di Chicago divenne una pressante priorità
istituzionale. Il capo del programma, nonché persona incaricata di far sentire a casa i latinoamericani, era
Arnold Harberger, un economista con giacca sahariana che parlava un perfetto spagnolo, aveva sposato
una cilena e si autodefiniva "un missionario molto volenteroso". Quando iniziarono ad arrivare gli
studenti cileni, Harberger creò un apposito "Laboratorio Cile" in cui i professori di Chicago
presentavano la loro diagnosi altamente ideologica di cosa non andava in quel Paese sudamericano, e
offrivano la loro ricetta scientifica per rimetterlo in sesto.
"All'improvviso, il Cile e la sua economia divennero un argomento di conversazione quotidiana al
dipartimento di Economia"
ricorda André Gunder Frank, che studiò con Friedman negli anni Cinquanta e divenne poi un teorico dello
sviluppo di fama mondiale. Tutte le politiche cilene furono osservate al microscopio e se ne rilevarono i
difetti: la forte rete di sicurezza sociale, le misure protezionistiche per l'industria nazionale, le barriere al
commercio, il controllo dei prezzi. Agli studenti si insegnava il disprezzo per questi tentativi di alleviare
la povertà, e molti di loro dedicarono le tesi di dottorato a un'autopsia delle follie che si rilevavano
nell'economia dello sviluppo dei Paesi latinoamericani.
Gunder Frank ricorda che quando Harberger tornava dai suoi frequenti viaggi a Santiago, negli anni
Cinquanta e Sessanta, si scagliava contro il sistema sanitario cileno e quello scolastico - i migliori del
continente - definendoli "assurdi tentativi di vivere al di sopra dei propri mezzi sottosviluppati".
All'interno della fondazione Ford serpeggiava preoccupazione all'idea di finanziare un programma così
apertamente ideologico. Non mancò chi fece notare che gli unici conferenzieri latinoamericani invitati a
parlare agli studenti di Chicago erano ex allievi dello stesso programma. "Anche se la qualità e l'impatto
di questa iniziativa sono innegabili, la sua ristrettezza ideologica ha costituito un grave limite" scrisse
Jeffrey Puryear, uno specialista latinoamericano che lavorava per la Ford, in una rivista a circolazione
interna della fondazione. "Gli interessi dei Paesi in via di sviluppo non sono garantiti dall'esposizione a
un singolo punto di vista." Questo non impedì alla Ford di continuare a finanziare il programma.
Quando i primi cileni tornarono a casa da Chicago, erano "ancora più friedmaniani dello stesso
Friedman", nelle parole di Mario Zanartu, un economista dell'Università Cattolica di Santiago.
Molti trovarono lavoro come docenti al dipartimento di Economia dell'Università Cattolica,
trasformandola rapidamente nella loro piccola Scuola di Chicago nel bel mezzo di Santiago: lo stesso
programma di studi, gli stessi libri di testo in inglese, lo stesso inflessibile richiamo alla conoscenza
"pura" e "scientifica". Già nel 1963, dodici dei tredici membri a tempo pieno della facoltà erano laureati
al programma dell'Università di Chicago, e Sergio de Castro, uno dei primi laureati, fu eletto preside di
facoltà.
Nota: Walter Heller, il celebre economista del governo Kennedy, una volta si burlò del settarismo degli
ammiratori di Friedman dividendoli in categorie: "Alcuni sono friedmaniani, altri friedmanisti, altri
friedmaneschi, altri friedmonici e altri ancora friedmaniaci".
Ora gli studenti cileni non avevano più bisogno di andare negli Stati Uniti: centinaia di loro potevano
formarsi alla Scuola di Chicago senza espatriare.
Gli studenti che parteciparono al programma, a Chicago o nella sede di Santiago, divennero noti in tutta
la regione come los Chicago Boys. Grazie ad altri fondi messi a disposizione dall'Usaid, i Chicago Boys
cileni divennero ambasciatori entusiasti di quelle idee che i latinoamericani definivano "neoliberismo", e
andarono in Argentina e Colombia per aprire nuove filiali distaccate dell'Università di Chicago allo
scopo di "espandere questa conoscenza in tutta l'America Latina, opponendosi alle posizioni ideologiche
che impedivano la libertà e perpetuavano la povertà e l'arretratezza" come scrive un laureato cileno.
Juan Gabriel Valdés, ministro degli Esteri cileno negli anni Novanta, ha descritto il processo di
addestramento di centinaia di economisti cileni nell'ortodossia della Scuola di Chicago come "un ottimo
esempio di un trasferimento organizzato di ideologia dagli Stati Uniti verso un Paese che si trovava entro
la sfera di influenza diretta degli Usa. [...] L'educazione di questi cileni derivò da un progetto specifico
ideato negli anni Cinquanta per influenzare lo sviluppo del pensiero economico cileno". Sottolineò che
"hanno introdotto nella società cilena idee che erano del tutto nuove, concetti fino a quel momento assenti
dal "mercato delle idee".
Come forma di imperialismo intellettuale, non peccava certo di timidezza. C'era però un problema: non
funzionava. Stando a un rapporto del 1957 stilato dall'Università di Chicago per i suoi sovvenzionatori al
dipartimento di Stato, "lo scopo primario del progetto" era di formare una generazione di studenti "che
sarebbero diventati i leader intellettuali nell'economia cilena". Ma i Chicago Boys non stavano
conducendo i loro Paesi da nessuna parte: anzi, stavano rimanendo indietro.
Nei primi anni Sessanta, il principale dibattito economico nel Cono del Sud non verteva sul capitalismo
laissez-faire di contro all'economia dello sviluppo, ma sul modo migliore di portare l'economia dello
sviluppo alla sua tappa successiva. I marxisti chiedevano estese nazionalizzazioni e radicali riforme
agrarie; i centristi sostenevano invece che la chiave del successo era una maggiore cooperazione
economica tra i Paesi latinoamericani, con l'obiettivo di trasformare la regione in un potente blocco
commerciale, in grado di rivaleggiare con l'Europa e il Nordamerica.
Nei sondaggi e per le strade, il Cono del Sud si stava riversando a sinistra.
Nel 1962, il Brasile fece una mossa decisiva in questa direzione sotto la presidenza di Joào Goulart, un
nazionalista in economia, che credeva nella redistribuzione della terra, in salari più alti e in un ardito
progetto per costringere le multinazionali a reinvestire una percentuale dei profitti nell'economia
brasiliana, anziché farli sparire dal Paese e distribuirli agli azionisti a New York e Londra. In Argentina,
un governo militare stava cercando di frustrare pretese analoghe impedendo al partito di Juan Perón la
corsa alle elezioni, ma questa mossa era riuscita solo a radicalizzare una nuova generazione di giovani
peronisti, molti dei quali erano disposti a usare le armi per riprendersi il Paese.
Fu in Cile - epicentro dell'esperimento di Chicago - che la sconfitta nella battaglia ideologica fu più
evidente. Al momento delle storiche elezioni del 1970, il Cile si era spostato così a sinistra che tutti e tre
i maggiori partiti politici erano favorevoli alla nazionalizzazione della maggior fonte di reddito nel
Paese, le miniere di rame allora controllate dai giganti del settore minerario americano. Il Progetto Cile,
in altre parole, era stato un fallimento costoso. In quanto guerrieri dell'ideologia, che combattevano una
battaglia pacifica con i nemici di sinistra, i Chicago Boys avevano fallito nella loro missione. Non solo il
dibattito economico continuava a virare a sinistra, ma i Chicago Boys erano così marginali da risultare
invisibili nello spettro elettorale cileno.
Sarebbe potuta finire lì, e il Progetto Cile sarebbe potuto essere solo una nota a pie di pagina della storia;
ma qualcosa sopraggiunse a salvare i Chicago Boys dall'oblio: Richard Nixon fu eletto presidente degli
Stati Uniti. Era un uomo, disse con entusiasmo Friedman, che "aveva una politica estera ingegnosa, e tutto
sommato efficace". E da nessuna parte era stata altrettanto ingegnosa quanto in Cile.
Nixon avrebbe dato ai Chicago Boys e ai loro professori qualcosa che sognavano da tempo: l'occasione
di dimostrare che la loro utopia capitalista era più che una teoria nata in un laboratorio nel seminterrato;
era il tentativo di ricostruire un Paese da zero. In Cile, la democrazia si era mostrata inospitale con i
Chicago Boys; la dittatura sarebbe stata molto più comoda.
Il governo di Unità Popolare di Salvador Allende vinse le elezioni cilene del 1970 promettendo di
mettere nelle mani dello Stato ampi settori dell'economia che in quel momento erano gestiti da imprese
straniere e locali. Allende rappresentava una nuova razza di rivoluzionari latinoamericani: come Che
Guevara, era un medico; ma a differenza del Che, aveva l'aspetto dell'accademico in giacca di tweed, non
del guerrigliero romantico. Sapeva pronunciare un comizio acceso come Fidel Castro, ma era un convinto
democratico, persuaso che il socialismo in Cile dovesse affermarsi per mezzo delle urne, non dei fucili.
Quando Nixon seppe che Allende era stato eletto presidente, diede al direttore della Cia Richard Helms
il famoso ordine di "far urlare l'economia". L'elezione ebbe ripercussioni anche nel dipartimento di
Economia a Chicago. Quando Allende vinse, Arnold Harberger si trovava in Cile. Scrisse ai colleghi
descrivendo l'evento come "una tragedia" e informandoli che "nei circoli di destra affiora talvolta l'idea
di un intervento militare".
Sebbene Allende promettesse di negoziare compensi equi per le aziende che stavano perdendo terre e
investimenti, le multinazionali americane temevano che egli rappresentasse l'inizio di una tendenza estesa
a tutta l'America Latina, ed erano restie ad accettare l'idea di perdere quella che stava diventando una
voce importante del loro fatturato. Nel 1968, il 20 per cento degli investimenti complessivi degli Stati
Uniti all'estero era legato all'America Latina, e le aziende statunitensi contavano 5436 consociate nella
regione. I profitti che questi investimenti erano in grado di produrre erano impressionanti. Le compagnie
minerarie avevano investito un miliardo di dollari negli ultimi cinquant'anni nelle miniere di rame cilene
- le più grandi del mondo - ma avevano riportato a casa 7,2 miliardi.
Appena Allende vinse le elezioni, e prima ancora di insediarsi, l'industria americana dichiarò guerra alla
sua amministrazione. Il centro dell'attività era il Comitato Ad Hoc sul Cile, con sede a Washington: un
gruppo che comprendeva le maggiori compagnie minerarie con partecipazioni in Cile, oltre al leader
effettivo del comitato, la Itt (International Telephone and Telegraph Company), che deteneva il 70 per
cento della compagnia telefonica cilena, destinata a essere presto nazionalizzata. Anche la Purina, la
Bank of America e la Pfizer Chemical inviarono a più riprese dei delegati.
Lo scopo precipuo del comitato era quello di costringere Allende a rinunciare alle nazionalizzazioni
"con la minaccia di un collasso economico". Avevano molte idee su come far soffrire Allende.
Stando ai verbali desecretati, le compagnie progettavano di bloccare i prestiti statunitensi al Cile e,
"in maniera riservata, provvedere a che le banche americane private facciano la stessa cosa. Discutere
con le fonti bancarie estere allo stesso scopo. Ritardare gli acquisti dal Cile nei prossimi sei mesi. Dar
fondo alle scorte americane di rame anziché acquistarlo dal Cile. Generare una scarsità di dollari
americani in Cile". E la lista continua.
Allende nominò il suo amico stretto Orlando Letelier come ambasciatore a Washington: il suo compito
sarebbe consistito nel negoziare i termini dell'esproprio con le stesse industrie che cospiravano per
sabotare il governo Allende. Letelier, un uomo allegro ed estroverso, con i classici baffi anni Settanta e
straordinarie abilità canore, era molto amato nei circoli diplomatici. I ricordi più cari del figlio
Francisco sono quelli di suo padre che suonava la chitarra e cantava a gran voce vecchie canzoni
popolari con gli amici nella loro casa di Washington." Nonostante il suo fascino e la sua abilità le
negoziazioni erano però destinate a finire male.
Nel marzo 1972, nel mezzo dei tesi negoziati tra Letelier e l'Itt, Jack Anderson, un opinionista freelance,
pubblicò una serie di articoli esplosivi che citavano documenti secondo cui la compagnia telefonica
aveva complottato con la Cia e il dipartimento di Stato per impedire l'insediamento di Allende dopo la
sua vittoria elettorale, due anni prima. Di fronte a queste accuse, e con Allende ancora al potere, il
Senato americano, controllato dai democratici, avviò un'inchiesta e scoprì una complessa cospirazione in
cui l'Itt aveva offerto un milione di dollari in tangenti all'opposizione cilena, e aveva "cercato di
coinvolgere la Cia in un piano segreto per manipolare l'esito delle elezioni presidenziali cilene".
Il rapporto del Senato, pubblicato nel giugno 1973, stabiliva anche che, quando il piano era fallito e
Allende era salito al potere, l'Itt aveva abbracciato una nuova strategia tesa ad assicurare che il
presidente "non superasse i successivi sei mesi". La circostanza più allarmante per il Senato era la
relazione tra i dirigenti dell'Itt e il governo Usa. Dalle testimonianze e dai documenti, divenne chiaro che
l'Itt era coinvolta direttamente, e al livello più alto, nella scelta delle politiche da adottare nei confronti
del Cile. A un certo punto, un alto dirigente dell'Itt scrisse al Consigliere per la sicurezza nazionale
Henry Kissinger e suggerì che "senza informare il presidente Allende, tutti i fondi di aiuto americani già
destinati al Cile" fossero "ricollocati nello status di "in fase di revisione". L'azienda preparò anche una
strategia in diciotto punti per l'amministrazione Nixon, che conteneva un appello esplicito al colpo di
Stato militare: "Avvicinarsi a fonti affidabili entro l'esercito cileno" diceva; "[...] fare leva sul loro
scontento verso Allende, così da determinare la necessità della sua rimozione".
Messo sotto torchio dal comitato senatoriale a proposito dei suoi spudorati tentativi di usare la forza del
governo americano per sovvertire il processo costituzionale cileno, allo scopo di perseguire gli interessi
economici della compagnia, il vicepresidente dell'Itt Ned Gerrity apparve sinceramente confuso: "Che
male c'è a prendersi cura dei propri interessi?" chiese. Il comitato offrì una replica nel suo rapporto: "Ai
propri interessi non dev'essere concesso un ruolo eccessivo nel determinare la politica estera degli Stati
Uniti".''
Eppure, nonostante anni di spudorato gioco sporco da parte degli Stati Uniti, di cui l'Itt era solo l'esempio
più in vista, nel 1973 Allende era ancora al potere. Otto milioni di dollari di finanziamenti segreti non
erano riusciti a incrinare il sostegno al presidente. Nelle elezioni parlamentari di medio termine che si
svolsero quell'anno, il partito di Allende ottenne risultati addirittura migliori rispetto alla prima elezione,
nel 1970. Chiaramente, il desiderio di un diverso modello economico aveva radici profonde in Cile, e la
simpatia per un'alternativa socialista era in aumento. Per gli avversari di Allende, che complottavano per
rovesciarlo fin dal giorno della sua elezione del 1970, questo significava che non sarebbe stato
sufficiente liberarsi di lui - qualcun altro sarebbe arrivato a prendere il suo posto. C'era bisogno di
un'azione più radicale.
A scuola di cambio di regime: Brasile e Indonesia.
C'erano due modelli di "cambio di regime" che gli avversari di Allende avevano studiato a fondo come
possibili approcci. Uno era in Brasile, l'altro in Indonesia. Quando la giunta brasiliana, spalleggiata dagli
Stati Uniti e guidata dal generale Humberto Castello Branco, prese il potere nel 1964, i generali avevano
in mente non solo di rovesciare il programma in favore dei poveri di Joâo Goulart, ma di spalancare il
Brasile agli investitori stranieri. All'inizio, i generali brasiliani cercarono di imporre la loro agenda
politica in modo relativamente pacifico: non ci furono dimostrazioni aperte di brutalità, nessun arresto di
massa, e anche se poi si scoprì che alcuni
"sovversivi" erano stati brutalmente torturati in questo periodo, erano così pochi (e il Brasile era così
grande) che nulla si venne a sapere del trattamento loro riservato.
La giunta ebbe cura inoltre di lasciare in piedi alcuni residui di democrazia, tra cui una limitata libertà di
stampa e libertà di assemblea: un cosiddetto golpe da gentiluomini.
Nei tardi anni Sessanta, molti cittadini decisero di usare quelle limitate libertà di stampa per esprimere
rabbia per la sempre maggiore povertà, che imputavano al programma economico pro-business, in gran
parte sviluppato da laureati dell'Università di Chicago. Nel 1968 le strade erano ormai invase da marce
antigiunta - le più grandi delle quali erano guidate da studenti - e il regime era in serie difficoltà. Nel
disperato tentativo di aggrapparsi al potere, i militari cambiarono radicalmente tattica: la democrazia fu
annullata completamente, tutte le libertà civili furono revocate, la tortura divenne sistematica e, secondo
la Commissione istituita in seguito in Brasile per appurare la verità, "gli omicidi di Stato divennero
routine".
Il colpo di Stato in Indonesia nel 1965 seguì una traiettoria molto diversa. Dopo la Seconda guerra
mondiale, il Paese era stato guidato dal presidente Sukarno, l'Hugo Chavez dei suoi tempi (anche se meno
amante delle elezioni rispetto a Chavez). Sukarno provocò l'ira dei Paesi ricchi proteggendo l'economia
indonesiana, redistribuendo la ricchezza e cacciando il Fondo monetario internazionale e la Banca
mondiale, che accusava di essere coperture per gli interessi delle multinazionali occidentali. Sukarno era
un nazionalista, non un comunista, ma lavorava a stretto contatto con il partito comunista, che contava tre
milioni di membri attivi. Il governo statunitense e quello britannico erano decisi a porre fine al regime di
Sukarno, e documenti desecretati mostrano che la Cia aveva ricevuto dall'alto l'ordine di "liquidare il
presidente Sukarno, approfittando della situazione e delle occasioni disponibili".''
Dopo alcune false partenze, l'occasione giusta si presentò nell'ottobre 1965, quando il generale Suharto,
spalleggiato dalla Cia, iniziò il processo di presa del potere e di cancellazione della sinistra. La Cia
aveva compilato una lista segreta delle figure di spicco della sinistra indonesiana, documento che era
finito nelle mani di Suharto, e il Pentagono aveva fornito armi e radio da campo perché le forze
indonesiane potessero comunicare negli angoli più remoti dell'arcipelago. A quel punto Suharto inviò i
suoi soldati all'inseguimento dei quattro o cinquemila uomini di sinistra nelle sue shooting lists, liste
delle persone da uccidere, come le chiamava la Cia; l'ambasciata Usa riceveva regolari rapporti sui loro
progressi. Quando arrivavano le informazioni, la Cia cancellava nomi dalle sue liste finché non fosse
certa che la sinistra indonesiana fosse stata annichilita. Una delle persone coinvolte nella compilazione
delle liste era Robert J. Martens, che lavorava per l'ambasciata americana a Giakarta. "[Le liste] sono
state di grande aiuto per l'esercito" raccontò venticinque anni dopo alla giornalista Kathy Kadane.
"Probabilmente i soldati hanno ucciso molte persone, e c'è molto sangue sulle mie mani, ma non è tutto
negativo. Ci sono situazioni in cui bisogna colpire duro in un momento decisivo."
Le liste contenevano i nomi dei bersagli più importanti; i massacri più indiscriminati, per i quali Suharto
è passato alla storia, erano invece in gran parte delegati a studenti religiosi rapidamente addestrati dai
militari e poi inviati nei villaggi con il compito di "spazzar via" i comunisti dalle campagne. "Con
evidente piacere" scrisse un reporter "chiamavano a gran voce i loro seguaci, si mettevano alla cintura i
coltelli e le pistole, si appoggiavano le clave sulle spalle e si dedicavano al compito che da tanto tempo
speravano di poter svolgere." In poco più di un mese, almeno mezzo milione (probabilmente un milione)
di persone furono uccise, "massacrate a migliaia" secondo il
"Time".'' In Giava Orientale, "i viaggiatori di quelle zone parlano di piccoli fiumi e ruscelli che sono
stati letteralmente intasati dai cadaveri; in certi tratti la navigazione è impossibile".
L'esperienza indonesiana attrasse l'attenzione di individui e istituzioni che complottavano per la
destituzione di Salvador Allende, a Washington e Santiago, A suscitare il loro interesse non fu solo la
brutalità di Suharto, ma il ruolo straordinario giocato da un gruppo di economisti indonesiani formatisi
all'Università della California a Berkeley, e noti come la "mafia di Berkeley". Suharto era riuscito a
liberarsi della sinistra, ma era stata la "mafia di Berkeley" a predisporre il piano economico per il futuro
del Paese.
I parallelismi con i Chicago Boys erano impressionanti. La "mafia di Berkeley" aveva studiato negli Stati
Uniti nell'ambito di un programma avviato nel 1956, sovvenzionato dalla fondazione Ford.
Erano anche tornati a casa per costruire una copia fedele di un dipartimento di Economia all'occidentale,
nel loro caso alla facoltà di Economia dell'Università dell'Indonesia. La Ford inviò professori americani
a Giakarta per istituire la scuola, esattamente come i docenti di Chicago avevano contribuito alla
fondazione del nuovo dipartimento di Economia a Santiago. "La Ford pensava di star addestrando gli
uomini che avrebbero guidato
il Paese quando Sukarno fosse andato via" spiegò bruscamente John Howard, allora direttore del
programma internazionale di addestramento e ricerca della Ford.
Gli studenti sovvenzionati dalla Ford divennero leader dei gruppi universitari che contribuirono a
rovesciare Sukarno, e la "mafia di Berkeley" lavorò gomito a gomito con l'esercito nella preparazione del
colpo di Stato, sviluppando "piani di emergenza" da applicare nel caso in cui il governo cadesse
all'improvviso.
Nota: non tutti i professori americani associati al programma erano a proprio agio in quel ruolo.
"Mi sembrava che l'Università non dovesse farsi coinvolgere in quella che di fatto stava diventando una
rivolta contro il governo" disse Len Doyle, il professore di Berkeley eletto a capo del programma Ford
per l'economia indonesiana. Questo punto di vista fu sufficiente perché Doyle fosse richiamato in patria e
sostituito da un collega che non aveva questo genere di remore.
È interessante rilevare che Arnold Harberger fu assunto come consulente del ministero delle Finanze
indonesiano nel 1975.
Questi giovani economisti esercitavano un'influenza enorme sul generale Suharto, che di alta finanza non
sapeva nulla. Secondo la rivista "Fortune", la "mafia di Berkeley" registrava lezioni di economia su
audiocassette che poi Suharto ascoltava a casa sua. E quando si incontrarono di persona, ricorda con
orgoglio un membro del gruppo, "il presidente Suharto non si limitò ad ascoltare: prese appunti".'' Un
altro laureato di Berkeley descrive così la relazione con Suharto:
"Presentammo agli alti gradi dell'esercito - elemento cruciale del nuovo ordine - un "manuale" di
"ricette" per affrontare i gravi problemi economici dell'Indonesia. Il generale Suharto, in quanto
comandante supremo dell'Esercito, non solo accettò il ricettario, ma volle i suoi autori come consiglieri
economici".'' Li volle eccome: Suharto imbottì il suo governo con membri della "mafia di Berkeley", ai
quali affidò tutti i ruoli centrali della finanza, tra cui quello di ministro del Commercio e ambasciatore a
Washington.
Questi economisti, avendo studiato in una scuola meno ideologica, non erano radicali anti-statalisti come
i Chicago Boys. Credevano che il governo dovesse avere un ruolo nella gestione dell'economia interna
dell'Indonesia, e assicurare la disponibilità delle risorse di base, come il riso.
Tuttavia, la "mafia di Berkeley" non avrebbe potuto dimostrarsi più ospitale con gli investitori stranieri
desiderosi di sfruttare l'immensa ricchezza mineraria e petrolifera dell'Indonesia, che Richard Nixon
descrisse come "il premio più ambito nell'area del Sudest asiatico". Vararono leggi che permettevano
alle industrie straniere di possedere il 100 per cento di queste risorse, concessero temporanee
sospensioni delle tasse; e nel giro di due anni, la ricchezza naturale dell'Indonesia rame, nickel, legname, gomma e petrolio - era divisa tra le più grandi compagnie minerarie ed elettriche
del mondo.
Per chi stava tramando di rovesciare Allende proprio mentre il programma di Suharto prendeva avvio, le
esperienze maturate in Brasile e Indonesia consentivano un utile studio per contrasto. I brasiliani non
avevano sfruttato appieno il potere dello shock, avevano aspettato anni prima di rendere esplicito la loro
sete di brutalità. Era stato un errore quasi fatale, perché lasciava ai nemici la possibilità di ricompattarsi
e - per qualcuno - di formare eserciti di guerriglieri di sinistra.
Sebbene la giunta riuscì a svuotare le strade, fu però costretta a rallentare l'applicazione dei piani
economici.
Suharto, d'altra parte, aveva mostrato che se la repressione massiccia era usata in modo preventivo, il
Paese sarebbe stato gettato in una sorta di shock, e la resistenza poteva essere spazzata via prima ancora
di iniziare. Il suo utilizzo del terrore era talmente spietato, talmente oltre le peggiori aspettative, che
quello stesso popolo che poche settimane prima aveva tentato di gridare in coro l'indipendenza del suo
Paese, era ora così terrorizzato da cedere completamente il controllo a Suharto e ai suoi boia. Ralph
McGehee, funzionario di alto rango delle operazioni Cia negli anni del golpe, affermò che l'Indonesia era
stata "un'operazione modello [...]. Si può rintracciare l'intero corso degli eventi di sangue da Washington
al modo in cui Suharto prese il potere. Il successo di questa operazione significava che sarebbe stata
ripetuta, più e più volte".
L'altra lezione importante impartita dall'Indonesia aveva a che fare con i rapporti intercorsi tra Suharto e
la "mafia di Berkelep" prima del colpo di Stato. Poiché erano pronti a ricoprire ruoli di primo piano
nella "tecnocrazia" del nuovo governo, e avevano già convertito Suharto alla loro visione del mondo, il
golpe non si limitò a spazzare via una minaccia nazionalista: trasformò l'Indonesia in un paradiso per le
multinazionali straniere.
Mentre saliva la tensione in vista della cacciata di Allende, un avvertimento agghiacciante fece la sua
comparsa in vernice rossa sui muri di Santiago. Diceva: "Giakarta sta arrivando".
Poco dopo l'elezione di Allende, i suoi oppositori in Cile iniziarono a imitare l'approccio indonesiano
con inquietante precisione.
L'Università Cattolica, sede dei Chicago Boys, divenne il ground zero su cui edificare quello che la Cia
chiamava "un clima da colpo di Stato". Molti studenti si unirono al partito di stampo fascista Patria y
Libertad e marciarono al passo dell'oca per le strade, in aperta imitazione della Gioventù hitleriana. Nel
settembre 1971, quando Allende era al governo da un anno, i maggiori industriali cileni tennero una
riunione di emergenza nella città costiera di Villa del Mar per sviluppare una strategia coerente per il
cambio di regime. Secondo Orlando Saenz, presidente dell'Associazione nazionale della manifattura
(generosamente finanziata dalla Cia e da molte delle stesse multinazionali straniere intente alle proprie
macchinazioni a Washington), i convenuti decisero che
"il governo Allende era incompatibile con la libertà del Cile e con l'esistenza dell'impresa privata, e che
l'unico modo per evitare la fine era rovesciare il governo". Gli imprenditori formarono una
"struttura di guerra", una parte della quale si sarebbe relazionata con l'esercito; un'altra, secondo Saenz,
avrebbe "approntato programmi specifici alternativi a quelli del governo, che sarebbero stati
sistematicamente passati alle Forze armate".
Saenz reclutò alcuni Chicago Boys di primo piano perché elaborassero quei programmi alternativi, e li
piazzò in un ufficio nuovo vicino al palazzo presidenziale, a Santiago. Il gruppo, guidato da Sergio de
Castro, laureato a Chicago, e dal suo collega dell'Università Cattolica Sergio Undurraga, prese a tenere
incontri segreti settimanali durante i quali furono elaborate proposte dettagliate per ricostruire dalle
fondamenta il Paese in senso neoliberista. Secondo l'inchiesta condotta in seguito dal Senato, "più del 15
per cento" dei fondi per questa "organizzazione di ricerca di opposizione"
veniva direttamente dalla Cia.
Per un certo periodo, la preparazione del colpo di Stato procedette lungo due binari distinti: l'esercito
pianificava lo sterminio di Allende e dei suoi sostenitori, e nel frattempo gli economisti progettavano lo
sterminio delle loro idee. Mentre si accumulavano le energie che sarebbero esplose in violenza, si aprì
un dialogo fra le due parti, che vide nel ruolo di moderatore Roberto Kelly, un uomo d'affari legato al
quotidiano "El Mercurio", finanziato dalla Cia. Tramite Kelly, i Chicago Boys inviarono un riassunto in
cinquecento pagine del loro programma economico all'ammiraglio della marina. La marina diede
l'assenso, e da allora i Chicago Boys lavorarono alacremente per terminare la stesura del programma in
tempo per l'attuazione del colpo di Stato.
Questa loro bibbia di 500 pagine - un dettagliato programma
economico che avrebbe guidato la giunta fin dai suoi primi giorni - divenne noto in Cile come il
"Mattone". Secondo un documento posteriore della Commissione del Senato americano, "i collaboratori
della Cia erano coinvolti nell'iniziale preparazione di un piano economico globale, che avrebbe posto le
basi per le più importanti decisioni economiche prese dalla giunta". Otto dei dieci principali autori del
"Mattone" avevano studiato economia all'Università di Chicago.
Anche se il rovesciamento di Allende è stato universalmente descritto come un colpo di Stato militare.
Orlando Letelier, ambasciatore di Allende a Washington, vide in esso una collaborazione tra l'esercito e
gli economisti. "I "Chicago Boys", come sono chiamati in Cile" scrisse "convinsero i generali che erano
disposti ad affiancare alla brutalità esercitata dai militari le risorse intellettuali che ai militari
mancavano."
Il colpo di Stato in Cile, quando sarebbe infine arrivato, avrebbe sfruttato tre diversi tipi di shock, una
ricetta che sarebbe stata duplicata nei Paesi vicini e sarebbe riemersa trent'anni dopo in Iraq, Lo shock
del colpo di Stato vero e proprio fu seguito all'istante da due forme ulteriori di shock. Una era il
"trattamento shock" capitalista di Milton Friedman, tecnica nella quale erano stati addestrati ormai
centinaia di economisti latinoamericani all'Università di Chicago e nelle sue varie filiali.
L'altra era lo shock di Ewen Cameron, le sue ricerche sulle droghe e le deprivazioni sensoriali, ora
codificate come tecniche di tortura nel manuale Kubark e diffuse dalla Cia in approfonditi programmi di
addestramento per la polizia e l'esercito dei Paesi latinoamericani.
Queste tre forme di shock furono fatte convergere sui corpi dei latinoamericani e sul corpo politico della
regione, dando vita a un uragano inarrestabile di distruzione e ricostruzione, cancellazione e creazione,
che si rafforzavano a vicenda. Lo shock del colpo di Stato preparò il terreno per la shockterapia
economica, lo shock delle camere di tortura terrorizzò chiunque avesse intenzione di sbarrare la strada
agli shock economici. Da questo laboratorio in tempo reale emerse il primo Stato della Scuola di
Chicago, e la prima vittoria della controrivoluzione globale.
Parte seconda.
Il primo test. Le doglie del parto.
Le teorie di Milton Friedman gli sono valse il premio Nobel; al Cile hanno dato il generale Pinochet.
Eduardo Calcano, Giorni e notti d'amore e di guerra, 1983.
Non credo di essere mai stato considerato "cattivo".
Milton Friedman, citato nel "Wall Street Journal", 22 luglio 2006.
3.
Stati di shock.
La sanguinaria nascita della controrivoluzione.
Perché le ingiurie si debbono fare tutte insieme, acciò, che, assaporandosi meno, offendano meno.
Niccolò Machiavelli, Il principe, 1532.
Se fosse adottato questo approccio dello shock, credo che dovrebbe essere annunciato pubblicamente
nei minimi dettagli, e messo in atto al più presto. Viù compiutamente l'opinione pubblica è informata,
più le sue reazioni favoriranno l'adattamento.
Milton Friedman in una lettera al generale Augusto Pinochet, 21 aprile 1975.
Il generale Augusto Pinochet e i suoi sostenitori si riferirono sempre agli eventi dell'11 settembre 1973
non come a un colpo di Stato, ma a "una guerra". Santiago aveva tutta l'aria di una zona di guerra, in
effetti: i carri armati sparavano mentre i cingoli sferragliavano giù per i viali, e gli edifici del governo
erano sotto l'attacco dei jet da combattimento. Ma c'era qualcosa di strano in questa guerra: aveva una
sola fazione.
Fin dall'inizio, Pinochet ebbe il controllo assoluto dell'esercito, della marina e della polizia. Nel
frattempo, il presidente Salvador Allende si era rifiutato di organizzare i suoi simpatizzanti in leghe di
difesa armate, dunque non aveva un esercito. L'unica forma di resistenza proveniva dal palazzo
presidenziale, La Moneda, e dai tetti tutt'intorno, dove Allende e i suoi fedelissimi lottarono
coraggiosamente per difendere la sede della democrazia. Fu una lotta impari: sebbene nel palazzo ci
fossero solamente 36 sostenitori di Allende, l'esercito lanciò 24 missili.
Pinochet, il vanitoso e volubile comandante dell'operazione (fatto della stessa pasta dei carri armati su
cui viaggiava), voleva che il golpe fosse il più spettacolare e traumatico possibile. Anche se non era una
guerra, era stato progettato per sembrarlo: un antesignano cileno dello Shock and Awe.
Difficilmente avrebbe potuto essere più scioccante. A differenza della vicina Argentina, che aveva visto
succedersi sei governi militari negli ultimi quarant'anni, il Cile non aveva mai sperimentato questo tipo di
violenza; aveva goduto 160 anni di pace e democrazia, gli ultimi 41 dei quali ininterrotti.
Ora il palazzo presidenziale era in fiamme, il corpo del presidente avvolto in un sudario era portato fuori
su una barella, e i suoi colleghi più fidati giacevano a faccia in giù per la strada, sotto il tiro dei fucili
spianati.
Nota: Allende fu trovato con la testa maciullata. Ancora oggi non è chiaro se a ucciderlo fosse stato uno
dei proiettili sparati nella Moneda, o se fosse stato lui a suicidarsi per non lasciare ai cileni l'immagine
del loro presidente eletto che si arrende a un'armata insurrezionale. La seconda teoria è più credibile.
A pochi minuti d'auto dal palazzo presidenziale, Orlando Letelier, da poco tornato da Washington per
insediarsi come ministro della Difesa cileno, quella mattina era andato nel suo ufficio al ministero.
Appena varcato il portone, cadde in un'imboscata tesagli da dodici soldati in uniforme da combattimento,
tutti con i mitra spianati contro di lui.
Negli anni precedenti al colpo di Stato, gli addestratori americani, molti dei quali lavoravano per la Cia,
avevano coinvolto l'esercito cileno nella frenesia anticomunista, convincendo i militari che i socialisti
erano ipso facto spie russe, "il nemico interno", una forza estranea alla società cilena. In realtà, era
l'esercito il vero nemico interno, pronto a rivolgere le armi contro la popolazione che aveva giurato di
proteggere.
Con Allende morto, i suoi ministri prigionieri e nessuna resistenza di massa all'orizzonte, la grande
battaglia della giunta era già finita a metà pomeriggio. Letelier e gli altri prigionieri "vip" furono infine
portati nella gelida isola di Dawson, nello Stretto di Magellano, la versione pinochetiana dei campi di
lavoro in Siberia. Ma uccidere e mettere sotto chiave il governo non era abbastanza per la nuova giunta
cilena. I generali sapevano che la loro capacità di resistenza dipendeva dal fatto che i cileni erano
assolutamente terrorizzati, come lo era stato il popolo indonesiano. Nei giorni successivi, circa 13.500
civili furono arrestati, caricati su camion e incarcerati, secondo un rapporto desecretato della Cia. In
migliaia finirono nei due maggiori stadi di calcio di Santiago, il Chile Stadium e l'enorme Stadio
nazionale. Nello Stadio nazionale, la morte rimpiazzò il calcio come spettacolo pubblico. I soldati si
aggiravano per le tribune con delatori incappucciati che indicavano i
"sovversivi"; i prescelti erano trascinati negli spogliatoi e nelle tribune chiuse, riadattati a camere di
tortura. In centinaia furono giustiziati. Corpi senza vita iniziarono a comparire ai bordi delle grandi
autostrade o a galleggiare in fangosi canali urbani.
Per assicurarsi che il terrore si estendesse anche oltre la capitale, Pinochet mandò il suo comandante più
brutale, il generale Sergio Arellano Stark, in una missione in elicottero nelle province del Nord, per
visitare una serie di prigioni in cui erano tenuti i "sovversivi". In ogni città e villaggio, Stark e la sua
squadra della morte itinerante selezionarono i prigionieri di più alto profilo, anche ventisei alla volta, e li
giustiziarono. La scia di sangue che si lasciarono dietro in quei quattro giorni divenne nota come la
Carovana della morte. Ben presto l'intero Paese aveva afferrato il messaggio: resistenza uguale morte.
Benché la battaglia di Pinochet fosse unilaterale, i suoi effetti furono concreti come quelli di qualsiasi
guerra civile o invasione straniera: alla fine più di 3200 persone risultavano scomparse o trucidate,
80.000 erano stati imprigionate, 200.000 erano fuggite dal Paese per motivi politici.
Il fronte economico.
Per i Chicago Boys, l'11 settembre fu un giorno di scalpitante attesa e scariche di adrenalina. Sergio de
Castro aveva lavorato freneticamente con il suo contatto nella marina, per ottenere l'approvazione delle
ultime parti del "Mattone", pagina per pagina. Ora, il giorno fissato per il colpo di Stato, diversi Chicago
Boys erano accampati fuori dalle tipografie del quotidiano di destra "El Mercurio". Mentre fuori in
strada risuonavano gli spari, loro lavoravano alacremente per riuscire a stampare il "Mattone" in tempo
per il primo giorno di lavoro della giunta. Arturo Fontaine, un redattore del giornale, ricorda che le
macchine "lavoravano senza sosta per produrre copie di quel lungo documento". E ce la fecero - per un
pelo. "Prima di mezzogiorno del mercoledì 12 settembre 1973, il piano era sulla scrivania
di tutti i funzionari generali delle Forze armate che avevano incarichi di governo."
Le proposte delineate nel documento finale somigliavano molto a quelle presenti in Capitalismo e libertà
di Milton Friedman: privatizzazione, deregulation e tagli alla spesa sociale - la trinità neoliberista. I
Chicago Boys, in precedenza, avevano cercato di introdurre queste idee in modo pacifico, entro i confini
del dibattito democratico, ma avevano incontrato una schiacciante opposizione. Ora erano tornati
nuovamente alla carica, in un clima politico nettamente più favorevole al loro radicalismo. Non c'era
bisogno che qualcuno fosse d'accordo con loro, fatta eccezione di un manipolo di uomini in uniforme. I
loro oppositori politici più convinti erano in prigione, o morti, o in fuga: lo spettacolo dei jet da
combattimento e delle carovane della morte bastava a tenere a bada tutti gli altri.
"Per noi, fu una rivoluzione" disse Cristian Larroulet, uno dei consiglieri economici di Pinochet. E
lo fu. L'11 settembre 1973 non segnò solo la fine violenta della pacifica rivoluzione socialista di
Allende; fu l'inizio di una "controrivoluzione", come l'avrebbe in seguito descritta l'"Economist": la
prima vittoria concreta nella campagna condotta dalla Scuola di Chicago per abbattere le conquiste
ottenute sotto l'economia dello sviluppo e il keynesianismo. A differenza della rivoluzione parziale di
Allende, mitigata e limitata dai compromessi della democrazia, questa trasformazione, imposta con la
forza bruta, era libera di spingersi fin dove voleva. Negli anni seguenti, le linee di condotta delineate nel
"Mattone" sarebbero state imposte in dozzine di altri Paesi con la copertura di un ampio assortimento di
crisi. Ma fu il Cile la genesi della controrivoluzione: una genesi di terrore.
José Pinera, ex studente del dipartimento di Economia all'Università Cattolica e sedicente Chicago Boy,
era ricercatore a Harvard al momento del colpo di Stato. Quando sentì le buone notizie, tornò a casa "per
contribuire a fondare il nuovo Paese, devoto alla libertà, dalle ceneri del vecchio".
Secondo Pinera, destinato a diventare ministro del Lavoro e delle Miniere nel governo Pinochet, questa
fu "la vera rivoluzione [...] un movimento radicale, vasto e prolungato in direzione del libero mercato".
Prima del golpe, Augusto Pinochet aveva la reputazione di un uomo deferente fino all'ossequio, sempre
attento a ingraziarsi i suoi funzionari civili mostrandosi invariabilmente d'accordo con loro.
In veste di dittatore, Pinochet scoprì nuovi lati del proprio carattere. Accolse il potere con inquietante
gusto, dandosi arie da monarca e sostenendo che "il destino" gli aveva assegnato quel ruolo. Ben presto
organizzò un golpe nel golpe, per liberarsi degli altri tre leader militari con cui si era accordato per
dividersi il potere, e si autonominò Capo supremo della nazione, oltre che presidente. Si crogiolava in
cerimonie e magnificenze, testimonianza del suo diritto a governare, e non perdeva occasione per
indossare la sua uniforme da parata prussiana, completa di mantello. Per girare a Santiago scelse una
carovana di Mercedes dorate e blindate.
Pinochet aveva un'inclinazione per il dominio autoritario, ma, come Suharto, non sapeva quasi nulla di
economia. Era un problema, perché la campagna di sabotaggio industriale capeggiata dall'Itt era riuscita a
mandare in tilt l'economia, e Pinochet aveva per le mani una vera e propria crisi. Fin dall'inizio, ci fu una
lotta di potere interna alla giunta, fra coloro che volevano semplicemente restaurare lo status quo preAllende e tornare rapidamente alla democrazia, e i Chicago Boys, che spingevano per una rivoluzione
liberista che avrebbe impiegato anni a dipanarsi. Pinochet, che si godeva i suoi nuovi poteri, non
accettava l'idea di essere soltanto una mera operazione di ripulitura, di essere lì per "ripristinare
l'ordine" e poi andarsene. "Non siamo un aspirapolvere che ha spazzato via il marxismo per restituire il
potere ai signori Politici" avrebbe detto. La visione dei Chicago Boys di una ristrutturazione totale del
Paese aveva catturato la sua immaginazione e, come Suharto aveva fatto con la sua "mafia di Berkelep",
nominò immediatamente vari laureati di Chicago come consiglieri economici, tra cui Sergio de Castro, il
leader effettivo del movimento nonché principale autore del "Mattone". Li chiamava technos, i tecnici, in
ossequio alla loro convinzione che sistemare un'economia fosse una questione scientifica, non di scelte
umane soggettive.
Nonostante Pinochet capisse poco d'inflazione e tassi d'interesse, i technos parlavano una lingua che lui
comprendeva. Per loro "economia" significava una serie di forze naturali che dovevano essere rispettate,
perché "agire contro natura è controproducente e ingannevole" come spiegò Pifiera,"
Pinochet era d'accordo: le persone, scrisse una volta, devono sottomettersi alla struttura perché "la natura
ci mostra che sono necessari un ordine di fondo e una gerarchia". Questo richiamo da parte di entrambi
alla necessità di obbedire alle leggi naturali formò le basi dell'alleanza Pinochet-Chicago.
Per il primo anno e mezzo, Pinochet seguì fedelmente le regole di Chicago: privatizzò alcune aziende
statali (anche se non tutte),
tra cui alcune banche; permise nuove e innovative forme di finanza speculativa; spalancò le frontiere alle
importazioni, abbattendo le barriere che avevano protetto le manifatture cilene per decenni; e tagliò le
spese del governo del 10 per cento, eccetto per l'esercito, che per ovvi motivi ricevette un cospicuo
aumento. Eliminò anche i controlli sui prezzi: una mossa radicale in un Paese che per decenni aveva
regolato i costi di beni di prima necessità come pane e olio per cucinare.
I Chicago Boys avevano assicurato a Pinochet che, se il governo si fosse ritirato all'improvviso da tutte
queste aree, tutte insieme, le leggi "naturali" dell'economia avrebbero riscoperto il loro equilibrio, e
l'inflazione - che loro vedevano come una sorta di febbre economica che indicava la presenza di
organismi estranei nel mercato - sarebbe scomparsa all'istante, come per magia. Si sbagliavano. Nel
1974, l'inflazione toccò il 375 per cento: il tasso più alto nel mondo, e quasi il doppio del tasso massimo
raggiunto sotto Allende. Il costo dei beni di prima necessità come il pane aumentò esponenzialmente. Nel
frattempo, i cileni non trovavano più lavoro, perché in seguito all'esperimento liberista di Pinochet il
Paese era stato invaso dalle importazioni a buon mercato. Le imprese locali chiudevano, incapaci di
competere; la disoccupazione toccò livelli record, la gente faceva la fame: il primo laboratorio della
Scuola di Chicago era una débâcle.
Sergio de Castro e gli altri Chicago Boys sostenevano, come facevano sempre, che il problema non stava
nella loro teoria ma nel fatto che essa non venisse applicata con sufficiente severità.
L'economia non era riuscita a correggersi e tornare a un armonioso equilibrio perché c'erano ancora
"distorsioni" provocate da quasi mezzo secolo di interferenza governativa. Perché l'esperimento
funzionasse, Pinochet doveva eliminare queste distorsioni: più tagli, più privatizzazioni, ancora più in
fretta.
In quei diciotto mesi, gran parte dell'elite economica del Paese ne aveva avuto abbastanza delle
avventure di capitalismo estremo dei Chicago Boys. Gli unici a beneficiarne erano gli imprenditori
stranieri, e un ristretto circolo di finanzieri noti come i "piranha", che traevano grande profitto dalla
speculazione. Le manifatture di base, che avevano appoggiato con decisione il golpe, ora venivano
spazzate via. Orlando Saenz - presidente dell'Associazione nazionale degli imprenditori che aveva
coinvolto i Chicago Boys nel golpe - ora diceva che i risultati dell'esperimento erano "uno dei più grandi
fallimenti della nostra storia economica". Gli imprenditori si erano opposti al socialismo di Allende, ma
non all'economia regolata. "Non è possibile continuare con il caos finanziario che regna in Cile" disse
Saenz. "È necessario incanalare in investimenti produttivi i milioni e milioni di risorse finanziarie che
ora sono impiegati in azzardate operazioni speculative, davanti agli occhi di persone che non hanno
neppure un lavoro."
Con il loro piano ora in così grave pericolo, i Chicago Boys e i piranha (e i confini tra i due erano molto
sfumati) decisero che era ora di convocare i pezzi grossi. Nel marzo 1975, Milton Friedman e Arnold
Harberger volarono a Santiago dietro invito di una grande banca, per aiutare a salvare l'esperimento.
Friedman fu accolto dalla stampa di regime come una rock star, il guru del nuovo ordine. Ogni sua
affermazione generava titoli a nove colonne, le sue conferenze erano trasmesse alla tv nazionale e poteva
contare sul pubblico più importante: ottenne un incontro privato con il generale Pinochet.
Durante tutto il suo soggiorno, Friedman insisté su un solo concetto: la giunta aveva iniziato con il piede
giusto, ma ora doveva abbracciare il libero mercato con più abbandono. Nei discorsi e nelle interviste,
usò un termine che mai prima d'allora era stato applicato pubblicamente a una crisi economica reale:
disse che era necessario "un trattamento shock". Era, spiegò, "l'unica medicina possibile. Assolutamente.
Non ce ne sono altre. Non ci sono altre soluzioni a lungo termine".
Quando un giornalista cileno fece notare che anche Richard Nixon, allora presidente degli Stati Uniti,
aveva imposto controlli per temperare il libero mercato, Friedman ribatté: "Sono contrario a quei
controlli. Credo che noi non dovremmo applicarli. Sono contrario all'intervento del governo
nell'economia, nel mio Paese come in Cile".
Dopo il suo incontro con Pinochet, Friedman compilò alcuni appunti personali che avrebbe presentato
molti anni dopo nelle sue memorie. Osservò che il generale "era molto bendisposto verso l'idea del
trattamento shock, ma era chiaramente preoccupato all'idea della temporanea disoccupazione che poteva
seguirne". Ora, dal momento che Pinochet era già famigerato in tutto il mondo per aver ordinato massacri
negli stadi di calcio, il fatto che il dittatore fosse "turbato" dai costi umani della shockterapia avrebbe
dovuto far riflettere Friedman. Invece, continuò a esortarlo in una lettera successiva, nella quale lodò le
decisioni "estremamente sagge" del generale, ma invitò Pinochet a tagliare ulteriormente le spese di
governo, "del 25 per cento entro sei mesi [...] su tutti i fronti"; simultaneamente, adottò un pacchetto di
politiche in favore delle imprese, in direzione di un "mercato completamente libero". Friedman predisse
che le centinaia di migliaia di persone che sarebbero state licenziate dal settore pubblico avrebbero
trovato presto nuovi impieghi nel settore privato, destinato a espandersi grazie alla rimozione, decisa da
Pinochet, della maggior parte degli "ostacoli che ora frenano il mercato privato".
Friedman garantì al generale che se avesse seguito questi consigli, avrebbe potuto prendersi il merito di
un "miracolo economico"; avrebbe potuto "porre fine all'inflazione in pochi mesi", mentre il problema
della disoccupazione sarebbe stato egualmente "breve - nell'ordine dei mesi - e la ripresa sarebbe stata
rapida". Pinochet avrebbe dovuto agire in fretta e in modo risoluto; Friedman sottolineò ripetutamente
l'importanza dello "shock", usando la parola per tre volte e rimarcando che
"il gradualismo non è praticabile".
Pinochet si convertì. Nella sua lettera di risposta, il generale espresse "la mia più alta e profonda stima
per Lei", rassicurando Friedman che "il Piano è in fase di applicazione piena in questo momento".
Immediatamente dopo la visita di Friedman, Pinochet licenziò il suo ministro dell'Economia e lo
rimpiazzò con Sergio de Castro, in seguito promosso a ministro delle Finanze.
De Castro riempì il governo con i suoi colleghi Chicago Boys, nominando uno di loro governatore della
Banca centrale. Orlando Saenz, che si era opposto ai licenziamenti di massa e alla chiusura delle
fabbriche, fu sostituito nel ruolo di direttore dell'Associazione delle manifatture da qualcuno con un
atteggiamento più favorevole allo shock. "Se ci sono industriali che si lamentano di questo, che vadano
all'inferno. Io non li difenderò" annunciò il nuovo direttore.
Liberi dalle opposizioni, Pinochet e De Castro si misero al lavoro per spazzar via il welfare state e
conseguire la loro utopia di capitalismo puro. Nel 1975, tagliarono la spesa pubblica del 27 per cento in
un colpo solo; e continuarono a tagliare finché, nel 1980, non fu ridotta alla metà di quanto era stata sotto
Allende. La sanità e il sistema scolastico subirono i colpi peggiori. Persino l'"Economist", araldo del
libero mercato, la definì "un'orgia di automutilazione". De Castro privatizzò quasi cinquecento imprese e
banche statali, praticamente svendendone gran parte, dato che lo scopo era collocarle prima possibile al
giusto posto nell'ordine economico. Non ebbe pietà per le aziende locali e rimosse altre barriere
doganali; il risultato fu la perdita di 177.000 posti di lavoro nell'industria fra il 1973 e il 1983. A metà
degli anni Ottanta, il peso dell'industria nel complesso dell'economia scese a livelli mai più visti dai
tempi della Seconda guerra mondiale.
"Trattamento shock" era una descrizione calzante per ciò che Friedman aveva prescritto. Pinochet aveva
provocato ad arte una grave recessione, sulla base della teoria non dimostrata secondo cui una
contrazione improvvisa avrebbe riportato in salute l'economia. La logica era sorprendentemente simile a
quella degli psichiatri che negli anni Quaranta e Cinquanta avevano iniziato a prescrivere Tec in massa,
convinti che un attacco epilettico deliberatamente indotto avrebbe magicamente rimesso in sesto i
cervelli dei loro pazienti.
La teoria della shockterapia economica si fonda in parte sul ruolo delle aspettative nell'alimentare un
processo inflazionarlo. Frenare l'inflazione richiede non solo di mutare la politica monetaria, ma anche di
cambiare il comportamento dei consumatori, dei datori di lavoro e dei dipendenti. Un mutamento di
politica improvviso e inaspettato altera rapidamente le aspettative, segnalando all'opinione pubblica che
le regole del gioco sono profondamente mutate: né i prezzi né i salari continueranno a salire. Secondo
questa teoria, più in fretta si abbassano le aspettative riguardo all'inflazione, e più sarà breve il periodo
doloroso di recessione e alta disoccupazione. Tuttavia, soprattutto in quei Paesi nei quali la classe
politica ha perso credibilità, si suppone che solo uno shock enorme e radicale abbia il potere di
"insegnare" all'opinione pubblica queste amare lezioni.
Alcuni economisti della Scuola di Chicago sostengono che il primo esperimento di shockterapia si svolse
nella Germania Ovest il 20 giugno 1948, quando il ministro delle Finanze Ludwig Erhard eliminò gran
parte dei controlli sui prezzi e introdusse una nuova valuta. Agì rapidamente e senza preavviso,
determinando uno shock tremendo per l'economia tedesca, che avrebbe condotto a una diffusa
disoccupazione. Ma i parallelismi finiscono qui: le riforme di Erhard furono limitate alla politica
monetaria e dei prezzi, non furono accompagnate da tagli alla previdenza sociale né da una repentina
introduzione del libero scambio, e furono prese molte misure per proteggere i cittadini da questi shock,
tra Cui l'aumento dei salari. Anche dopo lo shock, la Germania Ovest rispondeva alla definizione
friedmaniana di welfare state semi-socialista: lo Stato forniva case popolari, pensioni, assistenza
sanitaria e un sistema scolastico nazionale; il governo gestiva e finanziava praticamente ogni cosa, dalla
compagnia telefonica alle industrie metallurgiche che producevano alluminio.
Nota: a Erhard l'invenzione della shockterapia è conveniente perché il suo esperimento ebbe luogo dopo
che la Germania Ovest era stata liberata dalla tirannia. Lo shock di Erhard, però, somiglia molto poco
alle drastiche trasformazioni attualmente identificate con la shockterapia economica: quel metodo fu usato
per la prima volta da Friedman e Pinochet, in un Paese che aveva appena perso la sua libertà.
Provocare una recessione o una depressione è un'idea brutale, in quanto crea inevitabilmente una povertà
di massa, ed è per questo che nessun leader politico fino a quel momento si era mostrato disposto a
mettere alla prova la teoria: chi vorrebbe essere responsabile di quello che "Business Week" definiva
"un mondo da dottor Stranamore di depressione volutamente indotta"?
Pinochet lo volle. Nel primo anno della shockterapia prescritta da Friedman, l'economia cilena si
contrasse del 15 per cento, e la disoccupazione - che sotto Allende era solo del 3 per cento raggiunse il
20 per cento, un tasso inaudito per il Cile a quel tempo. Il Paese era certamente in preda alle convulsioni,
sotto questa "terapia". E contrariamente alle ottimistiche previsioni di Friedman, la crisi dovuta alla
disoccupazione durò anni, non mesi. La giunta, che aveva apprezzato da subito le metafore di Friedman
sulla "malattia", non credette di dover chiedere scusa, e spiegò che "questo cammino è stato scelto perché
è l'unico che va a colpire direttamente la malattia". Friedman era d'accordo. Quando un giornalista del
"New York Times" gli chiese "se il costo sociale delle sue politiche sarebbe stato eccessivo", lui
rispose: "Domanda sciocca". A un altro giornalista disse: "La mia sola preoccupazione è che continuino
abbastanza a lungo e con abbastanza forza".''
È interessante rilevare come le critiche più decise alla shockterapia provenissero da un ex studente di
Friedman, André Gunder Frank, Durante i suoi studi all'Università di Chicago negli anni Cinquanta,
Gunder Frank - originario della Germania aveva sentito parlare così tanto del Cile che, quando conseguì
un dottorato in Economia, decise di andare a vedere con i suoi occhi il Paese che i suoi insegnanti
avevano dipinto come una malgestita anti-utopia dello sviluppo. Gli piacque ciò che vide, e finì a
insegnare all'Università del Cile, e poi diventò consigliere economico nel governo di Salvador Allende,
per il quale sviluppò un enorme rispetto. In quanto Chicago Boy in Cile, che aveva rigettato la religione
del libero mercato predicata dalla Scuola, Gunder Frank godeva di una prospettiva privilegiata
sull'avventura economica del Paese. Un anno dopo che Friedman aveva prescritto il livello massimo di
shock, Gunder Frank scrisse una rabbiosa "Lettera aperta ad Arnold Harberger e Milton Friedman", in cui
usò la sua cultura formata a Chicago per "esaminare come il paziente cileno ha risposto al vostro
trattamento".
Calcolò cosa significava per una famiglia cilena cercare di sopravvivere con quello che Pinochet
chiamava "salario di sussistenza". Soltanto per comprare il pane serviva il 74 per cento dello stipendio,
il che obbligava la famiglia a rinunciare a "beni di lusso" come il latte e i biglietti dell'autobus per
recarsi al lavoro. In confronto, sotto Allende, pane, latte e biglietto dell'autobus ammontavano al 17 per
cento del salario di un impiegato pubblico. Molti bambini non ricevevano latte nemmeno a scuola, dal
momento che una delle prime iniziative della giunta era consistita nell'eliminare il programma di
distribuzione del latte negli istituti scolastici. Il risultato di questo taglio, e della fame diffusa che ne
seguì, fu che diversi studenti svenivano in classe, e molti smisero di frequentare." Gunder Frank osservò
una connessione diretta fra queste scelte e la violenza che Pinochet aveva riversato sul Paese. Le
prescrizioni di Friedman erano talmente estreme scrisse il Chicago Boy pentito - che non potevano
"essere imposte o realizzate senza i due elementi basilari di ciascuna: la forza militare e il terrore
politico".
Il team economico di Pinochet non si perse d'animo, e si lanciò in nuovi territori di sperimentazione,
introducendo le politiche più all'avanguardia elaborate da Friedman: la scuola pubblica fu rimpiazzata
con un sistema di buoni spesa e scuole charter; le prestazioni sanitarie iniziarono a essere pagate volta
per volta; furono privatizzati asili nido e cimiteri. La misura più radicale fu la privatizzazione della
sicurezza sociale cilena: José Pinera, che implementò il programma, disse di aver tratto ispirazione dal
libro Capitalismo e libertà Nota: All'amministrazione di George W. Bush è generalmente accreditata
l'invenzione della
"società di proprietari" (ownership society), ma in realtà fu il governo di Pinochet, trent'anni prima, a
introdurre l'idea di "una nazione di proprietari".
Il Cile si trovava ora in un territorio inesplorato, e i sostenitori del libero mercato in tutto il mondo,
abituati a dibattere i meriti di queste politiche in ambienti puramente accademici, lo tenevano d'occhio
con attenzione. "I manuali di economia dicono che è così che il mondo dovrebbe funzionare, ma in quale
altro luogo potrebbero metterlo alla prova?" si chiedeva la rivista americana di economia "Barron's". In
un articolo intitolato Cile: test di laboratorio per un teorico, il "New York Times" osservò che "non
capita tutti i giorni che un economista di spicco con idee forti abbia la possibilità di mettere alla prova
ricette specifiche per un'economia in grave crisi. È ancora più inusuale che il cliente dell'economista sia
un Paese diverso dal proprio".
Molti vennero a vedere da vicino il laboratorio cileno, compreso lo stesso Friedrich von Hayek, che si
recò più volte nel Cile di Pinochet e nel 1981 scelse Vina del Mar (la città costiera in cui era stato
architettato il golpe) come sede della conferenza regionale della Mont Pèlerin Society, il centro
nevralgico della controrivoluzione.
Il mito del miracolo cileno.
Trent'anni dopo, il Cile è ancora citato dagli entusiasti del libero mercato come prova che il
friedmanismo funziona. Alla morte di Pinochet, nel dicembre 2006 (un mese dopo Friedman), il
"New York Times" lo elogiò per aver "trasformato un'economia in bancarotta nell'economia più prospera
dell'America Latina", mentre un editoriale del "Washington Post" asseriva che Pinochet
"ha introdotto le politiche liberiste che hanno condotto al miracolo economico cileno".'' I fatti dietro il
"miracolo" cileno restano oggetto di un intenso dibattito.
Pinochet rimase al potere per diciassette anni, e in questo periodo cambiò direzione politica più volte. Il
periodo di crescita sostenuta, che è considerato prova del miracoloso successo del Paese, non iniziò fino
alla metà degli anni Ottanta: un decennio dopo la shockterapia praticata dai Chicago Boys e molto tempo
dopo la radicale correzione di rotta cui Pinochet fu costretto. Questo perché nel 1982, nonostante la
stretta aderenza alla dottrina di Chicago, l'economia cilena crollò: il debito esplose, il Paese ripiombò
nell'iperinflazione e la disoccupazione salì al 30 per cento, dieci volte più alta che ai tempi di Allende.
La causa principale fu che i piranha, le case finanziarie sul modello della Enron che i Chicago Boys
avevano affrancato da ogni vincolo, avevano comprato in blocco le risorse del Paese con soldi presi in
prestito, finendo per accumulare un debito enorme, pari a 14
miliardi di dollari.
La situazione era così instabile che Pinochet fu costretto a fare esattamente ciò che aveva fatto Allende:
nazionalizzare molte di queste aziende. In seguito alla débâcle, quasi tutti i Chicago Boys persero i loro
ruoli di primo piano nel governo, compreso Sergio de Castro. Diversi altri laureati di Chicago
ricoprivano incarichi
prestigiosi tra i piranha, e furono accusati di frode; il che spazzò via la facciata attentamente costruita di
neutralità scientifica che era centrale per l'identità dei Chicago Boys.
L'unica cosa che impedì il collasso economico completo del Cile nei primi anni Ottanta fu il fatto che
Pinochet non privatizzò mai la Codelco, la compagnia mineraria del rame nazionalizzata da Allende. Da
sola, la Codelco generava l'85 per cento delle esportazioni cilene, per cui, quando scoppiò la bolla
finanziaria, lo Stato ebbe ancora una fonte costante di introiti.
È chiaro che il Cile non era mai stato il laboratorio di liberismo "puro" che proclamava di essere.
Era invece un Paese in cui una ristretta élite si trasformò da benestante a ricca sfondata in un brevissimo
lasso di tempo: una formula estremamente redditizia sovvenzionata dal debito e abbondantemente
finanziata (e salvata dal fallimento) con denaro pubblico. Quando si indaga, andando più a fondo degli
slogan pubblicitari che gridano al miracolo, si scopre che il Cile sotto Pinochet e i Chicago Boys non era
uno Stato capitalista dotato di un mercato libero, ma uno Stato corporativo. Il termine "corporativismo" fu
introdotto in origine per indicare il modello di governo nell'Italia di Mussolini: uno Stato di polizia
gestito dall'alleanza delle tre maggiori fonti di potere nella società governo, aziende e sindacati - che
collaborano per assicurare equilibrio e ordine in nome del nazionalismo. Ciò che nacque in Cile sotto
Pinochet era un'evoluzione del corporativismo: un'alleanza basata sull'aiuto reciproco tra uno Stato di
polizia e le grandi industrie, unite per far guerra al terzo settore, i lavoratori; garantendosi così una fetta
sempre maggiore della ricchezza nazionale.
Quella guerra - che molti cileni, comprensibilmente, vedono come una guerra dei ricchi contro i poveri e
la classe media - è la vera storia del "miracolo economico" cileno. Nel 1988, quando l'economia si era
stabilizzata ed era in rapida crescita, il 45 per cento della popolazione era al di sotto della soglia di
povertà." Il 10 per cento dei cileni, invece - cioè i ricchi - aveva visto aumentare il proprio reddito
dell'83 per cento. Ancora nel 2007, il Cile rimaneva una delle società più ineguali del mondo: su 123
Paesi nei quali le Nazioni Unite monitorano la disuguaglianza, il Cile si piazza al 116mo posto, ottavo
Paese più ineguale nella lista.
Se questa classifica fa del Cile un miracolo per gli economisti della Scuola di Chicago, forse allora il
trattamento shock non doveva servire a riportare in salute l'economia. Forse l'intento era precisamente
quello di concentrare la ricchezza ai piani alti e annientare gran parte della classe media attraverso lo
shock.
Così vedeva la situazione Orlando Letelier, ex ministro della Difesa di Allende. Dopo un anno trascorso
nelle prigioni di Pinochet, Letelier riuscì a fuggire dal Cile, grazie a un'intensa campagna internazionale
di sensibilizzazione. Osservando dal suo esilio il rapido impoverimento della nazione, Letelier scrisse
nel 1976 che "negli ultimi tre anni diversi miliardi di dollari sono stati sottratti dalle tasche dei lavoratori
salariati e infilati nelle tasche dei capitalisti e dei proprietari terrieri [...] La concentrazione della
ricchezza non è un caso, ma la regola: non è l'effetto collaterale di una situazione difficile - come la
giunta vorrebbe far credere al mondo - ma la base di un progetto sociale; non è un inconveniente
economico, ma un successo politico temporaneo".''
Ciò che Letelier non poteva sapere all'epoca era che il Cile sotto il dominio della Scuola di Chicago
offriva uno sguardo in anteprima sul futuro dell'economia globale, un modello che si sarebbe ripetuto
molte volte, dalla Russia al Sudafrica all'Argentina: una bolla urbana di speculazione frenetica, dubbia
ragioneria, superprofitti e consumismo sfrenato, circondata dalle fabbriche spettrali e dalle infrastrutture
in decomposizione di un passato di sviluppo; circa metà della popolazione esclusa completamente
dall'economia; corruzione e nepotismo dilaganti; decimazione delle piccole e medie imprese statali; un
gigantesco trasferimento di ricchezze da mani pubbliche a mani private, seguito da un gigantesco
trasferimento di debiti privati in mano pubblica. In Cile, per chi restava fuori dalla bolla di ricchezza, il
miracolo somigliava più alla Grande depressione; ma all'interno del suo bozzolo a tenuta stagna, i profitti
scorrevano così abbondanti e veloci che il denaro facile reso possibile dalle "riforme" basate sulla
shockterapia da allora è diventato la cocaina dei mercati finanziari. Ed è per questo che il mondo
finanziario non rispose alle evidenti contraddizioni dell'esperimento cileno meditando a fondo sui
principi del laissez-faire. Piuttosto, reagì con la logica del tossicodipendente: dove troviamo la prossima
dose?
La rivoluzione si diffonde, la gente sparisce.
Per un certo periodo, la dose successiva giunse da altri Paesi del Cono del Sud dell'America Latina,
dove si diffuse rapidamente la controrivoluzione guidata dalla Scuola di Chicago. Il Brasile era già sotto
il controllo di una giunta spalleggiata dagli Stati Uniti, e molti studenti brasiliani di Friedman assunsero
ruoli chiave nel governo. Friedman stesso si recò in Brasile nel 1973, all'apice della brutalità di regime,
e definì "un miracolo" l'esperimento economico. In Uruguay, l'esercito aveva organizzato un golpe nel
1973 e l'anno successivo decise di seguire la via di Chicago. I generali, non disponendo di un numero
sufficiente di uruguaiani che avessero studiato a Chicago, invitarono
"Arnold Harberger e [il professore di economia] Larry Sjaastad dall'Università di Chicago, assieme al
loro team, che comprendeva ex studenti dell'ateneo provenienti da Argentina, Cile e Brasile, per
riformare il sistema del prelievo fiscale e le politiche commerciali in Uruguay". Gli effetti sulla società
finora egualitaria dell'Uruguay furono immediati: i salari reali crollarono del 28 per cento, e per la prima
volta nella storia del Paese, orde di cittadini si rovesciarono nelle strade di Montevideo per rovistare nei
bidoni della spazzatura.
Il successivo candidato per l'esperimento fu l'Argentina, nel 1976, quando una giunta militare strappò il
potere a Isabel Perón. Ciò significava che Argentina, Cile, Uruguay e Brasile - i Paesi all'avanguardia
nell'economia dello sviluppo - ora erano tutti guidati da governi militari spalleggiati dagli Stati Uniti ed
erano laboratori viventi dell'economia della Scuola di Chicago.
Secondo documenti brasiliani desecretati nel marzo 2007, i generali argentini contattarono Pinochet e la
giunta brasliana poche settimane prima di prendere il potere, ed "esposero le misure principali che
avrebbe preso il nuovo regime".
Nonostante questa stretta collaborazione, la giunta militare argentina non si spinse lontano quanto
Pinochet nello sperimentalismo neoliberista: per esempio non privatizzò le riserve petrolifere del Paese
o il sistema sanitario (quello sarebbe venuto dopo). Ma quando si trattò di attaccare le politiche e le
istituzioni che avevano sospinto gli argentini poveri nella classe media, la giunta seguì pedissequamente
Pinochet, in parte grazie all'abbondanza di economisti argentini che avevano studiato a Chicago.
I nuovi Chicago Boys argentini si insediarono in ruoli chiave nel governo della giunta: segretario delle
Finanze, presidente della Banca centrale e direttore della ricerca al dipartimento del Tesoro nel
ministero delle Finanze, oltre ad altri incarichi di natura economica e di livello inferiore. Pur
partecipando con entusiasmo al governo militare, i Chicago Boys argentini non tennero per sé il ruolo più
importante nella politica economica. Questo onore spettò a José Alfredo Martinez de Hoz.
Costui faceva parte della piccola nobiltà terriera che afferiva alla Sociedad Rural, l'associazione dei
proprietari di ranch che da tempo controllava le esportazioni del Paese. Queste famiglie, quanto di più
simile a un'aristocrazia l'Argentina possedesse, non avevano nessun motivo di scontento nei confronti
dell'ordine feudale, e sarebbero volentieri tornate a un'epoca in cui non dovevano preoccuparsi che le
loro terre fossero redistribuite ai contadini o che il prezzo della carne fosse artificialmente abbassato per
assicurarsi che tutti avessero da mangiare.
Martinez de Hoz era stato presidente della Sociedad Rural, come suo padre e suo nonno prima di lui;
sedeva anche nei consigli d'amministrazione di svariate multinazionali, tra cui la Pan American Airways
e la Itt. Quando occupò il suo posto nel governo della giunta, fu chiaro che il golpe rappresentava una
rivolta delle élite, una controrivoluzione che si opponeva a quarant'anni di conquiste dei lavoratori
argentini.
Il primo atto da ministro dell'Economia di Martinez de Hoz fu mettere al bando gli scioperi e consentire
ai datori di lavoro di licenziare a volontà. Tolse i calmieri sui prezzi, facendo impennare il costo dei
generi alimentari. Era anche deciso a rendere di nuovo l'Argentina un luogo ospitale per le multinazionali
straniere. Eliminò le restrizioni alla proprietà straniera, e nei primi anni vendette centinaia di compagnie
statali. Queste misure gli procurarono ammiratori potenti a Washington.
Documenti desecretati mostrano che William Rogers, assistente del segretario di Stato per l'America
Latina, poco dopo il golpe disse al suo capo Henry Kissinger che "Martinez de Hoz è un brav'uomo.
Ci consultiamo regolarmente". Kissinger fu così colpito che organizzò un incontro al vertice con Martinez
de Hoz quando questi venne in visita a Washington, "come gesto simbolico". Si offrì anche di fare un paio
di telefonate per sostenere gli sforzi economici dell'Argentina: "Chiamerò David Rockefeller" disse
Kissinger al ministro degli Esteri della giunta, riferendosi al presidente della Chase Manhattan Bank. "E
chiamerò suo fratello, il vicepresidente [degli Stati Uniti, Nelson Rockefeller]."
Per attrarre investimenti, l'Argentina comprò un supplemento pubblicitario di trentuno pagine su
"Business Week", prodotto dal colosso delle pubbliche relazioni Burson-Marsteller, in cui si dichiarava:
"Pochi governi nella storia hanno incoraggiato altrettanto gli investimenti privati [.,.] Ci troviamo in una
vera rivoluzione sociale, e siamo alla ricerca di soci in affari. Ci stiamo liberando dallo statalismo, e
crediamo fermamente nel ruolo centrale del settore privato".
Nota: La giunta era così ansiosa di vendere il Paese al miglior offerente che la promozione comprendeva
"uno sconto del 10 per cento sul prezzo della terra, se la posa della prima pietra avverrà entro 60 giorni".
Ancora una volta, l'impatto umano fu inequivocabile: nel giro di un anno il potere d'acquisto dei salari
calò del 40 per cento, molte fabbriche chiusero i battenti, la povertà aumentò vertiginosamente. Prima che
la giunta salisse al potere, in Argentina c'erano meno poveri che in Francia o negli Stati Uniti - appena il
9 per cento - e un tasso di disoccupazione molto basso, al 4,2
per cento. Ora il Paese iniziava a mostrare segni del sottosviluppo che credeva di essersi lasciato alle
spalle. I quartieri poveri non avevano acqua corrente, e si diffondevano a macchia d'olio epidemie che
sarebbero state facilmente evitabili.
In Cile, Pinochet aveva avuto mano libera per distruggere la classe media a colpi di politica economica,
grazie allo shock con cui aveva preso il potere. Anche se i suoi jet da combattimento e i suoi plotoni
erano stati molto efficaci nel diffondere il terrore, si erano infine rivelati un disastro a livello di
pubbliche relazioni. I reportage sui massacri di Pinochet avevano scatenato un enorme clamore in tutto il
mondo, e in Europa e Nordamerica molti attivisti facevano pressione sui propri governi perché non
commerciassero con il Cile: un esito decisamente sfavorevole per un regime la cui ragion d'essere era
stimolare il commercio con l'estero.
I documenti brasiliani recentemente desecretati mostrano che quando i generali argentini stavano
preparando il golpe del 1976, volevano "evitare di subire una campagna internazionale come quella che
ha colpito il Cile". Per ottenere quel risultato erano necessarie tattiche di repressione meno vistose e più
discrete: tattiche che fossero in grado di diffondere il terrore ma senza farsi notare troppo dai ficcanaso
della stampa internazionale. In Cile, ben presto Pinochet adottò il sistema delle
"sparizioni". Anziché uccidere apertamente, e addirittura anziché arrestare le loro prede, i soldati le
rapivano, le portavano in campi clandestini per torturarle e spesso ucciderle, e poi negavano tutto. I corpi
erano gettati in fosse comuni. Secondo la Commissione sulla verità, nata in Cile nel maggio 1990, la
polizia segreta si disfaceva delle vittime gettandole in mare da un elicottero "dopo aver aperto l'addome
con un coltello perché i corpi non galleggiassero". Oltre all'utilità di mantenere un basso profilo, le
sparizioni si dimostrarono un mezzo ancor più efficace dei massacri per diffondere il terrore, tanto era
destabilizzante l'idea che l'apparato statale potesse essere usato per far scomparire nel nulla le persone.
A metà degli anni Settanta, le sparizioni erano diventate il principale strumento di governo delle giunte
guidate dalla Scuola di Chicago in tutto il Cono del Sud - e nessuno abbracciò questa pratica con più zelo
dei generali che occupavano il palazzo presidenziale argentino. Alla fine del loro regno, i desaparecidos
erano almeno trentamila. Molti di loro, come i cileni, furono gettati dagli aerei nelle acque fangose del
Rio de la Plata.
La giunta argentina era bravissima a trovare il perfetto equilibrio fra tattiche di terrore pubbliche e
private: abbastanza terrore pubblico perché tutti sapessero cosa stava succedendo, ma allo stesso tempo
tutto abbastanza segreto da poter poi essere negato. Nei suoi primi giorni al potere, la giunta diede una
sola potente dimostrazione della sua disponibilità a usare la forza letale: un uomo fu trascinato fuori da
una Ford Falcon (veicolo famigerato perché usato dalla polizia segreta), legato al più importante
monumento di Buenos Aires, l'Obelisco bianco alto 67,5 metri, e ucciso pubblicamente con una scarica di
mitra.
Da quel momento in poi, gli omicidi della giunta furono tenuti nascosti, ma non per questo cessarono. Le
sparizioni, ufficialmente negate, erano in realtà condotte come uno spettacolo pubblico per l'intero
quartiere. Quando si decideva che qualcuno andava eliminato, un corteo di veicoli militari arrivava
davanti alla casa o all'ufficio della persona in questione facendo cordone attorno all'isolato, spesso con
un elicottero che ronzava dall'alto. In pieno giorno, e in piena vista dei vicini, la polizia o l'esercito
sfondava la porta e trascinava fuori la vittima, che spesso, prima di sparire in una Ford Falcon, gridava il
proprio nome nella speranza che la notizia di ciò che era accaduto raggiungesse la propria famiglia.
Alcune operazioni "segrete" erano ancor più spudorate: capitava che la polizia salisse su autobus affollati
per trascinare via un passeggero tirandolo per i capelli; nella città di Santa Fé, una coppia fu rapita
sull'altare durante il matrimonio, davanti all'intera congregazione.
Il carattere pubblico del terrore non era limitato alla cattura iniziale. Una volta sotto custodia, i
prigionieri in Argentina erano portati in uno degli oltre trecento campi di tortura del Paese. Molti di
questi campi erano situati in aree residenziali densamente popolate; uno dei più famigerati centri di
tortura era in un'ex palestra su una strada molto trafficata di Buenos Aires, un altro era in una scuola nel
centro di Bahia Bianca e un altro ancora si trovava in un'ala di un ospedale aperto al pubblico.
In questi centri di tortura, i veicoli militari entravano e uscivano a ogni ora del giorno e della notte; dalle
pareti male insonorizzate provenivano urla, strani pacchi di forma e dimensioni troppo simili a corpi
umani venivano portati dentro e fuori; il tutto nel totale disinteresse dei vicini.
D regime in Uruguay era altrettanto spudorato: uno dei principali centri di tortura era una caserma della
marina sul lungomare di Montevideo, dove un tempo le famiglie andavano a passeggiare e fare picnic.
Durante la dittatura, quel luogo paradisiaco era vuoto, perché i cittadini di Montevideo preferivano
evitare di udire le grida.
La giunta argentina era molto negligente nel disfarsi delle proprie vittime. Una passeggiata in campagna
poteva tramutarsi in orrore perché le fosse comuni non erano nascoste bene. I cadaveri spuntavano dai
cassonetti dei rifiuti, senza denti e dita (esattamente come oggi in Iraq), o si arenavano sulle sponde del
Rio de la Plata, anche sei per volta, dopo uno dei "voli della morte"
della giunta. A volte piovevano persino dal cielo, lanciati da elicotteri sui campi coltivati.
L'intera società argentina fu testimone della sparizione dei propri concittadini; eppure la maggior parte di
loro negava di sapere cosa stesse accadendo. C'è una frase che gli argentini usano per descrivere il
paradosso che era lo stato mentale dominante in quegli anni: "Non sapevamo ciò che nessuno poteva
negare".
Poiché coloro che sfuggivano alle varie giunte trovavano spesso rifugio negli Stati confinanti, i governi
della regione collaboravano nella famigerata Operazione Condor. Nell'ambito di questa operazione, le
agenzie di intelligence del Cono del Sud si scambiavano informazioni sui
"sovversivi", aiutate da un sistema informatico di ultima generazione fornito da Washington; e poi davano
via libera agli agenti segreti di ciascun Paese partecipante per compiere rapimenti e torture anche fuori
dal proprio Stato: un sistema che somiglia in modo inquietante all'odierna rete di
"consegne straordinarie" gestita dalla Cia.
Nota: l'operazione latinoamericana fu modellata sulle direttive "Notte e nebbia" di Hitler. Nel 1941,
Hitler decretò che i combattenti per la resistenza nei Paesi occupati dal Terzo Reich andavano trasferiti
in Germania per farli "sparire nella notte e nella nebbia". Parecchi nazisti di alto profilo si rifugiarono in
Cile e in Argentina, e c'è chi sostiene che possano aver insegnato queste tattiche alle agenzie di
intelligence nel Cono del Sud.
Le giunte si scambiavano anche indicazioni sui mezzi più efficaci elaborati da ciascuno per ricavare
informazioni dai prigionieri. Diversi cileni che erano stati torturati allo Stadio del Cile nei giorni
successivi al golpe segnalarono l'inatteso dettaglio secondo cui erano presenti soldati brasiliani che
consigliavano ai torturatori gli usi più scientifici del dolore.
C'erano infinite opportunità per scambi di questo genere in quegli anni, spesso attraverso gli Stati Uniti e
con il coinvolgimento della Cia. Un'indagine condotta dal Senato americano nel 1975
sull'intervento Usa in Cile appurò che la Cia aveva addestrato l'esercito di Pinochet nei metodi per
"controllare la sovversione". Ed è ben documentato l'addestramento della polizia brasiliana e uruguaiana
nelle "tecniche di interrogatorio coercitivo" da parte degli Stati Uniti. Secondo testimonianze portate in
tribunale e citate in Brazil: Nunca Mas (Mai più), il rapporto stilato dalla Commissione per la verità,
pubblicato nel 1985, gli ufficiali dell'esercito frequentavano veri e propri
"corsi di tortura" presso le scuole della polizia militare; qui visionavano diapositive che illustravano
raccapriccianti e dolorose tecniche di interrogatorio. Le lezioni comprendevano anche
"dimostrazioni pratiche", in cui alcuni prigionieri venivano torturati dal vivo, mentre un centinaio di
sergenti osservava e imparava. Il rapporto afferma che "uno dei primi a introdurre questa pratica in
Brasile fu Dan Mitrione, un ufficiale di polizia statunitense. Come istruttore di polizia a Belo Horizonte
nei primi anni del regime militare brasiliano, Mitrione raccoglieva mendicanti dalla strada e li torturava
in aula, per istruire la polizia locale sui vari modi per generare nel prigioniero la suprema contraddizione
fra corpo e mente". Mitrione passò poi a gestire l'addestramento della polizia in Uruguay, dove, nel 1970,
fu rapito e ucciso dai guerriglieri Tupamaros; il gruppo di rivoluzionari di sinistra aveva pianificato
l'operazione al fine di denunciare il coinvolgimento di Mitrione negli addestramenti alla tortura.
Nota: su questo episodio si basa lo splendido film di Costa-Gavras del 1972, L'amerikano.
Secondo un suo ex studente, Mitrione ripeteva, come gli autori del manuale della Cia, che la tortura
efficace non è sadismo ma scienza: "Il dolore giusto nel posto giusto, nella dose giusta" era il suo motto.''
'
I risultati di questo addestramento sono evidenti in tutte le relazioni sui diritti umani nel Cono del Sud.
Essi contengono ripetute testimonianze dei metodi tipici codificati nel manuale Kubark della Cia: arresti
compiuti nelle prime ore del mattino, prigionieri incappucciati, isolamento intensivo, somministrazione di
droghe, nudità forzata, elettroshock. E ovunque, la terribile eredità degli esperimenti di McGiU sulla
regressione indotta.
Alcuni prigionieri sopravvissuti alle torture nello Stadio nazionale del Cile raccontarono che luci
fortissime restavano accese ventiquattr'ore al giorno, i pasti erano somministrati a orari strani e la
regolare sequenza degli eventi in relazione alle ore del giorno era stravolta. I soldati obbligavano molti
prigionieri a tenere una coperta sulla testa perché non potessero vedere né sentire bene: una pratica che
lascia perplessi, dal momento che tutti i prigionieri sapevano bene di trovarsi in uno stadio. L'effetto
delle manipolazioni, raccontarono i prigionieri, era la perdita della distinzione tra giorno e notte, e
l'intensificazione dello shock e del panico provocati dal golpe e dai successivi arresti. Era quasi come se
lo stadio fosse stato trasformato in un enorme laboratorio, e i prigionieri fossero cavie di qualche strano
esperimento in manipolazione sensoriale.
Si può vedere una copia più fedele degli esperimenti della Cia nella prigione di Villa Grimaldi in Cile,
"nota per le sue "stanze cilene": cabine di isolamento in legno, così piccole che i prigionieri non
potevano inginocchiarsi" o stendersi. I detenuti del carcere Libertad in Uruguay erano mandati alla isla,
l'isola; minuscole celle senza finestre, in cui una sola lampadina nuda restava sempre accesa. I prigionieri
di alto valore furono tenuti in totale isolamento per più di dieci anni.
"Iniziavamo a pensare di essere morti, che le nostre celle non fossero celle ma tombe, che il mondo là
fuori non esistesse, che il sole fosse un mito" ricordò uno di quei prigionieri, Mauricio Rosencof.
Vide il sole per un totale di otto ore in undici anni e mezzo. I suoi sensi erano così deprivati che
"dimenticai i colori: non c'erano colori".
Nota: i secondini alla Libertad collaboravano strettamente con psicologi comportamentali, per elaborare
tecniche di tortura tarate sul profilo psicologico di ogni prigioniero, un metodo oggi usato a Guantanamo.
In uno dei centri di tortura più grandi dell'Argentina, la Scuola superiore di meccanica della marina di
Buenos Aires, la cella di isolamento era detta capucha, cappuccio. Juan Miranda, che è rimasto tre mesi
nella capucha, mi ha parlato di quel luogo buio. "Ti tengono con gli occhi bendati e un cappuccio, braccia
e gambe incatenate, disteso su un materasso di lattice tutto il giorno, nella soffitta della prigione. Non
potevo vedere gli altri prigionieri, ero separato da loro da una parete di compensato. Quando le guardie
portavano i pasti, mi facevano stare con la faccia al muro, poi mi tiravano su il cappuccio perché potessi
mangiare. Era l'unico momento in cui potevamo tirarci su a sedere; per il resto bisognava stare sempre
sdraiati." Altri prigionieri argentini subirono l'annullamento delle percezioni sensoriali in celle grandi
come bare, dette tubos.
L'unico sollievo dall'isolamento era la sorte ben peggiore della stanza per gli interrogatori. La tecnica più
classica, usata nelle stanze di tortura di tutti i regimi militari della regione, era l'elettroshock. C'erano
dozzine di modi attraverso cui la corrente elettrica poteva essere convogliata nel corpo del prigioniero:
fili scoperti, telefoni da campo dell'esercito, aghi sotto le unghie o fissati con spilli alle gengive, ai
capezzoli, ai genitali, alle orecchie, alla bocca, in ferite aperte, applicati a corpi bagnati per intensificare
la scarica, o a corpi legati con delle cinghie a un tavolo, o, in Brasile, alla "sedia del drago" di ferro. La
giunta argentina, composta da allevatori di bestiame, andava fiera del proprio contributo particolare: i
prigionieri erano sottoposti a elettroshock su un letto di metallo, detto parrilla (barbecue), dove erano
colpiti con la picana (pungolo elettrico per bestiame).
È impossibile calcolare il numero esatto delle vittime della macchina di tortura del Cono del Sud, ma
probabilmente è fra le 100.000 e le 150.000 persone, decine di migliaia delle quali furono uccise.
Un testimone in tempi difficili.
Essere di sinistra in quegli anni significava essere braccati. Chi non trovava rifugio nell'esilio viveva in
una lotta continua per restare un passo avanti alla polizia segreta; una vita fatta di case sicure, codici
telefonici e false identità. Una delle persone che hanno fatto questa vita in Argentina è stato il leggendario
giornalista investigativo Rodolfo Walsh. Affabile intellettuale umanista, autore di libri gialli e racconti
pluripremiati, Walsh era anche un ottimo detective, in grado di decifrare codici militari e spiare le spie.
È famoso soprattutto per aver intercettato e decodificato un telex della Cia sull'invasione della Baia dei
Porci, quando lavorava come giornalista a Cuba. Le informazioni da lui raccolte permisero a Castro di
prepararsi e difendersi dall'invasione.
Quando la precedente giunta militare argentina aveva messo
al bando il peronismo e strangolato la democrazia, Walsh aveva deciso di unirsi al movimento armato
Montoneros come esperto di intelligence.
Nota: i Montoneros si erano formati durante la precedente dittatura. Il peronismo fu bandito, e Juan
Perón, dall'esilio, invitò i suoi giovani sostenitori a prendere le armi e combattere per il ritorno alla
democrazia. Così fecero, e i Montoneros - che pure non disdegnavano attacchi armati e rapimenti giocarono un ruolo importante nell'imporre elezioni democratiche con un candidato peronista nel 1973.
Ma quando Perón tornò al potere, si sentì minacciato dal sostegno popolare ai Montoneros, e istigò
contro di loro squadroni della morte di destra; è per questo che il gruppo - oggetto di molte controversie era già notevolmente indebolito al momento del golpe del 1976.
Questo lo mise in cima alla lista degli individui più ricercati dai generali, e ogni nuova sparizione
portava con sé la paura che informazioni strappate con la picana potessero condurre la polizia alla casa
sicura in cui si era rifugiato con la compagna, Lilia Ferreyra, in un piccolo villaggio fuori Buenos Aires.
Grazie alla sua vasta rete di contatti, Walsh aveva cercato di stilare un elenco dei tanti crimini della
giunta. Compilava liste dei morti e dei desaparecidos, e risaliva all'ubicazione di fosse comuni e centri
segreti di tortura. Andava fiero della propria conoscenza del nemico, ma nel 1977 persino lui fu
sconvolto dalla brutalità che la giunta argentina aveva riversato sul suo popolo. Nel primo anno di
governo militare, dozzine di suoi amici e colleghi erano spariti nei campi della morte, e anche sua figlia
Vicki, ventiseienne, era morta rendendo Walsh pazzo di dolore.
Ma con le Ford Falcon che gli volteggiavano intorno, una vita di quieta elaborazione del lutto non era una
possibilità per Walsh. Sapendo di avere poco tempo a disposizione, decise come avrebbe festeggiato la
ricorrenza del primo anno di governo della giunta: insieme ai documenti ufficiali che elogiavano i
generali per aver salvato il Paese, avrebbe scritto il suo resoconto, non censurato, della depravazione in
cui il suo Paese era piombato. L'avrebbe intitolata "Lettera aperta da uno scrittore alla giunta militare";
composta, scrisse Walsh, "senza sperare che qualcuno mi ascolti, ma con la certezza di essere
perseguitato; fedele all'impegno, che ho preso molto tempo fa, di essere testimone in tempi difficili".
La lettera avrebbe costituito la condanna decisiva sia dei metodi di terrore di Stato sia del sistema
economico che difendevano. Walsh pensò di far circolare la sua "Lettera aperta" come aveva distribuito
precedenti comunicati dall'ombra: preparandone
dieci copie, spedendole da altrettante cassette postali a contatti selezionati che le avrebbero diffuse
ulteriormente. "Voglio che quei bastardi sappiano che sono ancora qui, ancora vivo, e scrivo ancora"
disse a Lilia mentre si sedeva alla sua macchina da scrivere Olympia.
La lettera inizia con un resoconto della campagna di terrore condotta dai generali, l'uso della
"tortura massima, infinita e metafisica", oltre al coinvolgimento della Cia nell'addestramento della
polizia argentina. Dopo aver elencato metodi e ubicazione delle fosse comuni fino all'ultimo,
agghiacciante dettaglio, all'improvviso Walsh cambia registro: "Questi eventi, che smuovono le
coscienze del mondo civilizzato, non sono, tuttavia, la più grande delle sofferenze inflitte al popolo
argentino, né la peggior violazione dei diritti umani che voi abbiate commesso. È nella politica
economica di questo governo che si scopre non solo la spiegazione dei crimini, ma un'atrocità ancora più
grande che punisce milioni di esseri umani attraverso la miseria pianificata [...] Basta camminare nelle
periferie di Buenos Aires per qualche ora, per vedere a quale velocità questa politica sta trasformando la
città in una "baraccopoli" di dieci milioni di persone".
Il sistema che Walsh descriveva era il neoliberismo della Scuola di Chicago, il modello economico che
avrebbe conquistato il mondo. Mentre piantava radici profonde in Argentina nei decenni successivi,
avrebbe finito per spingere metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Walsh non lo considerava
un incidente, ma l'attenta esecuzione di un piano: "miseria pianificata".
Walsh firmò la lettera il 24 marzo 1977, esattamente un anno dopo il golpe. La mattina dopo, lui e Lilia
Ferreyra andarono a Buenos Aires. Si divisero un mucchio di lettere e le imbucarono in diverse cassette
della città. Qualche ora dopo, Walsh andò a un incontro che aveva fissato con la famiglia di un collega
desaparecido. Era una trappola: qualcuno aveva parlato sotto tortura, e dieci uomini armati erano in
attesa fuori dalla casa, in imboscata, con l'ordine di catturare Walsh.
"Portatemelo vivo, quel bastardo di merda; è mio", pare avesse ingiunto ai soldati l'ammiraglio Massera,
uno dei tre leader della giunta. Walsh, il cui motto era "non è un crimine parlare; il crimine è farsi
arrestare", impugnò subito la pistola e sparò. Ferì uno dei soldati, provocando la risposta del fuoco
nemico; era già morto quando l'auto arrivò alla Scuola di meccanica della marina. Il corpo di Walsh fu
bruciato e gettato in un fiume.
La copertura della "Guerra al Terrore".
Le giunte del Cono del Sud non facevano segreto delle proprie ambizioni rivoluzionarie, di voler
ricostruire da zero le rispettive società, ma erano abbastanza furbe da negare pubblicamente ciò di cui
Walsh le stava accusando: uso massiccio della violenza per ottenere quegli obiettivi che, in assenza di un
sistema che terrorizzasse il pubblico ed eliminasse gli ostacoli, avrebbero certamente provocato una
rivolta.
Nella misura in cui gli omicidi di Stato erano ammessi, la giunta li giustificava dicendo che era in corso
una guerra contro pericolosi terroristi marxisti, sovvenzionati e controllati dal Kgb. Se le giunte usavano
tattiche "sporche", era perché il nemico era mostruoso. Con un linguaggio che oggi ci suona fin troppo
familiare, l'ammiraglio Massera la chiamava "una guerra per la libertà e contro la tirannide [...] una
guerra contro chi preferisce la morte, condotta da chi tra noi preferisce la vita
[...] Combattiamo i nichilisti, gli agenti di distruzione il cui solo obiettivo è la distruzione stessa, anche
se la mascherano con crociate sociali".
Nel periodo che precedette il golpe cileno, la Cia finanziò una massiccia campagna di propaganda per
dipingere Salvador Allende come un dittatore sotto mentite spoglie, un machiavellico stratega che aveva
usato la democrazia costituzionale per salire al potere ma che ora stava per imporre uno Stato di polizia
sul modello sovietico, dal quale i cileni non si sarebbero mai più liberati. In Argentina e Uruguay, i
principali gruppi di guerriglieri di sinistra i Montoneros e i Tupamaros erano presentati come minacce così gravi per la sicurezza nazionale che i generali non avevano altra
scelta se non quella di sospendere la democrazia, prendere il comando dello Stato e usare qualsiasi
mezzo necessario per schiacciarli.
In ogni caso, la minaccia era o ampiamente esagerata o completamente fabbricata dalle giunte. Fra le
molte altre rivelazioni, l'inchiesta del Senato del 1975 svelò che i rapporti della stessa intelligence Usa
mostravano chiaramente che Allende non costituiva una minaccia per la democrazia. Quanto ai
Montoneros argentini e ai Tupamaros uruguaiani, si trattava di gruppi armati con un notevole sostegno
popolare, in grado di sferrare attacchi temerari a bersagli militari e industriali. Ma i Tupamaros
uruguaiani erano stati completamente smantellati allorché l'esercito aveva preso il potere assoluto. E i
Montoneros argentini erano scomparsi entro i primi sei mesi di una dittatura che sarebbe durata
sette anni (motivo per cui Walsh si nascondeva). Documenti desecretati del dipartimento di Stato
rivelano che César Augusto Guzzetti, il ministro degli Esteri della giunta argentina, il 7 ottobre 1976
disse a Henry Kissinger che "le organizzazioni terroristiche sono state smantellate"; eppure la giunta
avrebbe continuato a far sparire decine di migliaia di cittadini dopo quella data.
Per molti anni, inoltre, il dipartimento di Stato americano presentò le "guerre sporche" nel Cono del Sud
come battaglie senza quartiere tra l'esercito e i pericolosi guerriglieri, battaglie che a volte sfuggivano di
mano ma che erano comunque meritevoli di sostegno economico e militare. Ci sono prove schiaccianti
del fatto che, in Argentina come in Cile, Washington sapeva che si trattava di tutt'altro genere di
operazione militare.
Nel marzo 2006, l'Archivio per la sicurezza nazionale di Washington pubblicò i verbali appena
desecretati di una riunione del dipartimento di Stato che si era svolta appena due giorni dopo il golpe
della giunta argentina, nel 1976. Alla riunione, William Rogers, assistente del segretario di Stato per
l'America Latina, dice al suo capo, Kissinger, che "dobbiamo attenderci una certa dose di repressione,
probabilmente parecchio sangue, in Argentina nei prossimi tempi. Credo che dovranno usare la forza, non
solo con i terroristi ma con i dissidenti dei sindacati e i loro partiti".
E così fecero. La grande maggioranza delle vittime dell'apparato di terrore nel Cono del Sud non erano
membri di gruppi armati, ma attivisti nonviolenti che lavoravano in fabbriche, fattorie, baraccopoli e
università. Erano economisti, artisti, psicologi e militanti di sinistra. Furono uccisi non perché avessero
armi (molti di loro non ne avevano), ma per via di ciò in cui credevano. Nel Cono del Sud, dove è nato il
capitalismo contemporaneo, la Guerra al Terrorismo è stata in realtà una guerra contro tutti gli ostacoli
che si frapponevano al nuovo ordine.
4.
Colpo di spugna. Il terrore al lavoro.
Lo sterminio in Argentina non è spontaneo, non è casuale, non è irrazionale: è la distruzione
sistematica di una "parte sostanziale" della comunità nazionale argentina, allo scopo di trasformarla,
ridefinire il suo modo di essere, le sue relazioni sociali. il suo fato, il suo futuro.
Daniel Feierstein, sociologo argentino, 2004.
Avevo un solo obiettivo: restare vivo fino al giorno dopo. [...] Ma non soltanto sopravvivere,
sopravvivere restando me stesso.
Mario Villani, sopravvissuto a quattro anni nei campi di tortura argentini.
Nel 1976, Orlando Letelier era tornato a Washington, non più in veste di ambasciatore ma come attivista
legato a un think tank progressista, l'institute for Policy Studies. Tormentato dal pensiero dei suoi colleghi
e amici ancora vittime dei campi di tortura della giunta, Letelier usò la sua libertà per denunciare senza
tregua i crimini di Pinochet, e per difendere la reputazione di Allende contro la macchina di propaganda
della Cia.
L'attivismo stava sortendo i suoi effetti, e Pinochet era oggetto di una condanna universale per la
situazione dei diritti umani nel suo Paese. Ciò che più frustrava Letelier, che aveva studiato economia,
era che mentre il mondo leggeva attonito i resoconti delle esecuzioni sommarie e degli elettroshock,
taceva però di fronte alla shockterapia economica; e che le banche internazionali che concedevano alla
giunta un prestito dopo l'altro erano ben felici che Pinochet avesse abbracciato i
"fondamenti del libero mercato".
Letelier si opponeva alla persistente idea che la giunta avesse due progetti separati, ben distinti: un
coraggioso esperimento di trasformazione economica e un perverso e macabro sistema di tortura e
terrore. C'era un unico progetto, insisteva l'ex ambasciatore, nel quale il terrore era lo strumento centrale
per la trasformazione liberista.
"La violazione dei diritti umani, il sistema di brutalità istituzionalizzata, il drastico controllo e la
soppressione di ogni forma significativa di dissenso è trattata (e a volte condannata) come un fenomeno
solo indirettamente legato, ovvero del tutto separato, dalle politiche classiche di sfrenato
"liberismo" applicate dalla giunta militare" scrisse Letelier in un incandescente articolo per "The
Nation". "Questa nozione così comoda di sistema sociale, in cui "libertà economica" e terrore politico
coesistono senza sfiorarsi, permette a questi portavoce finanziari di sostenere la loro idea di
"libertà" mentre si riempiono la bocca di pronunciamenti in difesa dei diritti umani."
Letelier si spinse fino a scrivere che Milton Friedman, in quanto "architetto intellettuale e consigliere
ufficioso della squadra di economisti che oggi controlla l'economia cilena", era in parte responsabile dei
crimini di Pinochet. Respinse la giustificazione fornita da Friedman, secondo cui esercitare pressioni
politiche in favore del "trattamento shock" non era altro che fornire "consigli tecnici". "L'instaurazione di
una libera "economia privata" e il controllo dell'inflazione tipici di Friedman" continuava, non potevano
svolgersi in modo pacifico. "Il piano economico andava imposto, e nel contesto cileno ciò si poteva fare
solo uccidendo migliaia di persone, costruendo campi di concentramento in tutto il Paese, imprigionando
più di 100.000 persone in tre anni. [...] La regressione per la maggioranza e la "libertà economica" per
piccoli gruppi privilegiati sono, in Cile, due facce della stessa medaglia." C'era, scrisse Letelier,
"un'armonia intrinseca" fra il "libero mercato" e il terrore illimitato.''
Il controverso articolo di Letelier fu pubblicato alla fine di agosto del 1976. Meno di un mese dopo, il 21
settembre, il quarantaquattrenne economista era in auto nel centro di Washington, diretto al suo ufficio.
Mentre attraversava il quartiere delle ambasciate, una bomba radiocomandata piazzata sotto il sedile del
guidatore esplose, scagliando in aria la vettura e maciullandogli entrambe le gambe.
Lasciando sul marciapiede un piede amputato, Letelier fu portato d'urgenza al George Washington
Hospital; all'arrivo era già morto. L'ex ambasciatore era in auto con una collega americana, la
venticinquenne Ronni Moffìt, e anche lei perse la vita nell'esplosione. Era il crimine più spettacolare e
provocatorio commesso da Pinochet dopo il golpe stesso.
Un'inchiesta dell'Fbi rivelò che la bomba era opera di Michael Townley, membro anziano della polizia
segreta di Pinochet, in seguito condannato per questo crimine da una corte federale americana. Gli
assassini erano entrati nel Paese con passaporti falsi, e la Cia ne era a conoscenza.
Quando Pinochet morì, nel dicembre 2006 a novantuno anni, contro di lui erano stati intentati diversi
processi per i crimini commessi durante la dittatura: omicidi, rapimenti, torture, corruzione ed evasione
fiscale. La famiglia di Orlando Letelier cercava da decenni di portare Pinochet alla sbarra per l'attentato
di Washington e di aprire i dossier americani sulla vicenda. Ma il dittatore ebbe l'ultima parola:
morendo, scampò a tutti i processi e fece pubblicare una lettera postuma in cui difendeva il golpe e l'uso
del "massimo rigore" nell'opporsi a una "dittatura del proletariato. [...]
Come vorrei che l'azione militare dell'11 settembre 1973 non fosse stata necessaria!" scriveva Pinochet.
"Come vorrei che l'ideologia marxista-leninista non avesse varcato i confini della nostra patria!"
Non tutti i criminali degli anni del terrore latinoamericano sono stati così fortunati. Nel settembre 2006,
ventitré anni dopo la fine della dittatura militare in Argentina, uno dei principali responsabili del terrore
è stato infine condannato all'ergastolo. Si tratta di Miguel Osvaldo Etchecolatz, che era stato commissario
di polizia nella provincia di Buenos Aires negli anni della giunta.
Durante lo storico processo, Jorge Julio Lopez, un testimone chiave, sparì nel nulla. Lopez era stato un
desaparecido, catturato negli anni Settanta, brutalmente torturato e poi rilasciato: ora la sua odissea stava
ricominciando. In Argentina, Lopez divenne noto come la prima persona
"desaparecida due volte". A metà del 2007 non si avevano ancora notizie di lui, e la polizia era
praticamente certa che fosse stato rapito come avvertimento ad altri aspiranti testimoni, secondo la stessa
tattica degli anni del terrore.
Il giudice del processo, il cinquantacinquenne Carlos Rozanski della Corte federale argentina, trovò
Etchecolatz colpevole di sei omicidi, sei istanze di carcerazione illegale e sette casi di tortura.
Quando pronunciò la sentenza, compì un atto di straordinaria rilevanza. Disse che la pena detentiva non
rendeva giustizia alla reale natura del crimine e che, nell'interesse della "costruzione della memoria
collettiva", sentiva il bisogno di aggiungere che questi erano tutti "crimini contro l'umanità, commessi nel
contesto del genocidio che ebbe luogo nella Repubblica argentina tra il 1976 e il 1983".
Con questa frase il giudice contribuì a riscrivere la storia argentina: gli omicidi di militanti della sinistra
negli anni Settanta non erano parte di una "guerra sporca" in cui due fazioni si erano scontrate e molti
crimini erano stati commessi, come la versione ufficiale aveva dichiarato per decenni. Né i
desaparecidos erano semplicemente vittime di dittatori pazzi, ubriachi di sadismo e di potere. Era
accaduto qualcosa di più scientifico, più ambizioso. Nelle parole del giudice, c'era stato
"un progetto di sterminio portato avanti da chi governava il Paese".
Spiegò che gli omicidi erano parte di un sistema, pianificato con molto anticipo, duplicato in maniera
identica in tutto il Paese e perpetrato con il chiaro intento non di attaccare singole persone ma di
distruggere le parti della società che quelle persone rappresentavano. D genocidio è un tentativo di
assassinare un gruppo, non un certo numero di individui; dunque, concludeva il giudice, si era trattato di
genocidio.
Rozanski riconobbe che il suo uso del termine "genocidio" era controverso, e redasse una lunga
motivazione della sentenza, in cui giustificava la sua scelta. Ammise che la Convenzione delle Nazioni
Unite sul genocidio definisce quel crimine come "intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, religioso o razziale"; la Convenzione non include l'eliminazione di un gruppo in base
alle sue opinioni politiche, come era accaduto in Argentina; ma Rozanski disse che non considerava
quell'esclusione legittima dal punto di vista legale. Per spiegare il motivo, si rivolse a un episodio poco
noto della storia delle Nazioni Unite. L'il dicembre 1946, in risposta diretta all'Olocausto nazista,
l'Assemblea generale dell'Onu passò una risoluzione con voto unanime che bandiva gli atti di genocidio
"in cui sono stati distrutti, in tutto o in parte, gruppi razziali, religiosi, politici e di altro tipo". La ragione
per cui la parola "politici" era stata espunta dalla Convenzione di due anni dopo era che Stalin l'aveva
preteso. Sapeva che se distruggere un "gruppo politico" costituiva genocidio, le sue sanguinarie purghe e
la detenzione di massa degli oppositori politici sarebbero rientrate pienamente nella definizione. Stalin
poteva contare sul sostegno di altri leader che preferivano riservarsi il diritto di spazzar via gli
oppositori, così la parola fu cancellata."
Rozanski scrisse che considerava la definizione originale dell'Onu come la più legittima, in quanto non
soggetta a questo compromesso politico. Fece poi riferimento a una sentenza di una corte spagnola che
aveva processato un noto torturatore argentino nel 1998. Anche quella corte aveva decretato che la giunta
argentina si era macchiata del "crimine di genocidio". Il gruppo che la giunta aveva cercato di spazzar via
era definito come "quei cittadini che non rispondevano al modello che gli artefici della repressione
consideravano adatto all'affermazione del nuovo ordine nazionale".
L'anno seguente, nel 1999, il giudice spagnolo Baltasar Garzón, famoso per aver emesso un mandato
d'arresto contro Augusto Pinochet, asserì a sua volta che in Argentina si era consumato un genocidio. E
anche lui tentò di definire quale gruppo era stato preso di mira per lo sterminio.
L'obiettivo della giunta, scrisse, era "stabilire un nuovo ordine, come Hitler aveva sperato di fare in
Germania, in cui non c'era spazio per alcuni tipi di persone". Le persone che non rientravano nel nuovo
ordine erano quelle "collocate nei settori che intralciavano la configurazione ideale della nuova Nazione
Argentina".
Naturalmente non è ipotizzabile un paragone tra ciò che avvenne sotto i nazisti, o in Ruanda nel 1994, e i
crimini delle dittature corporativiste in America Latina negli anni Settanta. Se genocidio significa
olocausto, questi crimini non rientrano in quella categoria. Ma se il genocidio è inteso nella definizione
che ne danno queste corti, cioè come tentativo di cancellare deliberatamente i gruppi che ostacolano il
perseguimento di un progetto politico, allora questo processo può essere osservato non solo in Argentina
ma, in vari gradi di intensità, in tutta la regione che fu trasformata in laboratorio dalla Scuola di Chicago.
In questi Paesi, le persone che "intralciavano l'ideale" erano uomini e donne di sinistra di tutte le
estrazioni: economisti, dipendenti delle mense per i poveri, sindacalisti, musicisti, militanti per i diritti
dei cittadini, politici. I membri di tutti questi gruppi furono soggetti a una strategia esplicita e
premeditata, coordinata su scala sovranazionale dall'Operazione Condor, e volta a cancellare la sinistra
dalla mappa politica.
Nota: i codici penali di molti Paesi, fra cui il Portogallo, il Perù e la Costa Rica, sanzionano gli atti di
genocidio con definizioni che includono chiaramente gruppi politici o "sociali". La legge francese è
ancora più ampia: definisce il genocidio come un progetto teso a distruggere in tutto o in parte "un gruppo
determinato con un qualunque criterio arbitrario".
Dopo il crollo del comunismo, la libertà del mercato e quella dei popoli sono state riunite in una singola
ideologia, che pretende di essere l'unica e migliore difesa dell'umanità per scongiurare il ripetersi di una
storia fatta di fosse comuni, campi di sterminio e celle di tortura. Eppure, nel Cono del Sud, il primo
luogo in cui la religione neoliberista contemporanea è sfuggita dai laboratori sotterranei dell'Università
di Chicago per essere applicata nel mondo reale, non ha portato la democrazia: Paese dopo Paese, è stata
fondata sul rovesciamento della democrazia. E non ha portato la pace, ma ha richiesto l'assassinio
sistematico di decine di migliaia di persone, e la tortura di un numero di persone compreso fra 100.000 e
150.000.
C'era, come scrisse Letelier, un'"armonia interna" tra lo sforzo per cancellare alcuni settori della società
e l'ideologia che era al cuore del progetto. I Chicago Boys e i loro professori, che fornivano consigli e si
insediavano su influenti poltrone nei regimi militari del Cono del Sud, credevano in una forma di
capitalismo che è purista per natura. Il loro è un sistema basato interamente sulla fiducia nell'"equilibrio"
e nell'"ordine", e sul bisogno di liberarsi dalle interferenze e "distorsioni"
per avere successo. A causa di queste caratteristiche, un regime che voglia applicare fedelmente questo
ideale non può accettare la presenza di opinioni discordanti o moderate. Perché l'ideale possa essere
attinto, è necessario il monopolio ideologico; altrimenti, secondo la teoria, i segnali economici diventano
distorti e l'intero sistema perde equilibrio.
Per questo esperimento assolutista, i Chicago Boys non avrebbero potuto scegliere una parte di mondo
meno ospitale del Cono del Sud latinoamericano negli anni Settanta. La straordinaria affermazione della
dottrina economica dello sviluppo aveva reso quell'area una cacofonia di politiche, esattamente le stesse
che la Scuola di Chicago considerava distorsioni o "idee non economiche". Soprattutto, l'area ospitava
moltissimi movimenti popolari e intellettuali che erano emersi in diretta opposizione al capitalismo
laissez-faire. Idee come queste non erano marginali, ma proprie della maggioranza dei cittadini, come
risultava in un'elezione dopo l'altra, in un Paese dopo l'altro. Una trasformazione basata sulle idee della
Scuola di Chicago aveva grossomodo le stesse possibilità di essere benaccetta nel Cono del Sud di
quante ne avesse una dittatura del proletariato a Beverly Hills.
Prima che la campagna di terrore calasse sull'Argentina, Rodolfo Walsh aveva scritto: "Niente può
fermarci, né la prigione né la morte. Perché non si può incarcerare o uccidere un intero popolo e perché
la grande maggioranza degli argentini [...] sa che solo il popolo potrà salvare il popolo".
Salvador Allende, mentre guardava i carri armati che prendevano d'assedio il palazzo presidenziale,
aveva trasmesso alla radio un ultimo messaggio al popolo cileno, permeato dallo stesso tono di sfida:
"Sono certo che il seme che abbiamo piantato nelle nobili coscienze di migliaia e migliaia di cileni non
può essere estirpato definitivamente" disse. Furono le ultime parole che pronunciò in pubblico. "Loro
hanno la forza; possono soggiogarci, ma non possono arrestare i processi sociali né con il crimine né con
la forza. La storia è nostra, ed è il popolo che la fa."
I comandanti della giunta e i loro complici economisti avevano ben presenti queste verità. Un veterano di
diversi golpe militari argentini illustrò il modo di ragionare dell'esercito: "Nel 1955
credevamo che il problema fosse [Juan] Perón, quindi ci liberammo di lui; ma nel 1976 sapevamo già che
il problema era la classe lavoratrice". Era così in tutta la regione: il problema era esteso e profondo. Il
significato di quella consapevolezza fu che, perché la rivoluzione neoliberista funzionasse, le giunte
dovevano fare ciò che Allende aveva dichiarato impossibile: estirpare definitivamente il seme che aveva
generato la svolta a sinistra dell'America Latina. Nella Dichiarazione dei principi emanata in seguito al
golpe, la dittatura di Pinochet descriveva la propria missione come una "lunga e approfondita operazione
di mutamento della mentalità cilena": un'eco dell'affermazione fatta vent'anni prima da Albion Patterson
dell'Usaid, padrino del Chile Project:
"Ciò che dobbiamo fare è cambiare la formazione degli uomini".
Ma come riuscirci? Il seme di cui parlava Allende non era una singola idea, e neppure un gruppo di
partiti politici e sindacati. In America Latina negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, la sinistra
costituiva la cultura di massa dominante, profondamente radicata in valori di uguaglianza e solidarietà
sociale: era la poesia di Pablo Neruda, la musica folk di Victor Jara e Mercedes Sosa, la teologia della
liberazione dei preti del Terzo mondo, il teatro di emancipazione di Augusto Boal, la pedagogia radicale
di Paulo Freire, il giornalismo rivoluzionario di Eduardo Galeano e dello stesso Walsh. Erano gli eroi
leggendari e i martiri della storia passata e recente, da José Gervasio Artigas a Simon Bolivar a Che
Guevara. Quando le giunte militari decisero di sfidare la profezia di Allende e sradicare il socialismo, si
trattò di una dichiarazione di guerra contro questa intera cultura.
L'imperativo si rifletteva nelle metafore usate più di frequente dai regimi militari in Brasile, Cile,
Uruguay e Argentina, gli slogan classici del fascismo: ripulire, spazzare, sradicare e curare. In Brasile, i
rastrellamenti dei militanti di sinistra avevano nomi in codice come Operaçâo Limpeza, Operazione
pulizia. Il giorno del golpe, Pinochet definì Allende e il suo governo "quella sporcizia che stava
mandando in malora il Paese". Un mese dopo promise di "estirpare la radice del male dal Cile", di
impegnarsi in una "ripulitura morale" della nazione, "purificata dai vizi": un'eco dell'appello, da parte
dell'autore nazista Alfred Rosenberg, a una "ripulitura spietata con una scopa di ferro".
Ripulire le culture.
In Cile, Argentina e Uruguay le giunte organizzarono massicce operazioni di ripulitura ideologica,
bruciando libri di Freud, Marx e Neruda, chiudendo centinaia di giornali e riviste, occupando le
università, proibendo gli scioperi e i comizi politici.
Alcuni fra gli attacchi più violenti erano riservati agli economisti "rosa", ovvero di sinistra moderata, che
i Chicago Boys non erano riusciti a sconfiggere prima dei golpe. All'Università del Cile, rivale della
Cattolica che era sede dei Chicago Boys, centinaia di professori furono licenziati per "inosservanza dei
doveri morali" (tra loro André Gunder Frank, il dissidente di Chicago che scriveva lettere infuriate ai
suoi vecchi insegnanti). Durante il golpe, Gunder Frank riferì che
"hanno sparato a vista a sei studenti all'ingresso principale della Scuola di economia, per dare una
lezione concreta agli altri". Quando la giunta prese il potere in Argentina, i soldati entrarono
nell'Università del Sud a Bahia Bianca e imprigionarono diciassette docenti con l'accusa di
"istruzione sovversiva"; ancora una volta, la maggior parte di loro insegnava nel dipartimento di
Economia. "È necessario distruggere le sorgenti che nutrono, informano e indottrinano il delinquente
sovversivo" annunciò uno dei generali a una conferenza stampa. Un totale di ottomila educatori di sinistra
"ideologicamente sospetti" furono epurati nell'ambito dell'Operazione Chiarezza. Nei licei, furono
bandite le presentazioni di gruppo: segno di un latente spirito collettivo, dannoso per la "libertà
individuale".
A Santiago, il leggendario cantante folk di sinistra Victor Jara fu tra coloro che furono portati allo Stadio
del Cile. Il trattamento che subì era l'incarnazione della furiosa determinazione di ridurre al silenzio una
cultura. Prima i soldati gli spezzarono entrambe le mani perché non potesse più suonare la chitarra, poi
gli spararono quarantaquattro volte, secondo la Commissione cilena per la verità e la riconciliazione. Per
assicurarsi che non costituisse una fonte di ispirazione per altri anche dopo morto, il regime ordinò la
distruzione delle sue registrazioni. Mercedes Sosa, anche lei una cantante, fu costretta all'esilio
dall'Argentina, il drammaturgo rivoluzionario Augusto Boal fu torturato e bandito dal Brasile, Eduardo
Galeano fu cacciato dall'Uruguay e Walsh fu assassinato nelle strade di Buenos Aires. Un'intera cultura fu
intenzionalmente sterminata.
Nel frattempo, un'altra cultura, purificata e sterilizzata, stava prendendo il suo posto. All'inizio delle
dittature in Cile, Argentina e Uruguay, gli unici raduni pubblici consentiti erano dimostrazioni di forza
militare e partite di calcio. In Cile, indossare pantaloni era sufficiente per farsi arrestare se si era una
donna; i capelli lunghi se si era un uomo. "In tutta la Repubblica è in atto una ripulitura completa"
dichiarò un editoriale di un quotidiano argentino controllato dalla giunta. Auspicava una cancellazione in
massa dei graffiti di sinistra: "Ben presto tutte le superfici risplenderanno, liberate da quell'incubo con
acqua e sapone".
In Cile, Pinochet era deciso a eliminare l'abitudine del suo popolo di scendere in piazza. I capannelli più
sparuti erano dispersi con cannoni ad acqua, l'arma prediletta da Pinochet per il controllo delle folle. La
giunta ne aveva a disposizione centinaia, abbastanza piccoli per portarli sui marciapiedi e inondare
gruppetti di bambini che facevano volantinaggio; anche i cortei funebri, quando il pianto si levava troppo
alto, erano brutalmente repressi. Soprannominati guanacos, dal nome di una razza di lama nota per
l'abitudine di sputare, i cannoni, situati ovunque, disperdevano la folla come se fosse spazzatura umana,
lasciando le strade risplendenti, pulite e vuote.
Poco tempo dopo il golpe, la giunta cilena emanò un editto che chiamava i cittadini a "contribuire alla
pulizia della vostra patria", denunciando "estremisti" stranieri e "cileni fanatici".''
Chi è stato ucciso, e perché.
La maggior parte delle persone catturate nelle retate non erano "terroristi", come recitava la retorica, ma
piuttosto quelle persone che secondo la giunta ponevano gli ostacoli più seri al loro programma
economico. Alcuni erano veri oppositori, ma molti erano semplicemente visti come i rappresentanti di
valori contrari a quelli della rivoluzione.
La natura sistematica di questa campagna di "igiene" è facilmente dimostrabile: è sufficiente confrontare
le date e gli orari delle sparizioni documentati nei rapporti delle associazioni per i diritti umani e delle
commissioni per la verità. In Brasile, la giunta non iniziò la repressione di massa fino ai tardi anni
Sessanta, ma ci fu un'eccezione: appena dopo il golpe, i soldati rastrellarono i leader dei sindacati attivi
nelle fabbriche e nei grandi ranch. Secondo quanto riporta Brazil: Nunca Mas, furono portati in carcere,
dove molti di loro subirono torture, "per la semplice ragione che si ispiravano a una filosofia politica a
cui le autorità si opponevano". Il rapporto della Commissione per la verità, basato sui documenti
processuali dell'esercito, annota che la Cgt (Confederazione generale dei lavoratori), la principale
coalizione sindacale, appare nei documenti processuali come
"un demone onnipresente che va esorcizzato". Conclude esplicitamente che il motivo per cui "le autorità
che salirono al potere nel 1964 furono particolarmente attente a "ripulire" questo settore" è che
"temevano la diffusione della [...] resistenza da parte dei sindacati ai propri programmi economici, basati
sulla riduzione dei salari e la denazionalizzazione dell'economia".
Sia in Cile che in Argentina, i governi militari sfruttarono l'iniziale caos generato dal golpe per lanciare
violenti attacchi contro il movimento sindacale. È evidente che queste operazioni erano state pianificate
con molto anticipo, dal momento che i raid sistematici iniziarono il giorno stesso del golpe. In Cile,
mentre tutti gli occhi erano puntati sul palazzo presidenziale sotto assedio, altri battaglioni furono
dirottati verso "fabbriche situate nelle cosiddette "cinture industriali", dove le truppe fecero raid e
arrestarono persone. Nei giorni successivi" prosegue il rapporto della Commissione cilena per la verità e
la riconciliazione, molte altre fabbriche furono rastrellate,
"portando all'arresto di molte persone, alcune delle quali furono poi uccise o fatte sparire". Nel 1976,
l'80 per cento dei prigionieri politici cileni erano operai o contadini.
Il rapporto della Commissione argentina per la verità, Nunca Mas (Mai più), documenta una parallela
azione chirurgica contro i sindacati: "Notiamo che gran parte delle operazioni [contro i lavoratori] sono
state condotte il giorno stesso del golpe, o subito dopo". Nell'elenco degli attacchi alle fabbriche, c'è una
testimonianza
particolarmente rivelatrice di come il "terrorismo" fu usato quale pretesto per perseguitare gli attivisti
operai nonviolenti. Gracida Geuna, prigioniera politica in un campo di tortura noto come La Perla,
raccontò che i soldati di guardia erano molto preoccupati per un imminente sciopero in una centrale
elettrica. Lo sciopero doveva essere "un esempio significativo della resistenza alla dittatura militare", e
la giunta non voleva che accadesse. Quindi, secondo il racconto della Geuna, "i soldati del reparto
decisero di renderlo illegale; o, come dicevano loro, di "montonerizzarlo" (i Montoneros erano i
guerriglieri che l'esercito aveva in precedenza decimato). Gli organizzatori dello sciopero non avevano
legami con i Montoneros, ma questo non importava. "I soldati alla Perla stamparono personalmente
volantini firmati Montoneros, che chiamavano allo sciopero gli operai della centrale." I volantini
divennero così la "prova" necessaria per rapire e uccidere i leader del sindacato.
Tortura sponsorizzata dalle industrie.
Gli attacchi ai leader sindacali erano spesso compiuti in stretta collaborazione con i datori di lavoro, e le
cause giudiziarie intentate negli ultimi anni forniscono esempi ben documentati del coinvolgimento diretto
delle sedi locali delle multinazionali straniere.
Negli anni che precedettero il golpe in Argentina, l'ascesa della militanza di sinistra aveva danneggiato le
aziende straniere non solo economicamente: tra il 1972 e il 1976 furono assassinati cinque dirigenti della
casa automobilistica Fiat. La sorte delle industrie mutò decisamente quando la giunta prese il potere e
applicò le politiche promosse dalla Scuola di Chicago; ora potevano invadere il mercato locale con le
importazioni, pagare salari ridotti, licenziare a volontà e riportare a casa i profitti senza essere intralciate
da regolamentazioni.
Le multinazionali espressero la propria gratitudine. Il primo giorno di capodanno sotto la dittatura
militare in Argentina, la Ford pubblicò un'inserzione su un quotidiano, nella quale si schierava
apertamente con il regime: "1976: Ancora una volta, l'Argentina trova la sua strada. 1977: Armo nuovo di
fede e speranza per tutti gli argentini di buona volontà. La Ford Motor in Argentina e il suo popolo si
impegnano nella lotta per realizzare il grande destino della Madrepatria". Le industrie straniere fecero
più che ringraziare le giunte per l'ottimo lavoro svolto: alcune parteciparono attivamente alle campagne
di terrore. In Brasile, diverse multinazionali si unirono per finanziare squadre private di torturatori. A
metà del 1969, mentre la giunta entrava nella fase più brutale del suo operato, fu organizzata una forza di
polizia extra-legale detta Operazione Bandeirantes, conosciuta anche come Oban. Composta da ufficiali
dell'esercito, l'Oban era sovvenzionata, secondo Brazil: Nunca Mas, da "contributi di varie
multinazionali, tra cui la Ford e la General Motors". Essendo indipendente dalle strutture militari e
poliziesche ufficiali, l'Oban godeva di
"flessibilità e impunità riguardo ai metodi di interrogatorio" dichiara il rapporto, e si guadagnò presto
una reputazione di inaudito sadismo.
Fu in Argentina, tuttavia, che il coinvolgimento delle sedi locali della Ford nell'apparato del terrore fu
più esplicito. La società controllava la fornitura di auto all'esercito, e la berlina verde Ford Falcon era il
veicolo usato per migliaia di rapimenti e sparizioni. Lo psicologo e drammaturgo argentino Eduardo
Pavlovsky descrisse l'automobile come "l'espressione simbolica del terrore. Una morte-mobile".''"
Mentre la Ford riforniva la giunta di automobili, la giunta offriva alla Ford un servizio tutto particolare:
ripulire le catene di montaggio dai fastidiosi sindacalisti. Prima del golpe, la Ford era stata costretta a
fare sostanziose concessioni ai suoi operai: un'ora di pausa pranzo anziché venti minuti, e l'un per cento
del prezzo di vendita di ogni automobile doveva essere reimpiegato per servizi di previdenza sociale.
Tutto ciò cambiò radicalmente il giorno stesso del golpe, quando la controrivoluzione ebbe inizio. Lo
stabilimento Ford alla periferia di Buenos Aires fu trasformato in un accampamento dell'esercito; nelle
settimane successive, brulicava di veicoli militari, compresi carri armati ed elicotteri ronzanti che vi
volteggiavano sopra. Gli operai hanno testimoniato che un battaglione di cento soldati presidiava
permanentemente la fabbrica." "Sembrava che alla Ford fossimo in guerra. Ed era tutto diretto contro di
noi, i lavoratori" ricorda Pedro Troiani, un delegato sindacale.
I soldati perquisirono lo stabilimento, catturando e incappucciando i più attivi fra i membri del sindacato,
i cui nomi erano stati comunicati dal servizievole caporeparto. Troiani fu tra gli uomini strappati alla
catena di montaggio. In seguito ricordò che "prima di prendermi in consegna, mi portarono a fare un giro
della fabbrica: apertamente, perché tutti potessero vedermi; la Ford usava questo sistema per eliminare il
sindacalismo dalla fabbrica".
La cosa più sorprendente avvenne poco dopo: anziché essere condotti in tutta fretta verso una prigione
vicina, Troiani e gli altri riferiscono che i soldati li portarono in un'ala adibita a carcere all'interno dello
stabilimento. Sul loro posto di lavoro, dove fino al giorno prima avevano negoziato contratti, gli operai
furono picchiati, presi a calci e, in due casi, sottoposti a elettroshock. Poi furono portati in carceri esterne
dove la tortura continuò per settimane e in alcuni casi per mesi. Secondo gli avvocati degli operai,
almeno venticinque rappresentanti sindacali della Ford furono rapiti in quel periodo, la metà di essi fu
detenuta all'interno dello stabilimento, in un edificio che i gruppi per i diritti umani in Argentina stanno
facendo pressioni perché venga inserito in una lista ufficiale di ex luoghi di detenzione clandestini.
Nel 2002, alcuni procuratori federali intentarono una causa penale contro la Ford Argentina per conto di
Troiani e quattordici altri operai, sostenendo la responsabilità della Ford nella repressione che si svolse
nei propri stabilimenti. "La Ford [Argentina] e i suoi dirigenti sono stati complici nel rapimento dei loro
stessi dipendenti, e credo debbano pagare per questo" dice Troiani. La Mercedes-Benz (controllata dalla
DaimlerChrysler) è attualmente oggetto di un'indagine analoga, partita da accuse secondo cui l'azienda
collaborò con l'esercito negli anni Settanta per eliminare i sindacalisti da uno dei suoi stabilimenti, dando
nomi e indirizzi di sedici dipendenti in seguito desaparecidos, quattordici di loro in via definitiva.
Nota: secondo la storica dell'America Latina Karen Robert, alla fine della dittatura "erano stati fatti
sparire praticamente tutti i delegati sindacali nelle maggiori industrie del Paese
[...] tra cui Mercedes-Benz, Chrysler e Fiat Concord".'' Sia la Ford sia la Mercedes-Benz negano che i
loro dirigenti abbiano svolto alcun ruolo nella repressione. I processi sono in corso.
Non erano solo i sindacalisti a rischiare attacchi preventivi; succedeva a chiunque rappresentasse un'idea
di società basata su valori diversi dal profitto puro. Particolarmente brutali, in tutta la regione, furono gli
attacchi agli allevatori che erano coinvolti nella lotta per la riforma agraria. I leader delle Leghe agrarie
argentine - che da tempo diffondevano idee incendiarie sul diritto dei contadini a possedere terre - erano
sistematicamente torturati, spesso nei campi in cui lavoravano, davanti all'intera comunità. I soldati
usavano le batterie dei camion per dare corrente elettrica alle loro picanas, usando contro gli allevatori
l'attrezzo comunemente usato sul bestiame. Nel frattempo, le politiche economiche della giunta erano una
manna per i proprietari terrieri e i titolari di ranch. In Argentina, Martinez de Hoz aveva liberalizzato il
prezzo della carne, che salì di oltre il 700 per cento, generando profitti record.'"
Nei quartieri poveri, il bersaglio delle azioni preventive erano gli operatori sociali, molti dei quali legati
alla Chiesa, che organizzavano i settori più disagiati della società per richiedere servizi sanitari, case
popolari e scuole: in altre parole, il welfare state che i Chicago Boys stavano smantellando. "Non ci
saranno più angioletti disposti ad aiutare i poveri!" dissero a Norberto Liwsky, un medico argentino,
mentre gli venivano inferte "scariche elettriche alle gengive, ai capezzoli, ai genitali, all'addome e alle
orecchie".
Un sacerdote argentino che collaborava con la giunta illustrava così la filosofia di base: "Il nemico era il
marxismo. Il marxismo nella Chiesa, diciamo, e nella patria - il pericolo di una nuova nazione". Il
"pericolo di una nuova nazione" aiuta a capire perché così tante vittime della giunta fossero molto
giovani. In Argentina, l'81 per cento dei trentamila desaparecidos avevano tra i sedici e i trent'anni.
"Stiamo lavorando ora per i prossimi vent'anni", disse un noto torturatore argentino a una sua vittima.
Fra i più giovani c'era un gruppo di liceali che, nel settembre 1976, si unì per chiedere di abbassare il
prezzo dei biglietti dell'autobus. Per la giunta, l'azione collettiva mostrava che i ragazzini erano stati
infettati dal virus del marxismo: essa rispose quindi con furia genocida, torturando e assassinando sei
degli studenti che avevano osato fare una richiesta tanto sovversiva. Miguel Osvaldo Etchecolatz, il
commissario di polizia condannato nel 2006, fu uno dei principali responsabili dell'attacco.
Queste sparizioni rispondevano a uno schema ben preciso: mentre gli shockterapeuti cercavano di
rimuovere ogni residuo di collettivismo dall'economia, le truppe d'assalto rimuovevano i rappresentanti
di quella cultura dalle strade, dalle università e dalle fabbriche.
A tratti, quando li si coglie alla sprovvista, capita che alcuni pionieri della trasformazione economica si
lascino sfuggire che il perseguimento dei loro obiettivi comportava la repressione di massa. Victor
Emmanuel, l'esperto di pubbliche relazioni della Burson-Marsteller che aveva il compito di vendere
all'estero il nuovo regime filo-business della giunta argentina, disse a un ricercatore che la violenza era
necessaria per aprire l'economia argentina, "protezionista e statalista". "Nessuno, e dico nessuno, investe
in un Paese coinvolto in una guerra civile" disse, ma ammise che non erano soltanto i guerriglieri a
morire. "Probabilmente sono stati uccisi anche molti innocenti" disse all'autrice Marguerite Feitlowitz,
ma "la situazione richiedeva un uso massiccio della forza."
Sergio de Castro, il Chicago Boy ministro dell'Economia di Pinochet, che presiedette all'applicazione
della shockterapia, disse che non ci sarebbe mai riuscito senza il sostegno datogli dal pugno di ferro di
Pinochet. "L'opinione pubblica era quasi tutta contro [di noi], quindi avevamo bisogno di una personalità
forte che mantenesse la linea politica. La nostra fortuna è stata che il presidente Pinochet ha compreso e
ha avuto la forza di carattere necessaria per sopportare le critiche." Ha anche osservato che "un governo
autoritario" è il più adatto alla salvaguardia della libertà economica, perché fa del potere un uso
"impersonale".
Come accade di solito nelle situazioni di terrore di Stato, gli omicidi mirati assolvevano una duplice
funzione. In primo luogo, rimuovevano gli ostacoli concreti che si opponevano al progetto: le persone che
con più probabilità si sarebbero battute contro di esso. In secondo luogo, il fatto che chiunque potesse
assistere alla scomparsa dei "rompiscatole" mandava un avvertimento inequivocabile a coloro i quali
stavano pensando di resistere, eliminando così potenziali ostacoli futuri.
E funzionava. "Eravamo confusi e angosciati, docili e pronti a prendere ordini [...] Le persone
regredivano; diventavano più dipendenti e timorose" ricorda lo psichiatra cileno Marco Antonio de la
Parra. In altre parole, erano in stato di shock. Dunque, quando gli shock economici fecero lievitare i
prezzi e affondare i salari, le strade del Cile, dell'Argentina e dell'Uruguay restarono vuote e calme. Non
ci furono rivolte per il cibo né scioperi generali. Le famiglie andavano avanti saltando i pasti in silenzio,
dando ai lattanti il maté, un tè tradizionale che sopprime l'appetito, svegliandosi prima dell'alba e
camminando per ore, per risparmiare il prezzo del biglietto dell'autobus per andare al lavoro. Chi moriva
per malnutrizione o tifo veniva sepolto senza far troppo rumore.
Appena dieci anni prima, le nazioni del Cono del Sud - con il loro settore industriale in forte espansione,
la classe media in rapida ascesa, sanità e scuole pubbliche funzionanti - erano state la speranza dei Paesi
in via di sviluppo. Ora ricchi e poveri si ritrovavano in due mondi economici diversi: i benestanti
ottenevano la cittadinanza onoraria nello Stato della Florida, e tutti gli altri erano respinti nel
sottosviluppo, un processo che si sarebbe approfondito durante tutta la fase di
"ristrutturazione" neoliberale dell'era post-dittatura. Questi Paesi non erano più esempio e fonte
d'ispirazione, ma terrificanti moniti di cosa accade alle nazioni povere che credono di potersi tirar fuori
dal Terzo mondo. Fu una conversione parallela a quanto subivano i prigionieri nei centri di tortura della
giunta: parlare non era abbastanza; erano costretti a rinunciare alle loro convinzioni più decise, a tradire
le persone amate e i figli. Quelli che cedevano erano chiamati quebrados,
"spezzati". Così accadde al Cono del Sud: la regione non fu solo battuta, fu spezzata, quebrada.
La tortura come "terapia".
Mentre si cercava di estirpare il collettivismo dalla cultura con mezzi politici, dentro le carceri la tortura
cercava di estirparlo dalla mente e dallo spirito. Come osservò un editoriale della giunta argentina nel
1976, "anche le menti devono essere ripulite, perché è lì che "è nato l'errore".
Molti torturatori si atteggiavano a dottori o chirurghi. Come gli economisti di Chicago con i loro dolorosi
ma necessari trattamenti shock, immaginavano che le scariche elettriche e gli altri tormenti fossero
terapeutici; erano convinti di somministrare una cura dolorosa ai loro prigionieri, che nei campi erano
spesso chiamati apestosos, "ammalati". Li avrebbero curati dalla malattia del socialismo, dall'impulso
all'azione collettiva.
Nota: così la shockterapia ritornava alle origini, alla sua incarnazione primaria di tecnica per gli
esorcismi. Il primo utilizzo della corrente elettrica in medicina era stato a opera di un medico svizzero
nel Settecento. Convinto che la malattia mentale fosse causata dal demonio, metteva in mano al paziente
un cavo metallico collegato a un macchinario elettrico; una scarica di elettricità per ogni demone. Il
paziente era quindi dichiarato guarito.
I loro "trattamenti" erano strazianti, certo; potevano risultare letali; ma erano per il bene del paziente. "Se
hai un braccio in cancrena, devi amputarlo, no?" diceva Pinochet, rispondendo con impazienza alle
critiche sul suo mancato rispetto dei diritti umani."
Nelle testimonianze raccolte nei rapporti delle commissioni per la verità in tutta la regione, i prigionieri
descrivono un sistema progettato per costringerli a tradire il principio fondamentale del loro senso di
identità. Per molti latinoamericani di sinistra, quel principio era ciò che lo storico radicale argentino
Osvaldo Bayer chiamava "l'unica teologia trascendentale: la solidarietà". I torturatori comprendevano
bene l'importanza della solidarietà, e si impegnarono con metodo a eliminare nei prigionieri
quell'impulso di interconnessione sociale attraverso le scosse elettriche.
Naturalmente, qualsiasi interrogatorio ha lo scopo dichiarato di ottenere informazioni di valore e quindi
obbligare al tradimento, ma molti prigionieri riferiscono che i loro torturatori erano molto meno
interessati alle informazioni, che di solito possedevano già, che non a ottenere il tradimento stesso. Lo
scopo ultimo dell'esercizio era costringere i prigionieri a infliggere danni irreparabili a quella parte di
loro stessi che credeva nell'aiutare gli altri prima di tutto, quella parte di loro che li rendeva degli
attivisti, sostituendola con vergogna e umiliazione.
A volte i tradimenti sfuggivano completamente al controllo dei prigionieri. Per esempio, il prigioniero
argentino Mario Villani aveva con sé la sua agenda quando fu rapito. Conteneva le coordinate per un
incontro che aveva programmato con un amico; i soldati si presentarono all'appuntamento al posto suo, e
un altro attivista sparì negli ingranaggi del terrore. Villani subì le torture con la consapevolezza che
"Jorge è stato catturato perché è venuto all'appuntamento con me.
Sapevano che io lo sapevo, e che sarebbe stato un tormento molto più atroce dei 220 volt. Il rimorso è
quasi insopportabile".
Gli atti di ribellione suprema, in questo contesto, erano piccoli gesti di gentilezza fra prigionieri, come
medicare le ferite dell'altro o dividere il poco cibo; quando questi atti d'amore erano scoperti, ne
seguivano dure punizioni. I prigionieri erano spinti all'individualismo, sempre tentati con patti faustiani,
come scegliere tra un'altra insostenibile tortura per se stessi o un'ulteriore sessione di tortura per un altro
prigioniero. In rari casi, la mente dei prigionieri era distrutta con tanta precisione che accettavano di
usare la picana contro i compagni di prigionia, o di andare in televisione e abiurare alle loro convinzioni.
Questi prigionieri rappresentavano il sommo trionfo per chi li torturava: non solo avevano abbandonato
la solidarietà ma, per sopravvivere, avevano ceduto all'etica spietata che è il cuore del capitalismo puro:
"badare solo al proprio interesse" nelle parole del dirigente dell'Itt.
Nota: l'espressione contemporanea di questo processo di disfacimento del sé si ritrova nel modo in cui
l'Islam è usato come arma contro i prigionieri musulmani nelle carceri gestite dagli americani.
Nella montagna di prove emerse da Abu Ghraib e Guantanamo, due forme di abuso si ripetono
costantemente: la nudità e l'intenzionale interferenza con la pratica islamica, ottenuta forzando i
prigionieri a radersi la barba, prendendo a calci il Corano, avvolgendo i prigionieri in bandiere
israeliane, costringendoli in pose omosessuali, persino toccandoli con finto sangue mestruale.
Moazzam Begg, ex prigioniero a Guantanamo, racconta di essere stato più volte rasato, mentre una
guardia gli diceva: "È questa la parte che voi musulmani proprio non sopportate, vero?". L'Islam è
dissacrato non perché le guardie lo odino (anche se questo è probabile), ma perché i prigionieri lo
amano. Poiché il fine della tortura è spezzare le personalità, tutto ciò che va a comporre la personalità di
un prigioniero deve essergli sistematicamente rubato: dai vestiti alle cose in cui crede.
Negli anni Settanta, voleva dire attaccare la solidarietà sociale: oggi sembra significare un attacco
all'Islam.
Entrambi i gruppi di "dottori dello shock" al lavoro nel Cono del Sudi generali e gli economisti ricorrevano a metafore pressoché identiche per il loro lavoro. Friedman paragonava il proprio ruolo in
Cile a quello di un medico che offre "pareri scientifici al governo cileno per aiutarlo a porre fine a una
piaga sanitaria": la "piaga dell'inflazione". Arnold Harberger, capo del programma latinoamericano
all'Università di Chicago, si spinse oltre. In una conferenza rivolta a giovani economisti in Argentina,
molto dopo la fine della dittatura, sostenne che i buoni economisti costituiscono da sé la terapia: fungono
da "anticorpi per combattere le idee e le politiche antieconomiche". Il ministro degli Esteri della giunta
argentina. César Augusto Guzzetti, disse che
"quando il corpo sociale del Paese è stato contaminato da un malanno che ne corrode le interiora,
sviluppa anticorpi. Questi anticorpi non possono essere considerati alla stessa stregua dei microbi.
Quando il governo controlla e distrugge la guerriglia, l'azione degli anticorpi svanirà, come sta già
succedendo. È una semplice reazione naturale a un corpo malato."
Questo linguaggio, naturalmente, è lo stesso costrutto ideologico che permise ai nazisti di sostenere che
uccidendo membri "malati" della società stavano curando il "corpo nazionale". Come sosteneva il
medico nazista Fritz Klein: "Desidero preservare la vita. E per rispetto verso la vita umana, sarei pronto
a rimuovere un'appendice incancrenita da un corpo malato. L'ebreo è l'appendice incancrenita nel corpo
dell'umanità". I Khmer Rossi usavano lo stesso linguaggio per giustificare il loro massacro in Cambogia:
"Ciò che è infetto dev'essere inciso".
Bambini "normali".
I parallelismi furono particolarmente agghiaccianti nel trattamento riservato dalla giunta argentina ai
bambini entro la sua rete di centri di tortura. La Convenzione dell'Onu sul genocidio afferma che fra le
pratiche tipiche del genocidio vi è "l'imposizione di misure tese a prevenire le nascite all'interno del
gruppo" e "il trasferimento forzato dei bambini da un gruppo all'altro".
Si stima che cinquecento bambini siano nati nei centri di tortura argentini, e questi neonati furono
immediatamente arruolati nel piano di ricostruzione della società e della creazione di una nuova razza di
cittadini modello. Dopo un breve periodo di svezzamento, centinaia di bambini furono venduti o affidati a
coppie (molte delle quali direttamente legate alla dittatura). Furono educati secondo i valori capitalisti e
cristiani definiti "normali" e sani dalla giunta, e non conobbero mai le loro origini, secondo
l'organizzazione per i diritti umani delle Nonne di Plaza de Mayo, che sono faticosamente riuscite a
rintracciare dozzine di questi bambini. I genitori, considerati troppo infetti dal germe del marxismo per
essere recuperabili, furono quasi sempre uccisi nei campi. I rapimenti dei bambini non erano eccessi
individuali, ma parte di un'operazione organizzata dallo Stato. In un processo, fu portato come prova un
documento ufficiale del dipartimento dell'Interno risalente al 1977; era intitolato Istruzioni sulle
procedure da seguire con i minori figli di leader politici o sindacali quando i genitori sono detenuti o
scomparsi?
Questo capitolo della storia argentina somiglia molto alle sottrazioni di neonati indigeni dalle proprie
famiglie, perpetrate in massa negli Stati Uniti, in Canada e Australia; quei bambini venivano mandati in
collegio, si proibiva loro di parlare la lingua madre e venivano assimilati ai bianchi a forza di botte. In
Argentina negli anni Settanta, era evidentemente all'opera una logica suprematista analoga e altrettanto
esplicita, basata non sulla razza ma sulle idee politiche, sulla cultura e sulla classe.
Una delle connessioni più evidenti tra gli omicidi politici e la rivoluzione liberista venne alla luce solo
quattro anni dopo la fine della dittatura argentina. Nel 1987, una troupe cinematografica stava effettuando
riprese nel seminterrato della Galerias Pacifico, uno dei centri commerciali più esclusivi nel centro di
Buenos Aires, e si imbatté con orrore in un centro di tortura abbandonato. Si scoprì che durante la
dittatura, il Primo corpo d'armata
aveva nascosto alcuni desaparecidos nei sotterranei del centro commerciale; le pareti delle segrete
portavano ancora i segni della disperazione dei prigionieri ormai morti da anni: nomi, date, richieste di
aiuto.
Oggi, la Galerias Pacifico è il fiore all'occhiello dello shopping di Buenos Aires, testimonianza del suo
successo come capitale del consumismo globalizzato. Soffitti a volta e affreschi in colori vivaci
incorniciano il vasto assortimento di negozi di marca, da Christian Dior a Ralph Lauren alla Nike, con
prezzi inaccessibili per la maggioranza degli abitanti del Paese, ma a buon mercato per gli stranieri che si
affollano in città per trarre vantaggio dal cambio favorevole della valuta.
Per gli argentini che conoscono la propria storia, il centro commerciale rimane un monito agghiacciante
del fatto che, come una vecchia forma di conquista capitalistica fu costruita sulle fosse comuni delle
popolazioni native del Paese, così il capitalismo neoliberista in America Latina è stato costruito letteralmente sui campi di tortura segreti in cui sono scomparse migliaia di persone che credevano in un
Paese diverso.
5.
"Assolutamente non correlate".
Come un'ideologia è stata ripulita dai suoi crimini.
Milton [Friedman] è l'incarnazione della verità per cui "le idee hanno conseguenze".
Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa Usa, maggio 2002.
La gente era in prigione perché i prezzi potessero essere liberi.
Eduardo Galeano, 1990.
Per un breve periodo, sembrò che i crimini commessi nel Cono del Sud potessero davvero ritorcersi
contro il movimento neoliberista, screditandolo prima che riuscisse a espandersi oltre il suo primo
esperimento. In seguito al viaggio decisivo di Milton Friedman in Cile nel 1975, l'editorialista del
"New York Times" Anthony Lewis pose una domanda semplice ma incendiaria: "Se la teoria economica
pura della Scuola di Chicago può essere applicata in Cile solo a prezzo di una repressione, i suoi autori
dovrebbero sentirsi responsabili?".'
Dopo l'assassinio di Orlando Letelier, gli attivisti popolari raccolsero il suo appello affinché
"l'architetto intellettuale" della rivoluzione economica cilena fosse considerato responsabile per i costi
umani delle sue politiche. In quegli anni, Milton Friedman non poteva parlare in pubblico senza essere
interrotto da qualcuno che citava Letelier, e in vari eventi nei quali doveva essere premiato fu costretto a
entrare passando dalle cucine.
Gli studenti dell'Università di Chicago furono così sconvolti nell'apprendere che i loro professori
avevano collaborato con la giunta, che richiesero un'inchiesta interna all'ateneo. Alcuni docenti li
appoggiarono, fra i quali l'economista austriaco Gerhard
Tintner, sfuggito al fascismo europeo e rifugiatosi negli Stati Uniti negli anni Trenta. Tintner paragonò il
Cile di Pinochet alla Germania nazista, e istituì parallelismi tra l'appoggio mostrato da Friedman a
Pinochet, e i tecnocrati che collaborarono con il Terzo Reich (Friedman, a sua volta, accusava i suoi
critici di "nazismo").''
Sia Friedman sia Arnold Harberger erano felici di assumersi la responsabilità per i "miracoli economici"
realizzati dai loro Chicago Boys latinoamericani. Con il tono di un padre orgoglioso, Friedman esultò su
"Newsweek" nel 1982: "I Chicago Boys [...] hanno unito una straordinaria abilità intellettuale ed
esecutiva con il coraggio delle proprie convinzioni e un grande impegno per la loro applicazione".
Harberger ha dichiarato: "Vado più fiero dei miei studenti che di qualsiasi cosa io abbia scritto; anzi, il
gruppo latinoamericano è molto più mio del contributo alla letteratura scientifica". Quando però si
parlava del costo umano dei miracoli compiuti dai loro studenti, entrambi gli studiosi cessavano di
vedere qualsiasi collegamento.
"Malgrado il mio profondo disaccordo con il sistema politico autoritario vigente in Cile" scrisse
Friedman nella sua rubrica su "Newsweek" "non ritengo sia un male che un economista fornisca consigli
tecnici su questioni economiche al governo cileno."
Nella sua autobiografia, Friedman sostiene che Pinochet passò i primi due anni a tentare di mandare
avanti l'economia da solo, e che solo "nel 1975, quando l'inflazione infuriava ancora e una recessione
mondiale provocò una depressione economica in Cile; [solo allora] il generale Pinochet si rivolse ai
Chicago Boys". Si trattava di palese revisionismo: i Chicago Boys lavoravano con l'esercito da ben
prima del golpe, e la rivoluzione neoliberista era iniziata il giorno stesso in cui la giunta era salita al
potere. In altre occasioni, Friedman si spinse perfino a sostenere che l'intero regno di Pinochet diciassette anni di dittatura e decine di migliaia di persone torturate - non era stato un violento
disfacimento della democrazia, ma l'esatto contrario. "La cosa davvero importante a proposito della
questione cilena è che i liberi mercati sono riusciti nell'intento di creare una società libera" disse.
Tre settimane dopo l'omicidio Letelier, giunse una notizia che rese inutili i dibattiti su come i crimini di
Pinochet si riflettessero sul movimento della Scuola di Chicago. A Milton Friedman era stato assegnato il
premio Nobel 1976 per l'economia, in considerazione del suo lavoro "originale e significativo" sul
rapporto tra inflazione e disoccupazione. Friedman usò il discorso di premiazione per sostenere che
l'economia era una disciplina scientifica rigorosa e oggettiva al pari della fisica, della chimica e della
medicina, che si basa su un esame imparziale dei fatti disponibili. Ma ignorò tranquillamente il fatto che
l'ipotesi centrale per la quale aveva ricevuto il premio veniva drammaticamente dimostrata falsa in
quegli stessi giorni dalle file per il pane, dalle epidemie di tifo e dalle fabbriche chiuse in Cile, l'unico
regime abbastanza spietato per accettare di mettere in pratica le sue idee.'"
Un anno dopo, un nuovo elemento contribuì a definire i parametri del dibattito sul Cono del Sud: Amnesty
International vinse il premio Nobel per la pace, in larga parte per il suo lavoro coraggioso e battagliero
nel denunciare gli abusi contro i diritti umani in Cile e Argentina. Il premio per l'economia e quello per la
pace sono in realtà indipendenti, vengono attribuiti da due diversi comitati e consegnati in due diverse
città. Da lontano, tuttavia, sembrava che con i due Nobel la più prestigiosa giuria del mondo avesse
emesso il suo verdetto: lo shock della cella di tortura doveva essere duramente condannato, ma i
trattamenti shock in economia andavano elogiati; e le due forme di shock erano, come Leteher aveva
scritto grondando ironia, "assolutamente non correlate".
I paraocchi dei "diritti umani".
Questo muro ideologico fu innalzato non solo perché gli economisti della Scuola di Chicago rifiutavano
di ammettere qualsiasi legame tra le loro politiche e l'uso del terrore. Al problema contribuiva anche il
modo particolare in cui questi atti di terrore erano qualificati come semplici
"abusi dei diritti umani" anziché come strumenti finalizzati al perseguimento di fini economici e politici
ben chiari. Parte del motivo è che il Cono del Sud negli anni Settanta non fu solo il laboratorio per un
nuovo modello economico. Fu anche il laboratorio per un modello di attivismo relativamente nuovo, il
movimento popolare internazionale per i diritti umani. Quel movimento giocò indubbiamente un ruolo
decisivo nel mettere fine ai peggiori abusi della giunta. Ma concentrando la propria attenzione
esclusivamente sui crimini, e non anche sulle loro motivazioni, il movimento per i diritti umani ha anche
consentito all'ideologia della Scuola di Chicago di sfuggire praticamente indenne al suo primo
laboratorio.
Il dilemma risale alle origini del moderno movimento per i diritti umani, con l'adozione nel 1948
della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo da parte delle Nazioni Unite. L'inchiostro non era
ancora asciutto sul documento che esso divenne un ariete di sfondamento partigiano, usato da entrambe le
fazioni nella Guerra fredda per accusarsi a vicenda di essere il prossimo Hitler. Nel 1967, reportage
giornalistici rivelarono che la Commissione internazionale dei giuristi, l'autorevole gruppo per i diritti
umani che si occupava prevalentemente degli abusi compiuti in Unione Sovietica, non era l'arbitro
imparziale che sosteneva di essere, ma riceveva finanziamenti segreti dalla Cia.
Fu in questo contesto incandescente che Amnesty International sviluppò la propria dottrina di stretta
imparzialità: i suoi finanziamenti sarebbero provenuti esclusivamente dai membri, e sarebbe rimasta
rigorosamente "indipendente da ogni governo, fazione politica, ideologia, interesse economico o credo
religioso". Per dimostrare che non usava i diritti umani per portare avanti una particolare agenda politica,
a ogni sede locale di Amnesty fu imposto di "adottare" simultaneamente tre prigionieri di coscienza,
scelti rispettivamente "da Paesi comunisti, occidentali e del Terzo mondo".
La posizione di Amnesty, emblematica del movimento dei diritti umani nel suo complesso in quel
periodo, era che, dal momento che le violazioni dei diritti umani erano un male universale, qualcosa di
sbagliato in sé, non era necessario determinare perché gli abusi stessero avendo luogo, ma soltanto
documentarli nel modo più meticoloso e credibile.
Questo principio si riflette nel modo in cui fu documentata la campagna di terrore nel Cono del Sud.
Sotto sorveglianza e vessazione costante da parte della polizia segreta, i gruppi per i diritti umani
inviarono delegazioni in Argentina, Uruguay e Cile per intervistare centinaia di vittime delle torture e di
loro familiari, e ottennero accesso limitato alle carceri. Poiché i mass media indipendenti erano banditi e
le giunte negavano i propri crimini, queste testimonianze costituiscono la documentazione primaria di una
storia che non avrebbe mai dovuto essere scritta. Ferma restando l'importanza di questo lavoro, esso fu
però piuttosto limitato: i rapporti sono elenchi burocratici delle più rivoltanti tecniche di repressione,
ognuna associata al relativo statuto Onu violato.
Questa ristrettezza di vedute è problematica soprattutto nel rapporto di Amnesty sull'Argentina del 1976,
un rivoluzionario resoconto delle atrocità compiute dalla giunta, e che ben merita il premio Nobel
ricevuto. Eppure, nonostante la sua completezza, il rapporto non fa luce sul perché gli abusi accadessero.
Si domanda "fino a che punto le violazioni siano spiegabili o necessarie" per garantire la "sicurezza" che era la motivazione ufficiale della giunta per la "guerra sporca". Dopo aver esaminato le prove, il
rapporto conclude che la minaccia posta dalla guerriglia di sinistra non era in alcun modo commisurata al
livello di repressione usato dallo Stato.
Ma c'era qualche altro obiettivo che potesse rendere la violenza "spiegabile o necessaria"? Se c'era,
Amnesty non ne faceva menzione. Anzi, nel suo rapporto di novantadue pagine, Amnesty non faceva
menzione del fatto che la giunta stava ricostruendo il Paese lungo linee radicalmente capitaliste. Non
commentava la povertà galoppante o il drammatico rovesciamento dei programmi per la redistribuzione
della ricchezza, che erano i fiori all'occhiello della politica della giunta. Pur elencando esaustivamente
tutte le leggi e i decreti emanati dalla giunta che violavano le libertà civili, il rapporto non menzionava i
decreti economici che riducevano i salari e aumentavano i prezzi, in questo modo non rispettando il
diritto al cibo e all'alloggio, anch'esso sancito nella carta dell'Onu. Se il rivoluzionario progetto
economico della giunta fosse stato anche solo superficialmente esaminato, sarebbe apparso chiaro perché
una repressione tanto violenta era necessaria, e si sarebbe capito perché così tanti dei prigionieri di
coscienza intervistati da Amnesty erano pacifici sindacalisti e lavoratori del sociale.
Altra grossa lacuna: Amnesty presentò il conflitto come ristretto all'esercito locale e agli estremisti di
sinistra. Non erano citati altri soggetti: né il governo Usa né la Cia; non i proprietari terrieri locali; non le
multinazionali. Senza un esame del progetto più vasto per imporre il capitalismo puro in America Latina
e i potenti interessi che stavano dietro a quel progetto, gli atti di sadismo documentati nel rapporto non
avevano alcun senso; nient'altro che eventi negativi casuali, galleggianti nel nulla, nell'etere politico,
eventi da condannare ma impossibili da comprendere.
Ogni aspetto del movimento per i diritti umani-operava in un ambito molto ristretto, anche se per ragioni
diverse. Nei Paesi colpiti, i primi a denunciare il terrore erano gli amici e i parenti delle vittime, ma la
loro libertà di parola era fortemente limitata. Non parlavano delle motivazioni politiche ed economiche
dei rapimenti, perché se l'avessero fatto avrebbero rischiato di diventare essi stessi desaparecidos. Il più
famoso gruppo di attivisti per i diritti umani emerso in queste pericolose circostanze è quello delle Madri
di Plaza de Mayo, noto in Argentina come le Madrés.
Nella loro manifestazione settimanale davanti agli edifici governativi a Buenos Aires, le Madrés non
osavano esporre cartelli di protesta; invece reggevano le foto dei figli scomparsi con la scritta
"Dónde estân?" Dove sono? Anziché gridare slogan rabbiosi le donne giravano in silenzio, con in testa
sciarpe bianche ricamate con i nomi dei loro figli. Molte Madrés avevano opinioni politiche forti, ma
erano attente a presentarsi come nulla di più minaccioso che madri in lutto, in disperata attesa di sapere
dove fossero stati portati i loro figli innocenti.
Nota: dopo la fine della dittatura, le Madrés divennero tra i critici più intransigenti del neoliberismo in
Argentina; lo sono ancor oggi.
In Cile, il più importante gruppo per i diritti umani era il Comitato di pace, formato da politici
dell'opposizione, avvocati e leader della Chiesa. Attivisti politici da una vita, sapevano che il tentativo
di fermare la tortura e di liberare i prigionieri politici era solo un fronte in una battaglia più vasta, il cui
vincitore avrebbe avuto il controllo delle ricchezze del Cile. Ma per evitare di trasformarsi nelle
prossime vittime del regime, abbandonarono le consuete denunce antiborghesi e impararono il nuovo
linguaggio dei "diritti umani universali". Ripulito da ogni riferimento a ricchi e poveri, deboli e forti,
Nord e Sud, questo nuovo modo di intendere il mondo, così popolare in Nordamerica ed Europa,
asseriva semplicemente che tutti hanno diritto a un giusto processo e a non ricevere trattamenti crudeli,
degradanti e inumani. Non si chiedeva perché, affermava che. Nel miscuglio di gergo legale e attenzione
ai "casi umani" che caratterizza il lessico dei diritti umani, appresero che i loro companeros incarcerati
erano in realtà "prigionieri di coscienza", il cui diritto alla libertà di pensiero e parola, tutelato dagli
articoli 18 e 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, era stato violato.
Per chi viveva sotto la dittatura, il nuovo linguaggio era in pratica un codice: come i musicisti
nascondevano i messaggi politici nei testi delle canzoni velandoli con sottili metafore, loro celavano le
proprie opinioni di sinistra dietro il gergo legale: un modo di far politica senza parlare di politica.
Anche con queste precauzioni, gli attivisti per i diritti umani non erano al riparo dal terrore. Le carceri
cilene erano piene di avvocati specializzati in diritti umani, e in Argentina la giunta mandò uno dei suoi
migliori torturatori a infiltrarsi tra le Madrés, fingendosi un parente in lutto. Nel dicembre 1977, il
gruppo subì un rastrellamento; dodici madri sparirono per sempre, compresa la leader del movimento,
Azucena de Vicenti, insieme a due suore francesi.
Quando la campagna di terrore in America Latina finì sotto gli occhi dei movimenti per i diritti umani,
che vivevano un momento di popolarità, gli attivisti ebbero le loro - ben diverse - ragioni per evitare di
parlare di politica.
La ford sulla Ford.
Il rifiuto di collegare l'apparato statale del terrore al progetto ideologico cui era finalizzato è una
caratteristica di quasi tutta la letteratura sui diritti umani in questo periodo. Anche se la reticenza di
Amnesty può essere intesa come tentativo di restare imparziale fra le tensioni della Guerra fredda, c'era
però, per molti altri gruppi, un altro fattore in gioco: i soldi. Il finanziatore di gran lunga più generoso per
quest'opera fu la fondazione Ford, all'epoca la più grande organizzazione filantropica al mondo. Negli
anni Sessanta, l'organizzazione investì l'enorme cifra di 30 milioni di dollari nelle attività per i diritti
umani in America Latina. Con questi soldi, la fondazione sponsorizzò gruppi locali come il Comitato di
pace cileno, oltre a gruppi nordamericani di recente costituzione tra cui Americas Watch.
Prima dei golpe militari, il ruolo principale della fondazione Ford nel Cono del Sud era stato quello di
sovvenzionare la formazione di accademici, soprattutto in economia e scienze agrarie, che lavorassero in
stretto contatto con il dipartimento di Stato americano. Frank Sutton, vicepresidente aggiunto della
divisione internazionale della Ford, spiegò la filosofia dell'organizzazione: "Non si può modernizzare il
Paese se non si modernizzano le élite". La maggior parte delle sovvenzioni accademiche della Ford, pur
perfettamente in linea con la logica della Guerra fredda - tentare di promuovere lo sviluppo di
un'alternativa al marxismo rivoluzionario - non mostravano una tendenza ideologica marcatamente di
destra: gli studenti latinoamericani erano mandati in una vasta gamma di università statunitensi, e i fondi
per i dipartimenti di ricerca erano concessi a molte università latinoamericane, compresi i grandi atenei
pubblici noti per le tendenze progressiste.
Ma ci furono diverse eccezioni notevoli. Come abbiamo visto, la fondazione Ford era il principale
finanziatore del programma di Ricerca e istruzione economica latinoamericana dell'Università di
Chicago, programma che sfornò centinaia di Chicago Boys latinoamericani. La fondazione finanziava
anche un programma parallelo all'Università Cattolica di Santiago, destinato ad attrarre laureandi in
economia dai Paesi vicini per studiare con i Chicago Boys cileni. Ciò rese la fondazione Ford, volente o
nolente, la principale fonte di finanziamenti per la diffusione dell'ideologia di Chicago in tutta l'America
Latina, ancor più importante del governo Usa.
Quando i Chicago Boys salirono al potere tra colpi di cannone a fianco di Pinochet, le cose non
sembrarono mettersi molto bene per la reputazione della fondazione Ford. I Chicago Boys erano stati
sovvenzionati nell'ambito della missione della fondazione finalizzata a "migliorare le istituzioni
economiche per una migliore attuazione degli obiettivi democratici". Ora le istituzioni economiche che la
Ford aveva contribuito a costruire, a Chicago come a Santiago, giocavano un ruolo di primo piano nel
rovesciamento della democrazia cilena, e i suoi ex studenti stavano mettendo in pratica ciò che avevano
appreso negli Stati Uniti in un contesto di scioccante brutalità.
E, cosa che complicava ulteriormente la faccenda per la fondazione, era la seconda volta in pochi anni
che i suoi pupilli sceglievano una strada violenta per il potere, dopo la fulminea ascesa al potere della
"mafia di Berkelep" in Indonesia in seguito al sanguinoso golpe di Suharto.
La Ford aveva istituito un dipartimento di Economia all'Università dell'Indonesia, ma quando Suharto era
salito al potere, "quasi tutti gli economisti che il programma aveva formato erano stati assunti dal
governo", come annota un documento della Ford. Non era rimasto praticamente nessuno che seguisse gli
studenti." Nel 1974 in Indonesia scoppiarono rivolte nazionalistiche contro la
"sovversione dell'economia da parte degli stranieri"; la fondazione Ford divenne oggetto della rabbia
popolare, in quanto, secondo gli studenti radicali, aveva addestrato gli economisti di Suharto a vendere le
ricchezze petrolifere e minerarie del Paese alle multinazionali occidentali.
Tra i Chicago Boys in Cile e la "mafia di Berkeley" in Indonesia, la Ford si stava creando una brutta
reputazione: i laureati dei due principali programmi educativi sponsorizzati dalla fondazione erano a
capo delle più violente e famigerate dittature di destra nel mondo. Anche se la Ford non poteva sapere
che le idee trasmesse
ai suoi studenti sarebbero state applicate con una simile barbarie, sorgevano comunque domande
scomode sul perché una fondazione dedicata alla pace e alla democrazia si ritrovasse immersa fino al
collo nell'autoritarismo e nella violenza.
Spinta dal panico, dalla coscienza sociale o da una combinazione delle due, la fondazione Ford affrontò
il problema della dittatura come ogni buona azienda avrebbe fatto: in modo produttivo. A metà degli anni
Settanta, la Ford si trasformò da produttrice di "competenze tecniche" per il cosiddetto Terzo mondo
nella principale finanziatrice dell'attivismo per i diritti umani. Questo voltafaccia fu particolarmente
stridente in Cile e in Indonesia. In quei Paesi la sinistra era stata decimata da regimi che la Ford aveva
appoggiato fin dall'inizio; eppure fu proprio la Ford a finanziare la formazione di una nuova generazione
di avvocati d'assalto, impegnati a liberare le centinaia di migliaia di prigionieri politici ostaggio dei
medesimi regimi.
Con un passato così oscuro, non c'è da stupirsi che quando la Ford si dedicò ai diritti umani definì il
proprio campo d'azione in modo molto restrittivo. La fondazione favorì apertamente gruppi che
consideravano il proprio lavoro come lotta per la "legalità", la "trasparenza" e il "buongoverno".
Nelle parole di un funzionario della fondazione Ford, l'atteggiamento dell'organizzazione in Cile era:
"Come possiamo agire senza lasciarci coinvolgere nella politica?". Il problema non era solo che la Ford
fosse un'istituzione intrinsecamente conservatrice, abituata a collaborare, e non a opporsi, alla politica
estera ufficiale degli Stati Uniti.
Nota: negli anni Cinquanta, la fondazione Ford servì spesso come copertura per la Cia, permettendo
all'agenzia di incanalare fondi destinati ad accademici e artisti antimarxisti, i quali non sapevano da dove
arrivassero realmente i soldi; un processo accuratamente documentato nel libro The Cultural Cold War
(La Guerra fredda culturale) di Frances Stonor Saunders. Amnesty non era finanziata dalla fondazione
Ford, né lo erano i più radicali difensori dei diritti umani in America Latina, le Madrés de Plaza de
Mayo.
Era anche il fatto che, se si fossero ricercati seriamente gli obiettivi della repressione in Cile, si sarebbe
arrivati direttamente alla fondazione Ford, e al ruolo centrale da essa giocato nell'indottrinamento degli
attuali leader del Paese in una setta fondamentalista di economisti.
C'era poi la questione dell'innegabile legame della fondazione Ford con la Ford Motor Company, una
relazione complessa, soprattutto per gli attivisti ai livelli più bassi. Oggi, la fondazione Ford è
completamente indipendente dalla Ford Motor Company e dai suoi eredi, ma le cose non stavano così
negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la fondazione finanziava progetti educativi in Asia e America
Latina. La fondazione nacque nel 1936 grazie a donazioni di titoli azionari da parte di tre manager della
Ford, tra cui Henry e Edsel Ford. Mentre le ricchezze della fondazione aumentavano, essa iniziò a
operare in modo indipendente, ma il disinvestimento delle azioni Ford Motor non fu completo prima del
1974, un anno dopo il golpe cileno e parecchi anni dopo il golpe in Indonesia; e nel consiglio di
amministrazione rimasero membri della famiglia Ford fino al 1976.
Nel Cono del Sud, le contraddizioni erano surreali: il ramo filantropico dell'industria più strettamente
legata all'apparato del terrore - accusata di ospitare un centro di tortura segreto nei propri stabilimenti, e
di aiutare a far sparire i propri dipendenti - costituiva la migliore, e spesso l'unica, possibilità di metter
fine ai peggiori abusi. Finanziando attivisti per i diritti umani scrupolosi e di sani principi, indubbiamente
la fondazione Ford salvò molte vite in quegli anni. E le va riconosciuto almeno parte del merito per aver
persuaso il Congresso statunitense a tagliare gli aiuti militari all'Argentina e al Cile, obbligando
gradualmente le giunte del Cono del Sud a ridurre l'utilizzo delle tecniche di repressione più brutali. Ma
quando la Ford accorse in aiuto, la sua assistenza fu pagata a caro prezzo, e quel prezzo era consapevolmente o no - l'onestà intellettuale del movimento per i diritti umani. La decisione della Ford di
occuparsi dei diritti umani ma di
"restar fuori dalla politica" generò un contesto nel quale era praticamente impossibile porre la domanda
fondamentale, al cuore degli abusi: perché ciò stava accadendo? Nell'interesse di chi?
Questa omissione ha influito pesantemente sul modo in cui è stata raccontata la storia della rivoluzione
neoliberista, tacendo cioè sulle circostanze straordinariamente violente in cui era nata.
Come gli economisti di Chicago non avevano nulla da dire sulla tortura (perché non c'entrava niente con
il loro ambito di competenza), così le associazioni per i diritti umani avevano ben poco da dire sulle
radicali trasformazioni in corso nella sfera economica (che andavano al di là del loro ristretto orizzonte
legale).
L'idea che la repressione e l'economia fossero in realtà un unico e unitario progetto si riflette in uno solo
dei rapporti sui diritti umani pubblicati in quel periodo. Brusii: Nunca Mas (Mai più). È
significativo che questo sia l'unico rapporto di una Commissione per la verità pubblicato in totale
indipendenza sia dallo Stato
sia dalle fondazioni straniere. È basato sui verbali processuali dell'esercito, fotocopiati in segreto nel
corso di anni da avvocati di straordinario coraggio e attivisti religiosi, mentre il Paese era ancora nella
morsa della dittatura. Dopo aver presentato nei dettagli alcuni dei crimini più orrendi, gli autori pongono
quella domanda fondamentale, che gli altri erano stati così attenti a evitare: Perché?
La risposta è semplice: "Dal momento che la politica economica era estremamente impopolare presso
numerosi settori della popolazione, si dovette applicarla con la forza".
Il modello economico radicale che attecchì così profondamente durante la dittatura si dimostrò più
resistente dei generali che l'avevano applicato. Per lungo tempo, dopo che i soldati erano tornati alle loro
caserme e i latinoamericani avevano avuto di nuovo il permesso di eleggere i propri governi, la logica
della Scuola di Chicago rimase profondamente radicata.
Claudia Acufia, giornalista ed educatrice argentina, mi ha raccontato quanto fosse difficile negli anni
Settanta e Ottanta capire che la violenza non era lo scopo ultimo della giunta, ma solo il mezzo. "Le loro
violazioni dei diritti umani erano così estreme, così incredibili, che naturalmente fermarli divenne la
priorità. Ma anche se siamo riusciti a distruggere i centri di tortura segreti, ciò che non abbiamo potuto
distruggere è il programma economico iniziato dall'esercito e che continua ancora oggi."
Alla fine, come aveva previsto Rodolfo Walsh, molte più vite sarebbero state perdute a causa della
"miseria programmata" che delle pallottole. In un certo senso, quanto successe nel Cono del Sud negli
anni Settanta è che la regione fu considerata alla stregua della scena di un omicidio, quando in realtà era
la scena di una rapina a mano armata di straordinaria violenza. "È come se quel sangue, il sangue dei
desaparecidos, avesse nascosto il costo del programma economico", mi disse la Acufia.
Il dibattito sulla possibilità di distinguere i "diritti umani" dal piano politico ed economico non è
confinato all'America Latina; sono problemi che affiorano ogni volta che uno Stato usa la tortura come
arma politica. Nonostante l'alone mistico che la circonda, e il comprensibile impulso a considerarla
come un comportamento aberrante che va al di là della politica, la tortura non è una cosa particolarmente
complessa o misteriosa. Strumento crudele di coercizione, appare in modo assai prevedibile ogni volta
che un despota locale o un occupante straniero non gode del sostegno popolare necessario per governare:
Marcos nelle Filippine,
lo scià in Iran, Saddam in Iraq, i francesi in Algeria, gli israeliani nei territori occupati, gli Stati Uniti in
Iraq e Afghanistan. La lista potrebbe continuare a lungo. La diffusione degli abusi sui prigionieri è un
indicatore praticamente infallibile del fatto che i politici stiano cercando di imporre un sistema - sia esso
politico, religioso o economico - che ampie fette della popolazione rifiutano.
Come gli ecologisti definiscono gli ecosistemi in base alla presenza di certi "indicatori" costituiti da
particolari specie di piante e volatili, la tortura è una "specie-indicatore" di un regime che è impegnato in
un progetto profondamente antidemocratico, anche se quel regime sembra aver preso il potere attraverso
regolari elezioni.
Come strumento per estorcere informazioni durante gli interrogatori, la tortura è nota per la sua
inaffidabilità; ma niente funziona meglio per terrorizzare e controllare intere popolazioni. Fu per questa
ragione che negli anni Cinquanta e Sessanta gli algerini si stufarono di sentire i francesi di sinistra che
esprimevano indignazione morale per il fatto che i loro soldati torturassero sistematicamente i
combattenti per la liberazione, e poi non facevano nulla per porre fine all'occupazione che era il motivo
originario di quegli abusi.
Nel 1962, Gisèle Halimi, un avvocato francese che difendeva alcuni algerini brutalmente violentati e
torturati in prigione, scrisse, esasperata: "Le parole erano i soliti cliché stantii: da quando la tortura era
praticata in Algeria c'erano sempre state le stesse parole, la stessa indignazione, le stesse adesioni a
proteste pubbliche, le stesse promesse. Questa routine automatica non aveva condotto all'abolizione di un
solo set di elettrodi o di un solo manicotto per l'acqua; né ha avuto la benché minima efficacia nel
limitare il potere di chi li usava". Simone de Beauvoir, in uno scritto sullo stesso argomento, condivideva
questa opinione: "Protestare in nome della morale contro "eccessi"
od "abusi" è un'aberrazione che assomiglia a complicità. Non c'è da nessuna parte abuso od eccesso, ma
dappertutto un sistema".
La Beauvoir intendeva dire che l'occupazione non poteva essere svolta in modo compassionevole; non c'è
un modo compassionevole per governare le persone contro la loro volontà. Ci sono due possibilità di
scelta, scriveva la Beauvoir: accettare l'occupazione e tutti i metodi necessari per la sua imposizione,
"oppure rifiutare non soltanto certi provvedimenti, ma il fine che li autorizza e li reclama". La stessa netta
dicotomia si ripresenta oggi in Iraq e in Israele/Palestina, e negli anni Settanta era la sola opzione
disponibile nel Cono del Sud. Come non esiste un modo gentile e delicato per occupare un Paese senza il
consenso del suo popolo, così non esiste un sistema pacifico per strappare a milioni di cittadini ciò di cui
hanno bisogno per vivere con dignità: esattamente quello che i Chicago Boys stavano cercando di fare. La
rapina, che sia di terra o di un modo di vivere, richiede l'uso della forza, o almeno una minaccia
credibile; è per questo che i ladri girano armati, e spesso usano le loro armi. La tortura è atroce, ma è
spesso un mezzo molto razionale per ottenere un obiettivo specifico; anzi, potrebbe essere l'unico modo
per raggiungere quei fini. Il che fa sorgere la domanda fondamentale che molti erano incapaci di porre in
America Latina durante quegli anni: il neoliberismo è un'ideologia intrinsecamente violenta? C'è
qualcosa nei suoi obiettivi che rende necessario questo ciclo di ripulitura politica brutale, seguito da
operazioni di ripristino dei diritti umani?
Una delle testimonianze più commoventi su questo punto proviene da Sergio Tomasella, un coltivatore di
tabacco e segretario generale delle Leghe agrarie argentine, che fu torturato e imprigionato per cinque
anni, così come sua moglie, molti amici e parenti.
Nota: per questo resoconto sono debitrice all'interessante libro di Marguerite F&ûowitz, A Lexicon of
Terror.
Nel maggio 1990, Tomasella prese l'autobus notturno per Buenos Aires dalla provincia rurale di
Corrientes, per aggiungere la propria voce al Tribunale argentino contro l'impunità, che stava
raccogliendo testimonianze sugli abusi contro i diritti umani compiuti durante la dittatura. La
testimonianza di Tomasella era diversa dalle altre. Apparve davanti alla corte cittadina negli abiti da
campagna e con gli stivali da lavoro, e spiegò di essere una vittima della lunga guerra tra i contadini
poveri, che volevano appezzamenti per costituire cooperative, e i potentissimi proprietari dei ranch, che
detenevano metà della terra nella sua provincia. "È un processo ininterrotto: coloro che hanno sottratto la
terra agli indiani continuano a opprimerci con le loro strutture feudali."
Tomasella affermò che gli abusi subiti da lui e dagli altri membri delle Leghe agrarie non potevano
essere scissi dagli enormi interessi economici perseguiti attraverso il tormento dei loro corpi e la
distruzione della loro rete di attivisti. Dunque, anziché fare i nomi dei soldati che l'avevano maltrattato,
decise di fare i nomi delle industrie, nazionali e straniere, che traevano profitto dalla protratta
dipendenza economica dell'Argentina. "I monopoli stranieri ci impongono le colture, ci impongono
sostanze chimiche che inquinano l'aria che respiriamo, impongono tecnologie e ideologie. Tutto questo
attraverso l'oligarchia che possiede la terra e controlla la politica. Ma dobbiamo ricordare che
l'oligarchia è a sua volta controllata dagli stessi monopoli, le stesse Ford Motor, Monsanto, Philip
Morris. È la struttura che dobbiamo cambiare. Questo è ciò che sono venuto a denunciare. E tutto."
L'auditorium esplose in un applauso fragoroso. Tomasella concluse la sua testimonianza con queste
parole: "Credo che la verità e la giustizia alla fine trionferanno. Ci vorranno generazioni intere. Se devo
morire in questa battaglia, così sia. Ma un giorno trionferemo. Nel frattempo, so bene chi è il nemico, e il
nemico sa chi sono io".
La prima avventura dei Chicago Boys negli anni Settanta avrebbe dovuto fungere da monito per l'umanità:
le loro idee sono pericolose. Ma dal momento che la loro ideologia è riuscita a evitare che le venisse
attribuita la colpa dei crimini commessi nel suo primo laboratorio, questa subcultura di ideologi
impenitenti ha ottenuto l'immunità, ed è stata libera di scorrazzare per il mondo alla ricerca della
prossima conquista. Oggi, noi tutti viviamo in un'era di massacri corporativisti, in cui i Paesi patiscono
orrende violenze militari oltre a tentativi organizzati di ricostruzione e trasformazione in economie
modello di "libero mercato"; sparizioni e torture sono tornate per restare. E ancora una volta gli obiettivi
di costruzione di liberi mercati e il bisogno di quella brutalità sono considerati come assolutamente non
correlati.
Parte terza.
Sopravvivere alla democrazia. Bombe fatte di leggi.
Un conflitto armato tra nazioni ci riempie d'orrore. Ma la guerra economica non è migliore di un
conflitto armato. Quest'ultimo è come un'operazione chirurgica; la guerra economica è una tortura
prolungata. E la devastazione che produce non è meno terribile di quella descritta nella letteratura
sulla guerra propriamente detta. Non pensiamo all'altra guerra perché siamo abituati ai suoi nefasti
effetti. [...] Il movimento contro la guerra è giusto. Prego perché abbia successo. Ma non posso
evitare il lancinante terrore che quel movimento fallirà nel suo intento se non arriverà a toccare la
radice di tutti i mali: l'avidità umana.
M.K. Gandhi, "Non Violence - The Greatest Force", 1926.
6.
Salvati da una guerra.
Il thatcherismo e i suoi utili nemici.
Sovrano è colui che decreta lo stato di emergenza.
Cari Schmitt, giurista nazista.
Quando Friedrich von Hayek, santo patrono della Scuola di Chicago, andò in visita in Cile nel 1981,
ricevette un'impressione così favorevole di Augusto Pinochet e dei Chicago Boys che, appena tornato in
patria, si sedette e scrisse una lettera alla sua amica Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito.
Le consigliò caldamente di prendere il Paese sudamericano a modello per trasformare l'economia della
Gran Bretagna, improntata al keynesianismo. La Thatcher e Pinochet sarebbero poi diventati amici per la
pelle, e l'ex primo ministro avrebbe fatto visita all'anziano generale mentre era agli arresti domiciliari in
Inghilterra, accusato di genocidio, tortura e terrorismo.
Il primo ministro britannico conosceva bene quello che definiva "il grande successo dell'economia
cilena", descrivendolo come "un ottimo esempio di riforma economica da cui possiamo imparare molto".
Eppure, malgrado l'ammirazione che nutriva per Pinochet, quando Hayek le suggerì di emulare le sue
politiche di shockterapia, la Thatcher non fu affatto persuasa. Nel febbraio 1982, il primo ministro
illustrò il problema, senza giri di parole, in una lettera al suo guru intellettuale:
"Sono certa che converrà con me che, in Gran Bretagna, con le nostre istituzioni democratiche e la
necessità di un elevato margine di consenso, alcune misure adottate in Cile risulterebbero del tutto
inaccettabili. La nostra riforma dovrà essere in linea con le nostre tradizioni e la nostra Costituzione. A
volte il processo sembrerà dolorosamente lento".
In breve, la shockterapia in stile Chicago non era attuabile in una democrazia come il Regno Unito. La
Thatcher era al potere da tre anni, in picchiata nei sondaggi e ben decisa a non garantirsi la sconfitta alle
successive elezioni adottando misure radicali e impopolari come quelle proposte da Hayek.
Per Hayek e il movimento che egli rappresentava, si trattò di una valutazione deludente.
L'esperimento condotto nel Cono del Sud aveva generato profitti così spettacolari, benché per un numero
molto ridotto di soggetti, che le multinazionali sempre più globalizzate desideravano e richiedevano
l'apertura di nuove frontiere; e non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nelle nazioni ricche
dell'Occidente, nelle quali lo Stato controllava risorse ancor più lucrative che avrebbero potuto essere
gestite for-profit: telefonia, linee aeree, frequenze televisive, aziende per la fornitura di energia elettrica.
Se c'era qualcuno in grado di applicare queste politiche nel mondo ricco, poteva essere solo la Thatcher
in Inghilterra o il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.
Nel 1981, la rivista "Fortune" pubblicò un articolo che elogiava le virtù del "nuovo e mirabile mondo
della Reaganomics". Cieco di fronte alla brutale repressione e alla diffusione a macchia d'olio delle
baraccopoli, il giornale aveva occhi solo per "i negozi scintillanti, pieni di merci di lusso" di Santiago e
le "automobili giapponesi nuove fiammanti". L'articolo poneva la domanda:
"Cosa possiamo imparare dall'esperimento cileno di ortodossia economica?"; e si rispondeva subito:
"Se un piccolo Paese sottosviluppato è in grado di applicare la teoria del vantaggio competitivo, allora
di certo può farlo la nostra economia, che ha molte più risorse".
Come appare chiaro dalla lettera della Thatcher a Hayek, le cose non erano affatto così semplici. I
governanti eletti dal popolo dovevano preoccuparsi di ciò che gli elettori pensavano del loro rendimento,
sottoposto a un riesame periodico. E nei primi anni Ottanta, anche con Reagan e la Thatcher al potere e
Hayek e Friedman come consiglieri d'alto rango, non era affatto pacifico che le politiche radicali imposte
con tanta ferocia nel Cono del Sud sarebbero mai state applicabili nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Dieci anni prima, Friedman e il suo movimento si erano trovati ad affrontare una grande delusione negli
Stati Uniti, a causa nientemeno che di Richard Nixon; delusione che sembrava confermare quella
difficoltà. Sebbene Nixon avesse aiutato i Chicago Boys a salire al potere in Cile, in patria aveva preso
una strada molto diversa: un'incongruenza che Friedman non gli avrebbe mai perdonato. Quando Nixon fu
eletto, nel 1969, Friedman pensò che fosse finalmente giunto il momento di condurre la sua
controrivoluzione in patria contro l'eredità del New Deal. "Pochi presidenti hanno espresso filosofie più
compatibili con la mia" scrisse Friedman a proposito di Nixon.'' I due uomini si incontravano
regolarmente nello Studio Ovale, e Nixon nominò diversi amici e colleghi di Friedman per posizioni di
responsabilità nel campo economico. Tra questi, il docente dell'Università di Chicago George Shultz, che
Friedman aiutò a ottenere il posto; un altro fu Donald Rumsfeld, che allora aveva trentasette anni. Negli
anni Sessanta, Rumsfeld aveva frequentato seminari all'Università di Chicago, occasioni che in seguito
avrebbe descritto in modo assai lusinghiero. Rumsfeld definiva Friedman e i suoi colleghi "un drappello
di geni", mentre lui e altri "cuccioli" (così si definivano) andavano da loro per "apprendere accovacciati
ai loro piedi [...]
Ero così privilegiato". Potendo contare su discepoli così affezionati, e in virtù della sua relazione
personale con il presidente, Friedman aveva ogni ragione di credere che le sue idee sarebbero state
messe in pratica nella più potente economia del mondo.
Ma nel 1971 l'economia americana era in stallo; la disoccupazione era elevata e l'inflazione faceva
impennare i prezzi. Nixon sapeva che se avesse seguito i suggerimenti di Friedman, improntati al laissezfaire, milioni di cittadini infuriati l'avrebbero cacciato dalla Casa Bianca con i loro voti.
Decise allora di calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, come gli affitti e il petrolio.
Friedman era indignato: di tutte le possibili "distorsioni" governative, il controllo dei prezzi era la
peggiore in assoluto. Lo definiva "un cancro in grado di distruggere un sistema economico, impedendogli
di funzionare".
Friedman era ancor più scandalizzato dal fatto che fossero proprio i suoi discepoli a spingere per il
keynesianismo: Rumsfeld era responsabile del programma di controllo dei prezzi, e rispondeva del suo
operato a Shultz che all'epoca era direttore dell'Ufficio management e budget. A un certo punto, Friedman
chiamò Rumsfeld alla Casa Bianca e rimproverò il suo ex "cucciolo". Stando al resoconto di Rumsfeld,
Friedman gli disse: "Devi smettere di fare quello che stai facendo". Il giovane e inesperto burocrate
rispose che quello che stava facendo sembrava funzionare: l'inflazione era in discesa, l'economia in
crescita. Friedman ribatté che era questo il crimine più grave: "La gente penserà che lo stia facendo tu
[...] impareranno la lezione sbagliata". E in effetti la impararono, e rielessero Nixon con il 60 per cento
del voto popolare l'anno seguente. Nel suo secondo mandato, il presidente fece a pezzi altri dogmi
dell'ortodossia friedmaniana, approvando una valanga di nuove leggi che imponevano standard più alti di
sicurezza e tutela dell'ambiente.
"Siamo tutti keynesiani ora" fu la famosa affermazione di Nixon; l'insulto più crudele. Questo tradimento
era talmente profondo che Friedman avrebbe in seguito descritto Nixon come "il più socialista dei
presidenti americani nel ventesimo secolo".'
L'atteggiamento di Nixon fu una dura lezione per Friedman. Il professore di Chicago aveva costruito un
movimento sull'equazione tra capitalismo e libertà, eppure le persone libere sembravano non voler votare
i politici che seguivano i suoi consigli. A peggiorare le cose c'era il fatto che le dittature - da cui era
marcatamente assente la libertà - erano gli unici governi disposti ad applicare la dottrina del liberismo
puro. Mentre si lagnavano del fatto di non essere ascoltati in patria, i luminari di Chicago passarono gli
anni Settanta saltellando da una giunta all'altra. Ovunque fosse al potere una dittatura militare di destra, la
presenza della Scuola di Chicago era palpabile.
Harberger lavorò come consulente del regime militare in Bolivia nel 1976 e accettò una laurea honoris
causa dall'Università argentina di Tucuman nel 1979, epoca in cui le università erano controllate dalla
giunta." Ancor più lontano, fece da consigliere per Suharto e la "mafia di Berkeley"
in Indonesia. Friedman scrisse un programma per la liberalizzazione economica per conto del partito
comunista cinese, che aveva deciso di trasformare il Paese in un'economia di mercato.
Stephan Haggard, studioso di scienze politiche all'Università della California e neoliberista convinto,
ammise il "triste fatto" che "alcuni dei più vasti sforzi di riforma nei Paesi in via di sviluppo sono stati
intrapresi in seguito a golpe militari"; oltre al Cono del Sud e all'Indonesia, aggiunse all'elenco la
Turchia, la Corea del Sud e il Ghana. Altri successi ebbero luogo non in seguito a golpe militari ma in
Stati con un partito unico, come il Messico, Singapore, Hong Kong e Taiwan. Contrariamente alla teoria
fondamentale di Friedman, Haggard concluse che "le cose buone, come la democrazia e la politica
economica orientata al mercato, non sempre vanno di pari passo". In effetti, nei primi anni Ottanta, non
c'era un solo caso di democrazia multipartitica che assumesse un approccio interamente liberista.
Le forze di sinistra nei Paesi in via di sviluppo vanno ripetendo da tempo che la democrazia piena, con
regole giuste che impedissero alle industrie di comprare le elezioni, avrebbe di necessità prodotto
politiche governative favorevoli alla redistribuzione della ricchezza. La logica è molto semplice: in
questi Paesi ci sono molti più poveri che ricchi. La redistribuzione diretta della terra e del reddito, e non
l'economia di trickle-down è nel chiaro interesse della maggioranza, ovvero dei poveri. Date a tutti i
cittadini il diritto di voto e un processo ragionevolmente giusto, e la maggioranza eleggerà i politici che
con più probabilità procureranno posti di lavoro e terra, non altre promesse di libero mercato.
Nota: Trickle-down (lett. "gocciolamento"): teoria economica tipica del reaganesimo, secondo cui la
ricchezza si diffonde spontaneamente dall'alto verso il basso, se lo Stato sovvenziona le grandi imprese
anziché i servizi sociali e le opere pubbliche.
Per tutti questi motivi, Friedman aveva trascorso molto tempo a riflettere su un paradosso intellettuale:
come erede di Adam Smith, credeva fermamente che gli uomini sono mossi dal proprio interesse, e che la
società funziona al meglio quando l'interesse personale può pilotare quasi tutte le attività, tranne quando
si giunge a una certa, piccola attività chiamata votare. Poiché la maggior parte delle persone in questo
mondo sono povere o vivono al di sotto del salario medio (Stati Uniti compresi), è chiaramente nel loro
interesse votare per politici che promettono di redistribuire la ricchezza dalla cima della piramide
economica giù fin dove si trovano loro. Allan Meltzer, amico di lunga data di Friedman e anche lui
monetarista, esplicitò il problema in questi termini: "I voti sono distribuiti più equamente dei redditi [...]
Gli elettori con redditi mediobassi sono avvantaggiati se trasferiscono il reddito verso di sé". Meltzer
descrisse questa reazione come
"parte del costo del governo democratico e della libertà politica", ma disse che "i Friedman [Milton e
sua moglie Rose] nuotavano contro questa impetuosa corrente. Non potevano fermarla o rovesciarla, ma
influenzarono più di tanti altri il modo in cui la gente comune e i politici pensavano e agivano".
Sull'altra sponda dell'Atlantico, la Thatcher stava sperimentando una versione inglese del friedmanismo,
promuovendo quella che era divenuta nota come "società dei proprietari". Lo sforzo si incentrava sulle
case popolari, dette in Gran Bretagna council estates, cui la Thatcher si opponeva su basi filosofiche,
ritenendo che lo Stato non dovesse entrare nel mercato immobiliare. I council estates erano pieni
esattamente del genere di persone che non avrebbero votato il partito Tory perché non rispondeva al loro
personale interesse economico; la Thatcher era convinta che se si fosse riusciti a inserire quelle persone
nel mercato, avrebbero iniziato a identificarsi con gli interessi delle classi più agiate, che si opponevano
alla redistribuzione. Partendo da questo presupposto, il primo ministro offrì sostanziosi incentivi ai
residenti delle case popolari, che avrebbero permesso loro di acquistare la casa in cui vivevano a un
prezzo vantaggioso. Chi poteva comprare comprò, mentre chi non poteva si ritrovò a pagare affitti quasi
raddoppiati. Era la strategia del divide et impera, e funzionò: gli affittuari continuarono a opporsi alla
Thatcher, le strade delle grandi città inglesi videro un rapido aumento del numero di senzatetto, ma i
sondaggi mostravano che più della metà di chi aveva comprato casa aveva iniziato a votare Tory.
Anche se la vendita degli council estates offrì un barlume di speranza per la possibilità di impiantare in
una democrazia una politica economica estremamente reazionaria, la Thatcher sembrava ancora destinata
a perdere il posto dopo un solo mandato. Nel 1979, era stata eletta grazie allo slogan "Il partito laburista
non lavora", ma nel 1982 il numero dei disoccupati era più che raddoppiato sotto il suo mandato, come
anche il tasso d'inflazione. Aveva cercato di spezzare uno dei sindacati più potenti del Paese, quello dei
minatori di carbone, e aveva fallito. Dopo tre anni al potere, la Thatcher vedeva la sua popolarità
personale crollare al 25 per cento: meno di Bush nel suo momento peggiore e meno di qualunque altro
primo ministro britannico nella storia dei sondaggi. Il consenso complessivo per il suo governo era
precipitato al 18 per cento. Quando le elezioni generali erano ormai imminenti, il thatcherismo stava
giungendo a una fine prematura e ingloriosa, ben prima che i Tory raggiungessero i loro obiettivi più
ambiziosi, la privatizzazione di massa e la rottura dei sindacati dei colletti blu. Fu in questa spinosa
circostanza che la Thatcher scrisse a Hayek, informandolo cortesemente che una trasformazione in stile
cileno era "del tutto inaccettabile" nel Regno Unito.
Il catastrofico primo mandato della Thatcher sembrava confermare le lezioni impartite dagli anni di
Nixon: che le politiche radicali e redditizie della Scuola di Chicago erano semplicemente incompatibili
con la democrazia. Sembrava chiaro che l'imposizione della shockterapia economica richiedeva qualche
altro genere di shock: che fosse quello di un colpo di Stato oppure quello della tortura praticata da un
regime repressivo.
Era una prospettiva particolarmente spiacevole per Wall Street in quanto, nei primi anni Ottanta, i regimi
autoritari in tutto il mondo stavano iniziando a collassare: Iran, Nicaragua, Ecuador, Perù, Bolivia; e
molti altri si sarebbero aggiunti alla lista, in quella che il politologo conservatore Samuel Huntington
avrebbe definito "la terza ondata" della democrazia. Per i neoliberisti, questi erano sviluppi
preoccupanti. Come prevenire l'ascesa di un nuovo Allende, che avrebbe ottenuto voti e sostegno con
politiche populiste?
Washington era rimasta a guardare mentre tutto ciò accadeva in Iran e in Nicaragua nel 1979. In Iran, lo
scià appoggiato dagli Stati Uniti fu rovesciato da una coalizione di partiti di sinistra e forze islamiste.
Sono ben note le vicende degli ostaggi e degli ayatollah, ma l'aspetto economico del programma
sollevava altrettanta preoccupazione a Washington. Il regime islamico, che non si era ancora
completamente trasformato in dittatura, procedette a nazionalizzare il settore bancario, e varò un
programma di redistribuzione delle terre. Impose anche controlli sulle importazioni e le esportazioni, un
cambio di rotta radicale rispetto alle politiche liberiste dello scià. Cinque mesi dopo, in Nicaragua, la
dittatura di Anastasio Somoza Debayle, spalleggiata dagli Stati Uniti, cadde in una rivolta popolare che
condusse al potere il governo di sinistra dei sandinisti. Il nuovo esecutivo impose controlli sulle
importazioni e, come gli iraniani, nazionalizzò le banche.
Il tutto metteva capo a una prognosi infausta per il sogno di un liberismo globale: all'inizio degli anni
Ottanta, i friedmaniani dovevano fare i conti con il fatto che la loro rivoluzione, dopo meno di dieci anni,
non poteva sopravvivere a una nuova ondata di populismo.
Sei settimane dopo quella lettera della Thatcher a Hayek, accadde qualcosa che le fece cambiare idea e
alterò il destino della crociata corporativista: il 2 aprile 1982, l'Argentina invase le isole Falkland, un
relitto dell'impero coloniale britannico. La Guerra delle Falkland, o delle Malvinas per gli argentini,
passò alla storia come una scaramuccia di poco conto, ma violenta. All'epoca, le Falkland sembravano
non avere la minima rilevanza strategica. Il piccolo arcipelago al largo delle coste argentine distava
migliaia di chilometri dalla Gran Bretagna, e mantenerlo e difenderlo costava molto. Le Falkland
servivano a poco anche all'Argentina, benché avere un avamposto britannico nelle proprie acque fosse un
affronto al suo orgoglio nazionale. Il leggendario scrittore argentino Jorge Luis Borges descrisse la
disputa territoriale in tono caustico: "due uomini calvi che si disputano un pettine".
Da un punto di vista militare, le undici settimane di combattimenti non mostrano una particolare rilevanza
storica. Ciò che passò sotto silenzio, tuttavia, fu l'impatto della guerra sul progetto liberista. Un impatto
enorme: fu la guerra delle Falkland a fornire alla Thatcher la copertura politica di cui aveva bisogno per
importare, per la prima volta in una democrazia liberale occidentale, un programma di trasformazione
capitalista radicale.
Entrambe le fazioni in lotta avevano ottimi motivi per volere una guerra. Nel 1982, l'economia argentina
era sull'orlo del collasso, sotto il peso dei debiti e della corruzione, e le campagne per i diritti umani
stavano guadagnando terreno. Un nuovo governo di giunta, guidato dal generale Leopoldo Galtieri,
calcolò che l'unica cosa più forte della rabbia contro la continua soppressione della democrazia fosse il
sentimento antimperialista, che Galtieri sagacemente alimentò nei confronti dei britannici, per il loro
rifiuto di abbandonare le isole. Ben presto, la giunta aveva piazzato la propria bandiera biancoazzurra su
quel roccioso avamposto, e il Paese applaudiva a comando.
Quando giunse in Inghilterra la notizia che l'Argentina aveva rivendicato le Falkland, la Thatcher vide in
questo stato di cose la sua unica speranza di ribaltare la propria sorte politica, e immediatamente si
animò di uno spirito battagliero alla Churchill. Fino a quel momento, aveva mostrato soltanto disprezzo
per gli oneri economici che le Falkland imponevano sulle casse dello Stato. Aveva tagliato i fondi
destinati alle isole, e annunciato imponenti tagli alla marina, comprese le navi militari che pattugliavano
le Falkland; mosse, queste, lette dai generali argentini come un chiaro segno che la Gran Bretagna era
pronta a cedere il territorio. (Un biografo della Thatcher definì la politica del primo ministro sulla
questione Falkland come "in pratica, invitare l'Argentina a invaderle".) Mentre la guerra si stava
preparando, i critici da ogni colore dello spettro politico accusavano la Thatcher di usare l'esercito per i
propri scopi elettorali. Il celebre deputato laburista dissidente Tony Benn disse: "Si direbbe proprio che
a essere in gioco sia la reputazione della signora Thatcher, non le isole Falkland"; mentre il conservatore
"Financial Times" annotava: "La cosa deplorevole è che il problema si sta rapidamente mescolando con
le divergenze politiche interne alla Gran Bretagna, che non hanno nulla a che fare con la posta in gioco.
Non è solo l'orgoglio del governo argentino a essere in ballo. E in ballo anche la reputazione, forse
addirittura la sopravvivenza, del governo conservatore in Gran Bretagna".
Eppure, nonostante la guerra fosse stata preceduta da tutto questo sano cinismo, appena le truppe furono
spiegate, il Paese divenne preda di quello che una bozza di risoluzione del partito laburista definì "forma
mentis sciovinista e militarista", che vedeva nelle Falkland l'ultima scintilla di gloria dello sbiadito
impero britannico. La Thatcher elogiava lo "spirito Falkland" che serpeggiava nella nazione, il che in
pratica significava che le urla di "Ditch the Bitch!" ("Togliamoci dalle scatole quella stronza") erano
ridotte al silenzio, mentre le magliette con la scritta "Up Your Junta!"
("Mettetevelo su per la giunta") vendevano benissimo. Né Londra né Buenos Aires fecero seri tentativi di
evitare una resa dei conti. La Thatcher ignorò le Nazioni Unite - non diversamente da Bush e Blair
appena prima della guerra in Iraq mostrando disinteresse per la possibilità di sanzioni o negoziazioni.
Vittoria e gloria era l'unico esito possibile per ciascuna delle due parti in lotta.
La Thatcher combatteva per il proprio futuro politico: e vinse in maniera spettacolare. Dopo il successo
delle Falkland, che costò la vita a 255 soldati britannici e 655 argentini, il primo ministro fu portato in
trionfo come un'eroina di guerra, e il soprannome "Lady di ferro" si trasformò da insulto in elogio. I
risultati dei sondaggi si alterarono di conseguenza. Il suo livello di popolarità personale raddoppiò
abbondantemente nel corso della guerra, dall'iniziale 25 al 59 per cento, il che permise alla Thatcher di
vincere con un buon margine le elezioni dell'anno successivo.
La controinvasione delle Falkland da parte dell'esercito britannico era chiamata in codice Operation
Corporate, e benché fosse un nome inusuale per una campagna militare, si dimostrò profetico. La
Thatcher usò l'enorme popolarità garantitale dalla vittoria per lanciare la stessa rivoluzione
corporativista che prima della guerra aveva definito impossibile nella lettera a Hayek. Quando i minatori
dell'industria del carbone andarono in sciopero nel 1984, la Thatcher affrontò la questione come una
replica della guerra con l'Argentina, e dichiarò necessario un atteggiamento altrettanto risoluto e brutale.
Restò celebre la dichiarazione: "Nelle Falkland abbiamo dovuto combattere il nemico esterno, e ora
dobbiamo affrontare il nemico interno, che è molto più difficile ma altrettanto pericoloso per la libertà".
Dopo aver definito i lavoratori britannici "nemico interno", la Thatcher riversò
sugli scioperanti tutta la forza dello Stato; in un'occasione inviò 8000 poliziotti in assetto antisommossa,
a cavallo e armati di manganelli, a sbaragliare un picchetto, provocando circa 700
feriti. Durante il lungo sciopero il numero di feriti salì a diverse migliaia. Come documenta il reporter
del "Guardian" Seumas Milne nel suo influente saggio The Enemy Within: Thatcher's Secret War against
the Miners (Il nemico interno: la guerra segreta della Thatcher contro i minatori), il primo ministro
impose alle forze di sicurezza di intensificare la sorveglianza sul sindacato, e in particolare sul suo
presidente militante, Arthur Scagili. Ciò che seguì fu "la più ambiziosa operazione di contro-sorveglianza
mai messa in atto in Gran Bretagna". Il sindacato subì ripetute infiltrazioni, a tutti i telefoni furono
applicate delle cimici, così come ai telefoni di casa e persino nei chioschi di fish and chips frequentati
dai leader sindacali. Il dirigente del sindacato fu accusato alla Camera dei Comuni di essere un agente
segreto dell'MI5, i servizi segreti, inviato per
"destabilizzare e sabotare il sindacato", anche se il diretto interessato respinse le accuse.
Nigel Lawson, cancelliere dello Scacchiere al momento dello sciopero, sostenne che il governo Thatcher
considerava il sindacato come un nemico. "Era come armarsi per affrontare la minaccia di Hitler alla fine
degli anni Trenta" avrebbe detto Lawson un decennio dopo. "Bisognava prepararsi."
Come nelle Falkland, non c'era interesse a contrattare, ma solo una ferma determinazione a spezzare il
sindacato, a qualunque costo (e con tremila poliziotti in più ogni giorno, il costo era enorme).
Colin Naylor, sergente di polizia che era in prima linea nel conflitto, la descrisse come "una guerra
civile".
Nel 1985 la Thatcher aveva già vinto anche questa guerra: gli operai avevano fame e non resistevano più;
alla fine i licenziamenti furono 966. Fu una sconfitta devastante per il sindacato più potente della Gran
Bretagna, e mandò agli altri un messaggio inequivocabile. Se la Thatcher era disposta a rovinarsi pur di
piegare i minatori, dai quali il Paese dipendeva per l'approvvigionamento di energia elettrica e
riscaldamento, sfidare il suo nuovo ordine economico sarebbe stato un suicidio per i sindacati che
rappresentavano categorie produttive e servizi meno cruciali per la nazione.
Meglio allora accettare l'offerta. Era un messaggio molto simile a quello che Ronald Reagan aveva
mandato pochi mesi dopo la sua elezione, con la sua risposta a uno sciopero dei controllori di volo.
Non presentandosi al lavoro, essi avevano "disertato i propri impieghi e sarebbero stati allontanati",
disse Reagan; dopodiché procedette a licenziare in un colpo solo 11.400 tra i lavoratori più necessari al
Paese: uno shock da cui il movimento dei lavoratori americani deve ancora riprendersi completamente.
In Gran Bretagna, la Thatcher reinvestì i guadagni della scommessa fatta nelle Falkland e con i minatori
in un grandioso balzo in avanti per la sua radicale agenda economica. Tra il 1984 e il 1988, il governo
privatizzò tra l'altro la British Telecom, la British Gas, la British Airways, l'autorità aeroportuale e le
acciaierie, e vendette le proprie azioni della British Petroleum.
Come gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 avrebbero offerto a un presidente impopolare
l'opportunità di lanciare una massiccia campagna di privatizzazioni (nel caso di Bush, la privatizzazione
della sicurezza, della guerra e della ricostruzione), così la Thatcher usò la sua guerra per lanciare la
prima grande asta per le privatizzazioni in una democrazia occidentale. Fu questa la vera Operation
Corporate, quella più gravida di conseguenze storiche. L'abilità della Thatcher nell'usare questa guerra fu
la prima prova concreta che il neoliberismo non aveva bisogno di dittature militari e camere di tortura
per avanzare. Aveva dimostrato che con una crisi politica abbastanza grave intorno a cui radunarsi, una
versione limitata della shockterapia poteva essere imposta anche in un regime democratico.
Eppure, la Thatcher aveva avuto bisogno di un nemico contro il quale riportare a unità il proprio Paese,
un insieme di circostanze straordinarie che giustificassero l'uso della repressione e di misure di
emergenza: una crisi che l'aveva fatta sembrare dura e decisa, anziché crudele e reazionaria. La guerra
aveva ottenuto perfettamente il suo scopo, ma la Guerra delle Falkland rimase come un'anomalia nei
primi anni Ottanta, un ritorno ad antichi conflitti coloniali. Se gli anni Ottanta dovevano essere davvero
l'alba di una nuova era di pace e democrazia, come molti sostenevano, allora scontri come quello delle
Falkland sarebbero stati troppo rari per formare le basi di un progetto politico globale.
Fu nel 1982 che Milton Friedman scrisse quello che è forse il suo pronunciamento più influente, la
migliore definizione della dottrina dello shock: "Solo una crisi - reale o percepita - produce vero
cambiamento. Quando quella crisi si manifesta, le azioni intraprese dipendono dalle idee che sono in
circolo. Questa, io credo, è la nostra funzione basilare: sviluppare alternative a politiche esistenti, tenerle
in vita e a disposizione finché il politicamente
impossibile diventa politicamente inevitabile". Sarebbe diventato una sorta di mantra per il suo
movimento nella nuova era democratica. Allan Meltzner sviluppò questa filosofia: "Le idee sono
alternative che attendono una crisi per catalizzare il cambiamento. Il modello di influenza proposto da
Friedman era quello di legittimare le idee, renderle tollerabili, e degne di essere messe alla prova
quando si presenta l'opportunità giusta".
Il genere di crisi che Friedman aveva in mente non era militare, ma economica. Comprendeva bene che,
in circostanze normali, le decisioni economiche sono prese in base ai conflitti fra interessi divergenti: i
lavoratori vogliono impieghi e aumenti salariali, i datori di lavoro desiderano poche tasse e meno regole,
e i politici devono fare un bilancio tra queste forze in competizione. Tuttavia, se una crisi economica è
abbastanza grave - un crollo della valuta, un crac del mercato, una forte recessione - mette in secondo
piano tutto il resto, e dà carta bianca ai leader per fare tutto ciò che è necessario (o ritenuto tale)
spacciandola per risposta a un'emergenza nazionale. Le crisi sono, in un certo senso, zone franche della
democrazia: momenti in cui le regole normali del consenso vengono sospese.
L'idea che i crolli del mercato possano agire come catalizzatori per il mutamento rivoluzionario ha una
lunga storia nell'estrema sinistra, in particolare nella teoria bolscevica per cui l'iperinflazione, poiché
distrugge il valore del denaro, avvicina le masse alla distruzione del capitalismo stesso.
Questa teoria spiega perché un certo filone di pensiero settario di sinistra non fa che calcolare le esatte
condizioni nelle quali il capitalismo può raggiungere "la crisi", non diversamente da come i cristiani
evangelici cercano di cogliere i segni del futuro rapidamente in cielo. A metà degli anni Ottanta, l'idea
comunista conobbe un acceso revival, sfruttato dagli economisti della Scuola di Chicago per sostenere
che, se i crolli del mercato potevano scatenare rivoluzioni di sinistra, allora potevano essere usati per
innescare controrivoluzioni di destra; una teoria che divenne nota con il nome di "ipotesi della crisi".
L'interesse dimostrato da Friedman per le crisi era anche un palese tentativo di imparare qualcosa dalle
vittorie della sinistra dopo la Grande depressione: quando il mercato era crollato, Keynes e i suoi
discepoli, che fino allora erano stati soltanto voci nel deserto, non si erano fatti cogliere impreparati, anzi
si erano subito proposti con nuove idee, soluzioni da New Deal. Negli anni Settanta e nei primi anni
Ottanta, Friedman e i suoi sottoscrittori aziendali avevano cercato di imitare questo processo
sviluppando un metodo per la preparazione intellettuale ai disastri. Avevano costruito faticosamente una
nuova rete di think tanks conservatori come Heritage e Cato e avevano prodotto la rivoluzionaria
miniserie televisiva in dieci parti Free to Choose (Liberi di scegliere), sottoscritta da alcune delle più
grandi aziende del mondo, tra cui la Getty Oil, la Firestone Tyre & Rubber Co., la PepsiCo, la General
Motors, la Bechtel e la General Mills. Quando si fosse verificata la prossima crisi, Friedman e i suoi
Chicago Boys sarebbero stati pronti con le loro idee e le loro soluzioni.
All'epoca in cui articolò per la prima volta la sua teoria della crisi, nei primi anni Ottanta, gli Stati Uniti
erano in piena recessione: un circolo vizioso di inflazione elevata e disoccupazione. E
l'economia della Scuola di Chicago, ormai nota come Reaganomics, certamente aveva il suo peso a
Washington. Ma neppure Reagan osava applicare il genere di shockterapia fulminante che Friedman
sognava, quella che aveva prescritto al Cile.
Ancora una volta, sarebbe stato un Paese latinoamericano il laboratorio per testare la teoria di Friedman;
e questa volta, a mostrare la via non sarebbe stato un Chicago Boy, ma una nuova razza di dottor Shock,
una razza più adatta alla nuova era democratica.
7.
Il nuovo dottor Shock.
La guerra economica rimpiazza la dittatura.
La situazione della Bolivia può essere paragonata al caso di una persona malata di cancro. Sa di
dover affrontare un'operazione estremamente dolorosa e pericolosa, come indubbiamente saranno la
stabilizzazione monetaria e molte altre misure. Eppure, non ha alternative.
Cornelius Zondag, consigliere economico statunitense in Bolivia, 1956.
L'Uso del cancro nel discorso politico favorisce il fatalismo e giustifica provvedimenti "severi", oltre
a rafforzare notevolmente la convinzione diffusa che la malattia sia necessariamente mortale.
Il concetto di malattia non è mai innocente. Ma si potrebbe sostenere che le metafore del cancro sono
tali da incitare implicitamente al genocidio.
Susan Sontag, Malattia come metafora, 1977.
Nel 1985, la Bolivia partecipò all'ondata di democrazia che si riversò sui Paesi in via di sviluppo.
Per diciotto dei precedenti ventuno anni, i boliviani erano vissuti sotto una qualche forma di dittatura.
Ora invece avevano la possibilità di scegliere il loro presidente attraverso elezioni nazionali.
Ottenere il controllo dell'economia boliviana in questa particolare congiuntura sembrava però più una
punizione che un premio: il Paese era così indebitato che l'interesse dovuto superava l'ammontare
dell'intero bilancio nazionale. Un anno prima, nel 1984, l'amministrazione Reagan aveva provocato una
crisi profonda,
finanziando un attacco senza precedenti contro i produttori di coca del Paese, che coltivano la pianta
dalle foglie verdi che può venire raffinata per farne cocaina. L'assedio, che trasformò in zona militare una
larga parte della nazione impoverita, non soltanto soffocò il commercio della coca, ma eliminò la fonte di
circa metà degli introiti di esportazione della Bolivia, scatenando un crollo economico. Come riportò il
"New York Times": "Quando l'esercito ha marciato nel Chapare, in agosto, chiudendo in parte l'oleodotto
dei narcodollari, l'onda d'urto ha colpito immediatamente il fiorente mercato nero in dollari [...] Meno di
una settimana dopo l'occupazione del Chapare, il governo è stato costretto ad abbassare il valore
ufficiale del peso di oltre la metà". Qualche mese dopo, l'inflazione era aumentata di dieci volte, e
migliaia di persone lasciavano il Paese per cercare lavoro in Argentina, Brasile, Spagna e negli Stati
Uniti.
Fu in queste circostanze instabili, con l'inflazione al 14.000 per cento, che la Bolivia andò alle storiche
elezioni del 1985. Era una gara tra due figure familiari ai boliviani: il loro ex dittatore, Hugo Banzer, e il
loro ex presidente eletto, Victor Paz Estenssoro. Finirono quasi in parità, e la decisione finale spettava al
Congresso della Bolivia, ma la squadra di Banzer era certa di aver vinto.
Prima che i risultati fossero resi noti, il partito chiese aiuto a uno sconosciuto economista trentenne di
nome Jeffrey Sachs, perché li aiutasse a sviluppare un piano economico anti-inflazione. Sachs era l'astro
nascente del dipartimento di Economia a Harvard: raccoglieva un riconoscimento accademico dopo
l'altro ed era diventato uno dei più giovani docenti di ruolo di quell'ateneo.
Qualche mese prima, una delegazione di politici boliviani aveva visitato Harvard e aveva visto Sachs in
azione; erano rimasti impressionati dalla sua spudoratezza: aveva detto loro che sarebbe stato in grado di
curare la loro crisi inflazionaria in un giorno solo. Sachs non aveva esperienza di economia dello
sviluppo, ma, per sua ammissione, "pensavo di sapere praticamente tutto quello che era necessario"
sull'inflazione.''
Sachs era stato profondamente influenzato dagli scritti di Keynes sul legame tra l'iperinflazione e
l'affermazione del fascismo in Germania dopo la Prima guerra mondiale. Il trattato di pace imposto alla
Germania l'aveva fatta piombare in una grave crisi economica, con una percentuale di inflazione pari a
3,25 milioni nel 1923; situazione ulteriormente aggravatasi, qualche anno dopo, con la Grande
depressione. Con la disoccupazione al 30 per cento e una rabbia generalizzata verso quella che sembrava
una cospirazione globale, il nazismo aveva trovato terreno fertile.
Sachs amava citare l'avvertimento di Keynes per cui "non vi è mezzo più accorto e più sicuro per
sconvolgere le basi della società attuale che quello di prostituire la circolazione. Questo processo
impegna tutte le forze latenti delle leggi economiche al servizio della distribuzione". Era d'accordo con
Keynes che gli economisti avessero il dovere supremo di sopprimere a tutti i costi quelle forze di
distruzione. "Quello che ho imparato da Keynes" dice Sachs "è stata questa tristezza profonda, questo
senso del rischio che le cose vadano drammaticamente storte. E quanto è stato incredibilmente stupido da
parte nostra lasciare la Germania in rovina."
Nota: aver sconfitto l'iperinflazione non era bastato alla Germania per salvarsi dalla depressione
economica e poi dal fascismo; una contraddizione che Sachs non ha mai affrontato apertamente nel suo
continuo utilizzo di questa analogia.
Sachs disse inoltre ai giornalisti che vedeva la vita di Kejoies, economista giramondo e politicamente
impegnato, come modello per la propria carriera.
Benché Sachs condividesse la fede di Keynes nel potere dell'economia di combattere la povertà, era però
un figlio dell'America reaganiana, che, nel 1985, si trovava nel bel mezzo di una reazione fomentata da Friedman - contro tutto ciò che Keynes rappresentava. I precetti della Scuola di Chicago
sulla supremazia del libero mercato erano rapidamente diventati ortodossia indubitabile nei dipartimenti
di Economia della Ivy League, Harvard compresa, e Sachs non era affatto immune da questa influenza. Di
Friedman ammirava "la fiducia nei mercati, la sua continua insistenza su una corretta gestione monetaria",
che definiva "molto più appropriata delle confuse argomentazioni strutturaliste o pseudo-keynesiane che
si sentono ripetere nei Paesi in via di sviluppo".
Quelle "confuse" argomentazioni erano le stesse che in America Latina dieci anni prima erano state
soppresse nel sangue: la convinzione che per sfuggire alla povertà il continente dovesse spezzare le
strutture di proprietà coloniale attraverso politiche interventiste come riforma agraria, protezioni e
sussidi al commercio, nazionalizzazione delle risorse naturali e luoghi di lavoro gestiti da cooperative.
Sachs non aveva tempo per cambiamenti così strutturali. Dunque, pur non sapendo quasi nulla della
Bolivia e della sua lunga storia di sfruttamento coloniale, la repressione delle popolazioni indigene e le
faticose conquiste della rivoluzione del 1952, era convinto che oltre che di iperinflazione la Bolivia
soffrisse di "romanticismo socialista", la stessa illusione di sviluppo che una precedente generazione di
economisti formatisi negli Stati Uniti aveva cercato di spazzare via nel Cono del Sud.
Il punto in cui Sachs divergeva dall'ortodossia della Scuola di Chicago era nella convinzione che le
politiche liberiste dovessero essere supportate da riduzioni del debito estero e da generosi aiuti: per il
giovane economista di Harvard, la mano invisibile non era abbastanza. Questa divergenza condusse
infine Sachs a separarsi dai colleghi più laissez-faire e a dedicare i suoi sforzi unicamente agli aiuti.
Tuttavia, quel divorzio era ancora molto lontano. In Bolivia, l'ideologia ibrida di Sachs non fece altro
che portare in luce alcune strane contraddizioni. Per esempio, quando scese dall'aereo a La Paz e inspirò
per la prima volta l'aria rarefatta delle Ande, si immaginò come un Keynes redivivo che arrivava a
salvare il popolo boliviano dal caos e dal disordine dell'iperinflazione.
Benché il principio fondante del keynesianismo affermi che i Paesi in grave recessione devono spendere
di più per stimolare l'economia, Sachs adottò un approccio inverso, chiedendo al governo austerità e
aumenti dei prezzi nel bel mezzo della crisi: la stessa ricetta per la contrazione che
"Business Week" aveva descritto in Cile come "un mondo da dottor Stranamore di depressione indotta
deliberatamente".
Il consiglio di Sachs a Banzer era molto semplice: solo una shockterapia improvvisa avrebbe posto fine
alla crisi di iperinflazione della Bolivia. Propose di decuplicare il prezzo del petrolio, oltre a una serie
di deregolamentazioni dei prezzi e tagli al bilancio. In un discorso alla Camera di commercio bolivianoamericana, di nuovo Sachs affermò che l'iperinflazione sarebbe cessata in un giorno, e in seguito ricordò
che "il pubblico era stupefatto, ma deliziato alla notizia". Come Friedman, Sachs credeva fermamente che
con un repentino mutamento di strategia "un'economia può essere reindirizzata da un vicolo cieco, un
vicolo cieco di comunismo o un vicolo cieco di corruzione diffusa o un vicolo cieco di pianificazione
centralizzata, ed essere ricondotta a una normale economia di mercato".
Mentre Sachs faceva queste promesse ardite, i risultati delle elezioni boliviane erano ancora ignoti.
L'ex dittatore Hugo Banzer si comportava da vincitore, ma il rivale Victor Paz Estenssoro non si era
ancora dato per vinto. Durante la campagna elettorale, Paz aveva fornito pochi dettagli concreti su come
progettava di far lui fronte all'inflazione. Ma aveva portato a termine tre mandati come presidente eletto
della Bolivia, il più recente nel 1964, prima di venir rovesciato da un golpe. Paz era stato il volto della
trasformazione della Bolivia, improntata all'economia dello sviluppo: aveva nazionalizzato le miniere di
stagno, aveva iniziato a redistribuire le terre ai contadini indigeni, aveva difeso il diritto di voto di tutti i
cittadini. Come Juan Perón in Argentina, Paz era un elemento complesso e onnipresente sulla scena
politica, sempre pronto a cambiar casacca da un giorno all'altro per restare al potere o per rientrare nel
gioco. Durante la campagna del 1985, un Paz ormai anziano giurò fedeltà al suo passato "nazionalista
rivoluzionario" e rilasciò vaghe dichiarazioni a proposito della responsabilità fiscale. Non era socialista,
ma non era neppure neoliberista; o almeno, così credevano i boliviani.
Dal momento che era il Congresso a dover decidere in via definitiva chi sarebbe stato nominato
presidente, questo fu un periodo di delicate negoziazioni segrete e loschi traffici tra i partiti, il Congresso
e il Senato. Un senatore neoeletto finì per giocare un ruolo centrale: Gonzalo Sanchez de Lozada (noto in
Bolivia come Goni). Aveva vissuto negli Stati Uniti così a lungo che parlava lo spagnolo con un forte
accento americano, ed era tornato in Bolivia per diventare uno dei più ricchi uomini d'affari del Paese.
Era titolare della seconda miniera privata del Paese per dimensioni, che presto sarebbe diventata la
prima. Da giovane. Goni aveva studiato all'Università di Chicago, e pur non essendo un economista, era
stato profondamente influenzato dalle idee di Friedman, delle quali comprendeva la portata enormemente
profittevole nel settore minerario, in Bolivia ancora in larga parte controllato dallo Stato. Quando Sachs
illustrò i suoi progetti di shockterapia al team di Banzer, Goni restò favorevolmente impressionato.
I dettagli delle negoziazioni segrete non sono mai stati divulgati, ma i risultati sono fin troppo chiari. Il 6
agosto 1985, Paz giurò come presidente della Bolivia. Appena quattro giorni dopo, Paz nominò Goni a
capo di un team di consiglieri economici di emergenza, top secret e bipartisan, che aveva il compito di
ristrutturare l'economia. Il punto di partenza del gruppo fu la shockterapia di Sachs, che però sarebbe
stata condotta molto oltre il suo progetto originario. Anzi, sarebbe stata trasformata nella proposta di
smantellare l'intero modello economico statalista che lo stesso Paz aveva costruito decenni addietro. A
questo punto, Sachs era già tornato a Harvard; ma, racconta che
"avevo scoperto con piacere che l'Adn [il partito di Banzer] aveva condiviso una copia del nostro piano
di stabilizzazione con il nuovo presidente e la sua squadra di governo".
Il partito di Paz non aveva idea che il loro leader avesse stretto questo accordo dietro le quinte. Con
l'eccezione del ministro delle Finanze e del ministro della Pianificazione, che facevano parte del gruppo
segreto, Paz non raccontò neppure al suo neoeletto governo dell'esistenza del team di emergenza per
l'economia.
Per diciassette giorni di fila, il team di emergenza si incontrò nel salone del principesco palazzo di Goni.
"Ci chiudemmo lì dentro in modo cauto e quasi clandestino" ricorda il ministro della Pianificazione,
Guiliermo Bedregal, in un'intervista del 2005, in cui questi dettagli sono stati rivelati per la prima volta.
Nota: per due decenni, i boliviani non hanno saputo come fosse stata progettata la shockterapia usata su
di loro. Nell'agosto 2005, vent'anni dopo la stesura del decreto originale, la giornalista boUviana Susan
Velasco PortiUo ha intervistato i membri originari del team economico di emergenza, e molti di loro
hanno rivelato dettagli sull'operazione clandestina. Questo resoconto si basa soprattutto su quei ricordi.
Ciò che progettavano era il radicale rovesciamento di un'economia nazionale, così estremo che nulla di
simile era mai stato tentato in una democrazia. Il presidente Paz era convinto che la sua sola speranza
fosse quella di agire il più in fretta possibile e senza preavviso. In questo modo, i sindacati boliviani noti per la loro militanza - e i rappresentanti dei contadini sarebbero stati colti alla sprovvista e non
avrebbero avuto la possibilità di organizzare una risposta, o almeno così sperava.
Goni ricorda che Paz "ripeteva: "Se dovete farlo, fatelo adesso. Non posso agire due volte". Il motivo del
voltafaccia postelettorale di Paz resta avvolto nel mistero. Morì nel 2001 senza aver mai chiarito se
aveva accettato di adottare il programma di shockterapia di Banzer in cambio della presidenza, oppure se
si era trattato di una sincera conversione ideologica. Edwin Corr, all'epoca ambasciatore Usa in Bolivia,
mi aiutò a comprendere la situazione. Mi disse che aveva incontrato tutti i partiti politici, e aveva
annunciato loro chiaramente che gli aiuti americani sarebbero stati copiosi, se il Paese avesse imboccato
la strada dello shock.
Diciassette giorni dopo, Bedregal, il ministro per la Pianificazione, disponeva della bozza di un
programma di shockterapia da manuale. Richiedeva l'eliminazione dei sussidi alimentari, la
cancellazione di quasi tutti i calmieri e un innalzamento del 300 per cento nel prezzo del petrolio.
Nonostante il costo della vita stesse per innalzarsi di molto in un Paese già disperatamente povero, il
piano congelava per un anno i già bassi salari governativi. Richiedeva anche tagli sostanziosi alla spesa
pubblica, spalancava i confini boliviani alle importazioni selvagge ed esigeva un ridimensionamento
delle aziende statali, chiaro prodromo della privatizzazione. La Bolivia si era lasciata sfuggire la
rivoluzione neoliberista imposta al resto del Cono del Sud negli anni Settanta: ora avrebbe recuperato il
tempo perduto.
Quando i membri del team di emergenza ebbero terminato la bozza delle nuove leggi, non erano ancora
pronti per metterne a parte i rappresentanti eletti dal popolo boliviano, e tanto meno gli elettori stessi,
che non avevano mai votato un piano di quel genere. Avevano un'altra pratica da sbrigare. Tutti insieme
andarono nell'ufficio del rappresentante del Fondo monetario internazionale in Bolivia e gli spiegarono le
proprie intenzioni. La risposta fu insieme incoraggiante e atroce;
"Questo è ciò che ogni funzionario del Fmi ha sempre sognato. Ma se non dovesse funzionare, per mia
fortuna godo dell'immunità diplomatica e posso saltare su un aereo e scappare".
I boliviani che stavano per proporre il piano non avevano una simile via di fuga, ed erano terrorizzati
dalla possibile reazione del popolo. "Ci ammazzeranno" predisse Fernando Prado, il più giovane del
gruppo. Bedregal, il principale autore del piano, cercò di incoraggiare i colleghi paragonando il team a
un gruppo di piloti da combattimento che attaccano il nemico. "Dobbiamo essere come il pilota di
Hiroshima. Quando lanciava la bomba atomica non sapeva cosa stesse facendo, ma quando vedeva il
fumo diceva: "Ops, mi dispiace!". Ed è esattamente questo che dobbiamo fare: varare le misure e poi dire
"Ops, ci dispiace!"
L'idea che un mutamento di politica dovesse somigliare a un attacco bellico a sorpresa è un tema
ricorrente nella teoria della shockterapia economica. In Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance, la
dottrina militare statunitense pubblicata nel 1996 che avrebbe fornito le basi per l'invasione dell'Iraq nel
2003, gli autori affermano che la forza di invasione deve "assumere il controllo dell'ambiente e
paralizzare l'avversario, o sovraccaricare la sua percezione e comprensione degli eventi, fino a rendere
il nemico incapace di resistere". Lo shock economico funziona in base a una teoria simile: la premessa è
che le persone possono sviluppare reazioni a un cambiamento graduale: un taglio alla sanità qui, un
accordo commerciale là; ma se dozzine di mutamenti arrivano tutte insieme da ogni direzione, subentra un
senso di impotenza, e la popolazione resta inerte.
Nella speranza di indurre quel senso di impotenza, i pianificatori boliviani richiesero che tutte le misure
radicali fossero adottate contemporaneamente, e tutte entro i primi cento giorni del nuovo governo.
Anziché presentare ciascuna sezione del piano come legge individuale (il nuovo codice tributario, la
nuova legge sui prezzi e così via), la squadra di Paz insisté per raggruppare tutta la rivoluzione in un
singolo decreto esecutivo, il D.S. 21060. Esso conteneva 220 diverse leggi e investiva ogni aspetto della
vita economica del Paese, caratterizzandosi come l'equivalente, per ampiezza e ambizione, del
"Mattone", il corposo progetto redatto dai Chicago Boys in vista del golpe di Pinochet. Secondo i suoi
autori, il programma andava accettato o respinto nella sua interezza; non poteva essere emendato. Era
l'equivalente economico dello Shock and Awe.
Quando il documento fu completato, il team ne produsse cinque copie: una per Paz, una per Goni e una
per il ministro del Tesoro. La destinazione delle altre due copie rivela quanto Paz e i suoi fossero sicuri
che molti boliviani avrebbero considerato il piano un atto di guerra: una era indirizzata al capo
dell'esercito, l'altra al capo della polizia. Il gabinetto di Paz, tuttavia, era ancora all'oscuro di tutto.
Avevano ancora l'errata convinzione di star lavorando per lo stesso uomo che tanti anni prima aveva
nazionalizzato le miniere e redistribuito la terra.
Tre settimane dopo essersi insediato alla presidenza, finalmente Paz riunì il suo governo per renderlo
edotto della sorpresa che aveva preparato. Ordinò che fossero chiuse le porte della sede del governo e
"istruì i segretari di non passare telefonate ai ministri". Bedregal lesse tutte le sessanta pagine a un
pubblico pietrificato. Era così nervoso, confessò poi, che "pochi minuti dopo mi uscì persino il sangue
dal naso". Paz informò i ministri che il decreto non sarebbe stato oggetto di un dibattito; con un ulteriore
accordo firmato dietro le quinte, si era già assicurato l'appoggio dell'opposizione di destra, guidata da
Banzer. Se i signori ministri non erano d'accordo, disse, potevano dimettersi.
"Io non sono d'accordo" annunciò il ministro dell'Industria.
"La prego di andarsene" replicò Paz. Il ministro restò. Con l'inflazione ancora in vertiginosa crescita, e
chiare allusioni al fatto che una shockterapia avrebbe condotto a corposi aiuti finanziari da Washington,
nessuno osò lasciare la stanza. Due giorni dopo, in un annuncio televisivo alla nazione intitolato La
Bolivia sta morendo, Paz scagliò il "Mattone" su un popolo che nulla sospettava.
Sachs aveva avuto ragione a pronosticare che gli aumenti dei prezzi avrebbero posto fine
all'iperinflazione. Nel giro di due anni, l'inflazione era scesa al 10 per cento, un risultato innegabilmente
rilevante. L'eredità a lungo termine della rivoluzione neoliberale in Bolivia è molto meno chiara. Tutti gli
economisti concordano sul fatto che un'inflazione rapida è estremamente dannosa, insostenibile e
dev'essere controllata: un processo che comporta aggiustamenti molto dolorosi. Ciò che è ancora oggetto
di dibattito, invece, è il metodo per ottenere un programma credibile, e chi, in una qualsiasi società, sia
costretto a patire i dolori causati da quel mutamento.
Ricardo Grinspun, professore di economia specializzato nell'area latinoamericana alla York University,
spiega che un approccio classicamente keynesiano o della teoria dello sviluppo consiste nel cercare di
mobilitare il sostegno e dividere gli oneri attraverso "un processo negoziato, che coinvolge soggetti
chiave come il governo, i datori di lavoro, i contadini, i sindacati eccetera. In questo modo, i partiti
giungono ad accordarsi sulle politiche del reddito, come salari e prezzi, e allo stesso tempo possono
implementare misure di stabilizzazione". Al contrario, dice Grinspun,
"l'approccio ortodosso consiste nello spostare interamente il costo sociale sulle spalle dei poveri,
attraverso la shockterapia". Questo, mi ha spiegato, è esattamente ciò che è successo in Bolivia.
Proprio come Friedman aveva promesso in Cile, una liberalizzazione del mercato avrebbe dovuto creare
posti di lavoro per chi il lavoro l'aveva perso. Così non fu, e il tasso di disoccupazione salì dal 20 per
cento al momento delle elezioni al 25-30 per cento due anni dopo. La sola corporazione mineraria
nazionale - la stessa che Paz aveva nazionalizzato negli anni Cinquanta - passò da ventottomila dipendenti
a seimila.
Il salario minimo non tornò mai al livello precedente, e dopo due anni dall'introduzione del programma i
salari reali erano scesi del 40 per cento; a un certo punto sarebbero crollati del 70 per cento. Nel 1985,
l'anno della shockterapia, il reddito medio pro capite in Bolivia era pari a 845
dollari; due anni dopo era crollato a 789 dollari. Questa è l'unità di misura usata da Sachs e dal governo,
e nonostante mostri un mancato progresso, non esprime neanche lontanamente la degradazione che
caratterizzò la vita quotidiana di molti boliviani. Il reddito medio si calcola prendendo il reddito
complessivo nazionale e dividendolo per il numero di abitanti; il che consente di ignorare il fatto che in
Bolivia la shockterapia ebbe gli stessi effetti già riscontrati nel resto della regione: una piccola élite si
arricchì esponenzialmente, mentre ampi settori di quella che era stata la classe lavoratrice uscirono
completamente dal quadro dell'economia, trasformandosi in eccedenze.
Nel 1987, i contadini boliviani, detti campesinos, guadagnavano in media solo 140 dollari l'anno, meno
di un quinto del "reddito medio". Il problema è che quando si calcola solo la "media", queste acute
discrepanze scompaiono.
Un leader del sindacato dei lavoratori agricoli spiegò che "le statistiche del governo non riflettono il
numero sempre maggiore di famiglie costrette a vivere in tende; le migliaia di bambini malnutriti che
ricevono solo un pezzo di pane e una tazza di tè al giorno; le centinaia di campesinos venuti nella capitale
in cerca di lavoro e che finiscono a chiedere l'elemosina per strada". Questa era la storia segreta della
shockterapia boliviana: centinaia di migliaia di lavori a tempo pieno e con pensioni furono eliminati,
sostituiti da impieghi precari senza alcuna tutela. Fra il 1983 e il 1988, il numero di boliviani che
avevano i requisiti per la sicurezza sociale calò del 61 per cento.
Sachs, che durante la transizione era tornato in Bolivia come consulente, si oppose all'innalzamento dei
salari per mantenerli in linea con il prezzo degli alimentari e della benzina, e favorì invece l'istituzione di
un fondo di emergenza per aiutare i più disagiati: un cerotto applicato a una ferita aperta. Sachs tornò in
Bolivia su richiesta di Paz Estenssoro, e si mise a lavorare alle dipendenze dirette del presidente. È
ricordato come una presenza costante. Secondo Goni (che sarebbe poi diventato presidente della
Bolivia), Sachs contribuì a tener viva la risolutezza dei politici quando l'opinione pubblica iniziò a
protestare contro il costo umano della shockterapia. "Nelle sue visite
[Sachs] diceva: "Guarda, tutta questa roba gradualistica non funziona. Quando stai perdendo il controllo
della situazione, devi darci un taglio, come una medicina. Devi fare scelte radicali; altrimenti il tuo
paziente morirà".
Un risultato immediato di questa risolutezza fu che molti dei boliviani più poveri e più disperati furono
spiati a diventare coltivatori di coca, dal momento che questa coltura fruttava circa dieci volte tanto
rispetto a qualunque altra (il che è un po' ironico, dato che l'originaria crisi economica era stata innescata
dall'assedio ai coltivatori di coca, con i soldi degli Stati Uniti). Si stima che nel 1989 un lavoratore su
dieci fosse entrato in qualche ramo dell'industria della coca o della cocaina."
Tra questi lavoratori c'era anche la famiglia di Evo Morales, futuro presidente della Bolivia ed ex leader
del sindacato militante dei coltivatori di coca.
L'industria della coca contribuì non poco a resuscitare l'economia Boliviana e a mitigare l'inflazione (un
fatto oggi riconosciuto dagli storici ma mai menzionato da Sachs nelle spiegazioni di come le sue riforme
siano riuscite a trionfare sull'inflazione). Appena due anni dopo la "bomba atomica", le esportazioni di
sostanze illegali generavano più reddito per la Bolivia della somma di tutte le altre esportazioni, e circa
350.000 persone si guadagnavano da vivere nel settore della droga. "Per ora"
osservò un banchiere straniero "l'economia boliviana è dipendente dalla cocaina."
Nella fase immediatamente successiva alla shockterapia, in pochi fuori dalla Bolivia parlavano di
ripercussioni così complesse. Raccontavano una storia molto più semplice: la storia di un professore di
Harvard, giovane e audace, che, agendo praticamente da solo, aveva "salvato l'economia della Bolivia,
disastrata dall'inflazione", stando al "Boston Magazine". La vittoria contro l'inflazione capitanata da
Sachs era sufficiente a qualificare la Bolivia come un impressionante successo del liberismo, "il più
sorprendente dell'era moderna", come lo definì l'"Economist". "Il miracolo boliviano" fece di Sachs una
star presso i più potenti circoli finanziari, e lanciò la sua carriera come principale esperto di economie in
crisi; in veste nella quale si sarebbe recato in Argentina, Perù, Brasile, Ecuador e Venezuela negli anni
seguenti.
Gli elogi riservati a Sachs non riguardavano solo la sconfitta dell'inflazione in un Paese povero, lì fatto
era che Sachs aveva ottenuto ciò che in molti avevano definito impossibile: aveva contribuito a lanciare
una trasformazione neoliberista radicale entro i confini di una democrazia, e senza una guerra; una
trasformazione molto più ampia di quelle tentate dalla Thatcher o da Reagan. Sachs era pienamente
consapevole del significato storico delle sue imprese. "La Bolivia, a mio avviso, è stato il primo caso di
combinazione di riforma democratica e cambiamento economico istituzionale"
avrebbe detto anni dopo. "E la Bolivia, molto più del Cile, ha dimostrato che è possibile combinare
liberalizzazione politica e democrazia con la liberalizzazione economica. È una lezione estremamente
importante vedere come queste due sfere lavorino in parallelo rafforzandosi a vicenda."
Il paragone con il Cile non era casuale. Grazie a Sachs - "l'evangelista del capitalismo democratico",
come lo definì il "New York Times" - la shockterapia si era finalmente scrollata di dosso la puzza di
dittature e campi di morte che le era rimasta addosso da quando Friedman aveva compiuto il suo fatale
viaggio a Santiago dieci anni prima, Sachs aveva dimostrato che, al contrario di quanto affermavano i
suoi critici, la crociata liberista non solo poteva sopravvivere, ma poteva cavalcare l'onda democratica
che stava investendo il mondo. E Sachs, con le sue lodi a Keynes e il suo impegno dichiaratamente
idealistico per migliorare la condizione dei Paesi in via di sviluppo, era l'uomo ideale per condurre la
crociata in una nuova era, più gentile e più pacifica.
La sinistra boliviana aveva preso a chiamare il decreto di Paz pinochetismo economico? Quanto agli
uomini d'affari, dentro e fuori la Bolivia, per loro le cose stavano proprio così: la Bolivia aveva adottato
una shockterapia sul modello pinochetiano, senza un Pinochet; e, nientemeno, sotto un governo di
centrosinistra. Come spiegò con ammirazione un banchiere boliviano, "le cose che Pinochet ha fatto con
una baionetta, Paz le ha fatte entro un sistema democratico".
La storia del miracolo boliviano è stata raccontata tante volte, in articoli di quotidiani e riviste, in profili
di Sachs, nel libro bestseller di Sachs, in documentari come quello della Pbs in tre parti Commanding
Heights: The Battle for the World Economy (Altezze vertiginose. La battaglia per l'economia mondiale).
C'è un problema di fondo: quella storia non è vera. La Bolivia ha dimostrato che la shockterapia poteva
essere imposta in un Paese appena uscito dalle elezioni, ma non ha dimostrato affatto che potesse essere
imposta democraticamente o senza repressioni; anzi, ha dimostrato che era ancora vero il contrario.
In primo luogo, c'era l'evidente problema per cui il presidente Paz non aveva ricevuto un mandato dai
propri elettori per ricostruire dalle fondamenta l'intera architettura economica della nazione. Si era
presentato alle elezioni con una piattaforma nazionalista, che aveva poi prontamente abbandonato facendo
accordi sottobanco. Qualche anno dopo, l'influente economista liberista John WiUiamson coniò un
termine per definire l'operato di Paz: la chiamava "politica voodoo". Molte persone, più semplicemente,
lo chiamano "mentire". E questo era ben lungi dall'essere l'unico problema della retorica democratica.
Com'era prevedibile, molti elettori di Paz erano infuriati per il suo tradimento, e appena il decreto fu
varato, in decine di migliaia scesero in strada per tentare di bloccare un piano che avrebbe comportato
licenziamenti e ancora più fame. L'opposizione più decisa venne dalla principale federazione dei
lavoratori, che indì uno sciopero generale tale da paralizzare l'industria. La risposta di Paz fu tale da far
sembrare pacato il trattamento riservato dalla Thatcher ai minatori.
Dichiarò immediatamente lo "stato d'assedio"; carri armati percorsero le strade della capitale, che fu
posta sotto un rigido coprifuoco. Per attraversare il proprio Paese, i cittadini boliviani ora dovevano
mostrare pass speciali. La polizia in assetto da sommossa perquisì le sedi dei sindacati, un'università e
una stazione radio, oltre a parecchie fabbriche. Assemblee e marce politicizzate erano proibite, e
occorreva un permesso dallo Stato per organizzare riunioni." Ogni espressione politica dell'opposizione
fu di fatto proibita: esattamente ciò che era accaduto durante la dittatura di Banzer.
Per sgombrare le strade, la polizia arrestò 1500 manifestanti, disperse la folla con il gas lacrimogeno e
aprì il fuoco sugli scioperanti che, sosteneva, avevano attaccato alcuni agenti. Paz adottò ulteriori misure
per accertarsi che le proteste cessassero definitivamente. Quando i leader della federazione dei
lavoratori iniziarono uno sciopero della fame, Paz comandò alla polizia e all'esercito di catturare i
duecento principali leader sindacali del Paese, caricarli su aerei e spedirli in carceri nascoste in mezzo
all'Amazzonia. Secondo la Routers, tra i detenuti c'erano "la leadership della Federazione boliviana del
lavoro e altri funzionari sindacali di rilievo"; e furono portati "in villaggi isolati nel bacino del Rio delle
Amazzoni nella Bolivia del Nord, dove la loro libertà di movimento [era] limitata". Fu un rapimento di
massa, completo di richiesta di riscatto: i prigionieri sarebbero stati rilasciati soltanto se i sindacati
avessero cessato le proprie rimostranze; cosa che alla fine accettarono di fare. Filemon Escobar era
minatore e attivista sindacale, e scese in strada in quegli anni. In una recente intervista telefonica dalla
Bolivia, ha ricordato che "prelevarono i leader sindacali dalla strada e li portarono nella giungla, a farli
mangiare vivi dagli insetti. Quando lo rilasciarono, il nuovo piano economico era già stato varato".
Secondo Escobar, "il governo non portava la gente nella giungla per torturarla o ucciderla, ma per essere
libero di portare avanti il suo piano economico".
Questo straordinario stato d'assedio si protrasse per tre mesi, e poiché il piano fu adottato in cento giorni,
questo significa che il Paese fu prigioniero per tutta la durata del periodo decisivo di attuazione della
shockterapia. Un anno dopo, quando il governo Paz operò licenziamenti in massa nelle miniere di stagno,
ancora una volta i sindacati scesero in piazza, e la stessa serie di drammatici eventi si ripetè: fu
dichiarato lo stato d'assedio, e due aerei militari boliviani trasportarono un centinaio di elementi di
spicco dei
sindacati nei campi d'internamento nelle pianure tropicali boliviane. Questa volta, tra i rapiti c'erano due
ex ministri laburisti e un ex senatore: un chiaro ricordo delle "prigioni Vip" di Pinochet nel Sud del Cile
in cui era stato portato Orlando Letelier. I dirigenti sindacali restarono prigionieri nei campi tropicali per
quasi venti giorni, finché i sindacati accettarono nuovamente di cessare le azioni di protesta e lo sciopero
della fame.
Era una specie di "giunta light". Perché il regime potesse imporre la shockterapia economica, alcune
persone dovevano sparire, anche se solo temporaneamente. Le sparizioni, benché certamente meno
brutali, avevano lo stesso scopo di quelle eseguite negli anni Settanta. Internare i sindacalisti boliviani,
per impedire loro di opporre resistenza alle riforme, spianava la strada alla cancellazione dall'economia
di interi settori di forza lavoro: persone che finirono per accalcarsi nelle bidonville e nelle baraccopoli
intorno a La Paz.
Sachs era andato in Bolivia citando l'avvertimento di Keynes, secondo cui il collasso economico
generava il fascismo; ma poi aveva prescritto riforme così dolorose che per applicarle servirono misure
non lontane dal fascismo.
I severi provvedimenti del governo Paz finirono sui giornali, ma per non più di un paio di giorni, e con
titoli che parlavano di generiche "rivolte in America Latina". Quando arrivò il momento di raccontare la
storia del trionfo delle "riforme liberiste" in Bolivia, però, gli eventi non trovarono posto nella
narrazione (non diversamente da come la simbiosi tra la violenza di Pinochet e il
"miracolo economico" cileno è raramente menzionata). Ovviamente non è stato Sachs a convocare la
polizia in assetto di sommossa o a dichiarare lo stato d'assedio, ma dedica un capitolo del suo libro. La
fine della povertà, alla vittoria della Bolivia sull'inflazione, e, mentre sembra prendersi volentieri una
fetta del merito, non fa menzione della repressione necessaria per applicare il progetto. L'affermazione
più esplicita è quella, decisamente indiretta, che parla di "nei primi mesi del programma di
stabilizzazione ci furono momenti di tensione".
In altre versioni della storia manca anche questa ammissione. Goni giunse ad affermare che "la
stabilizzazione era stata ottenuta nell'ambito di una democrazia senza toccare le libertà umane del popolo,
lasciando la gente libera di esprimersi". Un giudizio meno idealizzato proviene da un ministro del
governo Paz, il quale disse che lui e i suoi colleghi si erano comportati "come porci autoritaristi".
Questa dissonanza potrebbe essere l'eredità più duratura dell'esperimento di shockterapia in Bolivia.
Il Paese aveva mostrato che lo strappo della shockterapia doveva ancora essere accompagnato da
scioccanti attacchi a gruppi sociali scomodi e alle istituzioni democratiche. Inoltre rese chiaro che la
crociata corporativista poteva avanzare con mezzi così apertamente autoritari ed essere ugualmente
definita democratica perché c'erano state le elezioni, anche se in seguito venivano completamente
soppresse le libertà civili, o le volontà democraticamente manifestate venivano ignorate. (Una lezione,
questa, che si sarebbe dimostrata molto utile per Boris Eltsin in Russia, tra gli altri, negli anni
successivi.) In questo modo, la Bolivia fornì un modello per un nuovo, più tollerabile tipo di
autoritarismo, un colpo di Stato civile, realizzato da politici ed economisti in giacca e cravatta anziché da
soldati in uniforme; il tutto muovendosi nella cornice ufficiale di un regime democratico.
8.
La crisi funziona.
L'immagine pubblica della shockterapia.
Be', che senso aveva rovinarmi la testa e svuotarmi la memoria, che è il mio capitale? Riuscivano solo
a impedirmi di svolgere la mia attività. È stata una cura brillante, ma si è perso il paziente.
Ernest Hemingway sulla terapia di elettroshock subita, appena prima di suicidarsi, 1961.
Per Jeffrey Sachs, la lezione imparata dalla sua prima avventura internazionale fu che l'iperinflazione
poteva effettivamente essere frenata, a patto di applicare misure giuste, rigide e drastiche. Era andato in
Bolivia per fare a pezzi l'inflazione e c'era riuscito. Caso chiuso.
John Williamson, uno dei più influenti economisti di orientamento conservatore a Washington, nonché
fidato consigliere del Fmi e della Banca mondiale, seguì con attenzione l'esperimento di Sachs, e vide in
Bolivia qualcosa di molto più interessante. Descrisse il programma di shockterapia come "il momento
del big bang": un punto di svolta nella campagna che avrebbe diffuso la dottrina della Scuola di Chicago
in tutto il mondo. Il motivo aveva poco a che fare con l'economia, e molto con la tattica.
Magari non era stata quella la sua intenzione, ma Sachs aveva dimostrato in maniera spettacolare che la
teoria di Friedman sulla crisi era assolutamente corretta. La crisi di iperinflazione in Bolivia era il
pretesto di cui c'era bisogno per promuovere un programma che sarebbe stato politicamente irrealizzabile
in circostanze normali. Ecco un Paese con un movimento sindacale forte e militante, e una lunga
tradizione di sinistra, teatro dell'ultima
battaglia di Che Guevara. Eppure quel Paese era stato costretto ad accettare una shockterapia draconiana
in nome della stabilizzazione della propria valuta fuori controllo.
A metà degli anni Ottanta, diversi economisti avevano osservato che una vera crisi di iperinflazione
simula gli effetti di una guerra militare: diffonde paura e confusione, genera rifugiati e conduce a una
sostanziosa perdita di vite umane. Ed era chiaro che in Bolivia l'iperinflazione aveva giocato lo stesso
ruolo della "guerra" di Pinochet in Cile e della Guerra delle Falkland per Margaret Thatcher: aveva
creato il contesto per l'applicazione di misure di emergenza, una situazione straordinaria nella quale le
regole della democrazia potevano essere sospese e il controllo dell'economia poteva essere
temporaneamente delegato a una squadra di esperti nel salotto di Goni. Per gli ideologi più radicali della
Scuola di Chicago, come Williamson, ciò significava che l'iperinflazione non era un problema da
risolvere, come credeva Sachs, ma, in futuro, un'opportunità d'oro da cogliere al volo.
Non c'era penuria di simili opportunità durante gli anni Ottanta. Gran parte dei Paesi in via di sviluppo,
soprattutto in America Latina, stava piombando nell'iperinflazione. La crisi era determinata da due fattori
principali, entrambi con radici nelle istituzioni finanziarie di Washington, il primo era l'insistenza sul
trasferire alle nuove democrazie i debiti accumulati illegittimamente sotto le dittature. Il secondo era la
decisione, ispirata da Friedman, da parte della Federal Reserve americana di permettere un'impennata
dei tassi di interesse, il che fece aumentare enormemente quei debiti da un giorno all'altro.
Trasferire odiosi debiti.
L'Argentina era un caso da manuale. Nel 1983, quando la giunta collassò dopo la Guerra delle Falkland,
gli argentini elessero Raul Alfonsin come nuovo presidente. Il Paese, da poco libero, era sull'orlo
dell'esplosione, per la detonazione della cosiddetta "bomba del debito". Nell'ambito di quella che la
giunta uscente chiamava "una transizione dignitosa" verso la democrazia, Washington insisteva perché il
nuovo governo saldasse i debiti accumulati dai generali. Durante la dittatura, il debito estero
dell'Argentina era schizzato dai 7,9 miliardi di dollari di un anno prima del golpe a 45
miliardi al momento del passaggio di consegne: debiti nei confronti del Fondo monetario internazionale,
della Banca mondiale,
della U.S. Import-Export Bank e di banche private con sede negli Stati Uniti. La situazione era analoga in
tutta la regione. In Uruguay, la giunta raccolse un debito di mezzo miliardo di dollari quando salì al
potere e lo fece aumentare a 5 miliardi, un carico estremamente gravoso per un Paese di soli tre milioni
di abitanti. In Brasile, il caso più eclatante, i generali, che assunsero il comando nel 1964 promettendo di
mettere ordine nelle finanze, riuscirono a portare il debito da 3 a 103
miliardi di dollari nel 1985.''
Al momento delle transizioni verso la democrazia, furono portate argomentazioni forti, sia morali sia
legali, per cui quei debiti erano "odiosi" e il popolo, finalmente libero, non doveva essere obbligato a
pagare i conti dei suoi oppressori e torturatori. Il ragionamento era particolarmente valido nel Cono del
Sud in quanto, negli anni della dittatura, gran parte del credito estero era andato direttamente nelle tasche
dell'esercito e della polizia, per pagare pistole, cannoni ad acqua e attrezzatissimi campi di tortura. In
Cile, per esempio, i prestiti servirono a triplicare le spese militari, facendo crescere l'esercito cileno da
47.000 unità nel 1973 a 85.000 nel 1980. In Argentina, la Banca mondiale stima che circa 10 miliardi di
dollari presi in prestito dai generali siano serviti a finanziare l'esercito.'
Molto di ciò che non veniva speso per comprare armi semplicemente spariva. Una cultura di corruzione
permeava le dittature militari: un'anticipazione del dissoluto futuro che sarebbe diventato realtà con la
diffusione delle stesse formule economiche in Russia, Cina e nella "zona franca per la frode" dell'Iraq
occupato (come la chiama un disilluso consigliere statunitense). Stando a un rapporto del Senato
americano del 2005, Pinochet manteneva una complessa rete di almeno 125
conti correnti presso banche straniere, a nome di vari familiari o con combinazioni del proprio nome. I
conti, i più notori dei quali erano alla Riggs Bank di Washington, nascondevano circa 27
milioni di dollari.''
In Argentina, la giunta è stata accusata di essere ancor più avida. Nel 1984, José Martinez de Hoz,
architetto del programma economico, fu arrestato per frode in relazione a un massiccio sussidio statale
concesso a un'azienda di cui era stato titolare (il caso fu poi archiviato). La Banca mondiale, nel
frattempo, ricostruì i movimenti dei 35 miliardi di dollari in prestiti esteri alla giunta e scoprì che 19
miliardi - il 46 per cento del totale - erano stati trasferiti all'estero; funzionari svizzeri hanno confermato
che molto di quel denaro finì in diversi conti correnti protetti dall'anonimato. La Federal Reserve
americana osservò che nel solo 1980 il debito argentino si espanse fino a 9 miliardi di dollari; nello
stesso anno, la cifra depositata all'estero dai cittadini argentini aumentò di 6,7 miliardi di dollari." Larry
Sjaastad, celebre professore dell'Università di Chicago che insegnò personalmente a molti Chicago Boys
argentini, ha descritto i miliardi fantasma dell'Argentina (rubati sotto il naso dei suoi studenti) come "la
più grande frode del ventesimo secolo".
Nota: all'epoca poteva anche essere vero; ma il secolo non era ancora finito: doveva ancora verificarsi
la rivoluzione russa della Scuola di Chicago.
I malversatori della giunta coinvolsero persino le loro vittime in questi crimini. Al centro di tortura Esma
di Buenos Aires, i prigionieri con buone abilità linguistiche o quelli che avevano fatto l'università erano
regolarmente tirati fuori dalle celle per fare da ragionieri. Una sopravvissuta, Graciela Daleo, fu
incaricata di battere a macchina un documento che dava ai funzionari consigli sui paradisi fiscali esteri
dove custodire i soldi di cui si stavano indebitamente appropriando.
Il resto del debito nazionale fu speso prevalentemente per pagare interessi, oltre che in aiuti sottobanco
per aziende private. Nel 1982, appena prima del collasso, la dittatura argentina fece un ultimo favore al
settore industriale. Domingo Cavallo, presidente della Banca centrale argentina, annunciò che lo Stato
avrebbe assorbito i debiti di alcune grandi aziende, multinazionali e domestiche, che, come i piranha in
Cile, avevano chiesto prestiti fino a ritrovarsi sull'orlo della bancarotta. In base all'accordo, queste
industrie continuavano a disporre dei propri profitti, ma i contribuenti dovettero pagare dai 15 ai 20
miliardi di dollari dei loro debiti; tra le aziende che ricevettero questo generoso trattamento vi furono
Ford Motor Argentina, Chase Manhattah, Citibank, Ibm e Mercedes-Benz.
Chi era in favore dell'azzeramento di questi debiti illecitamente accumulati sosteneva che i prestatori
sapevano, o avrebbero dovuto sapere, che i soldi erano spesi in repressione e corruzione.
Questa posizione è stata rafforzata recentemente, quando il dipartimento di Stato ha desecretato il verbale
di un incontro svoltosi il 7 ottobre 1976, tra Henry Kissinger, allora segretario di Stato, e il ministro
degli Esteri della dittatura militare argentina, ammiraglio César Augusto Guzzetti. Dopo aver discusso
del clamore'suscitato nelle organizzazioni internazionali per i diritti umani seguito al golpe, Kissinger
disse: "Guardi, il nostro atteggiamento di fondo è che vorremmo che lei avesse successo.
Sono un tipo all'antica, penso che gli amici vadano aiutati [...] Prima avrete successo, meglio sarà".
Kissinger passò poi all'argomento prestiti, e incoraggiò Guzzetti a richiedere più assistenza possibile
dall'estero, e in fretta, prima che il "problema dei diritti umani" in Argentina legasse le mani
all'amministrazione Usa. "Ci sono due prestiti nella banca" disse Kissinger, riferendosi alla
InterAmerican Development Bank. "Non abbiamo alcuna intenzione di votare contro." Disse anche al
ministro di "procedere con le vostre richieste alla Export-Import Bank. Vorremmo che il vostro
programma economico avesse successo e faremo del nostro meglio per aiutarvi".''
Questo verbale dimostra che il governo americano approvò prestiti alla giunta sapendo che erano usati
per una campagna di terrore. Nei primi anni Ottanta, erano proprio questi i "debiti odiosi" che
Washington insisteva per farsi rimborsare dal nuovo governo democratico argentino.
Lo shock del debito.
I debiti, da soli, avrebbero posto un enorme fardello sulle spalle delle nuove democrazie; ma quel
fardello stava per diventare assai più pesante. Un nuovo tipo di shock faceva notizia: il Volcker Shock.
Gli economisti impiegano questo termine per descrivere l'impatto avuto dalla decisione presa dal
presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, di aumentare di molto i tassi di interesse negli Stati
Uniti, lasciandoli crescere fino al 21 per cento, con un picco nel 1981 che si protrasse fino a metà del
decennio.'' Negli Stati Uniti, l'aumento dei tassi d'interesse portò a un'ondata di bancarotte, e nel 1983 il
numero di persone che mancava i pagamenti del mutuo triplicò.
Il dolore più forte, però, fu avvertito fuori dagli Stati Uniti. Nei Paesi in via di sviluppo molto indebitati,
il Volcker Shock anche noto come "shock del debito" o "crisi del debito" - fu come un'enorme pistola
laser che sparava scariche elettriche da Washington, gettando i Paesi poveri nelle convulsioni. L'aumento
dei tassi di interesse significò rate più alte per la-restituzione dei prestiti esteri, e spesso per pagare era
necessario chiedere altri prestiti. La spirale del debito era nata. In Argentina, il già enorme debito di 45
miliardi di dollari lasciato in eredità dalla giunta crebbe rapidamente fino a toccare i 65 miliardi nel
1989; una situazione che si ripresentò identica nei Paesi poveri di tutto
il mondo." Fu dopo il Volcker Shock che il debito del Brasile esplose, raddoppiando da 50 a 100
miliardi di dollari in sei anni. Molti Paesi africani, che avevano chiesto grossi prestiti negli anni Settanta,
si ritrovarono in guai simili: il debito della Nigeria nello stesso breve lasso di tempo passò da 9 a 29
miliardi di dollari.
E questi non erano gli unici shock economici che colpivano i Paesi in via di sviluppo negli anni Ottanta.
Uno "shock dei prezzi" si verifica ogni volta che il prezzo di una merce da esportazione, come il caffè o
lo stagno, cala del 10 per cento o più. Secondo il Fmi, i Paesi in via di sviluppo subirono 25 shock simili
tra il 1981 e il 1983; tra il 1984 e il 1987, al culmine della crisi del debito, ne subirono 140,
precipitando in un'ulteriore spirale di indebitamento. Uno di questi shock colpì la Bolivia nel 1986, un
anno dopo aver ingoiato la medicina amara di Jeffrey Sachs e aver subito la trasformazione economica. Il
prezzo dello stagno, la principale esportazione della Bolivia dopo la coca, calò del 55 per cento,
devastando l'incolpevole economia nazionale. (Questo era precisamente il tipo di dipendenza dalle
esportazioni di risorse grezze che l'economia dello sviluppo aveva cercato di trascendere negli anni
Cinquanta e Sessanta: un'idea liquidata come "incoerente"
dall'establishment economico del Nord.)
È qui che la teoria della crisi di Friedman diventò un perfetto circolo vizioso. Più l'economia globale
seguiva le sue prescrizioni, con tassi d'interesse variabili, prezzi deregolamentati ed economie orientate
alle esportazioni, e più il sistema diventava suscettibile di crisi e produceva ancor più di quei crolli che
Friedman aveva identificato come le uniche circostanze nelle quali i governi avrebbero seguito con più
attenzione i suoi consigli radicali.
In questo modo, la crisi diventa parte integrante del modello di capitalismo selvaggio proprio della
Scuola di Chicago. Quando somme illimitate di denaro sono libere di percorrere il globo a gran velocità,
e quando gli speculatori possono scommettere sul valore di qualsiasi cosa, dal cacao alle valute, il
risultato è un'enorme volatilità. E poiché le politiche liberiste incoraggiano i Paesi poveri a continuare a
fare affidamento sull'esportazione di risorse grezze come il caffè, il rame, il petrolio o il grano, quei
Paesi rischiano concretamente di restare intrappolati in una spirale di crisi. Un improvviso calo del
prezzo del caffè è in grado di mandare in depressione intere economie; depressione poi aggravata dagli
operatori di valuta, i quali, di fronte alla flessione finanziaria di un Paese, rispondono scommettendo
contro la sua moneta, facendola crollare. Se aggiungiamo i tassi d'interesse in
rapida ascesa, e i debiti nazionali che si moltiplicano da un giorno all'altro, ecco pronta la ricetta per il
disastro economico.
I seguaci della Scuola di Chicago tendono a presentare il periodo che va dalla metà degli anni Ottanta in
poi come una marcia trionfale, senza ostacoli per la loro ideologia: mentre sempre più Paesi si univano
all'ondata democratica, costoro ebbero un'epifania collettiva: che popoli liberi e
"liberi mercati" vanno mano nella mano. Quell'epifania fu sempre illusoria. Ciò che avvenne, piuttosto, fu
che proprio mentre i cittadini stavano finalmente ottenendo le libertà a lungo negate, sfuggendo allo shock
delle camere di tortura sotto dittatori come Ferdinand Marcos nelle Filippine e Juan Maria Bordaberry in
Uruguay, furono colpiti da una tempesta perfetta di shock finanziari shock del debito, shock dei prezzi e shock valutari - creati dalla sempre più instabile e deregolamentata
economia globale.
L'esperienza argentina di come la crisi del debito fosse aggravata da questi altri shock era, purtroppo,
tipica. Raul Alfonsin salì al potere nel 1983, nel pieno del Volcker Shock, il che piazzò il nuovo governo
in stato di crisi fin dal primo giorno. Nel 1985, l'inflazione era a un livello tale che Alfonsin inaugurò una
nuova valuta, l'austral, scommettendo che un nuovo inizio gli avrebbe permesso di riprendere il controllo.
Nel giro di quattro anni, i prezzi erano saliti così tanto che scoppiarono gigantesche rivolte per il cibo, e i
ristoranti argentini usavano la nuova moneta come carta da parati perché costava meno della carta. Nel
giugno 1989, con l'inflazione salita del 203 per cento in quel solo mese, e cinque mesi prima della
scadenza del suo mandato, Alfonsin si arrese: si dimise e convocò le elezioni anticipate."
C'erano altre opzioni praticabili per i politici nella stessa posizione di Alfonsin. Avrebbe potuto
rifiutarsi di pagare gli enormi debiti dell'Argentina. Avrebbe potuto unirsi ai governi dei Paesi confinanti,
che versavano nella stessa crisi, e dar vita a un cartello dei debitori. Insieme avrebbero potuto creare un
mercato comune basato sui principi dell'economia dello sviluppo, un processo che già stava iniziando
quando la regione fu fatta a pezzi da sadici regimi militari. Ma parte della sfida, all'epoca, era l'eredità
del terrore di Stato, con cui le nuove democrazie dovevano fare i conti. Negli anni Ottanta e Novanta,
gran parte dei Paesi in via di sviluppo era nella morsa di un simile retaggio di terrore: Paesi liberi sulla
carta, ma ancora timorosi e apprensivi. Dopo essere finalmente sfuggiti al buio della dittatura, erano
pochi i politici eletti dal popolo disposti a rischiare un'altra ondata di golpe finanziati dagli Stati Uniti
spingendo per le stesse riforme politiche che avevano provocato i golpe degli anni Settanta; soprattutto
dal momento che i militari che avevano organizzato quei golpe non erano in carcere ma, avendo quasi
tutti negoziato l'immunità, erano nelle loro caserme, in attesa.
Le nuove democrazie, che comprensibilmente non avevano intenzione di restare coinvolte in una guerra
con le istituzioni di Washington cui erano debitrici, non avevano altra scelta che seguire i dettami di
Washington. E nei primi anni Ottanta, i dettami di Washington si fecero molto più severi: perché lo shock
del debito coincise esattamente, e non a caso, con una nuova era nelle relazioni tra Nord e Sud, un'era che
avrebbe reso non necessarie le dittature militari. Era l'alba dell'era dell'aggiustamento strutturale":
altrimenti noto come la dittatura del debito.
Da un punto di vista filosofico, Milton Friedman non credeva nel Fmi o nella Banca mondiale: erano
esempi classici di interventismo da Big Government che interferiva con i delicati segnali del libero
mercato. Quindi era ironico che ci fosse un nastro trasportatore virtuale che portava i Chicago Boys agli
enormi quartier generali delle due istituzioni sulla Diciannovesima Strada a Washington, dove si
accaparravano i posti migliori.
Arnold Harberger, a capo del programma latinoamericano dell'Università di Chicago, si vanta spesso di
quanti dei suoi laureati abbiano ricoperto ruoli di responsabilità alla Banca mondiale e al Fmi. "C'è stato
un momento in cui quattro economisti capo delle divisioni regionali erano miei ex studenti di Chicago.
Uno di loro, Marcelo Selowsky, divenne poi economista capo per la neonam rea dell'ex impero
sovietico, che è l'incarico più importante nell'interabanca. E, indovinate? È stato sostituito da un altro ex
studente, Sebastian Edwards. È molto bello vedere queste persone far carriera, e sono orgoglioso di aver
giocato un ruolo nel loro sviluppo come economisti". Un'altra star era Claudio Loser, un argentino
laureato all'Università di Chicago nel 1971 che divenne direttore del dipartimento per l'emisfero
occidentale del Fmi, il gradino più alto nel settore sudamericano.
Nota: Loser fu licenziato dopo il collasso dell'Argentina nel 2001. È opinione generale che Loser fosse
così esaltato per le politiche liberiste che, finché i Paesi continuavano a tagliare le spese e privatizzare le
loro economie, lui continuava a riversar loro addosso prestiti, ignorando palesi debolezze nelle
economie, come la disoccupazione e la corruzione diffusa; per non parlare dell'insostenibile debito nei
confronti del Fmi.
Gli uomini di Chicago occupavano molti altri posti di responsabilità al Fmi, tra cui il secondo in assoluto
per importanza, quello di vicedirettore esecutivo, oltre a quello di economista capo, direttore della
ricerca e capoeconomista del dipartimento per l'Africa.
Friedman poteva opporsi a quelle istituzioni dal punto di vista filosofico, ma all'atto pratico non c'erano
istituzioni meglio equipaggiate per tradurre in realtà la sua teoria della crisi. Quando negli anni Ottanta i
Paesi precipitavano nella crisi, non avevano nessun altro a cui rivolgersi se non la Banca mondiale e il
Fmi. E quando si rivolgevano a loro, andavano a sbattere contro un muro di Chicago Boys ortodossi, tutti
addestrati a vedere le catastrofi economiche non come problemi da risolvere ma come preziose
opportunità per assicurarsi una nuova frontiera liberista.
L'opportunismo della crisi era diventato la logica alla base delle più potenti istituzioni finanziarie del
mondo. Era anche un tradimento profondo dei loro principi fondanti.
Come l'Onu, la Banca mondiale e il Fmi furono istituiti in diretta risposta agli orrori della Seconda
guerra mondiale. Con l'obiettivo di non ripetere mai più gli errori che avevano permesso al fascismo di
imporsi nel cuore dell'Europa, le potenze mondiali si riunirono nel 1944 a Bretton Woods, nel New
Hampshire, per creare una nuova architettura economica. La Banca mondiale e il Fmi, finanziati da
contributi versati dai 43 Paesi membri fondatori, ricevettero l'esplicito mandato di scongiurare futuri
shock e crolli economici. La Banca mondiale avrebbe fatto investimenti a lungo termine nello sviluppo,
per sottrarre i Paesi alla povertà, mentre il Fmi avrebbe agito da ammortizzatore globale, promuovendo
politiche economiche che riducessero la speculazione finanziaria e l'instabilità dei mercati. Quando un
Paese dava segnali di avviarsi verso una crisi, il Fmi sarebbe sceso in campo con sovvenzioni e prestiti
per favorire la stabilizzazione, e prevenire così le crisi prima ancora che si presentassero. Le due
istituzioni, che avevano sede una di fronte all'altra sulla stessa strada di Washington, avrebbero
coordinato le loro risposte.
John Maynard Keynes, a capo della delegazione britannica, era convinto che il mondo avesse finalmente
compreso i pericoli politici cui ci si espone se si lascia che il mercato si autoregoli. "In pochi lo
credevano possibile" disse alla fine della conferenza. Ma se le istituzioni fossero rimaste fedeli ai loro
principi fondanti, "la fratellanza degli uomini diventerà qualcosa in più di una semplice frase fatta".
Il Fmi e la Banca mondiale non seppero tener fede a una visione così idealizzata; fin dall'inizio divisero
il potere non in base al principio dell'Assemblea generale dell'Onu, cioè "ogni Paese un voto", ma
piuttosto secondo le dimensioni dell'economia di ciascun Paese: un sistema che dà agli Stati Uniti un
sostanziale diritto di veto su tutte le decisioni fondamentali, mentre Europa e Giappone controllano tutto
il resto. Ciò significa che quando salirono al potere Reagan e la Thatcher, negli anni Ottanta, le loro
amministrazioni fortemente ideologizzate furono in grado di pilotare le due istituzioni secondo i propri
scopi e con relativa facilità, aumentando rapidamente il loro potere e trasformandole nei veicoli primari
per l'avanzamento della crociata corporativista.
La colonizzazione della Banca mondiale e del Fmi da parte della Scuola di Chicago fu un processo in
gran parte silenzioso, ma divenne ufficiale nel 1989, quando John Williamson presentò al pubblico quello
che definiva il "Consenso di Washington". Era una lista di provvedimenti economici che, disse
Williamson, entrambe le istituzioni ora consideravano il minimo indispensabile per ottenere la stabilità
economica: "Il nucleo comune della saggezza condiviso da tutti gli economisti seri". Queste misure,
spacciate per tecniche e non controverse, comprendevano affermazioni ideologiche spudorate come "tutte
le imprese statali devono essere privatizzate" e occorre abolire le barriere che impediscono l'ingresso
delle aziende straniere". Quando la lista fu completa, si vide che consisteva nientemeno che nel triplice
motto friedmaniano di privatizzazione, deregulation del mercato e drastici tagli alla spesa pubblica.
Queste erano le politiche, disse Williamson, "che i poteri forti di Washington consigliavano
calorosamente all'America Latina".
Joseph Stiglitz, ex economista capo della Banca mondiale e uno degli ultimi baluardi contro la nuova
ortodossia, scrisse che "Keynes si rivolterebbe nella tomba se vedesse cosa è successo alla sua
creatura".
I funzionari della Banca mondiale e del Fmi avevano sempre suggerito strategie politiche al momento di
concedere prestiti, ma nei primi anni Ottanta, resi più arditi dalla disperazione dei Paesi in via di
sviluppo, quelle raccomandazioni si trasformarono in radicali pretese economiche. Quando i Paesi
colpiti dalle crisi si rivolgevano al Fmi per chiedere aiuti e prestiti d'emergenza, il fondo rispondeva con
estesi programmi di shockterapia, equivalenti per ambizione al "Mattone" scritto dai Chicago Boys per
Pinochet e al decreto da 220 leggi steso nel salotto di casa Goni in Bolivia.
Il Fmi aveva pubblicato il primo esteso programma di "aggiustamento strutturale" nel 1983. Per i
successivi due decenni, ogni Paese che si rivolse al Fmi per un prestito consistente fu informato della
necessità di ristrutturare completamente la propria economia.
Davison Budhoo, un importante economista del Fmi che progettò programmi di aggiustamento strutturale
in America Latina e Africa per tutti gli anni Ottanta, avrebbe poi ammesso che "tutto ciò che abbiamo
fatto dal 1983 in poi era basato sull'idea di avere una missione: il Sud doveva essere
"privatizzato" o sarebbe morto. A questo scopo abbiamo ignominiosamente creato un caos economico in
America Latina e in Africa tra il 1983 e il 1988".
Nonostante questa nuova missione così radicale (e molto proficua), il Fmi e la Banca mondiale non
smisero di operare sotto la bandiera della "stabilizzazione". Il loro mandato ufficiale era ancora quello di
prevenire le crisi - non quello di fare ingegneria sociale o trasformazione ideologica dunque la stabilizzazione doveva essere la motivazione ufficiale. La realtà era che, in Paese dopo Paese,
la crisi del debito internazionale era metodicamente sfruttata per portare avanti l'agenda politica della
Scuola di Chicago, basata su una sanguinaria applicazione della teoria dello shock di Friedman.
Gli economisti della Banca mondiale e del Fmi ammettevano tutto ciò all'epoca, anche se le ammissioni
erano generalmente fatte in codice, con il linguaggio dell'economia, e limitate a comunità di addetti ai
lavori e a pubblicazioni destinate ad altri "tecnocrati". Dani Rodrik, un noto economista di Harvard che
ha lavorato a lungo con la Banca mondiale, ha descritto l'intero costrutto di "aggiustamento strutturale"
come un'ingegnosa strategia di marketing. "Bisogna dare atto alla Banca mondiale" scrisse Rodrik nel
1994 "di aver inventato e diffuso il concetto di "aggiustamento strutturale", un concetto che univa in un
pacchetto singolo le riforme microeconomiche e quelle macroeconomiche. L'aggiustamento strutturale era
venduto come il processo di cui i Paesi avevano bisogno per salvare le loro economie dalla crisi. Per i
governi che acquistarono il pacchetto, la distinzione tra valide politiche macroeconomiche che
mantengono l'equilibrio interno e la stabilità dei prezzi, da un lato, e le politiche che determinano
apertura [come il libero mercato], dall'altro, era offuscata."
Il principio era semplice: i Paesi in crisi hanno disperato bisogno di aiuti di emergenza per stabilizzare le
loro valute. Quando misure di privatizzazione e liberalizzazione del mercato sono unite inscindibilmente
a quegli aiuti finanziari, i Paesi sono costretti ad acquistare l'intero pacchetto.
La parte davvero intelligente è che gli economisti sapevano bene che il libero mercato non serviva
assolutamente per porre fine a una crisi; il loro era un trionfo di "offuscamento". Rodrik lo intendeva
come un complimento. Non solo questo pacchetto funzionava, cioè riusciva a far accettare ai Paesi poveri
le politiche scelte per loro da Washington; era l'unica cosa che funzionasse: e Rodrik aveva i numeri per
dimostrarlo. Aveva studiato tutti i Paesi che avevano adottato riforme liberiste radicali negli anni Ottanta,
e aveva scoperto che "nessun caso significativo di riforma del commercio in un Paese in via di sviluppo
negli anni Ottanta ha avuto luogo al di fuori del contesto di una seria crisi economica".
Era un'ammissione sconcertante. A quel punto della storia, la Banca e il Fondo dichiaravano
pubblicamente che governi di tutto il mondo avevano avuto un'epifania e si erano resi conto che le
politiche del Consenso di Washington erano l'unica ricetta per la stabilità, e dunque per la democrazia.
Eppure, tra di loro, gli uomini dèi'establishment ammettevano che i Paesi invia di sviluppo si
sottoponevano a quella ricetta solo per una combinazione di inganni ed esplicita estorsione: vuoi salvare
il tuo Paese? Allora vendilo. Rodrik ammise persino che la privatizzazione e il liberomercato due pezzi
centrali del pacchetto di aggiustamento strutturale - non avevano alcun legame diretto con la creazione di
stabilità. Pensarla altrimenti, secondo Rodrik, era fare "cattiva economia".
L'Argentina, il cosiddetto studente modello del Fmi in'questo periodo, ancora una volta offre un quadro
chiaro dei meccanismi del nuovo ordine. Quando la crisi di iperinflazione costrinse alle dimissioni il
presidente Alfonsin, al suo posto arrivò Carlos Menem, governatore peronista di una piccola provincia
che indossava giacche di pelle, portava vistose basette, e sembrava abbastanza duro da poter resistere sia
all'esercito, ancora pericoloso, sia ai creditori. Dopo tutti i violenti tentativi fatti per cancellare il partito
peronista e il movimento sindacale, l'Argentina ora aveva un presidente che aveva condotto una
campagna elettorale pro-sindacati, promettendo di riportare in auge le politiche economiche
nazionalistiche di Juan Perón. La vittoria di Menem portava con sé molti dei riverberi emotivi che
avevano accompagnato l'ascesa di Paz in Bolivia.
Troppi, come si scoprì. Dopo un anno in carica, e sotto forte pressione del Fmi, Menem imboccò con
decisione la strada della "politica voodoo". Eletto come simbolo del partito che si era opposto alla
dittatura, Menem nominò Domingo Cavallo ministro dell'Economia, riportando al potere il funzionario
che ai tempi della giunta aveva assorbito i debiti del settore aziendale, il regalo d'addio del dittatore. La
sua nomina fu quello che gli economisti chiamano "un segnale": un'inconfondibile indicazione che, in
questo caso, il nuovo governo avrebbe continuato l'esperimento corporativista varato dalla giunta. Il
mercato azionario di Buenos Aires rispose con l'equivalente di una standing ovation: le contrattazioni
aumentarono del 30 per cento il giorno in cui fu annunciato il nome di Cavallo.
Cavallo chiese subito rinforzi ideologici, infarcendo il governo di ex studenti di Milton Friedman e
Arnold Harberger. Praticamente tutti i ruoli di responsabilità in ambito economico nel Paese furono
affidati ai Chicago Boys: presidente della banca centrale era Roque Fernandez, che aveva lavorato sia al
Fmi sia alla Banca mondiale; il vicepresidente era Pedro Pou, che aveva collaborato con la dittatura;
consigliere capo della banca centrale era Pablo Guidotti, che arrivò dritto dal precedente impiego al Fmi,
dove era stato alle dipendenze di un altro ex docente di Chicago, Michael Mussa.
L'Argentina non rappresentava un'eccezione. Nel 1999 la comunità di ex studenti della Scuola di.
Chicago comprendeva più di 25 ministri, e oltre una dozzina di presidenti di banche centrali da Israele
alla Costa Rica: uno straordinario livello di influenza per un solo dipartimento universitario. In
Argentina, come in tanti altri Paesi, i Chicago Boys formavano una sorta di tenaglia ideologica attorno al
governo eletto, con un gruppo che faceva pressione dall'interno e un altro che premeva da Washington.
Per esempio, le delegazioni del Fmi a Buenos Aires erano spesso guidate da Claudio Loser, altro
Chicago Boy argentino, il che significava che le riunioni con il ministro delle Finanze e la Banca centrale
non erano negoziazioni fra avversari ma discussioni collegiali tra amici, ex compagni di classe
all'Università di Chicago ed ex colleghi sulla Diciannovesima Strada.
Un libro pubblicato in Argentina sull'effetto di questa fratellanza economica globale è appropriatamente
intitolato Buenos muchachos, in riferimento al celebre film sulla mafia di Martin Scorsese, Quei bravi
ragazzi?
I membri di questa fratellanza erano tutti perfettamente d'accordo sul da farsi, e sul come. Il "Piano
Cavallo", come fu chiamato, si basava sul brillante trucco di marketing perfezionato dalla Banca
mondiale e dal Fmi: sfruttare il caos e la disperazione generati da una crisi di iperinflazione per
spacciare la privatizzazione come parte integrante della missione di salvataggio. Così, per stabilizzare il
sistema finanziario. Cavallo apportò profondi tagli alla spesa pubblica e lanciò un'altra nuova valuta, il
peso argentino, il cui valore era equiparato al dollaro americano. Nel giro di un anno, l'inflazione era
calata al 17,5 per cento e qualche anno dopo era virtualmente scomparsa.
Questo approccio rimise in carreggiata la valuta, ma "offuscò" l'altra metà del programma.
La dittatura argentina, nonostante il suo impegno per ingraziarsi gli investitori stranieri, aveva lasciato
nelle mani dello Stato ampi e desiderabili pezzi dell'economia: dalle linee aeree nazionali alle importanti
riserve di petrolio della Patagonia. Cavallo e i suoi Chicago Boys erano convinti che la loro rivoluzione
fosse ancora a metà, ed erano decisi a usare la crisi economica per portare a termine il lavoro.
Nei primi anni Novanta, lo Stato argentino vendette le ricchezze del Paese con tale rapidità e completezza
che il progetto sorpassò di molto quanto era avvenuto in Cile dieci anni prima. Entro il 1994, il 90 per
cento delle imprese nazionali era stato venduto ad aziende private, tra cui Citibank, Bank Boston, le
francesi Suez e Vivendi, le spagnole Repsol e Telefònica. Prima di concludere le vendite, Menem e
Cavallo avevano generosamente fatto un gran favore ai nuovi proprietari: avevano licenziato circa
700.000 lavoratori, secondo le stime dello stesso Cavallo; alcuni parlano di cifre molto più alte. La sola
compagnia petrolifera perse 27.000 dipendenti negli anni di Menem.
Cavallo, ammiratore di Jeffrey/Sachs, chiamava questo processo "shockterapia". Menem aveva una
definizione ancor più brutale: in un Paese ancora traumatizzato dalla tortura di massa, lo chiamava
"chirurgia a cuore aperto senza anestesia".
Nota: nel gennaio 2006, molto dopo la scadenza dei mandati di Cavallo e Menem, gli argentini
ricevettero una notizia sorprendente. Si scoprì che il Piano Cavallo non era affatto di Cavallo, né del
Fmi: l'intero programma di shockterapia applicato in Argentina negli anni Novanta era stato scritto in
segreto dalla JP Morgan e dalla Citibank, due dei maggiori creditori privati dell'Argentina. Nel corso di
un processo contro il governo argentino, il famoso storico Alejandro Olmos Gaona scoprì uno
sconvolgente documento di 1400 pagine scritto dalle due banche americane per Cavallo, nel quale "si
delineano le politiche adottate dal governo a partire dal '92: [...] privatizzazione delle aziende di servizio
pubblico, la privatizzazione del sistema pensionistico. È tutto spiegato con grande attenzione ai dettagli
[...] Tutti sono convinti che il piano economico seguito dal 1992 sia opera di Domingo Cavallo, ma le
cose non stanno così".
Nel mezzo della trasformazione, la rivista "Time" mise Menem in copertina, con la faccia sorridente che
spuntava da un girasole, e con il titolo: Il miracolo di Menem? Ed era un miracolo: Menem e Cavallo
erano riusciti ad applicare un programma di privatizzazione radicale e doloroso senza innescare una
rivolta nazionale. Come c'erano riusciti?
Anni dopo, Cavallo spiegò. "La fase di iperinflazione è terribile per il popolo, soprattutto per chi ha
redditi bassi e per i piccoli risparmiatori, perché vedono che nel giro di poche ore o pochi giorni viene
detto loro che i loro salari sono stati distrutti dall'aumento dei prezzi, che avviene a una velocità
incredibile" disse Cavallo. "E per questo che il popolo chiede al governo, "per favore fate qualcosa". E
se il governo interviene con un buon piano di stabilizzazione, c'è l'opportunità di accompagnare quel
piano con altre riforme [...] Le riforme più importanti riguardavano l'apertura dell'economia e il processo
di deregulation e privatizzazione. Ma l'unico modo per applicare tutte quelle riforme era, all'epoca,
quello di trarre vantaggio dalla situazione creata dall'iperinflazione, perché il popolo era pronto ad
accettare cambiamenti radicali al fine di eliminare l'iperinflazione e tornare alla normalità."
Nel lungo periodo, il programma nella sua interezza si sarebbe dimostrato disastroso per l'Argentina. Il
metodo di Cavallo per stabilizzare la valuta - equiparare il peso al dollaro americano rendeva così
costosa la produzione di merci all'interno del Paese che le fabbriche locali non riuscivano a competere
con le importazioni a basso prezzo che avevano invaso il Paese. Si persero così tanti posti di lavoro che
oltre metà della nazione sarebbe finita sotto la soglia di povertà. Nel breve termine però il piano aveva
funzionato alla perfezione: Cavallo e Menem avevano introdotto la privatizzazione di soppiatto mentre il
Paese era in shock per via dell'iperinflazione. La crisi aveva fatto il suo dovere.
Ciò che i leader argentini riuscirono a fare in questo periodo rappresentò una tecnica psicologica prima
ancora che economica. Come Cavallo, veterano della giunta, comprendeva bene, nei momenti di crisi la
gente è disponibile a conferire molto potere a chiunque prometta di avere una cura magica
- che la crisi sia un crollo economico o, come avrebbe poi dimostrato l'amministrazione Bush, un attacco
terroristico.
Ed è così che la crociata avviata da Friedman è riuscita a sopravvivere alla temuta transizione alla
democrazia: non persuadendo l'elettorato della saggezza delle sue politiche, ma muovendosi
sinuosamente da una crisi all'altra, sfruttando sapientemente la disperazione delle emergenze economiche
per imporre politiche che avrebbero legato le mani alle fragili nuove democrazie. Una volta che la tattica
fu perfezionata, le opportunità sembrarono moltiplicarsi. Il Volcker Shock sarebbe stato seguito dalla
Crisi della tequila in Messico nel 1994, dal Contagio asiatico nel 1997 e dal Collasso russo del 1998, a
sua volta seguito a ruota dal Brasile. Quando questi shock e queste crisi iniziarono a perdere potenza, ne
apparvero di ancor più cataclismatiche: tsunami, uragani, guerre e attacchi terroristici. Il capitalismo dei
disastri stava prendendo forma.
Parte quarta.
Lost in transition. Mentre piangevamo, mentre tremavamo, mentre danzavamo.
Questi tempi drammatici danno adito alle migliori opportunità per coloro i quali comprendono il
bisogno di riforme economiche radicali.
Stephan Haggard e John Williamson, The Political Economy of Policy Reform, 1994.
9.
Sbattere la porta in faccia alla storia.
Una crisi in Polonia, un massacro in Cina.
Vivo in una Polonia ormai libera, e considero Milton "Friedman uno dei principali architetti
intellettuali della libertà del mio Paese.
Leszek Balcerowicz, ex ministro delle Finanze polacco, novembre 2006.
C'è una certa sostanza chimica che si rilascia nello stomaco quando guadagni dieci volte quello che
hai investito. E dà dipendenza.
William Browder, gestore finanziario americano, sull'investire in Polonia nei primi giorni del
capitalismo.
Di certo non dobbiamo smettere di mangiare per paura che il cibo ci vada di traverso e ci soffochi.
"People's Daily", il quotidiano di Stato, sul bisogno di continuare le riforme liberiste dopo il
massacro di piazza Tienanmen.
Prima che il muro di Berlino cadesse, diventando il simbolo per eccellenza del collasso del comunismo,
un'altra immagine incarnava la promessa del crollo delle barriere sovietiche. Era Lech Walesa,
elettricista disoccupato con grossi baffi e capelli in disordine, intento ad arrampicarsi su una recinzione
d'acciaio decorata con fiori e bandiere a Gdansk, in Polonia. La recinzione proteggeva i cantieri navali
Lenin e le migliaia di lavoratori che si erano barricati lì dentro per protestare contro la decisione del
Partito comunista di alzare il prezzo della carne.
Lo sciopero rappresenta la prima sfida al governo controllato da Mosca che aveva retto la Polonia con il
pugno di ferro per trentacinque anni. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo: Mosca avrebbe mandato i
carri armati? Avrebbero fatto fuoco sui dimostranti e li avrebbero costretti a tornare al lavoro? Mentre lo
sciopero continuava, il cantiere navale divenne una sacca di democrazia popolare entro un Paese
autoritario, e i lavoratori ampliarono le loro pretese. Non volevano più che le loro vite lavorative
fossero controllate da apparati di partito, che sostenevano di parlare per conto della classe operaia.
Volevano un sindacato indipendente, e volevano il diritto di negoziare, contrattare e scioperare. Senza
attendere il permesso, votarono per creare quel sindacato e lo chiamarono Solidarnosc, "Solidarietà".''
Era il 1980, l'anno in cui il mondo si innamorò di Solidarnosc e del suo leader, Lech Walesa.
Walesa, allora trentaseienne, era così in sintonia con le aspirazioni dei lavoratori polacchi che sembrava
in comunione spirituale con loro. "Mangiamo lo stesso pane!" gridava nel microfono al cantiere navale di
Gdansk. Si riferiva non solo alle sue innegabili credenziali di operaio, ma anche al grande ruolo che il
cattolicesimo giocava in questo nuovo e rivoluzionario movimento. I funzionari di partito non
approvavano la religione, e i lavoratori facevano della propria fede un'insegna di coraggio, mettendosi in
fila per la Comunione dietro le barricate. Walesa, curioso miscuglio di licenziosità e preghiera, aprì
l'ufficio di Solidarnosc con un crocifisso di legno in una mano e un mazzo di fiori nell'altra. Quando
giunse il momento di firmare il primo, storico accordo tra Solidarnosc e il governo, Walesa appose il suo
nome con "un'enorme penna-souvenir con il ritratto di Giovanni Paolo II". L'ammirazione era reciproca:
il papa polacco disse a Walesa che le sue preghiere erano con Solidarnosc.
Il nuovo sindacato si diffuse nelle miniere, nei cantieri navali e nelle fabbriche con una velocità
incredibile. Nel giro di un anno aveva dieci milioni di iscritti: quasi la metà della popolazione in età
lavorativa del Paese. Avendo ottenuto il diritto di contrattazione, Solidarnosc ebbe alcuni successi
concreti: una settimana lavorativa di cinque giorni anziché sei, e più voce in capitolo nella gestione delle
fabbriche. Stanchi di vivere in un Paese che venerava una classe operaia idealizzata ma maltrattava gli
operai veri, i membri di Solidarnosc denunciarono la corruzione e la brutalità dei funzionari di partito
che non rispondevano delle proprie azioni al popolo polacco ma a lontani e isolati burocrati a Mosca. Il
desiderio di democrazia e autodeterminazione, soppresso dal partito unico, ora si riversava nelle sedi
locali di Solidarnosc, provocando un esodo in massa dalle file del partito comunista.
Mosca riconobbe nel movimento la minaccia più grave portata fino a quel momento all'Impero dell'Est.
Dentro l'Unione Sovietica, l'opposizione veniva ancora in gran parte dagli attivisti per i diritti umani,
molti dei quali erano politicamente schierati a destra. Ma gli iscritti a Solidarnosc non potevano essere
liquidati come tirapiedi del capitalismo: erano operai con il martello in mano e polvere di carbone nei
pori, esattamente il genere di persone che, secondo la retorica marxista, avrebbero dovuto costituire la
base del partito.
Nota: uno degli slogan più popolari di Solidarnosc nel 1980 recitava: "Socialismo: Sì, le sue
distorsioni: No" (che senza dubbio suona meglio in polacco).
Per giunta, la visione del mondo propria di Solidarnosc era l'esatto opposto di quella del partito:
democrazia contro autoritarismo, potere diffuso contro centralismo, partecipazione contro burocrazia. E i
suoi 10 milioni di membri erano sufficienti a paralizzare l'economia polacca. Come diceva Walesa,
potevano perdere le battaglie politiche, "ma non saremo costretti a lavorare. Perché se la gente vuole che
noi costruiamo carri armati, noi costruiremo automobili. E i camion andranno aU'indietro se li
costruiremo in quel modo. Sappiamo come sconfiggere il sistema. Siamo allievi di quel sistema".
L'impegno democratico di Solidarnosc ispirò alla ribellione persino qualche funzionario di partito.
"Un tempo ero così ingenuo da credere che gli errori del partito fossero da addebitare a un pugno di
uomini malvagi" confidò a un quotidiano polacco Marian Arendt, membro del Comitato centrale.
"Oggi non coltivo più simili illusioni. C'è qualcosa di errato nell'intera struttura, nell'intero apparato."
Nel settembre del 1981, Solidarnosc era pronta a passare allo stadio successivo. Novecento lavoratori
polacchi si riunirono nuovamente a Gdansk per il primo congresso nazionale del sindacato. Qui,
Solidarnosc si trasformò in un movimento rivoluzionario che aspirava a rovesciare lo status quo, con un
proprio programma economico e politico per la Polonia. Il progetto recita:
"Chiediamo una riforma in senso democratico e di autogoverno a ogni livello gestionale, e un nuovo
sistema socioeconomico che unisca il progetto, l'autogoverno e il mercato". Il pezzo forte era la proposta
che le enormi compagnie statali, che impiegavano
milioni di iscritti a Solidarmosc, si affrancassero dal controllo del governo e diventassero cooperative
democratiche di lavoratori. "L'impresa socializzata" si legge nel programma "dev'essere l'unità basilare
di organizzazione economica. Dev'essere controllata dal consiglio dei lavoratori, in rappresentanza della
collettività, e dev'essere gestita operativamente dal direttore, nominato con regolari elezioni, e la cui
carica sia suscettibile di revoca da parte del consiglio." Walesa si oppose a questa rivendicazione,
temendo che potesse provocare una reazione severa da parte del governo.
Altri sostenevano che il movimento avesse bisogno di un obiettivo, una visione positiva del futuro, non
soltanto di un nemico. Walesa fu sconfitto nel dibattito, e il programma economico entrò a far parte delle
politiche ufficiali di Solidarnosc.
I timori di Walesa di una reazione del governo si rivelarono fondati. La crescente ambizione di
Solidarnosc spaventava e faceva infuriare Mosca. Sotto intense pressioni, il leader polacco generale
Wojciech Jaruzelski rispose alla sfida di Solidarnosc dichiarando la legge marziale nel dicembre 1987. I
carri armati percorsero le strade innevate e circondarono fabbriche e miniere. I membri di Solidarnosc
furono rastrellati a migliaia, e i leader, compreso Walesa, furono arrestati e imprigionati. Come riportò il
"Time", "esercito e polizia hanno usato la forza per disperdere la resistenza, lasciando sul campo almeno
sette morti e centinaia di feriti quando i minatori a Katowice hanno risposto all'attacco armati di asce e
palanchini".
Durante gli otto anni di Stato di polizia, Solidarnosc fu costretta a restare nell'ombra, ma la leggenda del
movimento non fece che crescere. Nel 1983, Walesa ricevette il premio Nobel per la pace, sebbene la
sua libertà di movimento fosse ancora ristretta, per cui non potè ritirare il premio di persona. "Il seggio
del vincitore è vuoto" disse alla cerimonia il rappresentante del comitato Nobel.
"Dobbiamo dunque tentare di prestare ascolto al silenzioso discorso che proviene dal suo posto vuoto".
Quella del posto vuoto era una metafora molto efficace, perché a quel punto tutti sembravano capire quali
erano le rivendicazioni di Solidarnosc: il comitato Nobel vedeva un uomo che "non impugnava altre armi
se non l'arma pacifica dello sciopero". La sinistra vedeva redenzione, una versione del socialismo che
non era macchiata dai crimini di Stalin o Mao. La destra vedeva la riprova che gli Stati comunisti
rispondevano con forza brutale anche alle espressioni moderate di dissenso. Il movimento per i diritti
umani vedeva prigionieri incarcerati per ciò in cui credevano. La Chiesa cattolica vedeva un alleato
contro l'ateismo comunista. E Margaret Thatcher e Ronald Reagan vedevano un'apertura, un'incrinatura
nell'armatura sovietica, anche se Solidarnosc stava combattendo per quegli stessi diritti che i due leader
cercavano di negare in patria. Più a lungo Solidarnosc restava illegale, più il suo mito cresceva.
Nel 1988 il terrore della repressione iniziale si era ormai attutito, e i lavoratori polacchi erano di nuovo
intenti a organizzare grandi scioperi. Questa volta, con l'economia in picchiata e il nuovo regime
moderato di Mikhail Gorbaciov a Mosca, i comunisti si arresero. Legalizzarono Solidarnosc e diedero
l'assenso a elezioni immediate. Solidarnosc si divise in due: ora c'era il sindacato vero e proprio e una
nuova ala, il Comitato Solidarnosc dei cittadini, che avrebbe corso alle elezioni. Le due entità erano
inestricabilmente legate: i leader di Solidarnosc erano candidati, e poiché la piattaforma elettorale era
vaga, l'unico dato concreto su come sarebbe potuto apparire un futuro all'insegna di Solidarnosc era
fornito dal programma economico del sindacato. Walesa non si candidò, preferendo mantenere il ruolo di
leader sindacale, ma era il volto della campagna, il cui slogan era: "Con noi, siete più sicuri". I risultati
furono umilianti per i comunisti, gloriosi per Solidarnosc: dei 261 seggi in cui Solidarnosc aveva
presentato candidati, vinse in 260.
Nota: Le elezioni, benché profondamente innovative, furono comunque manipolate: fin dall'inizio, al
partito comunista furono garantiti il 65 per cento dei seggi nella camera bassa del parlamento, e a
Solidarnosc fu consentito di giocarsi solo i restanti. Tuttavia, la vittoria fu così schiacciante che
Solidarnosc ottenne di fatto il controllo del governo.
Walesa, lavorando dietro le quinte, scelse come primo ministro Tadeusz Mazowiecki. Costui non aveva
il carisma di Walesa, ma come direttore del settimanale di Solidarnosc era considerato uno degli
intellettuali di punta del movimento.
Come i latinoamericani avevano appena imparato, i regimi autoritari hanno l'abitudine di abbracciare la
democrazia nell'esatto momento in cui i loro progetti economici stanno per implodere, e la Polonia non
faceva eccezione. I comunisti avevano gestito male l'economia per decenni, accumulando un disastroso e
costoso errore dopo l'altro, e le finanze erano sull'orlo del collasso. "Purtroppo abbiamo vinto!" è la
celebre (e profetica) dichiarazione di Walesa. Quando Solidarnosc si insediò al potere, il debito era a 40
miliardi di dollari, l'inflazione al 600 per cento, trovare generi alimentari era difficile e il mercato nero
era fiorente. Molte fabbriche producevano merce che, per mancanza di acquirenti, era destinata a marcire
nei magazzini." Per i polacchi, la situazione rese crudele l'ingresso nella democrazia. La libertà era
finalmente arrivata, ma pochi avevano tempo o voglia di festeggiare, perché gli stipendi erano bassissimi,
e si passavano le giornate in fila per la farina e il burro, sempre che quella settimana i negozi fossero
riforniti.
Per tutta l'estate che seguì il trionfo elettorale, il governo di Solidarnosc fu paralizzato dall'indecisione.
La velocità con cui il vecchio ordine era collassato e la repentina vittoria alle urne erano stati dei veri e
propri shock: gli attivisti di Solidarnosc, che pochi mesi prima dovevano nascondersi dalla polizia
segreta, si ritrovarono a dover pagare i salari di quegli stessi poliziotti. E si aggiunse lo shock di
scoprire che i soldi in cassa erano appena sufficienti per pagare gli stipendi agli statali. Anziché costruire
l'economia postcomunista che avevano sognato, gli uomini di Solidarnosc avevano di fronte il ben più
urgente compito di scongiurare un crollo completo che avrebbe ridotto la popolazione alla fame.
I leader di Solidarnosc sapevano di voler allentare la morsa dello Stato sull'economia, ma non era affatto
chiaro cosa potesse sostituirla. Per i militanti e la base del movimento, questa era l'occasione per mettere
alla prova il loro programma economico: se le fabbriche statali fossero state convertite in cooperative,
c'era una possibilità di farle tornare economicamente in attivo; la gestione delle risorse umane poteva
diventare più efficiente, soprattutto ora che non c'erano più le spese aggiunte della burocrazia di partito.
Altri chiedevano lo stesso approccio graduale alla transizione che Gorbaciov stava perorando in quei
giorni a Mosca: lenta espansione delle aree di applicazione delle regole monetarie di offerta e domanda
(più negozi e mercati legali), unita a un forte settore pubblico modellato sulla socialdemocrazia
scandinava.
Ma come era accaduto in America Latina, prima che potesse accadere qualunque altra cosa, la Polonia
aveva bisogno di farsi cancellare il debito e di ottenere aiuti economici per uscire dalla crisi. In teoria, è
il compito principale del Fmi: provvedere fondi per stabilizzare e prevenire grandi catastrofi
economiche. Se c'era un governo che meritava quel genere di salvagente era il governo di Solidarnosc,
che era appena riuscito a cacciare un governo comunista dal Blocco orientale con mezzi democratici, per
la prima volta in quarant'anni. Di certo, visto quanto l'Occidente aveva inveito contro il totalitarismo
dietro la cortina di ferro durante la Guerra fredda, i nuovi governanti della Polonia potevano attendersi
un minimo di aiuto.
Ma nessuno si offrì di aiutarli. Il Fmi e il Tesoro statunitense, ora guidati da economisti della Scuola di
Chicago, vedevano i problemi della Polonia sotto la lente deformante della dottrina dello shock.
Un crollo economico, un grosso carico di debiti, unito al disorientamento provocato da un repentino
cambio di regime, aveva messo la Polonia in una posizione ideale per accettare un programma radicale
di shockterapia. Dal punto di vista economico c'era in ballo ancor più che in America Latina: l'Europa
dell'Est non era stata toccata dal capitalismo occidentale, non c'era un mercato dei beni di consumo, e
tutte le risorse più preziose erano ancora di proprietà dello Stato, pronte per essere privatizzate. Il
potenziale per rapidi profitti, per chi sarebbe arrivato per primo, era enorme.
Fiducioso che, peggio si mettevano le cose, e più il nuovo governo sarebbe stato disponibile ad accettare
una conversione totale al capitalismo sfrenato, il Fmi lasciò che il Paese precipitasse nel baratro del
debito e dell'inflazione. La Casa Bianca, sotto George H.W. Bush, si congratulò con Solidarnosc per il
suo trionfo contro il comunismo, ma chiarì subito che l'amministrazione Usa si attendeva dalla Polonia il
pagamento dei debiti accumulati dal regime che aveva messo fuori legge e imprigionato i membri del
sindacato; e offrì soltanto 119 milioni di dollari in aiuti, una miseria per un Paese che rischiava il
collasso economico e aveva bisogno di una ristrutturazione dalle fondamenta.
Fu in questo contesto che Jeffrey Sachs, allora trentaquattrenne, iniziò a lavorare come consulente di
Solidarnosc. Dai tempi dei suoi exploit in Bolivia, la leggenda di Sachs era cresciuta.
Meravigliato da come Sachs riuscisse a fare il "dottor Shock" economico per mezza dozzina di Paesi e
intanto continuare a insegnare a Harvard, il "Los Angeles Times" lo definì l'Indiana Jones
dell'economia".
lavoro di Sachs in Polonia era iniziato prima della vittoria elettorale di Solidarnosc, su richiesta del
governo comunista. Era cominciato con un viaggio di un giorno solo, nel quale Sachs aveva incontrato il
governo comunista e Solidarnosc. Era stato George Soros, il miliardario finanziere e operatore di Borsa,
a reclutare
Sachs per un ruolo più attivo. Soros e Sachs andarono insieme a Varsavia, e, ricorda Sachs:
"Comunicai agli economisti di Solidarnosc e ai rappresentanti del governo di essere disponibile a un
coinvolgimento più profondo per contribuire alla soluzione della crisi economica sempre più grave".
Soros accettò di coprire i costi per la missione in Polonia di Sachs e del suo collega David Lipton, un
economista neoliberista che all'epoca lavorava per il Fmi. Quando Solidarnosc trionfò alle elezioni,
Sachs iniziò a lavorare a stretto contatto con il movimento.
Pur agendo in modo indipendente, e pur non essendo stipendiato dal Fmi o dal governo americano, agli
occhi di molti funzionari di alto livello di Solidarnosc Sachs disponeva di poteri quasi messianici. Con i
suoi contatti importanti a Washington e la sua reputazione leggendaria, sembrava possedere la chiave per
sbloccare gli aiuti e le riduzioni del debito che costituivano l'unica possibilità per il nuovo governo.
All'epoca Sachs sostenne che la Polonia doveva semplicemente rifiutarsi di pagare i propri debiti, e si
disse fiducioso di poter mobilitare tre miliardi di dollari: una fortuna, rispetto a quanto offerto da Bush.
Aveva aiutato la Bolivia a ottenere prestiti dal Fmi e aveva rinegoziato i debiti di quel Paese; non
sembrava esserci ragione per dubitare di lui.
Quegli aiuti, però, avevano un prezzo: perché Solidarnosc potesse avere accesso ai contatti di Sachs e ai
suoi poteri di persuasione, il governo doveva prima adottare quello che divenne noto nella stampa
polacca come il "Piano Sachs", ovvero come la "shockterapia".
Si trattava di un'azione ancor più radicale di quella prescritta in Bolivia: oltre all'eliminazione immediata
dei controlli sui prezzi e al taglio dei sussidi, il Piano Sachs proponeva di vendere a privati le miniere, i
cantieri navali e le fabbriche di proprietà dello Stato. Si trattava di una profonda divergenza rispetto al
programma economico di Solidarnosc, che predicava invece la proprietà da parte dei lavoratori; e anche
se i leader nazionali del movimento avevano smesso di parlare delle controverse idee contenute in quel
piano, esse restavano articoli di fede per molti membri di Solidarnosc. Sachs e Lipton redassero il
progetto per la shockterapia polacca in una sola notte.
Contava quindici pagine e come sosteneva Sachs: "Credo fosse la prima volta che qualcuno elaborava un
piano completo per la trasformazione di un'economia socialista in un'economia di mercato".
Sachs era convinto che la Polonia dovesse compiere questo "balzo per colmare il divario istituzionale" al
più presto, perché,
oltre a tutti gli altri problemi, era sull'orlo dell'iperinflazione. Una volta che ciò fosse accaduto, disse, si
sarebbe giunti a "una crisi totale [...] un disastro completo e irrimediabile".
Incontrò numerosi funzionari di Solidarnosc, a cui spiegò il piano, in lezioni private a due, che a volte si
protraevano fino a quattro ore, e parlò anche ai funzionari eletti riuniti in gruppo. Molti leader di
Solidarnosc non apprezzavano le sue idee: il movimento si era formato nell'ambito di una rivolta contro i
drastici aumenti dei prezzi imposti dai comunisti; ora Sachs stava dicendo loro di fare la stessa cosa su
scala molto più ampia. Sosteneva che potevano farla franca precisamente perché i lavoratori riponevano
tanta fede in loro: "Solidarnosc poteva contare su una straordinaria e decisiva fiducia dell'opinione
pubblica".
I leader di Solidarnosc non avevano preventivato di spendere quella fiducia in riforme che avrebbero
causato dolore alle proprie file, ma gli anni passati a nascondersi, in prigione e in esilio, li avevano
anche alienati dalla propria base. Come spiega l'editorialista polacco Przemyslaw Wielgosz, la sfera
superiore del movimento "di fatto si isolò [...] il loro sostegno non veniva dalle fabbriche e dagli
stabilimenti, ma dalla Chiesa". I leader avevano anche disperato bisogno di un rimedio veloce, anche se
doloroso; ed era proprio quello che Sachs offriva loro. "Funzionerà?
Questa è l'unica cosa che voglio veramente sapere. Funzionerà?" chiese Adam Michnick, uno dei più
celebri intellettuali di Solidarnosc. Sachs non esitò: "È un buon piano. Funzionerà".
Nota: Michnik osservò poi amaramente che "la cosa peggiore del comunismo è quello che viene dopo".
Sachs portava spesso la Bolivia come modello per la Polonia, così spesso che i polacchi si stufarono di
sentir parlare di quel posto. "Mi piacerebbe molto vedere la Bolivia" disse a un giornalista un leader di
Solidarnosc. "Sono certo che sia un posto molto bello, molto esotico. Soltanto, non vorrei vedere la
Bolivia qui." Lech Walesa sviluppò un'antipatia particolarmente acuta nei confronti della Bolivia, come
ammise a Gonzalo Sanchez de Lozada ("Goni") quando i due si incontrarono anni dopo a un summit,
mentre erano entrambi presidenti. "Venne da me" ricordò Goni "e disse: "Ho sempre desiderato
conoscere un boliviano, soprattutto un presidente boliviano, perché non fanno che propinarci questa
medicina amara, dicendoci che dobbiamo fare una certa cosa perché anche i boliviani l'hanno fatta. Ora
che ti conosco, vedo che tu non sei poi così cattivo, ma un tempo ti odiavo proprio".
In tutti i suoi discorsi sulla Bolivia, Sachs non menzionava mai il fatto che per far passare il programma
di shockterapia, il governo aveva imposto lo stato di emergenza e in due diverse occasioni aveva fatto
rapire e internare esponenti di spicco del sindacato: proprio come la polizia segreta comunista aveva
rapito e imprigionato i leader di Solidarnosc nell'ambito di uno stato di emergenza, non molto tempo
prima.
L'elemento più persuasivo, in molti oggi ricordano, fu la promessa di Sachs che se la Polonia avesse
seguito i suoi consigli sarebbe riuscita, seppur con fatica, a smettere di essere eccezionale e a diventare
"normale", nel senso di "un normale Paese europeo". Se Sachs aveva ragione, e davvero la Polonia
poteva trasformarsi rapidamente in un Paese come Francia e Germania, semplicemente facendo piazza
pulita delle strutture del vecchio Stato, non valeva la pena di sopportare il dolore?
Perché incamminarsi su una strada lenta e dolorosa per il cambiamento, che poteva benissimo fallire, o
inventarsi una nuova "terza via", quando c'era a disposizione un sistema che li avrebbe portati in Europa
all'istante? Sachs predisse che lo shock avrebbe causato "dislocazioni momentanee" con l'aumento dei
prezzi. "Ma poi si stabilizzeranno: il popolo conoscerà la propria situazione."
Si alleò con il neoeletto ministro delle Finanze polacco, Leszek Balcerowicz, economista alla Scuola di
pianificazione e statistica di Varsavia. Poco era noto delle opinioni politiche di Balcerowicz al momento
della sua nomina (tutti gli economisti erano ufficialmente socialisti), ma sarebbe presto divenuto chiaro
che si vedeva come un Chicago Boy onorario, avendo letto con molta attenzione un'edizione polacca
illegale di Liberi di scegliere di Milton Friedman. Lo aiutò "a trovare ispirazione, e a me e a molti altri
consentì di sognare un futuro di libertà negli anni più bui del dominio comunista" avrebbe poi spiegato
Balcerowicz.
La versione fondamentalista del capitalismo proposta da Friedman era molto lontana da ciò che Walesa
proponeva quell'estate. Insisteva ancora che la Polonia avrebbe trovato quella terza via più generosa, che
in un'intervista con Barbara Walters descrisse come "una via mista [...] Non sarà capitalismo. Sarà un
sistema migliore del capitalismo, che rifiuterà tutto ciò che c'è di male nel capitalismo".
Molti sostennero che il rimedio istantaneo venduto da Sachs e Balcerowicz era un mito, che anziché
riportare la Polonia in salute e normalità con una scossa, la shockterapia avrebbe creato ulteriore povertà
e deindustrializzazione. "Questo è un Paese povero, debole. Non riusciremmo a sopportare lo shock"
spiegò un importante medico e attivista per la salute al giornalista del "New Yorker"
Lawrence Weschler.
Per tre mesi dopo la storica vittoria alle urne e la loro improvvisa trasformazione da fuorilegge a
legislatori, la cerchia interna di Solidarnosc dibatté, camminò nervosamente, urlò e fumò una sigaretta
dopo l'altra, incapace di decidere cosa fare. Ogni giorno, il Paese precipitava più a fondo nella crisi
economica.
Un abbraccio molto esitante.
Il 12 settembre 1989, il primo ministro polacco, Tadeusz Mazowiecki, si alzò per parlare davanti al
primo parlamento eletto democraticamente. I dirigenti di Solidarnosc avevano finalmente deciso cosa
fare per l'economia, ma solo una manciata di persone erano al corrente della decisione finale: sarebbe
stata il Piano Sachs, la via gradualista di Gorbaciov o la piattaforma Solidarnosc di cooperative dei
lavoratori?
Mazowiecki stava per annunciare il verdetto, ma a metà dello storico discorso, prima che potesse
affrontare la domanda fondamentale per il Paese, qualcosa andò molto storto. Iniziò a ondeggiare, si
aggrappò al leggio e, secondo un testimone, "divenne pallido, ansimò e lo sentirono mormorare:
"non mi sento molto bene". I suoi assistenti lo portarono fuori dall'aula, lasciando i 415 deputati a
scambiarsi voci di corridoio: un infarto? Oppure veleno? Avvelenato dai comunisti? Dagli americani?
Al piano di sotto, un team di medici esaminò Mazowiecki e lo sottopose a un elettrocardiogramma.
Non era infarto né avvelenamento. Il primo ministro soffriva semplicemente di "affaticamento acuto",
dovuto al poco sonno e al troppo stress. Dopo quasi un'ora di tesa incertezza, il primo ministro rientrò in
aula, dove fu accolto da un fragoroso applauso. "Scusatemi" disse l'intellettuale Mazowiecki. "Il mio
stato di salute è analogo allo stato dell'economia polacca."
E finalmente, il verdetto: l'economia polacca sarebbe stata curata per il suo affaticamento acuto con un
ciclo di shockterapia particolarmente radicale che avrebbe incluso "privatizzazione delle industrie
nazionali, la creazione di una Borsa e un mercato azionario, una valuta convertibile, e il passaggio
dall'industria pesante
alla produzione di beni di consumo", il tutto insieme a "tagli di bilancio" - il più presto possibile e tutto
in una volta.
Se il sogno di Solidarnosc era iniziato con l'energico balzo di Walesa oltre la recinzione d'acciaio a
Gdansk, allora l'esausto Mazowiecki che soccombe alla shockterapia rappresentava la fine di quel sogno.
In ultima analisi, la scelta dipese da una questione di soldi. Solidarnosc non decise che la sua visione di
un'economia gestita da cooperative era sbagliata, ma i leader si convinsero che la sola cosa importante
fosse ottenere una riduzione dei debiti contratti dai comunisti e stabilizzare immediatamente la valuta.
Come osservò all'epoca Henryk Wujec, uno tra i principali sostenitori delle cooperative in Polonia: "Se
avessimo abbastanza tempo, potremmo anche riuscire a cavarcela.
Ma non abbiamo tempo". Sachs, nel frattempo, poteva fornire il denaro. Aiutò la Polonia a negoziare un
accordo con il Fmi e assicurò una remissione parziale del debito, e un miliardo di dollari per stabilizzare
la valuta; ma poneva come condizione (in particolare per i fondi del Fmi) che Solidarnosc accettasse la
shockterapia.
La Polonia divenne un caso da manuale a conferma della teoria della crisi: il disorientamento provocato
dai mutamenti repentini e il terrore collettivo generato da un tracollo economico avevano reso la
promessa di una cura rapida e magica - per quanto illusoria - troppo seducente per rifiutarla.
Halina Bortnowska, un'attivista per i diritti umani, descrisse la velocità dei mutamenti in questo periodo
come "la differenza tra gli anni umani e gli anni canini, così viviamo di questi tempi [...]
Iniziamo ad assistere a reazioni semipsicotiche. Non ci si può più attendere che la gente agisca nel
proprio interesse quando è così disorientata che non sa più - o non le importa più - qual è
quell'interesse".
Balcerowicz, ministro delle Finanze, ha ammesso in seguito che capitalizzare sullo stato di emergenza era
stata una strategia voluta: un metodo, come tutte le tattiche di shock, per spazzar via l'opposizione. Spiegò
che gli era stato possibile implementare politiche antitetiche all'ideologia di Solidarnosc sia nella forma
sia nel contenuto, perché la Polonia si trovava "in una situazione politica fuori dall'ordinario". Descrisse
quella condizione come una temporanea finestra in cui le regole della "politica normale" (consultazioni,
discussioni, dibattito) non si applicavano; in altre parole, un'enclave non democratica all'interno di una
democrazia.'"
"Una situazione politica anomala" diceva "è per definizione un periodo di evidente discontinuità nella
storia di una nazione.
Potrebbe trattarsi di una fase di profonda crisi economica, del tracollo di un precedente sistema
istituzionale, o della liberazione da un dominio esterno (o la fine di una guerra). In Polonia, questi tre
fenomeni si verificarono contemporaneamente nel 1989." A causa delle circostanze straordinarie,
Balcerowicz fu in grado di aggirare le procedure regolari e forzare "un'accelerazione radicale del
processo legislativo" per far approvare il pacchetto relativo alla shockterapia.
Nei primi anni Novanta, la teoria di Balcerowicz sui periodi di "politica straordinaria" attrasse molto
interesse fra gli economisti di Washington. La cosa non era sorprendente: solo due mesi dopo l'annuncio
che la Polonia avrebbe accettato la shockterapia, accadde qualcosa che avrebbe cambiato il corso della
storia e avrebbe investito l'esperimento polacco di un significato universale. Nel novembre 1989, il Muro
di Berlino fu allegramente smantellato, la città si trasformò in un festival di possibilità e la bandiera di
Mtv fu issata sulle macerie, come se Berlino Est fosse la superficie della Luna. All'improvviso, il mondo
intero sembrò marciare alla stessa, frenetica velocità dei polacchi: l'Unione Sovietica era sull'orlo del
collasso, l'apartheid in Sudafrica sembrava avere i giorni contati, i regimi autoritari in America Latina,
Europa dell'Est e Asia crollavano uno dopo l'altro, e lunghe guerre - dalla Namibia al Libano volgevano al termine. Ovunque i vecchi regimi cadevano, e i nuovi che sorgevano al loro posto dovevano
ancora prendere forma.
Nel giro di pochi anni sembrò che mezzo mondo fosse piombato in un periodo di "politica straordinaria"
o fosse "in transizione", come erano chiamati i Paesi liberati negli anni Novanta: sospesi in un'incertezza
esistenziale tra passato e futuro. Secondo Thomas Carothers, figura di spicco nel cosiddetto apparato di
promozione della democrazia presso il governo Usa: "Nella prima metà degli anni Novanta [...] il gruppo
dei "Paesi in transizione" crebbe improvvisamente, e quasi 100 Paesi (circa 20 in America Latina, 25 in
Europa dell'Est e nell'ex Unione Sovietica, 30
nell'Africa subsahariana, 10 in Asia e 5 in Medioriente) si trovavano in un qualche genere di drastica
transizione da un modello a un altro".''
Molti sostenevano che questo flusso, e la caduta dei muri, reali e metaforici, avrebbe condotto alla fine
dell'ortodossia ideologica. Liberati dagli effetti polarizzanti delle superpotenze in lotta, i Paesi sarebbero
stati finalmente in grado di scegliere il meglio di entrambi i mondi; una sorta di ibrido tra libertà politica
e sicurezza economica. Nelle parole di Gorbaciov: "Molti decenni di obnubilamento dogmatico, di
approccio da manuale, hanno avuto il loro effetto. Oggi vogliamo introdurre uno spirito autenticamente
creativo".
Nei circoli della Scuola di Chicago, discorsi simili di ideologia fai-da-te incontravano aperto disprezzo.
La Polonia aveva mostrato chiaramente che quel tipo di transizione caotica apriva uno spiraglio perché
uomini decisi e in grado di agire in fretta potessero imporre cambiamenti repentini.
Quello era il momento di convertire i Paesi ex comunisti al friedmanismo puro, non a qualche
compromesso keynesiano meticcio. Per far ciò, come aveva detto Friedman, era necessario che gli adepti
della Scuola di Chicago fossero pronti con le loro soluzioni quando tutti gli altri stavano ancora facendo
domande e cercando di rimettersi in equilibrio.
Una sorta di rimpatriata per coloro i quali avevano abbracciato questa visione del mondo si svolse in
quel concitato inverno del 1989. Il luogo era dei più adatti: l'Università di Chicago. L'occasione fu una
conferenza di Francis Fukuyama, dal titolo: Ci stiamo avvicinando alla fine della storia?. Per Fukuyama,
allora consulente politico d'alto rango al dipartimento di Stato americano, la strategia del movimento
neoliberale era chiara: non dibattere con i teorici della terza via; piuttosto, dichiarare vittoria prima di
aver vinto. Fukuyama era convinto che non ci sarebbe stato abbandono degli estremismi, disse
all'uditorio, niente "meglio dei due mondi", niente compromessi. Il collasso del comunismo non stava
conducendo a "una fine delle ideologie o a una convergenza tra capitalismo e socialismo [...] ma a una
schiacciante vittoria del liberalismo economico e politico". Non era l'ideologia a essere finita, ma "la
storia in sé".'
La conferenza era sponsorizzata da John M. Olin, da tempo finanziatore della crociata ideologica di
Milton Friedman e sovvenzionatore del boom nei think tanks di destra. La sinergia era perfetta, dato che
Fukuyama stava essenzialmente ripetendo l'affermazione di Friedman per cui i mercati liberi e i popoli
liberi sarebbero inseparabili. Fukuyama condusse quella tesi su territori audacemente nuovi, sostenendo
che la deregolamentazione dei mercati nella sfera economica combinata con la liberaldemocrazia nella
sfera politica rappresentava "il punto d'arrivo dell'evoluzione ideologica dell'umanità e [...] la forma
ultima di governo umano". Democrazia e capitalismo radicale erano inestricabilmente fusi non solo l'uno
con l'altro, ma anche con la modernità, il progresso e le riforme. Chi aveva da obiettare alla formula non
solo era in errore, ma era "ancora nella storia", secondo Fukuyama: l'equivalente di restare sulla terra
dopo il rapimento in cielo, quando tutti gli altri hanno già trasceso questo mondo verso un piano
"poststorico" celestiale.
Si trattava di un magnifico esempio di quell'arte di evitare la democrazia che la Scuola di Chicago aveva
perfezionato. Come il Fmi aveva introdotto privatizzazioni e "libero scambio" in America Latina e Africa
con il pretesto di programmi di stabilizzazione "di emergenza", Fukuyama ora stava cercando di far
passare le stesse controverse riforme politiche nei potenti movimenti democratici che sorgevano da
Varsavia a Manila. Era vero, come sosteneva Fukuyama, che c'era un consenso sempre maggiore e
irrefrenabile sul fatto che tutti i cittadini avessero diritto di governarsi democraticamente; ma solo nelle
più sfrenate fantasie del dipartimento di Stato quel desiderio di democrazia era accompagnato dalla
richiesta di un sistema economico che avrebbe strappato ai cittadini le tutele sociali e provocato
licenziamenti in massa.
Su una cosa erano tutti d'accordo: per le persone sfuggite alle dittature (sia di destra sia di sinistra),
democrazia significava avere finalmente voce in capitolo nelle più importanti decisioni di governo,
anziché subire l'imposizione, unilaterale e forzata, dell'ideologia di qualcun altro. In altre parole, il
principio universale che Fukuyama identificava con "la sovranità popolare" includeva il diritto per il
popolo di scegliere come la ricchezza dei propri Paesi dovesse essere distribuita, dalla sorte delle
aziende statali al livello di finanziamenti per scuole e ospedali. In tutto il mondo, i cittadini erano pronti a
esercitare i loro poteri democratici, conquistati con fatica, per diventare finalmente padroni del destino
delle loro nazioni.
Nel 1989, la storia stava prendendo una piega nuova ed emozionante, un momento di pura possibilità e
apertura, e fu precisamente quello il momento che Fukuyama, appollaiato in attesa al dipartimento di
Stato, scelse per chiudere con forza il libro della storia. Né fu un caso che la Banca Mondiale e il Fmi
scelsero di annunciare il Consenso di Washington in quello stesso anno: un chiaro tentativo di bloccare
ogni dibattito sui temi economici al di fuori della cassaforte del libero mercato. Erano strategie di
contenimento della democrazia, progettate per frenare e restringere il perimetro dell'autodeterminazione
che da sempre era stata la minaccia più grave per la crociata della Scuola di Chicago.
Lo shock di piazza Tienanmen.
L'audace pronunciamento di Fukuyama fu ben presto dimostrato falso in Cina. La conferenza di Fukuyama
si svolse nel febbraio 1989; due mesi dopo, un movimento filodemocratico esplose a Pechino, con
proteste di massa e sit-in in piazza Tienanmen. Fukuyama sosteneva che la democrazia e "le riforme
liberiste" erano due processi strettamente legati, inscindibili. Eppure in Cina, il governo aveva fatto
esattamente questo: si sforzava di deregolamentare salari e prezzi e di espandere la portata del mercato,
ma era deciso a resistere alle richieste di elezioni e libertà civili. I dimostranti, d'altra parte, chiedevano
democrazia, ma molti si opponevano fermamente alle riforme capitalistiche del governo, un fatto quasi
universalmente trascurato dalla stampa occidentale. In Cina, democrazia e liberismo non andavano a
braccetto: erano da parti opposte della barricata che proteggeva piazza Tienanmen,
Nei primi anni Ottanta, il governo cinese guidato da Deng Xiaoping era deciso a scongiurare il ripetersi
di quanto era accaduto in Polonia, dove ai lavoratori era stato concesso di creare un movimento
indipendente che aveva sfidato il potere monopolistico del partito unico. Non che i leader cinesi fossero
desiderosi di proteggere le fabbriche e le fattorie statali che costituivano le fondamenta dello Stato
comunista. Anzi, Deng era così deciso a trasformare il Paese in un'economia basata sulle imprese che nel
1980 il suo governo aveva invitato Milton Friedman in Cina per tenere corsi a centinaia di funzionari
statali di alto livello sui fondamenti della teoria liberista. "Tutti i presenti dovevano mostrare un biglietto
d'invito per entrare" ricordò Friedman delle sue udienze a Pechino e Shanghai. Il messaggio centrale
delle sue lezioni sottolineava "come le persone normali vivessero molto meglio nei Paesi capitalisti che
in quelli comunisti". Portava come esempio Hong Kong, area di capitalismo puro che Friedman ammirava
da tempo per il suo "carattere dinamico e innovativo che è stato prodotto dalla libertà personale, dal
libero scambio, da imposte basse e scarsissimo intervento del governo". Sosteneva che Hong Kong, pur
non avendo una democrazia, era più libera degli Stati Uniti, dal momento che il suo governo interferiva
meno nell'economia.
La definizione friedmaniana di libertà, in cui la libertà politica era secondaria, persino non necessaria,
rispetto alla libertà di attività economica illimitata, si armonizzava con la visione che stava prendendo
piede nel Politburo cinese. Il partito voleva aprire l'economia alle proprietà e al consumismo privati,
tuttavia mantenendo saldamente il proprio potere; il che voleva dire che sarebbero stati i funzionari di
partito e i loro familiari a ottenere i contratti migliori e a raccogliere i profitti una volta che le risorse
statali fossero state messe all'asta. Secondo questa idea di
"transizione", le stesse persone che controllavano lo Stato sotto il comunismo l'avrebbero controllato
sotto il capitalismo, godendosi peraltro un sostanzioso aumento del tenore di vita. Il modello che il
governo cinese voleva emulare non erano gli Stati Uniti, ma qualcosa di molto più vicino al Cile di
Pinochet: liberi mercati e controllo autoritario, garantito dalla repressione dei lavoratori, attuata con
pugno di ferro.
Fin dall'inizio, Deng comprese chiaramente che la repressione sarebbe stata un elemento cruciale.
Sotto Mao, lo Stato cinese aveva esercitato un controllo assoluto sul popolo, sbarazzandosi degli
oppositori e mandando i dissidenti nei campi di rieducazione. Ma la repressione di Mao fu condotta in
nome dei lavoratori e contro la borghesia: ora il partito avrebbe lanciato la propria controrivoluzione e
avrebbe chiesto ai lavoratori di rinunciare alla propria sicurezza perché una minoranza potesse trarne
enormi profitti. Non sarebbe stata un'impresa facile. Dunque, nel 1983, mentre Deng apriva il Paese agli
investimenti esteri e riduceva le tutele per i lavoratori, ordinò anche la creazione di una nuova Polizia
armata del Popolo, composta da 400.000 unità, una squadra antisommossa itinerante incaricata di far
piazza pulita di ogni segno di "crimini economici"
(ovvero, scioperi e proteste). Secondo lo storico della Cina Maurice Meisner, "la Polizia armata del
Popolo aveva nel proprio arsenale elicotteri americani e pungoli elettrici per il bestiame". E "diverse
unità furono inviate in Polonia per addestramenti antisommossa": lì studiarono le tattiche che erano state
usate contro Solidarnosc durante la legge marziale.
Molte delle riforme di Deng ottennero successo e consenso: i contadini ebbero più controllo sulle proprie
vite; il commercio tornò nelle città. Ma alla fine degli anni Ottanta, Deng iniziò a introdurre misure
decisamente impopolari, soprattutto tra i lavoratori delle città: i controlli sui prezzi furono eliminati, e i
prezzi aumentarono esponenzialmente; la sicurezza lavorativa non fu più garantita, e si verificarono
ondate di disoccupazione; profonde ineguaglianze si stavano palesando tra i vincitori e i perdenti nella
nuova Cina. Nel 1988 il partito dovette affrontare una reazione violenta e fu costretto a reintrodurre
alcuni controlli sui prezzi. A creare scandalo erano anche la corruzione e il nepotismo diffusi nel partito.
Molti cittadini cinesi volevano più libertà nel mercato, ma il termine
"riforme" iniziò a sembrare una parola in codice per indicare la trasformazione dei funzionari di partito
in magnati, dato che molti di loro si appropriavano illegalmente dei beni che in precedenza avevano
amministrato come burocrati.
L'esperimento liberista rischiava di fallire, e Milton Friedman fu nuovamente invitato a visitare la Cina:
esattamente come quando, nel 1975, i Chicago Boys e i piranha avevano chiesto il suo aiuto, allorché il
loro programma aveva provocato una rivolta interna in Cile." Una visita di alto profilo del celebre guru
del capitalismo era proprio l'incoraggiamento di cui i "riformatori" sentivano l'esigenza.
Quando Friedman e sua moglie Rose giunsero a Shanghai nel settembre 1988, restarono meravigliati nel
vedere con quanta rapidità la Cina continentale stava iniziando ad assomigliare a Hong Kong. Nonostante
la rabbia che montava nella base del partito, tutto ciò che videro confermò
"la nostra fede nel potere dei liberi mercati". Friedman descrisse questo momento come "il periodo più
ricco di speranza nella storia dell'esperimento cinese".
Alla presenza dei mass media ufficiali di Stato, Friedman parlò per due ore con Zhao Ziyang, segretario
generale del partito comunista, e con Jiang Zemin, segretario di partito del Comitato Shanghai e futuro
presidente della Cina. Il messaggio di Friedman a Jiang echeggiava i consigli dati a Pinochet quando il
progetto cileno stava fallendo: non piegarsi alle pressioni, e non esitare. "Posi l'accento sull'importanza
della privatizzazione e del libero mercato, e di implementare le liberalizzazioni tutte in un colpo solo"
ricordò poi. In un memorandum per il segretario generale del partito comunista, Friedman sottolineò che
c'era bisogno di più shockterapia, non meno. "I primi passi della Cina verso la riforma hanno avuto
grande successo. La Cina potrà progredire ulteriormente se farà affidamento, ancor più di quanto faccia
oggi, sui liberi mercati privati."
Poco dopo il suo ritorno negli Stati Uniti Friedman, che ben ricordava le polemiche suscitate dal proprio
ruolo di consigliere per Pinochet, scrisse "per pura cattiveria" al direttore di un giornale universitario, in
cui denunciava la duplicità dei suoi critici.
Spiegò di aver passato solo dodici giorni in Cina, e di essere stato "ospite di enti governativi", e di aver
incontrato funzionari del partito comunista ai massimi livelli gerarchici. Eppure questi incontri non
avevano indignato gli attivisti per i diritti umani nei campus universitari americani, fece notare Friedman.
"Tra parentesi, ho dato esattamente gli stessi consigli al Cile e alla Cina." Concludeva chiedendo con
sarcasmo: "Dovrei attendermi una valanga di proteste, per aver voluto consigliare un governo così
malvagio?".
Qualche mese dopo, quella lettera "cattiva" assunse significati sinistri, quando il governo cinese iniziò a
emulare alla lettera molte delle più famigerate tattiche di Pinochet.
Il viaggio di Friedman non sortì i risultati sperati. Le foto che apparvero sui quotidiani ufficiali, nelle
quali il professore dà la sua benedizione ai burocrati di partito, non bastarono a garantirgli il favore
dell'opinione pubblica. Nei mesi successivi le proteste divennero più decise e radicali. I simboli più
vistosi dell'opposizione erano le dimostrazioni organizzate dagli studenti in sciopero in piazza
Tienanmen. Queste storiche manifestazioni erano rappresentate da quasi tutti i media internazionali come
uno scontro fra studenti moderni e idealisti che volevano le libertà democratiche di stampo occidentale, e
gli autoritari della vecchia guardia che volevano proteggere lo Stato comunista. Di recente è emersa
un'altra versione del significato di Tienanmen: una visione che sfida i cliché diffusi, e mette il
friedmanismo al centro della storia. Questa versione alternativa è portata avanti, tra gli altri, da Wang
Hui, uno degli organizzatori delle proteste del 1989, oggi un importante intellettuale che sta a capo di
quella che in Cina è detta la "Nuova Sinistra". Nel suo libro del 2003, Il nuovo ordine cinese, Wang
spiega che i manifestanti appartenevano a una vasta gamma di classi sociali: non solo ricchi studenti
universitari, ma anche operai, piccoli imprenditori e insegnanti. A scatenare la protesta, dice, fu lo
scontento popolare rispetto ai "rivoluzionari"
cambiamenti introdotti da Deng nell'economia, che avevano provocato l'abbassamento dei salari,
l'aumento dei prezzi e "una crisi di licenziamenti e disoccupazione". Secondo Wang, "questi cambiamenti
furono all'origine della mobilitazione sociale del 1989".
Le proteste non erano rivolte contro la riforma economica in sé; si opponevano alla specifica natura
friedmaniana delle riforme: la loro rapidità e crudeltà, e il fatto che il processo fosse profondamente
antidemocratico. Wang sostiene che la richiesta di elezioni e libertà di espressione era intimamente
connessa a questo dissenso economico. Ciò che spingeva la pretesa di democrazia era il fatto che il
partito stava imponendo riforme di portata rivoluzionaria senza il consenso del popolo. C'era, scrive,
"una richiesta generalizzata di mezzi democratici per supervisionare la regolarità dei processi di riforma
e la riorganizzazione delle indennità sociali".
Queste richieste costrinsero il Politburo a compiere una scelta netta. Non si trattava, come molti hanno
sostenuto, di scegliere tra democrazia e comunismo, o tra "riforma" e "vecchia guardia". Era un calcolo
più complesso: il partito doveva continuare la marcia inarrestabile della sempre più impopolare
rivoluzione liberista, cosa che avrebbe potuto fare solo a patto di calpestare i manifestanti? Oppure
doveva piegarsi alle richieste democratiche del popolo, cedere il monopolio del potere, rischiando così
di rallentare sensibilmente l'applicazione del progetto economico?
Alcuni riformatori liberisti all'interno del partito, in particolare il segretario generale Zhao Ziyang,
sembravano disponibili a scommettere sulla democrazia, convinti che le riforme politiche e quelle
economiche potessero ancora essere compatibili. Elementi più influenti del partito, invece, non erano
disposti a rischiare. Il verdetto arrivò: lo Stato avrebbe protetto il suo programma di "riforma"
economica schiacciando i dimostranti.
Era questo il chiaro messaggio allorché, il 20 maggio 1989, il governo della Repubblica popolare cinese
dichiarò la legge marziale. Il 3 giugno, i carri armati dell'Esercito di liberazione popolare raggiunsero i
dimostranti, sparando sulla folla. I soldati salirono sugli autobus dove gli studenti si erano rifugiati e li
presero a bastonate; altre truppe oltrepassarono le barricate che proteggevano piazza Tienanmen, dove gli
studenti avevano eretto una statua alla Dea della Democrazia, e radunarono gli organizzatori. Azioni
militari analoghe si svolsero simultaneamente in tutto il Paese.
Non ci saranno mai stime attendibili del numero di morti e feriti. Il partito ammette che furono centinaia,
e testimoni oculari all'epoca parlavano di cifre oscillanti tra i duemila e i settemila morti, e fino a
trentamila feriti. Alle proteste seguì una caccia alle streghe su scala nazionale, rivolta contro tutti i critici
e gli oppositori del regime. Furono arrestate circa quarantamila persone, migliaia finirono in carcere e
molte - forse centinaia - furono giustiziate. Come in America Latina, il governo riservò la repressione più
dura agli operai che rappresentavano la minaccia più diretta alla rivoluzione economica. "La maggior
parte degli arrestati, e praticamente tutti i giustiziati, erano lavoratori. Con l'evidente scopo di
terrorizzare la popolazione, divenne un'abitudine tristemente nota quella di sottoporre sistematicamente
gli individui arrestati a pestaggi e torture" scrive Maurice Meisner.
Il massacro fu letto da quasi tutta la stampa occidentale come l'ennesimo esempio di brutalità comunista:
come Mao aveva spazzato via le opposizioni durante la Rivoluzione culturale, così ora Deng, "il
macellaio di Pechino", marciava sulle opposizioni sotto l'occhio vigile del gigantesco ritratto di Mao. Un
titolo del "Wall Street Journal" sosteneva che "Le dure azioni della Cina minacciano di ribaltare gli esiti
dei dieci anni di riforme": come se Deng fosse un nemico di quelle riforme e non il più strenuo difensore,
deciso com'era a condurle in territori ancora inesplorati.
Nota: Deng aveva paladini interessanti. Dopo il massacro, Henry Kissinger scrisse un editoriale in cui
sosteneva che il partito non aveva avuto scelta. "Nessun governo al mondo avrebbe tollerato che la
piazza principale della nazione fosse occupata per otto settimane da decine di migliaia di dimostranti [...]
Una reazione violenta era dunque inevitabile."
Cinque giorni dopo la sanguinosa risposta militare, Deng si rivolse alla nazione, affermando a chiare
lettere che non stava proteggendo il comunismo, ma il capitalismo. Dopo aver liquidato i manifestanti
come "un'ampia rappresentanza della feccia della società", il presidente cinese riaffermò l'impegno del
partito per la shockterapia economica. "In una parola, questo era un test, e noi l'abbiamo superato" disse
Deng, e aggiunse: "Forse questo evento spiacevole ci permetterà di proseguire con le riforme e con la
politica della porta aperta, a un ritmo più stabile, migliore, forse anche più sostenuto [...] Non ci siamo
sbagliati. Non c'è niente di sbagliato nei quattro principi cardinali [della riforma economica]. Il
problema, semmai, è che quei principi non sono stati pienamente applicati".
Orville Schell, sinologo e giornalista, riassunse così la scelta di Deng Xiao Ping: "Dopo il massacro del
1989, di fatto egli disse: non fermeremo la riforma economica; fermeremo la riforma politica".
Per Deng e il resto del Politburo, le possibilità del liberismo erano adesso illimitate. Come il terrore di
Pinochet aveva spianato la strada al cambiamento rivoluzionario, così Tienanmen spianò la strada per
una trasformazione radicale, libera dalla paura della ribellione. Se per contadini e operai la vita si
faceva più dura, avrebbero dovuto accettare la cosa in silenzio, o affrontare l'ira dell'esercito e della
polizia segreta. E così, con l'opinione pubblica in uno stato di puro terrore, Deng impose con la forza le
riforme più radicali.
Prima di Tienanmen, era stato costretto a smussare le asperità delle riforme più dolorose; tre mesi dopo
il massacro, le rimise al loro posto, e mise in pratica le altre raccomandazioni di Friedman, compresa la
deregolamentazione dei prezzi. Per Wang Hui, c'è un motivo evidente per il quale "le riforme del
mercato, che non erano state applicate nei tardi anni Ottanta, riapparvero complete nell'ambiente post1989"; la ragione, scrive, "è che la violenza del 1989 riuscì a frenare il sommovimento popolare
provocato da questo processo, e il nuovo sistema dei prezzi potè finalmente prendere forma". Fu lo shock
del massacro, in altri termini, a rendere possibile la shockterapia.
Nei tre anni successivi al massacro, la Cina spalancò le porte agli investimenti stranieri, e speciali zone
di libera esportazione sorsero in tutto il Paese. Mentre annunciava queste iniziative, Deng ricordò al
Paese che "se necessario, ogni mezzo possibile sarà adottato in futuro per soffocare sul nascere eventuali
disordini. Potrà essere introdotta la legge marziale, o provvedimenti ancor più severi".
Questa ondata di riforme trasformò la Cina in un'enorme fabbrica per lo sfruttamento della manodopera,
la meta preferita da quasi tutte le multinazionali del pianeta. Nessun altro Paese offriva condizioni più
convenienti: tasse e tariffe basse, funzionari corruttibili e, soprattutto, abbondante forza lavoro
sottopagata che per molti anni avrebbe esitato a richiedere salari decenti o semplicemente le minime
tutele di sicurezza, per paura di violente rappresaglie.
Per gli investitori stranieri e per il partito, è stata la soluzione ideale. Secondo uno studio del 2006, il 90
per cento dei miliardari cinesi (calcolati sullo yuan cinese) sono figli di funzionari del partito comunista.
Circa 2900 di questi rampolli di partito noti come "i principini" - controllano 260
miliardi di dollari."
Nota: come nota l'antropologo della New York University David Harvey, fu solo dopo Tienanmen,
quando Deng intraprese il suo famoso "tour nel Sud" della Cina, "che il governo centrale impiegò tutta la
propria forza nell'aprire il commercio estero e gli investimenti diretti esteri".
È il classico Stato corporativo, già visto all'opera in Cile sotto Pinochet: un intreccio di interessi fra le
élite aziendali e politiche, che uniscono le forze contro i lavoratori come in una forza politica
organizzata. Oggi è possibile vedere questa collaborazione manifesta nel modo in cui le multinazionali
del settore tecnologico e dell'informazione aiutano lo Stato cinese a spiare i propri cittadini, accertandosi
che quando immettono in internet frasi come "massacro di piazza Tienanmen" o persino "democrazia", la
ricerca non dia risultati. "La creazione dell'attuale società di mercato non è stata l'esito di una sequenza
di eventi spontanei" scrive Wang Hui "ma piuttosto di interferenza e violenza da parte dello Stato."
Una delle verità messe in luce da Tienanmen fu la profonda affinità fra le tattiche del comunismo
autoritario e il capitalismo della Scuola di Chicago: li univa la volontà di far sparire gli oppositori, di far
tabula rasa di ogni resistenza, e ricominciare da capo.
Sebbene il massacro fosse avvenuto appena qualche mese dopo il suo suggerimento ai funzionari cinesi
di imporre politiche liberiste dolorose e impopolari, Friedman non affrontò mai "una valanga di proteste,
per aver voluto consigliare un governo così malvagio". E come al solito, non vedeva connessioni tra i
consigli che aveva dato e la violenza necessaria per tradurli in pratica. Pur condannando l'uso della
repressione da parte del governo cinese, Friedman continuò a considerare la Cina un esempio
"dell'efficacia del libero mercato nel promuovere prosperità e libertà".
Per una strana coincidenza, il massacro di piazza Tienanmen ebbe luogo lo stesso giorno in cui si
consumò la storica vittoria elettorale di Solidarnosc in Polonia: il 4 giugno 1989. In un certo senso, si
trattava di due esempi molto diversi della dottrina dello shock. Entrambi i Paesi avevano dovuto sfruttare
lo shock e la paura per applicare una trasformazione liberista. In Cina, dove lo Stato usò apertamente il
terrore, la tortura e l'omicidio, il risultato fu, dal punto di vista del mercato, un totale successo. In
Polonia, dove furono sfruttati solo lo shock della crisi economica e la rapidità dei mutamenti - e non ci fu
violenza aperta - gli effetti dello shock finirono per esaurirsi, e i risultati furono molto più ambigui.
In Polonia, la shockterapia fu imposta in seguito alle elezioni; ma fu una parodia del processo
democratico, perché in diretto conflitto con i desideri della stragrande maggioranza degli elettori che
avevano votato per Solidarnosc. Ancora nel 1992, il 60 per cento dei polacchi era contrario alla
privatizzazione dell'industria pesante. In difesa delle proprie azioni, Sachs sostenne di non aver avuto
scelta, paragonando il suo ruolo a quello di un chirurgo in una sala operatoria. "Quando un paziente
arriva al pronto soccorso con il cuore fermo, bisogna aprirgli lo sterno e non puoi preoccuparti delle
cicatrici che lascerai", disse. "La cosa importante è far sì che il suo cuore ricominci a battere. E per farlo
devi spargere sangue ovunque. Ma non hai scelta."
Ma una volta risvegliati dall'anestesia, i polacchi avevano domande da porre, sia sul medico sia sulla
terapia. La shockterapia in Polonia non provocò le "momentanee dislocazioni" che Sachs aveva previsto.
Provocò una vera e propria depressione: la produzione industriale calò del 30 per cento nei due anni
successivi allo shock. La disoccupazione salì alle stelle, e nel 1993 raggiunse il 25 per cento in alcune
aree: mutamento drammatico per un Paese in cui, sotto il comunismo, nonostante tutti gli abusi e le
difficoltà, i disoccupati praticamente non esistevano. Anche quando l'economia ricominciò a crescere,
l'alto tasso di disoccupazione restò cronico. Secondo le cifre più recenti diffuse dalla Banca mondiale, la
Polonia ha un tasso di disoccupazione del 20 per cento: il più alto dell'intera Unione Europea. Molto
peggio va ai ragazzi sotto i 24 anni: il 40 per cento dei giovani erano disoccupati nel 2006, il doppio
della media europea. Le cifre più drammatiche sono quelle che riguardano la povertà: nel 1989, il 15 per
cento della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà; nel 2003, era nelle stesse condizioni il
59 per cento dei polacchi. La shockterapia, che erodeva le tutele dei lavoratori e rendeva molto più
costosa la vita quotidiana, non stava portando la Polonia a diventare un "normale" Paese europeo, con
tutele forti e generosi benefici sociali; ma conduceva alle stesse stridenti disparità che hanno
accompagnato la controrivoluzione ovunque essa abbia trionfato, dal Cile alla Cina.
Il fatto che fosse Solidarnosc, il partito costruito dagli operai polacchi, a supervisionare la creazione di
questo sottoproletariato permanente rappresentò un amaro tradimento, che generò profondo cinismo e
rabbia nel Paese, una rabbia e un cinismo che non sarebbero mai svaniti del tutto. I leader di Solidarnosc
tendono a glissare sulle radici socialiste del partito. Walesa oggi sostiene che già nel 1980 sapeva che
avrebbero dovuto "costruire il capitalismo". Karol Modzelewski, militante di Solidarnosc e intellettuale
che ha trascorso otto anni e mezzo nelle carceri comuniste, ribatte con rabbia: "Non avrei passato una
settimana né un
mese, figuriamoci otto anni e mezzo, in prigione per il bene del capitalismo!".''
Per il primo anno e mezzo del governo Solidarnosc, i lavoratori credettero ai loro eroi quando
assicuravano che il dolore era temporaneo, una tappa necessaria del cammino che avrebbe portato la
Polonia a far parte dell'Europa moderna. Anche di fronte alla disoccupazione crescente, organizzarono
solo una manciata di scioperi, e restarono in paziente attesa che iniziasse la fase terapeutica della
shockterapia. Quando il miglioramento promesso non sopraggiunse, almeno non sotto forma di posti di
lavoro, i membri di Solidarnosc erano terribilmente confusi: com'era possibile che il loro stesso
movimento avesse generato uno standard di vita peggiore di quello che c'era sotto il comunismo? "
[Solidarnosc] mi difese nel 1981 quando fondai un comitato sindacale"
racconta un muratore di quarantun anni. "Ma quando sono tornato a chiedere aiuto, mi hanno detto che
devo soffrire per il bene delle riforme."
A un anno e mezzo circa dall'inizio del periodo di "politica straordinaria" in Polonia, la base di
Solidarnosc ne aveva abbastanza; chiese dunque che si ponesse fine all'esperimento. L'estrema
disaffezione si manifestò con un marcato aumento del numero di scioperi: nel 1990, quando ancora i
lavoratori davano carta bianca a Solidarnosc, ci furono solo 250 scioperi; nel 1992 ce ne furono oltre
6000. Di fronte a questa pressione dal basso, il governo fu costretto a frenare i suoi ambiziosi progetti di
privatizzazione. Alla fine del 1993 - anno in cui si verificarono quasi 7500 scioperi - il 62 per cento
dell'industria polacca era ancora pubblico.
Il fatto che i lavoratori polacchi fossero riusciti a fermare la privatizzazione all'ingrosso del loro Paese
significa che le riforme, per quanto fossero dolorose, avrebbero potuto essere molto peggiori.
L'ondata di scioperi salvò certamente centinaia di migliaia di posti di lavoro che altrimenti sarebbero
stati persi se queste aziende apparentemente inefficienti avessero chiuso o fossero state drasticamente
ridimensionate e svendute. È interessante notare che l'economia polacca iniziò a crescere rapidamente in
questo stesso periodo; il che dimostra, secondo l'importante economista polacco (nonché ex membro di
Solidarnosc) Tadeusz Kowalik, che coloro i quali erano pronti a definire inefficienti e arcaiche le
imprese statali "evidentemente si sbagliavano".
Oltre a scioperare, i lavoratori polacchi trovarono un altro modo per esprimere la propria rabbia nei
riguardi degli ex alleati di
Solidarnosc: usarono la democrazia per cui avevano combattuto per infliggere alle urne una punizione
decisiva al partito, compreso il leader un tempo amato, Lech Walesa. La sconfitta più grave giunse il 19
settembre 1993, quando una coalizione di sinistra che comprendeva i comunisti un tempo al potere (e ora
ribattezzati Alleanza democratica della sinistra) vinse il 66 per cento dei seggi in parlamento.
Solidarnosc a questo punto si era frantumata in fazioni rivali. La fazione sindacale ottenne meno del 5 per
cento, perdendo lo status di partito ufficiale, e un nuovo partito guidato da Mazowiecki, il primo ministro,
prese solo il 10,6 per cento: una sonora batosta per la shockterapia.
Eppure negli anni seguenti, in qualche modo, mentre dozzine di Paesi si chiedevano come riformare le
loro economie, questi scomodi dettagli - gli scioperi, gli insuccessi elettorali, i rovesciamenti di politica
- sarebbero andati perduti. Invece, la Polonia sarebbe stata presa a modello, a riprova che il
neoliberismo può essere applicato in modo democratico e pacifico.
Come tante altre storie di Paesi in transizione, anche questa era in gran parte un mito. Ma era meglio della
verità, e la verità era che in Polonia la democrazia era stata usata come arma contro il libero mercato
nelle strade e alle urne. Mentre in Cina, dove la spinta al capitalismo sfrenato rovesciò la democrazia in
piazza Tienanmen, lo shock e il terrore non fecero che scatenare uno dei più redditizi e prolungati boom
di investimenti nella storia moderna. Un altro miracolo nato da un massacro.
10.
Democrazia nata in catene.
La libertà vigilata del Sudafrica.
Riconciliazione significa che chi si è trovato dal lato sbagliato della storia deve comprendere che
esiste una differenza qualitativa tra repressione e libertà. E per loro, libertà significa avere accesso
ad acqua pulita ed elettricità; poter vivere in una casa decente e avere un buon lavoro; poter mandare
a scuola i propri figli e poter accedere all'assistenza sanitaria. Voglio dire, a che serve aver fatto
questa transizione, se la qualità della vita di questa gente non migliora? Altrimenti, il voto è inutile.
Arcivescovo Desmond Tutu, presidente della Commissione per la verità e la riconciliazione in
Sudafrica, 2001.
Prima di trasferire il potere, il Partito nazionalista vuole evirarlo. Sta cercando di negoziare una
sorta di scambio: rinuncerà al diritto di governare il Paese a modo proprio, in cambio del diritto di
impedire ai neri di governare a modo loro.
Allister Sparks, giornalista sudafricano.
Nel gennaio 1990, Nelson Mandela, settantun anni, si sedette nella sua cella per scrivere un messaggio
rivolto ai suoi sostenitori fuori dal carcere. Era sua intenzione sedare una disputa, chiarendo se i
ventisette anni trascorsi dietro le sbarre, la maggior parte dei quali passati sull'isola di Robben, al largo
delle coste di Città del Capo, avessero o meno indebolito l'impegno del leader per la trasformazione
economica dello Stato di apartheid in Sudafrica.
Il messaggio conteneva solo due frasi, e bastò a chiarire la questione: "La nazionalizzazione delle
miniere, delle banche e delle industrie monopolistiche è la linea politica dell'African National Congress
(Ane), e un mutamento o una modifica delle nostre posizioni su questo punto è inconcepibile. Il
conferimento di potere economico ai neri è un obiettivo che appoggiamo e incoraggiamo pienamente, ma
nella nostra situazione il controllo statale di certi settori dell'economia è inevitabile".'
La storia, come si scoprì, non era ancora finita, come aveva decretato Fukuyama. In Sudafrica, la più
grande economia del continente africano, sembrava che alcune persone fossero ancora convinte che la
libertà comprendesse anche il diritto di rivendicare e redistribuire le ricchezze accumulate
disonestamente dai loro oppressori.
Quella convinzione aveva costituito la base della linea politica dell'Anc per trentacinque anni, da quando
era stata enunciata in un documento di intenti: la Freedom Charter, la Carta delle libertà. La storia di
questo statuto, in Sudafrica, si perde nel folklore, e per ottimi motivi. Il processo era iniziato nel 1955,
quando il partito aveva inviato cinquantamila volontari nelle townships e nelle campagne. Il loro compito
era raccogliere "richieste di libertà" dal popolo: la loro visione di un mondo post-apartheid in cui tutti i
sudafricani avessero pari diritti. Le richieste arrivarono, scritte a mano su pezzi di carta: "Che sia data
terra a chi non ne ha", "Salari di sussistenza e orari di lavoro ridotti", "Istruzione gratuita e obbligatoria,
indipendente dal colore, dalla razza e dalla nazionalità",
"Diritto di residenza e libertà di movimento" e molto altro." I leader dell'Anc sintetizzarono le richieste
in un documento, che fu adottato ufficialmente il 26 giugno 1955, presso il Congresso del popolo a
Kliptown, una township che fungeva da "zona-cuscinetto" per proteggere i residenti bianchi di
Johannesburg dalle masse brulicanti di Soweto. Circa tremila delegati neri, indiani, coloured e alcuni
bianchi - sedettero insieme in un campo per votare i contenuti del documento.
Stando al resoconto dello storico incontro di Kliptown fornito da Nelson Mandela, "la Carta fu letta ad
alta voce, paragrafo per paragrafo, in inglese, sesotho e xhosa. Dopo ogni paragrafo la folla faceva udire
la sua approvazione gridando Afrikan e Mayihuye X"? La prima coraggiosa richiesta della Freedom
Charter recita: "Il popolo governerà!".
Era la metà degli anni Cinquanta, e quel sogno non si sarebbe avverato per molti decenni ancora. Il
secondo giorno del congresso, la riunione fu interrotta bruscamente dalla polizia, per la quale i delegati
stavano complottando un tradimento.
Per trent'anni, il governo sudafricano, dominato dagli afrikaner bianchi e dai britannici, tenne fuorilegge
l'Anc e gli altri partiti politici che cercavano di porre fine all'apartheid. Per tutto il periodo di intensa
repressione, la Freedom Charter continuò a circolare, passando di mano in mano nella clandestinità
rivoluzionaria, e rimase immutata la sua capacità di ispirare speranza e resistenza. Negli anni Ottanta, fu
ripreso da una nuova generazione di giovani militanti che era emersa nelle townships. Stanchi di
pazientare e comportarsi bene, e pronti a fare tutto il necessario per rovesciare il dominio dei bianchi, i
giovani radicali impressionarono i loro stessi genitori con il loro coraggio. Scesero in piazza senza
illusioni, cantando: "Né i proiettili né il gas lacrimogeno ci fermeranno". Affrontarono un massacro dopo
l'altro, seppellirono gli amici, continuarono a cantare e continuarono ad aumentare di numero. Quando si
chiedeva ai militanti contro cosa combattessero, rispondevano: L'"apartheid" o il "razzismo"; se si
chiedeva loro a favore di cosa combattessero, molti rispondevano la "libertà", e spesso la "Freedom
Charter".
La Carta rivendica il diritto al lavoro, a un alloggio decente, alla libertà di pensiero e, cosa più radicale,
a una fetta delle risorse del più ricco Paese africano, che possiede, fra gli altri tesori, il più grande
bacino aurifero del mondo. "La ricchezza nazionale del nostro Paese, il patrimonio dei sudafricani, sarà
restituita al popolo; la ricchezza mineraria, le banche e le industrie monopolistiche saranno trasferite
nelle mani del popolo come entità unitaria; tutte le altre industrie e attività commerciali saranno
controllate per assicurare il benessere del popolo" afferma il documento.
All'epoca della stesura della Freedom Charter, esso fu visto da alcuni entro il movimento di liberazione
come troppo centrista; altri lo ritenevano imperdonabilmente debole. I Pan-africanisti criticavano l'Anc
per aver concesso troppo ai colonizzatori bianchi (perché, chiedevano, il Sudafrica apparteneva a "tutti,
bianchi e neri"? Il manifesto avrebbe dovuto chiedere, come aveva fatto il nazionalista nero giamaicano
Marcus Garvey, "l'Africa per gli africani"). I marxisti convinti definivano "piccolo-borghesi" le richieste;
non era rivoluzionario frazionare la proprietà della terra fra i cittadini; Lenin diceva che la proprietà
privata andava abolita completamente.
Ciò che era dato per scontato da tutte le fazioni impegnate nella lotta di liberazione, tuttavia, era il fatto
che l'apartheid non fosse soltanto un sistema politico che stabiliva chi aveva il diritto di voto e la libertà
di movimento. Era anche un sistema economico che usava il razzismo per sostenere uno stato di cose
estremamente redditizio: una ristretta élite di bianchi era stata in grado di ammassare enormi profitti dalle
miniere, dalle fattorie e dalle fabbriche sudafricane, perché alla grande maggioranza nera era proibito
possedere terre, e i neri erano tenuti a fornire la loro forza lavoro dietro retribuzione di un salario molto
inferiore al valore dell'opera prestata; ed erano picchiati e incarcerati quando osavano ribellarsi. Nelle
miniere, i bianchi erano pagati fino a dieci volte più dei neri, e come in America Latina, i grandi
industriali lavoravano fianco a fianco con l'esercito per far
"scomparire" i lavoratori indisciplinati.''
La Freedom Charter asseriva ciò su cui nel movimento c'era un consenso generale: che la libertà non
sarebbe arrivata quando i neri avessero preso il controllo dello Stato, ma quando la ricchezza del Paese,
illegittimamente confiscata, fosse stata rivendicata e redistribuita tra tutta la società. Il Sudafrica non
poteva più essere un Paese in cui i bianchi godevano di un tenore di vita analogo a quello della
California, mentre i neri vivevano con uno standard simile a quello degli abitanti del Congo (così il
Paese era descritto durante gli anni dell'apartheid); libertà significava che il Sudafrica avrebbe dovuto
trovare una via di mezzo.
Era questo che Mandela intendeva confermare con il suo messaggio di due frasi dal carcere: credeva
ancora nel principio basilare, che non c'era libertà senza redistribuzione delle ricchezze del Sudafrica.
Ora che tanti altri Paesi erano "in transizione", questa era un'affermazione di portata enorme. Se Mandela
avesse condotto l'Anc al potere e avesse nazionalizzato banche e miniere, avrebbe creato un precedente
che avrebbe reso molto più difficile, per gli economisti della Scuola di Chicago, vendere negli altri Paesi
l'idea che queste teorie economiche fossero relitti del passato, e che solo l'illimitata libertà dei mercati e
"il libero scambio" potessero riequilibrare profonde diseguaglianze.
L'11 febbraio 1990, due settimane dopo aver scritto quel messaggio, Mandela uscì di prigione da uomo
libero, quanto di più simile a un santo vivente ci fosse allora al mondo. Le townships sudafricane
gioirono nei festeggiamenti e nella rinnovata convinzione che niente avrebbe potuto fermare la lotta per la
liberazione. Diversamente da quanto accadeva in Europa dell'Est, quello sudafricano non era un
movimento sconfitto, era un movimento in piena espansione. Mandela, da parte sua, soffriva di un caso
così acuto di shock culturale che scambiò il microfono di una telecamera per "qualche arma inventata
mentre ero in prigione".
Era decisamente un mondo diverso da quello che aveva lasciato ventisette anni prima. Quando Mandela
era stato arrestato, nel 1962, un'ondata di nazionalismo terzomondista aveva invaso l'Africa; ora, il
continente era martoriato dalla guerra. Mentre era in prigione, erano sorte ed erano state represse
rivoluzioni socialiste; Che Guevara era stato ucciso in Bolivia nel 1967; Salvador Allende era morto nel
1973, Samora Machel - eroe della liberazione e presidente del Mozambico era defunto in un misterioso incidente aereo nel 1986. I tardi anni Ottanta e i primi anni Novanta videro il
crollo del muro di Berlino, la repressione di piazza Tienanmen e il collasso del comunismo. Non c'era
tempo per rimettersi in pari: appena liberato, Mandela aveva un popolo da guidare alla libertà, e in più
doveva prevenire una guerra civile e un collasso economico - due possibilità molto concrete.
Se c'era una terza via tra comunismo e capitalismo - un modo per democratizzare e redistribuire la
ricchezza allo stesso tempo - il Sudafrica sotto l'Anc sembrava essere nella posizione giusta per
trasformare quell'antico sogno in realtà. Non erano solo l'ammirazione e il sostegno che da tutto il mondo
si riversavano su Mandela; era anche il modo particolare in cui la lotta all'apartheid aveva preso forma
negli anni precedenti. Negli anni Ottanta, era diventato un movimento globale di massa. E fuori dal
Sudafrica, l'arma impugnata con più efficacia dagli attivisti era il boicottaggio delle aziende, sia
internazionali sia sudafricane, che facevano affari con lo Stato di apartheid.
L'obiettivo del boicottaggio era fare una tale pressione sul settore aziendale che esso a sua volta avrebbe
fatto pressione sull'intransigente governo sudafricano perché ponesse fine all'apartheid. Ma nella
campagna c'era anche una componente morale: molti consumatori credevano che le aziende che traevano
profitto dalle leggi suprematiste meritassero di subire una batosta finanziaria.
Fu questo atteggiamento a dare all'Anc l'opportunità unica di rifiutare l'ortodossia liberista vigente.
Essendoci già un consenso generalizzato sul fatto che le grandi aziende fossero in parte responsabili dei
crimini dell'apartheid, il terreno era'pronto perché Mandela spiegasse per quale ragione alcuni settori
chiave dell'economia sudafricana dovevano essere nazionalizzati come chiedeva la Freedom Charter.
Avrebbe potuto usare la stessa argomentazione per spiegare perché il debito accumulato durante
l'apartheid era un fardello illegittimo con cui caricare un qualsiasi eletto dal popolo. Una tale mancanza
di disciplina avrebbe provocato reazioni dure da parte del Fmi, della tesoreria statunitense e dell'Unione
europea; ma Mandela era anche un "santo vivente", e non gli sarebbe mancato il sostegno popolare.
Non sapremo mai quale di queste forze avrebbe prevalso. Negli anni trascorsi tra la stesura del biglietto
di Mandela dal carcere e la grande vittoria elettorale dell'Anc nel 1994, in cui Mandela fu eletto
presidente, accadde qualcosa che fece capire alla gerarchia del partito che non avrebbe potuto usare il
prestigio di cui godeva presso l'elettorato per rivendicare e redistribuire le ricchezze rubate al Paese.
Così, anziché incontrarsi a metà strada tra la California e il Congo, l'Anc adottò politiche che fecero
impennare sia l'ineguaglianza sia il crimine, al punto che il divario sociale in Sudafrica ormai somiglia a
quello tra Beverly Hills e Baghdad. Oggi, il Paese è la testimonianza vivente di cosa succede quando la
riforma economica è scissa dalla trasformazione politica. Da un punto di vista politico, ci sono elezioni,
libertà civili e governo della maggioranza. Economicamente, il Sudafrica ha sorpassato il Brasile come
società più ineguale del mondo.
Sono stata in Sudafrica nel 2005 per cercare di capire cos'è accaduto durante la transizione, in quegli
anni cruciali tra il 1990 e il 1994, di tanto grave da spingere Mandela a percorrere una strada che lui
stesso aveva definito senza mezzi termini "inconcepibile".
L'Anc avviò negoziati con il Partito nazionale allora al potere, nel tentativo di evitare il genere di incubo
che il vicino Mozambico aveva dovuto subire quando il movimento per l'indipendenza aveva imposto la
fine del dominio coloniale portoghese, nel 1975. Prima di andarsene, i portoghesi si erano vendicati
gettando cemento nei vani degli ascensori, facendo a pezzi i trattori e rubando tutto ciò che potevano.
L'Anc - e questo è un suo grande merito - riuscì a negoziare un passaggio di consegne relativamente
pacifico. Tuttavia non riuscì a evitare che i governanti dell'era dell'apartheid mettessero tutto a
soqquadro prima di uscire di scena. A differenza della loro controparte in Mozambico, il Partito
nazionale non versò colate di cemento: le loro tecniche di sabotaggio, ugualmente devastanti, erano però
molto più sottili, e stavano tutte nelle clausole in corpo piccolo di quegli storici negoziati.
I negoziati che segnarono la fine dell'apartheid si svolsero lungo due binari paralleli, che spesso si
intersecavano: un binario politico e uno economico. Naturalmente, gran parte dell'attenzione era
focalizzata sugli incontri politici ad alto livello tra Nelson Mandela e F.W. De Klerk, leader del Partito
nazionale al governo.
La strategia di De Klerk in queste negoziazioni era quella di preservare al massimo il proprio potere.
Tentò di tutto: trasformare il Paese in una federazione, garantire il diritto di veto ai partiti di minoranza,
riservare una certa percentuale di seggi nelle strutture governative per ogni gruppo etnico; qualsiasi cosa,
pur di prevenire la regola della maggioranza semplice, che - ne era sicuro avrebbe condotto a massicce espropriazioni di terre e alla nazionalizzazione delle corporazioni.
Come avrebbe detto in seguito Mandela: "Ciò che il Partito nazionale stava cercando di fare era
mantenere la supremazia dei bianchi con il nostro consenso". De Klerk aveva armi e denaro dietro di sé,
ma il suo avversario aveva milioni di sostenitori. Mandela e il suo negoziatore capo, Cyril Ramaphosa,
ebbero la meglio su quasi tutti i punti in discussione.
Ma accanto a questi summit, spesso esplosivi, c'erano le negoziazioni di profilo ben più basso, che dal
lato dell'Anc erano gestite soprattutto da Thabo Mbeki, allora un astro nascente del partito, oggi
presidente del Sudafrica. Con il progredire delle discussioni politiche, divenne chiaro al Partito
nazionale che il parlamento sarebbe stato ben presto saldamente nelle mani dell'Anc; il partito delle élite
sudafricane iniziò a riversare la propria energia e creatività nelle negoziazioni economiche. I sudafricani
bianchi non erano riusciti a impedire ai neri di salire al governo, ma quando si trattò di salvaguardare le
ricchezze accumulate durante l'apartheid, non erano disposti ad arrendersi con altrettanta facilità.
In questi colloqui il governo De Klerk usò una duplice strategia. In primo luogo, basandosi sull'influente
Consenso di Washington, secondo cui c'era ormai un solo modo di gestire un'economia, il governo definì
"tecnici" o "amministrativi" interi settori chiave del processo decisionale economico, come la politica
commerciale e la Banca centrale. Inoltre, usò una vasta gamma di nuovi strumenti - accordi commerciali
internazionali, modifiche alla legge costituzionale e programmi di aggiustamento strutturale - per affidare
il controllo di quei centri di potere a esperti teoricamente imparziali del Fmi, della Banca mondiale, con
l'Accordo generale sulle tariffe e il commercio (Gatt) ed economisti e funzionari del Partito nazionale:
chiunque, tranne i combattenti per la liberazione militanti nell'Anc. Era una strategia di balcanizzazione,
non della geografia nazionale (cosa che De Klerk aveva tentato all'inizio) ma dell'economia.
Questo progetto fu tradotto in pratica con successo sotto il naso dei leader dell'Anc, al momento
impegnati nella battaglia per il controllo del parlamento. Nel frattempo l'Anc non riuscì a proteggersi da
una strategia molto più insidiosa: in breve, un elaborato piano assicurativo per evitare che le clausole
economiche della Freedom Charter potessero mai diventare legge in Sudafrica. Lo slogan "Il popolo
governerà!" sarebbe presto diventato realtà, ma il raggio d'azione di quel governo si stava riducendo a
vista d'occhio.
Mentre si svolgevano questi tesi negoziati tra avversari, l'Anc si stava anche preparando attivamente
entro i propri ranghi per il giorno in cui sarebbe salita al potere. Squadre di economisti e avvocati
dell'Anc formarono gruppi di lavoro con l'incarico di capire come trasformare in riforme pratiche le
promesse generiche della Freedom Charter sugli alloggi e la sanità. Il più ambizioso di questi progetti si
chiamava Make Democracy Work (Far funzionare la democrazia), ed era un piano economico che
delineava il futuro post-apartheid del Sudafrica, steso durante i negoziati di alto livello. Ciò che i lealisti
di partito non sapevano all'epoca era che, mentre tratteggiavano i loro ambiziosi piani, il team di
negoziatori seduto al tavolo delle contrattazioni stava accettando concessioni che avrebbero reso di fatto
impossibile la loro applicazione. "Era morto prima ancora di essere lanciato" mi disse l'economista
Vishnu Padayachee a proposito di Make Democracy Work.
Quando la prima bozza fu completa, "il gioco era già cambiato".
Essendo uno dei pochi economisti di formazione classica al servizio dell'Anc, Padayachee fu reclutato
per un ruolo di primo piano in Make Democracy Work ("fare i calcoli" come dice lui). La maggior parte
delle persone con cui lavorò in quelle interminabili riunioni finirono per assumere cariche importanti nel
governo dell'Anc, ma Padayachee non fu tra loro. Ha rifiutato tutte le offerte di lavoro del governo,
preferendo la vita accademica a Durban, dove insegna, scrive e gestisce l'adorata libreria Ike's
Bookshop, così chiamata in onore di Ike Mayet, il primo libraio sudafricano non bianco. Qui, circondati
da volumi fuori catalogo ma attentamente conservati sulla storia africana, abbiamo parlato insieme della
transizione.
Padayachee entrò nella lotta per la liberazione negli anni Settanta, come consigliere del movimento
sindacale sudafricano. "Tutti avevamo la Freedom Charter attaccata sul retro della porta" ricorda.
Gli ho chiesto quando ha capito che le promesse economiche
contenute in quel documento non sarebbero state mantenute. Iniziò a sospettarlo, mi ha detto, alla fine del
1993, quando, con un collega del gruppo Make Democracy Work, ricevette una telefonata dal team dei
negoziatori che erano alle ultime fasi della contrattazione con il Partito nazionale. Nel corso della
telefonata gli fu chiesto di redigere un rapporto dettagliato sui pro e contro del progetto di trasformare la
Banca centrale sudafricana in un'entità indipendente, del tutto autonoma dal governo eletto; e ai
negoziatori serviva entro la mattina dopo.
"Fummo colti completamente alla sprovvista" ricorda Padayachee, che ha da poco passato i
cinquant'anni. Aveva fatto il dottorato alla John Hopkins University di Baltimora. Sapeva che a quel
tempo, anche tra gli economisti liberisti negli Stati Uniti, l'indipendenza della banca centrale era
considerata un'idea estrema, tipica di una manciata di ideologi della Scuola di Chicago, convinti che le
banche centrali dovessero essere gestite come repubbliche sovrane all'interno degli Stati, lontano dalle
mani impiccione dei legislatori eletti."
Nota: Milton Friedman era solito ripetere la battuta che se fosse dipeso da lui, le banche centrali si
sarebbero basate sulla pura "scienza economica", tanto che sarebbero state gestite da enormi computer,
senza intervento umano. .
Per Padayachee e i suoi colleghi, che credevano fermamente che la politica monetaria dovesse essere al
servizio dei "grandi obiettivi di crescita, occupazione e redistribuzione" del nuovo governo, la posizione
dell'Anc non era equivoca: "Non ci sarebbe stata una banca centrale indipendente in Sudafrica".
Padayachee e un collega restarono svegli tutta la notte per scrivere un rapporto che fornisse al team di
negoziatori tutte le argomentazioni di cui aveva bisogno per resistere a questo colpo basso del Partito
nazionale. Se la banca centrale (che in Sudafrica si chiama Reserve Bank) fosse stata gestita
separatamente dal resto del governo, ciò avrebbe limitato la capacità dell'Anc di mantenere le promesse
contenute nella Freedom Charter. Inoltre, se la banca centrale non rispondeva del suo operato al governo
dell'Anc, a chi, esattamente, avrebbe fatto riferimento? Al Fmi? Alla Borsa di Johannesburg?
Ovviamente, il Partito nazionale cercava uno stratagemma per aggrapparsi al potere, anche dopo aver
perso le elezioni: una strategia a cui bisognava resistere a tutti i costi. "Stavano chiudendo il più
possibile" ricorda Padayachee. "Era chiaramente parte della loro agenda politica."
Padayachee inviò il documento via fax la mattina dopo, e non ebbe risposta per mesi. "Poi, quando
chiedemmo cosa fosse successo, ci dissero: "Be', abbiamo lasciato perdere". Non solo la banca centrale
sarebbe stata gestita come entità autonoma entro lo Stato sudafricano, e la sua indipendenza sarebbe stata
sancita nella nuova costituzione, ma sarebbe stata guidata dallo stesso uomo che l'aveva guidata sotto
l'apartheid, Chris Stals. Non era solo alla banca centrale che l'Anc aveva rinunciato: un'altra grande
concessione fu che Derek Keyes, il ministro delle Finanze bianco sotto l'apartheid, sarebbe rimasto al suo
posto; proprio come i ministri delle Finanze e i capi della banca centrale della dittatura argentina erano
riusciti a farsi riassegnare il posto anche in democrazia. Il
"New York Times" elogiò Keyes definendolo "l'illustre apostolo nel suo Paese del governo che spende
poco ed è amico del business".
Fino a quel momento, ricorda Padayachee, "eravamo ancora ottimisti, perché, mio Dio, la nostra era una
lotta rivoluzionaria; qualcosa di buono doveva venirne fuori". Quando apprese che la banca centrale e il
Tesoro sarebbero stati guidati dai grandi vecchi dell'apartheid, capì che "avremmo perso tutto in termini
di trasformazione economica". Quando gli ho chiesto se pensava che i negoziatori si rendessero conto di
quanto avevano perso, dopo qualche esitazione mi ha risposto: "Francamente, no". Era traffico losco:
"Nelle negoziazioni, bisognava rinunciare a qualcosa, e la nostra parte ha rinunciato a quelle cose: io ti
do questo, tu mi dai quello".
Dal punto di vista di Padayachee, niente di tutto ciò accadde a causa di qualche grande tradimento da
parte dei leader dell'Anc, ma semplicemente perché furono sopraffatti su una serie di questioni che
all'epoca non apparivano cruciali, ma che poi avrebbero messo a repentaglio la futura libertà del
Sudafrica.
Nel corso di quei negoziati, l'Anc si ritrovò impigliato in un nuovo genere di rete fatta di regole e
regolamenti arcani, tutti progettati per contenere e restringere il potere dei leader eletti. Quando la rete si
abbatté sul Paese, poche persone si accorsero della sua presenza, ma quando il nuovo governo salì al
potere e cercò di muoversi liberamente, di offrire ai propri elettori i tangibili benefici della liberazione
che si attendevano, le maglie della rete si strinsero e l'amministrazione scoprì che i suoi poteri
decisionali erano molto limitati. Patrick Bond, che lavorò per Mandela nei primi anni di governo
dell'Anc, ricorda che circolava la battuta: "Ehi, abbiamo lo Stato, ma dov'è il potere?".
Mentre il nuovo governo tentava di rendere tangibili i sogni della Freedom Charter, scoprì che il potere
risiedeva altrove.
Volete redistribuire la terra? Impossibile: all'ultimo minuto i negoziatori accettarono una clausola alla
nuova costituzione che protegge ogni forma di proprietà privata, rendendo virtualmente impossibile la
riforma agraria. Volete creare posti di lavoro per milioni di disoccupati? Non potete: centinaia di
fabbriche stavano per chiudere perché l'Anc si era iscritto al Gatt, il precursore dell'Organizzazione
mondiale del commercio, che rese illegale finanziare le fabbriche di automobili e gli stabilimenti tessili.
Volete farmaci per l'Aids gratis nelle townships, dove la malattia si sta diffondendo con rapidità
sconcertante? Violereste un accordo promosso dal Wto per i diritti di proprietà intellettuale, a cui l'Anc
si è associato senza alcun dibattito pubblico come continuazione del Gatt. Vi servono soldi per costruire
case più grandi per i poveri e portare gratuitamente elettricità nelle townships. Spiacenti: il budget serve
per ripagare gli enormi debiti lasciati in silenziosa eredità dal governo di apartheid. Stampare più
banconote? Andatelo a raccontare al capo della banca centrale, residuato bellico dell'era dell'apartheid.
Acqua gratis per tutti? Difficile. La Banca mondiale, con il suo vasto contingente operativo di economisti,
ricercatori e insegnanti (che chiamava la sua knowledge bank, banca del sapere), sta trasformando le
partnership del settore privato nello standard di servizio. Volete imporre controlli sulla valuta per
impedire speculazioni selvagge? Violereste il contratto da 850 milioni di dollari siglato dal Fmi, firmato,
guarda caso, appena prima delle elezioni. Vi piacerebbe alzare il salario minimo per ridurre il divario
legato all'apartheid? Neanche per sogno, il contratto del Fmi promette "controllo dei salari". E non
pensate nemmeno di ignorare gli impegni presi; qualsiasi cambiamento sarà considerato prova di una
pericolosa inaffidabilità del Paese, una mancanza di impegno per la "riforma", l'assenza di "un sistema
basato sulle regole". E tutto ciò condurrà a crolli della valuta, tagli agli aiuti esteri e fuga di capitali. Il
Sudafrica era libero ma contemporaneamente in trappola: ciascuno di questi arcani acronimi
rappresentava un filo della rete che intrappolava il nuovo governo.
Per anni attivista anti-apartheid, Rassool Snyman mi ha descritto la trappola in termini crudi. "Non ci
hanno mai liberati. Hanno solo tolto la catena che avevamo al collo e ce l'hanno messa alle caviglie."
Yasmin Sooka, importante attivista per i diritti umani in Sudafrica, mi ha detto che nella transizione "il
business diceva: "Noi ci teniamo tutto e voi
[l'Anc] governerete di nome [...] Potete tenervi il potere politico, potete mantenere l'immagine di facciata
di un governo, ma la vera gestione della cosa pubblica avverrà altrove".
Nota: furono i Chicago Boys in Cile, non a caso, a usare per primi questa tecnica per rendere il
capitalismo a prova di democrazia, ovvero costruire quella che chiamavano "nuova democrazia". In Cile,
prima di delegare il potere a un governo eletto dopo diciassette anni di dittatura della giunta militare, i
Chicago Boys manipolarono la costituzione e le corti così che fosse legalmente quasi impossibile
rovesciare le loro leggi rivoluzionarie. Avevano molti nomi per questo processo: costruire una
"democrazia tecnicizzata", una "democrazia protetta" o, nelle parole del giovane ministro di Pinochet
José Piiiera, garantire "l'isolamento dalla politica". Alvaro Bardón, sottosegretario all'Economia sotto
Pinochet, spiegò il classico ragionamento della Scuola di Chicago: "Se consideriamo l'economia una
scienza, questo implica immediatamente meno potere per il governo o per la struttura politica, dal
momento che entrambe perdono responsabilità decisionale in questi ambiti".
Era un processo di infantilizzazione che è comune ai cosiddetti Paesi in transizione: i nuovi governi
ricevono le chiavi della città ma non la combinazione della cassaforte.
Parte di ciò che volevo capire era come, dopo una battaglia così epica per la libertà, tutto ciò fosse
potuto accadere. Non solo come i leader della lotta di liberazione avessero potuto rinunciare al fronte
economico, ma come la base dell'Anc - persone che avevano già rischiato così tanto per la libertà avessero permesso ai loro leader di rinunciarvi. Perché le file del movimento non hanno preteso che
l'Anc mantenesse le promesse scritte nella Freedom Charter e non si sono ribellati alle concessioni
mentre venivano fatte?
Ho fatto questa domanda a "William Gumede, attivista Anc di terza generazione, il quale, come leader
del movimento studentesco durante la transizione, scese spesso in piazza in quegli anni turbolenti. "Tutti
avevano gli occhi puntati sulle negoziazioni politiche" ricorda, riferendosi agli incontri al vertice tra
Mandela e De Klerk. "E se alla gente sembrava che le cose non stessero andando per il verso giusto,
organizzavano proteste di massa. Ma quando i negoziatori economici tornavano a fare rapporto, alla gente
queste sembravano faccende tecniche; non interessavano a nessuno." La percezione diffusa, dice, era
incoraggiata da Mbeki, che definiva i colloqui
"amministrativi" e di scarso interesse per il pubblico (non diversamente dai cileni con la loro
"democrazia tecnicizzata"). Di conseguenza, mi ha detto esasperato, "Ce lo siamo persi! Ci siamo persi la
storia vera."
Gumede, che oggi è uno dei più autorevoli giornalisti investigativi del Sudafrica, racconta di essere
giunto a comprendere che era in quelle riunioni "tecniche" che si decideva il vero futuro del suo Paese,
sebbene all'epoca ben pochi se ne rendessero conto. Come molte persone con cui ho parlato, Gumede mi
ha ricordato che il Sudafrica rimase sull'orlo di una guerra civile durante tutto il periodo di transizione:
le townships erano prese d'assalto da gang armate dal Partito nazionale, la polizia faceva ancora
massacri, i leader venivano ancora assassinati, e tutti dicevano che il Paese si stava dirigendo verso un
bagno di sangue. "Io mi concentravo sulla politica: azioni di massa, andare a Bisho [sede di uno scontro
campale tra manifestanti e polizia], gridando: "Quelli se ne devono andare!" ricorda Gumede. "Ma non
era quella la vera battaglia: la vera battaglia era quella per l'economia. E a me dispiace davvero di
essere stato così ingenuo. Credevo di essere politicamente maturo, abbastanza per comprendere i
problemi in gioco. Come ho fatto a perdermi questo?"
Da allora, Gumede cerca di recuperare il tempo perduto. Quando lo incontro, è nell'occhio del ciclone: il
suo nuovo libro, Thaho Mbeki and the Battle for the Soul of the ANC ( Thabo Mbeki e la battaglia per
l'anima dell'Ano) ha sollevato un vespaio di polemiche. Si tratta di un approfondito reportage che
descrive con precisione come l'Anc ha ceduto la sovranità economica del Paese in quei negoziati che
Gumede era troppo impegnato per seguire. "Ho scritto quel libro per sfogare la rabbia" mi dice. "Rabbia
verso me stesso e il partito."
È difficile capire in che modo l'esito avrebbe potuto essere diverso. Se Padayachee ha ragione e i
negoziatori dell'Anc non hanno colto l'enormità di ciò che stavano cedendo, come potevano coglierla i
combattenti di strada del movimento?
In quegli anni decisivi in cui ebbero luogo le contrattazioni, i sudafricani versavano in un perenne stato di
crisi: oscillavano tra la gioia di vedere Mandela libero e la rabbia nell'apprendere che Chris Hani, il
giovane militante che molti speravano sarebbe succeduto a Mandela come leader, era stato ucciso a colpi
d'arma da fuoco da un sicario razzista. A parte una manciata di economisti, nessuno voleva parlare
dell'indipendenza della banca centrale, un argomento estremamente soporifero già in circostanze normali.
Gumede fa notare che la maggior parte delle persone davano per scontato che qualunque compromesso
necessario per salire al potere avrebbe potuto essere disfatto appena l'Anc fosse stato al governo.
"Saremmo stati noi il governo: in seguito avremmo messo a posto le cose"
dice.
Ciò che gli attivisti dell'Anc non capivano a quell'epoca è che la stessa natura della democrazia veniva
alterata in quelle negoziazioni, alterata così che - una volta che la rete di vincoli fosse discesa sul loro
Paese - non ci sarebbe mai stato un "seguito".
Per i primi due anni di governo dell'Anc, il partito cercò ancora di usare le limitate risorse a sua
disposizione per mantenere la promessa di redistribuzione. Partì un'ondata di investimenti pubblici:
furono costruite più di centomila case per i poveri, e milioni di case furono collegate all'impianto idrico,
all'elettricità e alle linee telefoniche. Ma, come tante altre volte era accaduto, il governo, oberato dai
debiti e dalle pressioni internazionali per la privatizzazione di questi servizi, iniziò ad alzare i prezzi.
Dopo un decennio di governo dell'Anc, a milioni di persone furono tagliate acqua ed elettricità perché
non riuscivano a pagare le bollette.
Nota: è vivo in Sudafrica il dibattito volto a stabilire se le persone a cui furono tagliati i nuovi servizi
fossero più di quelle a cui i servizi erano stati garantiti. Almeno uno studio credibile ha appurato che i
tagli sono più numerosi dei collegamenti. Il governo sostiene di aver collegato alla rete idrica nove
milioni di persone; lo studio calcola dieci milioni di tagli.
Almeno il 40 per cento delle nuove linee telefoniche non erano più in servizio nel 2003. Quanto alle
"banche, miniere e industrie monopolistiche" che Mandela aveva promesso di nazionalizzare, esse
restarono saldamente in mano agli stessi quattro mega-conglomerati di proprietà dei bianchi che
controllano anche l'80 per cento della Borsa di Johannesburg. Nel 2005, solo il 4 per cento delle aziende
quotate in Borsa erano possedute o controllate da neri." Il 70 per cento delle terre sudafricane, nel 2006,
era ancora monopolio dei bianchi, che costituiscono soltanto il 10 per cento della popolazione. Ma
l'elemento più drammatico è che il governo dell'Anc ha passato molto più tempo a negare la gravità
dell'epidemia di Aids che non a procurare farmaci salvavita per i circa 5
milioni di persone infette da Hiv, anche se nei primi mesi del 2007 si è rivelato qualche segno positivo di
progresso. La statistica forse più impressionante è questa: dal 1990, l'anno in cui Mandela uscì di
prigione, fino a oggi, l'aspettativa di vita dei sudafricani è calata di tredici anni."
Al di sotto di tutti questi fatti e cifre c'è la scelta fatale compiuta dall'Anc, quando la leadership si
accorse di essere stata sconfitta nei negoziati economici. A quel punto, il partito avrebbe potuto tentare di
lanciare un secondo movimento di liberazione e sciogliersi dall'asfissiante rete creatasi durante la
transizione. Oppure poteva semplicemente accettare la limitazione dei suoi poteri e abbracciare il nuovo
ordine economico. La leadership dell'Anc scelse la seconda opzione. Anziché mettere al centro della sua
politica la redistribuzione delle ricchezze che già erano nel Paese - il nucleo della Freedom Charter sulla
cui base era stata eletta - l'Anc, una volta arrivato al governo, accettò la logica dominante, secondo cui la
sua unica speranza era allettare nuovi investitori stranieri che avrebbero creato nuova ricchezza, i cui
benefici avrebbero poi raggiunto anche i poveri. Ma perché il modello trickle-down avesse qualche
speranza di funzionare, il governo dell'Anc doveva alterare radicalmente il proprio atteggiamento, per
rendersi appetibile agli investitori.
Non era un compito semplice, come Mandela aveva scoperto quando era uscito di prigione. Appena era
stato rilasciato, il mercato azionario sudafricano era collassato nel panico; la valuta locale, il rand, era
crollata del 10 per cento. Qualche settimana dopo. De Beers, la grande impresa che commercia in
diamanti, spostò il suo quartier generale dal Sudafrica alla Svizzera. Questo genere di punizione
immediata da parte dei mercati sarebbe stata inconcepibile trent'anni prima, quando Mandela fu
imprigionato. Negli anni Sessanta, era inaudito che una multinazionale cambiasse Paese da un giorno
all'altro, e all'epoca il sistema monetario mondiale era ancora strettamente legato al valore dell'oro. Ora
la valuta sudafricana era stata svincolata da ogni controllo, le barriere doganali erano scomparse, e la
maggior parte delle operazioni di Borsa consistevano in speculazione a breve termine.
Non solo all'instabile mercato non piaceva l'idea di un Mandela libero; ma bastava qualche incauta
parola da parte sua o degli altri leader dell'Anc per scatenare un fuggi fuggi impetuoso da parte di quello
che l'editorialista del "New York Times" Thomas Friedman aveva appropriatamente ribattezzato la
"mandria elettronica". La fuga precipitosa che salutò l'uscita dal carcere di Mandela fu solo l'inizio di
quello che sarebbe diventato un botta e risposta tra la leadership dell'Anc e i mercati finanziari: un
dialogo scioccante che addestrò il partito alle nuove regole del gioco.
Ogni volta che un alto funzionario di partito rilasciava una dichiarazione che suggeriva che la Freedom
Charter poteva ancora diventare una linea politica concreta, il mercato rispondeva con uno shock,
mandando il rand in caduta libera. Le regole erano semplici e dure, l'equivalente elettronico di grugniti
monosillabici. "Giustizia": costosa, vendere; "status quo": bene, comprare. Quando, poco dopo il suo
rilascio, Mandela tornò a parlare di nazionalizzazione a un pranzo informale con importanti uomini
d'affari, "l'indice AU-Gold precipitò del 5 per cento".
Anche provvedimenti che parevano non avere niente a che fare con il mondo finanziario, ma tradivano un
certo latente radicalismo, sembravano provocare un sobbalzo nel mercato. Quando Trevor Manuel,
ministro dell'Anc, definì il rugby in Sudafrica "uno sport della minoranza bianca", dato che la squadra
nazionale era composta soltanto da bianchi, il rand prese un'altra batosta.
Di tutti i vincoli che gravavano sul nuovo governo, quello del mercato si dimostrò essere il più
opprimente. Ed è questo, in un certo senso, il colpo di genio del cosiddetto libero mercato: si sostiene da
solo. Una volta che i Paesi si sono aperti ai capricci del libero mercato, ogni scostamento dall'ortodossia
della Scuola di Chicago è immediatamente punito dagli agenti di Borsa a New York e Londra, che
scommettono contro la valuta del Paese colpevole, approfondendone la crisi e dunque il bisogno di
ulteriori prestiti, che a loro volta sono corredati da nuovi vincoli.
Mandela si rese conto della trappola nel 1997, e disse alla conferenza nazionale dell'Anc: "La stessa
mobilità del capitale e la globalizzazione del capitale e gli altri mercati rendono impossibile a un Paese,
per esempio, decidere una politica economica nazionale senza tener conto della possibile risposta di
questi altri mercati".
La persona che, all'interno dell'Anc, sembrava aver capito come fermare gli shock era Thabo Mbeki, il
braccio destro di Mandela durante la presidenza e suo futuro successore. Mbeki aveva trascorso in
Inghilterra molti dei suoi anni di esilio; aveva studiato all'Università del Sussex e poi si era trasferito a
Londra. Negli anni Ottanta, mentre le townships del suo Paese erano invase dai gas lacrimogeni, Mbeki
respirava i fumi del thatcherismo. Tra tutti i leader dell'Anc, era Mbeki il più vicino ai grandi uomini
d'affari, e prima del rilascio di Mandela organizzò diversi incontri segreti con manager di grandi aziende
che temevano la prospettiva di un governo di maggioranza nera. Nel 1985, dopo aver bevuto scotch per
tutta la notte con un gruppo di affaristi sudafricani in un capanno di caccia in Zambia, Hugh Murray,
direttore di una prestigiosa rivista di economia, commentò: "Il gran capo dell'Anc è molto bravo a
suscitare fiducia, anche nelle circostanze più tese".
Mbeki era convinto che il metodo per far calmare il mercato consistesse nell'instillare quel genere di
fiducia cameratesca su scala molto più vasta. Secondo Gumede, Mbeki assunse il ruolo di tutor
neoliberista entro il partito. La bestia del mercato era stata slegata, Mbeki avrebbe spiegato: non c'era
modo di domarla, si poteva solo darle il cibo che voleva: crescita e ancora crescita.
Dunque, anziché richiedere la nazionalizzazione delle miniere, Mandela e Mbeki iniziarono a incontrarsi
regolarmente con Harry Oppenheimer, ex presidente dei giganti minerari Anglo American e De Beers: i
simboli economici del dominio dell'apartheid. Poco dopo le elezioni del 1994, sottomisero persino il
programma economico dell'Anc a Oppenheimer perché lo approvasse, ed effettuarono diverse alterazioni
sostanziali per appianare alcune divergenze con Oppenheimer e altri industriali di rilievo. Nella speranza
di evitare un altro shock dal mercato, Mandela, nella prima intervista concessa dopo le elezioni del 1994,
ebbe cura di prendere le distanze dalle sue precedenti dichiarazioni in favore della nazionalizzazione.
"Nella nostra linea di politica economica [...] non c'è un solo riferimento a cose come la
nazionalizzazione, e non è un caso" disse. "Non c'è un solo slogan che possa avvicinarci ad alcuna
ideologia di tipo marxista."
Nota: in realtà, la piattaforma economica ufficiale dell'Anc, sulla base del quale aveva vinto le elezioni,
chiedeva di "aumentare l'incidenza del settore pubblico in aree strategiche, per esempio attraverso la
nazionalizzazione". Poi c'era la Freedom Charter, che continuava a essere il manifesto del partito.
La stampa finanziaria incoraggiò molto questa conversione: "Sebbene l'Anc abbia ancora una potente ala
di sinistra" osservò il "Wall Street Journal", "Mandela di recente somiglia più a Margaret Thatcher che al
socialista rivoluzionario che un tempo si riteneva fosse".'"
Il ricordo di questo passato radicalismo restava incollato all'Anc, e nonostante gli sforzi del nuovo
governo per apparire poco minaccioso, il mercato continuò a infliggere i suoi dolorosi shock: in un solo
mese nel 1996, il rand crollò del 20 per cento, e proseguì l'emorragia di capitali, mentre i ricchi
sudafricani, sempre più nervosi, trasferivano il denaro all'estero.
Mbeki convinse Mandela che c'era bisogno di un taglio netto col passato. All'Anc serviva un nuovo piano
economico: qualcosa di coraggioso, qualcosa di scioccante, qualcosa che comunicasse, nei toni decisi e
spettacolari che il mercato poteva comprendere, che l'Anc era pronto ad abbracciare il Consenso di
Washington.
Come in Bolivia, dove il programma di shockterapia era stato preparato con la segretezza di
un'operazione militare, in Sudafrica solo un manipolo di colleghi vicini a Mbeki sapeva che era in corso
la stesura di un nuovo programma economico, molto diverso dalle promesse che tutti avevano fatto alle
elezioni del 1994. Dei membri della squadra, Gumede scrive: "Tutti erano tenuti alla segretezza e l'intero
processo fu avvolto nella massima confidenzialità, perché l'ala sinistra del partito non venisse a sapere
dei piani di Mbeki". L'economista Stephen Gelb, che contribuì alla stesura del nuovo programma, ammise
che si trattava di una "modalità radicale di "riforma dall'alto", che porta agli estremi le argomentazioni in
favore dell'isolamento e dell'autonomia dei governanti dalle pressioni popolari". (Questa insistenza sulla
segretezza e l'isolamento era particolarmente ironica, dal momento che, sotto la tirannia dell'apartheid,
l'Anc era riuscita a dar vita a un processo decisamente aperto e partecipativo per stendere la Freedom
Charter. Ora, in democrazia, il partito sceglieva di nascondere i suoi piani economici anche ai propri
iscritti.) Nel giugno 1996, Mbeki presentò i risultati: era un programma di shockterapia neoliberista per il
Sudafrica, che proponeva più privatizzazioni, tagli alle spese del governo, "flessibilità" nel lavoro, più
libertà di scambio e addirittura meno controlli sui flussi di denaro. Secondo Gelb, lo scopo principale
era "segnalare ai potenziali investitori l'impegno del governo (e soprattutto dell'Anc) in favore
dell'ortodossia dominante". Per assicurarsi che il messaggio giungesse chiaro e udibile agli operatori di
Borsa a New York e Londra, in occasione della presentazione al pubblico del piano Mbeki esclamò:
"Chiamatemi thatcheriano".
La "shockterapia" è sempre una performance del mercato: è parte della sua base teorica. Il mercato
azionario ama quei momenti di caos sapientemente gestito che fanno impennare i prezzi delle azioni: per
esempio quelli provocati da un'Ipo (offerta pubblica iniziale), l'annuncio di una grossa fusione o
l'assunzione di un amministratore delegato particolarmente famoso. Quando gli economisti suggeriscono
ai Paesi di annunciare l'applicazione immediata di un pacchetto di shockterapia, il consiglio si basa in
parte sul tentativo di imitare questi eventi spettacolari del mercato e scatenare una reazione improvvisa:
ma anziché vendere un singolo titolo, vendono un Paese. La risposta auspicata è "Comprate azioni
argentine!", "Comprate bond boliviani!". Un approccio più lento e cauto, d'altra parte, può essere meno
brutale, ma priva il mercato di queste
"bolle" ingannevoli durante le quali si fanno i veri soldi. La shockterapia è sempre una grossa
scommessa, e in Sudafrica non ha funzionato; il grande gesto di Mbeki non riuscì ad attrarre investimenti
a lungo termine, e condusse solo a scommesse speculative che finirono per deprezzare ulteriormente la
valuta.
"Il neoconvertito è sempre più zelante in queste cose. Vogliono fare bella figura" osservò lo scrittore
Ashwin, residente a Durban, quando ci incontrammo per parlare dei suoi ricordi del periodo di
transizione. Desai è stato in carcere durante la lotta per la liberazione, e vede parallelismi tra la
psicologia del carcere e il comportamento dell'Anc al governo. In prigione, mi disse, "se fai come dice la
guardia, ottieni uno status migliore. E la stessa logica fu impiegata, ovviamente, in alcuni aspetti della
società sudafricana. Volevano dimostrare di essere prigionieri migliori, in un certo senso. Prigionieri
molto più obbedienti di quelli in altri Paesi, addirittura".
La base dell'Anc, tuttavia, si dimostrò decisamente più insubordinata: il che creò il bisogno di ulteriore
disciplina. Secondo Yasmin Sooka, uno dei giurati della Commissione per la verità e la riconciliazione
in Sudafrica, la mentalità della disciplina penetrava ogni aspetto della transizione, compresa la domanda
di giustizia. Dopo aver ascoltato per anni testimonianze di tortura, uccisioni e sparizioni, la Commissione
per la verità cercò di capire che tipo di gesti potevano iniziare a colmare le ingiustizie. La verità e il
perdono erano importanti, ma lo era anche il risarcimento per le vittime e i loro familiari. Non aveva
molto senso chiedere al governo di pagare quei risarcimenti, poiché non erano i loro crimini, e i soldi
spesi in risarcimenti per gli abusi dell'apartheid erano soldi in meno per costruire case e scuole per i
poveri nella nazione appena liberata.
Alcuni membri della Commissione ritenevano che le multinazionali che avevano beneficiato
dell'apartheid dovessero essere costrette a risarcirne le vittime. Alla fine la Commissione si limitò a
raccomandare l'introduzione di un'una tantum dell'un per cento sulle imposte societarie per raccogliere
denaro per le vittime, definendola una "tassa di solidarietà". La Sooka si attendeva il sostegno dell'Anc
per questa raccomandazione; invece il governo, allora guidato da Mbeki, rifiutò l'idea di rimborsi da
parte delle aziende o di una tassa di solidarietà, nel timore di mandare un messaggio negativo al mercato.
"Il presidente decise di non considerare responsabili le aziende" mi disse la Sooka. "Tutto qui." Alla
fine, il governo fece soltanto una parte di quanto era stato richiesto, usando denaro tratto dal proprio
budget, come i commissari avevano temuto.
La Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica è spesso presentata come un modello
positivo di "costruzione di pace", esportato in altre aree di conflitto dallo Sri Lanka all'Afghanistan.
Ma molti di coloro che furono coinvolti direttamente nel processo sono molto meno entusiasti.
Quando presentò il resoconto finale nel marzo 2003, il presidente della Commissione, l'arcivescovo
Desmond Tutu, dichiarò ai giornalisti che la libertà era una questione ancora aperta: "Sapete spiegarmi
perché una persona nera oggi si sveglia in uno squallido ghetto, quasi dieci anni dopo la libertà? Poi va
al lavoro in città, una città che è ancora in gran parte bianca, in case principesche, e alla fine della
giornata, torna a casa nello squallore? Non so perché questa gente non dica semplicemente: Al diavolo la
pace. Al diavolo Tutu e la Commissione per la verità".
La Sooka, che ora dirige la Fondazione sudafricana per i diritti umani, sostiene che sebbene le udienze si
occuparono di quelle che lei definisce "manifestazioni esteriori di apartheid, come la tortura, i
maltrattamenti e le sparizioni", non si interessarono minimamente al sistema economico che quegli abusi
contribuivano a far prosperare: un'eco delle preoccupazioni sulla cecità dei "diritti umani" espresse da
Orlando Letelier tre decenni prima. Se potesse ricominciare da capo, la Sooka ritiene che "farei tutto in
modo molto diverso. Guarderei ai sistemi di apartheid; guarderei alla questione della terra, e certamente
al ruolo delle multinazionali, e farei molta attenzione al ruolo dell'industria mineraria, perché credo
risieda lì il vero male del Sudafrica [...]. Osserverei gli effetti sistematici delle politiche di apartheid, e
dedicherei una sola udienza alla tortura perché credo che se ci si concentra sulla tortura e non si va a
guardare a cosa essa serviva, è lì che si inizia a fare revisionismo storico".
Risarcimenti alla rovescia.
Il fatto che l'Anc abbia rifiutato le richieste portate dalla Commissione di costringere le aziende a
risarcire le vittime è particolarmente ingiusto, mi fece notare la Sooka, perché il governo continua a
pagare il debito dell'apartheid. Nei primi anni dopo il cambio di guardia al potere, il nuovo governo
spese 30 miliardi di rand all'anno (circa 4,5 miliardi di dollari) per pagare gli interessi: una somma che
appare in forte contrasto con il misero totale di 85 milioni di dollari che il governo finì per pagare alle
oltre 19.000 vittime delle torture e degli omicidi commessi in regime di apartheid.
Nelson Mandela ha citato il carico di indebitamento come il più grave ostacolo al mantenimento delle
promesse della Freedom Charter. "Sono 30 miliardi [di rand] con i quali non abbiamo potuto costruire
case come avevamo programmato di fare, prima di salire al governo; volevamo assicurarci che i nostri
figli frequentassero le scuole migliori, che il problema della disoccupazione fosse affrontato a dovere,
che tutti avessero la dignità di un lavoro, un salario decente, poter dare un tetto sulla testa alla persona
amata, poterla sfamare. [...] Le nostre possibilità di azione sono limitate dal debito che abbiamo
ereditato."
Benché Mandela riconoscesse che pagare i conti dell'apartheid era diventato un carico insostenibile, il
partito si è sempre opposto a ogni tentativo di non pagarlo. Si teme che, nonostante la definizione dei
debiti come "odiosi" abbia una base legale concreta, ogni rifiuto di pagare renderebbe il Sudafrica
pericolosamente radicale agli occhi degli investitori, provocando un altro shock del mercato. Dennis
Brutus, membro dell'Anc da lunga data ed ex prigioniero dell'isola di Robben, si è scontrato con quel
muro di paura. Nel 1998, di fronte ai gravi problemi finanziari del nuovo governo, Brutus e un gruppo di
attivisti sudafricani decisero che il modo migliore per sostenere la lotta fosse quello di avviare un
movimento di "giubileo del debito". "Devo ammettere che ero molto ingenuo" mi ha detto Brutus, oggi
ultrasettantenne. "Pensavo che il governo avrebbe apprezzato il nostro lavoro, il fatto che le basi del
movimento si facessero carico del problema del debito, che il governo stesso avrebbe iniziato a
occuparsene." Con sua grande costernazione, invece, "il governo ci ripudiò e disse: "No, non accettiamo
il vostro appoggio".
La decisione dell'Anc di continuare a pagare il debito provoca l'ira degli attivisti come Brutus a causa
dei grandi sacrifici necessari a onorare ogni pagamento. Per esempio, tra il 1997 e il 2004, il governo
sudafricano vendette diciotto aziende statali, ottenendo 4 miliardi di dollari, ma quasi la metà di questa
cifra fu usata per pagare il debito. In altri termini, non solo l'Anc aveva rinnegato l'originale promessa di
Mandela di "nazionalizzare miniere, banche e industrie monopolistiche", ma a causa del debito, stava
facendo l'opposto: stava vendendo risorse nazionali per pagare i debiti dei suoi oppressori.
E poi c'è la questione di dove, esattamente, stiano andando a finire i soldi. Durante le negoziazioni per la
transizione, il team di F.W. De Klerk pretese che tutti i funzionari pubblici mantenessero il posto di
lavoro anche dopo il cambio di guardia al potere; chi voleva andarsene, disse, doveva ricevere
sostanziose pensioni. Era una pretesa straordinaria in un Paese del tutto privo di sicurezza sociale,
eppure fu una delle molte questioni "tecniche" sulle quali l'Anc cedette terreno. La concessione significò
che il nuovo governo dell'Anc portava l'onere di due diversi governi: il proprio e un governo ombra
bianco che aveva perso il potere. Il 40 per cento dei pagamenti annuali relativi al debito vanno a
sovvenzionare l'enorme fondo pensione del Paese. La grande maggioranza dei beneficiari sono ex
impiegati dell'apartheid.
Nota: in realtà, questo fardello dell'era dell'apartheid sta contemporaneamente determinando la crescita
del debito totale del Paese e rendendo indisponibili ogni anno miliardi di rand di denaro pubblico. Un
cambiamento "tecnico" nella ragioneria di Stato, introdotto nel 1989, mutò il sistema pensionistico da un
sistema "in contanti", in cui i benefici sono pagati sulla base dei contributi versati in un dato anno, a un
sistema "interamente finanziato", in cui il fondo deve avere a disposizione capitale sufficiente per pagare
il 70-80 per cento del totale dovuto in qualunque momento: uno scenario che difficilmente si troverà ad
affrontare davvero. Di conseguenza, il fondo schizzò da 30 miliardi di rand nel 1989 a più di 300
miliardi nel 2004: certo definibile come uno shock del debito. Ciò che questo significa per il Sudafrica è
che l'enorme capitale amministrato in modo indipendente dal fondo pensione è stato bloccato e reso
indisponibile per le spese rivolte a case, sanità o servizi di base. L'accordo sulle pensioni in realtà fu
negoziato, dal lato dell'Anc, da Joe Slovo, il leggendario leader del Partito comunista sudafricano: un
fatto che continua a essere fonte di grande risentimento nel Paese.
Alla fine, il Sudafrica si ritrovò con un grave caso di risarcimenti alla rovescia: le aziende dei bianchi
che avevano tratto enormi profitti dalla forza lavoro nera negli anni dell'apartheid non pagarono un
centesimo in risarcimenti; ma le vittime dell'apartheid continuarono a mandare cospicui assegni ai loro
vecchi aguzzini. Come vengono raccolti i soldi per cotanta generosità?
Togliendo risorse allo Stato attraverso la privatizzazione: una forma moderna di quello stesso
sciacallaggio che l'Anc aveva cercato a ogni costo di evitare quando aveva accettato i negoziati, nella
speranza di prevenire il ripetersi di quanto accaduto in Mozambico. A differenza di ciò che avvenne in
quella circostanza durante le quale i funzionari pubblici mozambicani fecero a pezzi le macchine, si
riempirono le tasche e poi fuggirono, in Sudafrica lo smantellamento dello Stato e il saccheggio delle sue
casse continuano ancora oggi.
Quando giunsi in Sudafrica, si avvicinava il cinquantesimo anniversario della firma della Freedom
Charter, e l'Anc aveva deciso di commemorare l'evento con grandi fasti mediatici. Il parlamento si
sarebbe spostato per un giorno dal suo quartier generale di Città del Capo all'atmosfera assai più umile di
Kliptown, dove la carta era stata firmata. Il presidente sudafricano, Thabo Mbeki, avrebbe colto
l'occasione per ribattezzare l'incrocio principale di Kliptown "Walter Sisulu Square of Dedication", in
onore di uno dei più rispettati leader dell'Anc. Mbeki avrebbe anche inaugurato un nuovo monumento alla
Freedom Charter, una torre di mattoni in cui le parole della Carta erano state incise su tavolette di pietra,
e avrebbe acceso un'eterna "fiamma della libertà". Vicino a quell'edificio fervevano i lavori per un altro
monumento, le Freedom Towers, un padiglione di pilastri di cemento bianchi e neri, che avrebbero
simboleggiato la celebre clausola della Carta che recita: "Il Sudafrica appartiene a tutti coloro che vi
abitano, bianchi e neri".'"
Il messaggio complessivo dell'evento era esplicito: cinquant'anni prima, il partito aveva promesso di
portare libertà al Sudafrica e ora c'era riuscito: era il momento "missione compiuta" dell'Anc.
Eppure c'era qualcosa di strano in quell'evento. Kliptown, una bidonville con baracche cadenti, fogne a
cielo aperto e la disoccupazione al 72 per cento - molto più alta che sotto l'apartheid -, sembra più un
simbolo delle promesse non mantenute della Freedom Charter che non un fondale appropriato per una
celebrazione così attentamente preparata. Si scoprì poi che i festeggiamenti per l'anniversario erano stati
organizzati e diretti non dall'Anc ma da una strana entità di nome Blue IQ.
Ufficialmente un ramo del governo provinciale, la Blue IQ "opera in un ambiente attentamente costruito,
il che la fa sembrare più un'azienda del settore privato che non un dipartimento governativo", secondo la
sua brochure molto appariscente, e altrettanto deprimente. Il suo obiettivo è ottenere nuovi investimenti
stranieri in Sudafrica: parte del progetto di "redistribuzione attraverso la crescita".
La Blue IQ aveva identificato nel turismo un'importante area di crescita per gli investimenti, e la ricerca
di mercato confermò che i turisti in visita al Sudafrica erano attratti soprattutto dalla reputazione
mondiale dell'Anc per l'aver trionfato sull'oppressione. Nella speranza di poter fare affidamento su
questo potente richiamo, la Blue IQ decise che non c'era miglior simbolo della storia del trionfo
sudafricano sulle avversità che non la Freedom Charter. Lanciò dunque il progetto per trasformare
Kliptown, luogo di nascita della Carta, in un parco a tema Freedom Charter,
"un'attrazione turistica di livello internazionale e un luogo storico che offra ai visitatori sudafricani e
stranieri un'esperienza unica": un museo, un centro commerciale a tema "libertà", un Freedom Hotel di
vetro e acciaio. Quella che in quel momento era una baraccopoli sarebbe stata trasformata
"in un prosperoso e desiderabile" sobborgo di Johannesburg, e molti dei suoi residenti sarebbero stati
trasferiti in bidonville site in località di minore interesse storico.
Con i suoi progetti per il rinnovamento dell'immagine di Kliptown, la Blue IQ segue alla lettera il
manuale liberista: fornire incentivi agli investitori nella speranza di creare posti di lavoro. Ciò che
differenzia questo particolare progetto è il fatto che a Kliptown, la sorgente di tutto l'apparato di trickledown è un pezzo di carta vecchio di cinquant'anni che premeva per una via molto più diretta
all'eliminazione della povertà. Redistribuire la terra così che milioni di persone potessero sostenersi
coltivandola, questo chiedevano i redattori della Freedom Charter; e riprendersi le miniere, perché il
ricavato potesse servire a costruire case e infrastrutture, e creare posti di lavoro. In altre parole:
eliminare gli intermediari. A molti queste idee possono apparire populismo utopico, ma dopo tanti
esperimenti falliti nella messa in pratica dell'ortodossia della Scuola Chicago, i veri sognatori
potrebbero essere proprio quelli che credono ancora che uno schema come il parco a tema Freedom
Charter, costruito a vantaggio delle aziende private impoverendo ulteriormente i più bisognosi, risolverà
i gravi problemi sanitari ed economici dei 22 milioni di sudafricani che vivono in povertà.
A più di un decennio dalla svolta decisiva del Sudafrica verso il thatcherismo, i risultati dell'esperimento
di giustizia trickledown sono scandalosi;
• Dal 1994 - anno in cui l'Anc salì al potere - a oggi, il numero di persone che vive con meno di un
dollaro al giorno è raddoppiato, da 2 a 4 milioni nel 2006.'"
• Tra il 1991 e il 2002, il tasso di disoccupazione tra i sudafricani neri è più che raddoppiato, passando
dal 23 al 48 per cento.''
• Dei 35 milioni di cittadini neri del Sudafrica, solo cinquemila guadagnano più di 60.000 dollari l'anno.
Il numero di bianchi in quella fascia di reddito è venti volte più alto, e molti guadagnano una cifra assai
più alta.'' '
• Il governo dell'Anc ha costruito 1,8 milioni di case, ma nel frattempo due milioni di persone sono
rimaste senza tetto.''
• Quasi un milione di persone sono state sfrattate dalle fattorie nel primo decennio di democrazia.''
• Questi sfratti hanno determinato un aumento del 50 per cento nel numero di abitanti delle baracche. Nel
2006, più di un sudafricano su quattro viveva in baracche situate in bidonville informali, molte delle
quali prive di energia elettrica e acqua corrente.'"
Forse l'unità di misura più accurata delle promesse di libertà tradite è il modo in cui la Freedom Charter
è visto oggi nei vari strati della società sudafricana. Non molto tempo fa, quel documento rappresentava
la più grave minaccia al privilegio bianco nel Paese; oggi, nelle sale riunioni delle grandi aziende e nei
quartieri residenziali, è considerata una dichiarazione di buoni intenti, al contempo lusinghiera e
assolutamente non minacciosa, al pari di un infiorettato codice di condotta aziendale. Ma nelle
townships., dove una volta il documento approvato in un campo di Kliptown sprigionava speranza e
possibilità, oggi le promesse della Freedom Charter sono quasi troppo dolorose per pensarci. Molti
sudafricani boicottarono completamente le celebrazioni per l'anniversario. "Ciò che è scritto nella
Freedom Charter va molto bene" mi ha detto S'bu Zikode, uno dei leader del sempre crescente movimento
degli abitanti delle bidonville. "Ma tutto ciò che vedo è il tradimento."
Alla fine, l'argomento più persuasivo in favore dell'abbandono delle promesse redistributive della
Freedom Charter si rivelò anche il meno fantasioso: così fan tutti. Vishnu Padayachee riassunse per me il
messaggio che la leadership dell'Anc riceveva "dai
governi occidentali, dal Fmi e dalla Banca mondiale. Dicevano: "Il mondo è cambiato; quella roba di
sinistra non vuol dire più niente; questo è ormai l'unico modo di giocare". Come scrive Gumede,
"l'Anc era del tutto impreparato a questo assalto. I più importanti leader economici erano regolarmente
convocati negli uffici delle organizzazioni internazionali come la Banca mondiale e il Fmi, e tra il 1992 e
il 1993 diversi dipendenti dell'Ano, alcuni dei quali non avevano alcuna preparazione economica,
presero parte a programmi rapidi di addestramento presso scuole di economia all'estero, banche
d'investimento, think tanks di politica economica e la Banca mondiale, dove furono sottoposti a "una
rigida dieta a base di idee neoliberiste". Fu un'esperienza sconvolgente. Mai prima di allora un futuro
governo era stato così sedotto dalla comunità internazionale".
Mandela ricevette una dose particolarmente intensa di questa specie di versione elitaria della
competizione tra bambini al campo giochi quando incontrò i leader europei al Fonam economico
mondiale di Davos nel 1992. Quando fece osservare che il Sudafrica non voleva fare nulla di più
radicale di ciò che l'Europa occidentale aveva fatto sotto il Piano Marshall dopo la Seconda guerra
mondiale, il ministro delle Finanze olandese definì improponibile il paragone. "Così la intendevamo
all'epoca. Ma le economie del mondo sono interdipendenti. Il processo di globalizzazione sta mettendo
radici. Nessuna economia può svilupparsi separatamente dalle economie degli altri Paesi."
Mentre i leader come Mandela viaggiavano attraverso il circuito della globalizzazione, veniva inculcata
loro l'idea che anche i governi più di sinistra stavano abbracciando il Consenso di Washington: i
comunisti in Vietnam e Cina, e così i sindacalisti in Polonia e i socialdemocratici in Cile, finalmente
liberi da Pinochet. Persino i mssi avevano visto la luce neoliberista: durante la fase più tesa delle
negoziazioni dell'Anc, Mosca era al centro di una frenesia filo-corporativista, e si affrettava a vendere le
risorse statali ad apparatchi diventati imprenditori. Se Mosca aveva ceduto, come avrebbe potuto un
manipolo disordinato di combattenti per la libertà in Sudafrica resistere a un'ondata globale di questa
portata?
Questo, almeno, era il messaggio che cercavano di far passare gli avvocati, gli economisti e gli operatori
sociali che componevano l'industria della "transizione", in rapida espansione: i team di esperti che fanno
la spola tra un Paese in guerra e una città in crisi, donando ai nuovi e terrorizzati politici l'ultima
innovazione da Buenos Aires, una storia di successo da Varsavia come fonte di ispirazione, il ruggito più
spaventoso delle Tigri asiatiche. I "trai sizionologi" (come li ha chiamati il politologo della New York
University Stephen Cohen) hanno un vantaggio intrinseco nei confronti dei politici cui dispensano
consigli: sono una class ipermobile, mentre i leader dei movimenti di liberazione sono intrinsecamente
portati all'introspezione. Per loro natura, le persone che capeggiano grandi trasformazioni nazionali si
concentrano sulle loro vicende e lotte per il potere, il che le rende spesso incapaci di prestare attenzione
al mondo che c'è oltre i loro con fini. È un peccato, perché se la leadership dell'Anc fosse stata capace di
vedere oltre la propaganda transizionalista e scoprire cosa succedeva davvero a Mosca, Varsavia,
Buenos Aires e Seul, la storia sarebbe andata molto diversamente.
11.
Falò di una giovane democrazia.
La Russia sceglie "l'opzione Pinochet".
Non si possono vendere all'asta pezzi di una città viva senza tenere in considerazione che esistono
tradizioni locali, anche se agli stranieri possono sembrare strane. [...] Ma queste sono le nostre
tradizioni e la nostra città. Per molto tempo abbiamo vissuto sotto la dittatura dei comunisti, ma ora
abbiamo scoperto che sotto la dittatura degli uomini d'affari non si sta affatto meglio. Essere in un
Paese o nell'altro, per loro non fa alcuna differenza.
Grigory Gorin, scrittore russo, 1991.
Diffondete la verità: le leggi economiche sono come le leggi dell'ingegneria. Un solo insieme di leggi
funziona dovunque.
Lawrence Summers, economista capo della Banca mondiale, 1991.
Quando il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov volò a Londra per il suo primo summit del G7
nel luglio 1991, aveva ogni ragione di attendersi di essere ricevuto come un eroe. Negli ultimi tre anni
era sembrato galleggiare - più che camminare - sul palcoscenico internazionale, intento a firmare trattati
di disarmo e ricevere premi per la pace, compreso il Nobel nel 1990.
Era riuscito perfino in un'impresa ritenuta impensabile: conquistare l'opinione pubblica americana.
Il leader russo era così diverso dalle caricature dell'Impero del Male che la stampa americana aveva
preso a chiamarlo con il tenero soprannome di "Gorby", e nel 1987 la rivista "Time" prese la rischiosa
decisione di eleggere "Uomo dell'anno" il presidente sovietico. Gli editori del settimanale spiegarono
che a differenza dei suoi predecessori ("gargoyle in cappelli di pelliccia"), Gorbaciov era il Ronald
Reagan russo "D Grande comunicatore in versione Cremlino". Il comitato per i Nobel dichiarò che grazie
al suo lavoro "speriamo di poter celebrare oggi la fine della Guerra fredda".
All'inizio degli anni Novanta, con le due politiche gemelle di glasnost (trasparenza) e perestrojka (nuovo
corso), Gorbaciov aveva condotto l'Unione Sovietica lungo un impressionante percorso di
democratizzazione: la stampa era libera, il parlamento, le autorità locali, il presidente e il vicepresidente
erano tutte cariche elettive, e la corte costituzionale era indipendente. Quanto all'economia, Gorbaciov
andava in direzione di un mix di libero mercato e robusta rete di sicurezza sociale, in cui le industrie più
importanti erano sotto il controllo pubblico: un processo che, predisse, avrebbe richiesto dieci-quindici
anni per essere portato a compimento. Il suo obiettivo era una socialdemocrazia sul modello scandinavo,
"un faro socialista per tutta l'umanità".
All'inizio sembrò che anche l'Occidente volesse vedere Gorbaciov ammorbidire l'economia sovietica e
trasformarla in qualcosa di simile all'economia svedese. Il comitato per il Nobel descrisse esplicitamente
il premio come un modo per sostenere la transizione: "un aiuto nel momento del bisogno". E durante una
visita a Praga, Gorbaciov affermò con chiarezza che non poteva farcela da solo: "Come scalatori con una
sola corda, le nazioni del mondo possono arrampicarsi insieme fin sulla cima, o cadere insieme
nell'abisso" disse.
Ciò che accadde al G7 del 1991, dunque, fu totalmente inaspettato. Il messaggio quasi unanime che
Gorbaciov ricevette dai suoi colleghi capi di Stato non era un messaggio di sostegno ma un avvertimento:
se non avesse abbracciato la shockterapia economica radicale, loro avrebbero tagliato la corda e
l'avrebbero lasciato precipitare. "I loro suggerimenti sulle tempistiche e i metodi della transizione erano
sconvolgenti", scrisse Gorbaciov dell'evento.
La Polonia aveva appena completato il primo round di shockterapia sotto le cure di Jeffrey Sachs e del
Fmi; il primo ministro britannico John Major, il presidente americano George H.W. Bush, il primo
ministro canadese Brian Mulhoney e il primo ministro giapponese Toshiki Kaifu erano tutti d'accordo sul
fatto che l'Unione Sovietica dovesse seguire l'esempio della Polonia, a ritmi ancor più sostenuti. In
seguito all'incontro, Gorbaciov ricevette gli stessi ordini dal Fmi, dalla Banca mondiale e da tutte le altre
grandi istituzioni. Qualche mese dopo, quando la Russia chiese la remissione del debito per prevenire
una catastrofica crisi economica, la dura risposta fu che i debiti andavano onorati. Da quando Sachs
aveva gestito gli aiuti per la Polonia, l'atmosfera politica era cambiata: adesso era più avara.
Ciò che accadde dopo - la dissoluzione dell'Unione Sovietica, il trionfo di Eltsin su Gorbaciov, il corso
tumultuoso della shockterapia in Russia - è un capitolo ben documentato della storia recente.
È però una storia troppo spesso narrata nel blando linguaggio della "riforma", una narrazione così
generica che ha nascosto uno dei più gravi crimini commessi contro una democrazia nella storia moderna.
La Russia, come la Cina, è stata costretta a scegliere tra un programma economico sul modello della
Scuola di Chicago e un'autentica rivoluzione democratica. Di fronte a quella scelta, i leader cinesi
avevano attaccato il loro stesso popolo per impedire che la democrazia interferisse con i loro piani. In
Russia andò diversamente: la rivoluzione democratica era già in corso e, per applicare un programma
economico basato sui principi della Scuola di Chicago, quel processo pacifico e pieno di speranza
avviato da Gorbaciov dovette essere interrotto con la forza, e poi rovesciato.
Gorbaciov sapeva che l'unico modo per imporre il tipo di shockterapia che il G7 e il Fmi desideravano
era usare la forza: e lo sapevano molti di coloro che in Occidente spingevano per quelle politiche.
L'"Economist", in un influente articolo del 1990, aveva raccomandato a Gorbaciov di adottare "la regola
del più forte [...] per spezzare la resistenza che ha impedito di applicare serie riforme economiche". Solo
due settimane dopo che il comitato Nobel aveva decretato la fine della Guerra fredda, l'"Economist"
spronava Gorbaciov a modellare la propria azione su quella di uno dei più spietati killer della Guerra
fredda. Sotto il titolo: "Mikhail Sergeevich Pinochet?", l'articolo conclude che sebbene seguire i suoi
consigli potrebbe portare "a uno spargimento di sangue [...], potrebbe anche, forse, essere il turno per
l'Unione Sovietica di realizzare quello che potremmo chiamare l'approccio Pinochet all'economia
liberale". Il "Washington Post" si spinse ancora oltre.
Nell'agosto 1991 il quotidiano pubblicò un editoriale intitolato Il Cile di Pinochet: Modello pratico per
l'economia sovietica. L'articolo sosteneva l'idea di un colpo di stato per liberarsi del poco energico
Gorbaciov, ma l'autore, Michael Schrage, temeva che gli oppositori del presidente sovietico non
avessero "né le doti né il sostegno necessario per scegliere l'opzione Pinochet".
Schrage scrisse che i russi avrebbero dovuto prendere a modello "un despota che sapeva bene come si
fanno i golpe: il generale cileno in pensione Augusto Pinochet".'
Gorbaciov si trovò ben presto di fronte a un avversario che nel ruolo di Pinochet sovietico si vedeva
benissimo. Boris Eltsin, pur in qualità di presidente della Russia, aveva un profilo molto più basso
rispetto a Gorbaciov, che era a capo dell'intera Unione Sovietica. Tutto ciò doveva cambiare
drasticamente il 19 agosto 1991, un mese dopo il summit del G7. Un gruppo della vecchia guardia
comunista arrivò a bordo di carri armati davanti alla Casa Bianca, com'è chiamata la sede del parlamento
russo. Nel tentativo di fermare il processo di democratizzazione, minacciarono di attaccare il primo
parlamento eletto del Paese. Tra una folla di russi decisi a difendere la loro nuova democrazia, Eltsin
salì su un carro armato e denunciò l'aggressione come "un cinico tentativo di colpo di Stato da parte della
destra". I carri armati batterono in ritirata, e Eltsin emerse come un coraggioso difensore della
democrazia. Un manifestante che quel giorno era in strada lo descrisse come "la prima volta in cui ho
sentito di poter davvero fare qualcosa per cambiare la situazione del mio Paese. Le nostre anime si
sollevarono. Un tale sentimento di unità. Ci sentimmo invincibili".
Anche Eltsin si sentiva invincibile. Come leader, era sempre stato una specie di anti-Gorbaciov. Se
Gorbaciov proiettava un'immagine di buone maniere e sobrietà (uno dei suoi provvedimenti più
controversi fu un'aggressiva campagna contro la vodka), Eltsin era un noto ghiottone e un forte bevitore.
Prima del colpo di Stato, molti russi nutrivano riserve su Eltsin, ma il fatto di aver contribuito a salvare
la democrazia da un golpe comunista fece di lui, almeno per il momento, un eroe popolare.
Eltsin seppe trasformare subito questo spettacolare trionfo in un aumento del suo potere personale.
Finché l'Unione Sovietica fosse rimasta intatta, Eltsin avrebbe avuto sempre meno controllo di
Gorbaciov, ma nel dicembre 1991, quattro mesi dopo il golpe abortito, Eltsin operò un capolavoro
politico. Si alleò con altre due repubbliche sovietiche, una mossa che sortì l'effetto di dissolvere
improvvisamente l'Unione Sovietica, obbligando così Gorbaciov alle dimissioni. L'abolizione
dell'Unione Sovietica, "l'unico Paese che la maggior parte dei russi avesse mai conosciuto", fu uno shock
potente per la psiche russa; come ha scritto il
politologo Stephen Cohen, fu il primo "di tre shock traumatici" che avrebbero colpito i russi nei tre anni
successivi.
Jeffrey Sachs era al Cremlino il giorno in cui Eltsin annunciò che l'Unione Sovietica aveva cessato di
esistere. Sachs ricorda che il presidente russo disse: "Signori, voglio soltanto annunciare che l'Unione
Sovietica non esiste più...". E lui rispose: "Dio, sapete, queste sono cose che succedono una volta ogni
secolo. È la cosa più incredibile che si possa immaginare; è una vera liberazione; aiutiamo questa gente".
Eltsin aveva invitato Sachs a venire in Russia in qualità di consulente, e Sachs era dispostissimo: "Se la
Polonia può farcela, può farcela anche la Russia" dichiarò.
Ma Eltsin non voleva solo consigli, voleva il genere di raccolta fondi placcata d'oro che Sachs aveva
realizzato per la Polonia. "L'unica speranza" disse "erano le promesse del Gruppo dei Sette di inviarci al
più presto sostanziosi aiuti economici." Sachs disse a Eltsin di essere fiducioso che se Mosca era
disposta ad adottare l'approccio "Big Bang" per istituire un'economia capitalista, lui avrebbe potuto tirar
su circa 15 miliardi di dollari. Bisognava essere ambiziosi e muoversi in fretta.
Ciò che Eltsin non sapeva era che la buona stella di Sachs stava per voltargli le spalle.
Il piano per convertire la Russia al capitalismo aveva molto in comune con l'approccio corrotto che
aveva scatenato le proteste di piazza in Cina due anni prima. Il sindaco di Mosca, Gavriil Popov, ha
sostenuto che in realtà c'erano solo due opzioni possibili per smantellare l'economia centralizzata:
"La proprietà può essere divisa tra tutti i membri della società, oppure si possono dare i pezzi migliori ai
leader [...] In una parola, c'è l'approccio democratico, e poi c'è l'approccio della nomenclatura degli
apparatchik", Eltsin scelse il secondo approccio; e aveva fretta. Alla fine del 1991, andò in parlamento e
fece una proposta poco ortodossa: se gli avessero concesso poteri speciali per un anno, ovvero il potere
di fare leggi per decreto anziché portarle in parlamento per il voto, lui avrebbe risolto la crisi economica
e avrebbe restituito loro un sistema in salute e fiorente.
Eltsin stava chiedendo il tipo di potere esecutivo di cui godono i dittatori, non i politici democratici; ma
il parlamento era comunque grato al presidente per il ruolo da lui svolto durante il tentato colpo di Stato,
e il Paese aveva urgente bisogno di aiuti esteri. La risposta fu un sì: Eltsin avrebbe avuto poteri assoluti
per un anno, per rifare da capo l'economia russa.
Immediatamente Eltsin riunì un team di economisti, molti dei quali, negli ultimi anni del comunismo,
avevano formato una
sorta di club del libro liberista, leggendo i testi base dei pensatori di Chicago e discutendo di come le
teorie potessero essere applicate in Russia. Pur non avendo mai studiato negli Stati Uniti erano
ammiratori così devoti di Milton Friedman che la stampa russa iniziò a chiamare il team di Eltsin i
"Chicago Boys", un'imitazione dell'originale, che ben si adattava al fiorente mercato nero diffuso in
Russia. In Occidente erano chiamati "i giovani riformatori". Il capo carismatico del gruppo era Yegor
Gaidar che Eltsin scelse come uno dei suoi due vice primo ministro. Piotr Aven, un ministro del governo
Eltsin nel 1991-92, e parte della cerchia più ristretta, disse dei suoi vecchi compagni:
"La loro identificazione con Dio, che seguiva naturalmente dalla loro convinzione della propria totale
superiorità, era, ahimè, tipica dei nostri riformatori".
Tracciando i profili degli uomini che erano saliti improvvisamente al potere a Mosca, il quotidiano russo
"Nezavisimaya Gazeta" riferì lo straordinario sviluppo per cui "per la prima volta la Russia avrà nel suo
governo un team di liberali che si considerano seguaci di Friedrich von Hayek e della
"Scuola di Chicago" di Milton Friedman". Le loro intenzioni erano "chiarissime: "decisa stabilizzazione
finanziaria" in conformità alle ricette della "shockterapia". Mentre Eltsin faceva queste nomine, osservò
il quotidiano, aveva anche piazzato l'influente figura di Yuri Skokov "a capo dei dipartimenti deputati a
difesa e repressione: l'Esercito, il ministero degli Affari interni e il Comitato per la sicurezza di Stato".
Le decisioni erano palesemente connesse: "Probabilmente il
"forte" Skokov può "assicurare" una ferma stabilizzazione in politica mentre gli economisti "forti"
la garantiscono in economia". L'articolo terminava con una profezia: "Non sarà una sorpresa se
cercheranno di costruire qualcosa di simile a un sistema Pinochet in versione russa, nel quale il ruolo dei
Chicago Boys sarà svolto dal team di Gaidar".
Per fornire appoggio ideologico e sostegno tecnico ai finti Chicago Boys di Eltsin, il governo americano
finanziò i propri esperti in transizione, i cui compiti variavano dalla stesura di decreti di privatizzazione
al lancio di una Borsa in stile New York, alla progettazione di un mercato dei fondi comuni
d'investimento. Nell'autunno del 1992, l'Usaid stipulò un contratto da 2,1 milioni di dollari con l'Harvard
Institute for International Development, che inviò gruppi di giovani avvocati ed economisti a fare da
gabinetto-ombra alla squadra di Gaidar. Nel maggio 1995, Harvard nominò Sachs direttore dell'Harvard
Institute for International Development, il che significava ricoprire due ruoli nel periodo riformista della
Russia: Sachs iniziò come consulente freelance di Eltsin, e poi passò a supervisionare il grande
avamposto di Harvard in terra russa, finanziato dal governo americano.
Ancora una volta, un gruppo di sedicenti rivoluzionari si riunivano in segreto per scrivere un programma
economico radicale. Come ricorda Dimitri Vasiliev, uno dei più importanti riformatori:
"All'inizio, non avevamo un solo impiegato, neanche una segretaria. Non avevamo attrezzature, neppure
un fax. E in quelle condizioni, in un mese e mezzo, dovemmo scrivere un programma completo di
privatizzazioni, dovemmo scrivere venti leggi [...] Fu un periodo molto romantico".
Il 28 ottobre 1991, Eltsin annunciò la rimozione dei controlli sui prezzi, prevedendo che "la
liberalizzazione dei prezzi rimetterà tutto a posto". I "riformatori" attesero una sola settimana dopo le
dimissioni di Gorbaciov per lanciare il loro programma di shockterapia economica: il secondo dei tre
shock traumatici. Il programma di shockterapia includeva anche politiche liberiste e la prima fase della
privatizzazione delle circa 225.000 compagnie statali del Paese.
"Il Paese fu colto alla sprovvista dal programma della Scuola di Chicago" ricordò uno dei consulenti
economici che avevano lavorato con Eltsin nei primi tempi. La sorpresa era voluta, faceva parte della
strategia di Gaidar di introdurre il cambiamento in modo così repentino che ogni resistenza sarebbe stata
impossibile. Il problema che la sua squadra si trovò ad affrontare era il solito: la minaccia che la
democrazia ostruisse i loro piani. I russi non volevano che la loro economia fosse organizzata da un
comitato centrale comunista, ma la maggior parte di loro credeva ancora fermamente nella redistribuzione
della ricchezza e in un ruolo attivo del governo. Come i sostenitori polacchi di Solidarnosc, nel 1992 il
67 per cento dei russi rivelò in un sondaggio di ritenere che le cooperative dei lavoratori fossero il modo
più equo per privatizzare le risorse dello Stato comunista, e il 79 per cento disse di considerare una
funzione centrale del governo quella di assicurare la piena occupazione. Ciò significava che se il team di
Eltsin avesse sottoposto i suoi progetti al dibattito democratico, anziché sferrare un attacco segreto su
un'opinione pubblica già estremamente disorientata, la rivoluzione della Scuola di Chicago non avrebbe
avuto possibilità di farcela.
Vladimir Mau, consigliere di Boris Eltsin in questo periodo, spiegò che "la condizione più favorevole
per una riforma" è "un pubblico stanco, esausto dalla precedente lotta politica. [...] È per questo che il
governo era fiducioso, alla vigilia della liberalizzazione dei prezzi, che un pesante scontro sociale fosse
impossibile, che il governo non sarebbe stato rovesciato da una rivolta popolare". La grande maggioranza
dei russi - il 70 per cento era contraria all'eliminazione dei controlli sui prezzi, spiegò, ma "noi
vedevamo che il popolo, in quel momento, si concentrava sulle rendite dei propri appezzamenti privati e
in generale sulle proprie situazioni economiche individuali".
Joseph Stiglitz, a quel tempo economista capo alla Banca mondiale, spiegò la mentalità che guidava gli
shockterapisti. Le sue metafore dovrebbero ormai apparirci familiari: "Solo un blitz sferrato durante la
"finestra di opportunità" fornita dalla "nebbia della transizione" avrebbe permesso di operare i
cambiamenti prima che la popolazione potesse organizzarsi per tutelare gli interessi che un tempo erano
spettati loro di diritto". In altri termini, la dottrina dello shock.
Stiglitz definì gli shockterapeuti "bolscevichi del mercato" per la passione che dimostravano nei
confronti del cataclisma rivoluzionario. Ma laddove i bolscevichi originari intendevano costruire il loro
Stato centralizzato sulle ceneri del vecchio, i "bolscevichi del mercato" credevano in una specie di
magia: se le condizioni ottimali per il profitto fossero state create, il Paese si sarebbe ricostruito da solo,
senza bisogno di pianificare nulla (era una fede che sarebbe riemersa, un decennio dopo, in Iraq).
Eltsin fece grandi promesse, dicendo che per circa sei mesi le cose sarebbero peggiorate, ma poi la
ripresa sarebbe iniziata, e ben presto la Russia sarebbe diventata un gigante economico, una delle prime
quattro economie del mondo. La cosiddetta logica della distruzione creativa generò ben poca creazione e
ritmi vertiginosi di distruzione. Dopo solo un anno, la shockterapia aveva prodotto grandi devastazioni:
milioni di russi della classe media avevano perso i risparmi di una vita quando la valuta era crollata, e
improvvisi tagli ai sussidi avevano tolto lo stipendio a milioni di lavoratori per mesi. Il russo medio
consumava il 40 per cento in meno nel 1992 che nel 1991, e un terzo della popolazione scese al di sotto
della soglia della povertà." La classe media fu costretta a vendere oggetti personali su banchetti di
cartone allestiti in strada: atti disperati, che gli economisti di Chicago lodarono come "atti
imprenditoriali", prova che una rinascenza capitalista era effettivamente in corso, ed era fatta di gioielli
di famiglia e giacche di seconda mano.
Come in Polonia, i Russi riuscirono infine a rimettersi in piedi, e iniziarono a pretendere la fine di quella
sadica avventura economica ("Basta con gli esperimenti" era un graffito frequente sulle mura di Mosca
all'epoca). Sotto la pressione degli elettori, il parlamento eletto - lo stesso corpo legislativo che aveva
sostenuto l'ascesa al potere di Eltsin - decise che era giunto il momento di rimettere in riga il presidente e
i suoi Chicago Boys surrogati. Nel dicembre 1992, votarono per scalzare Yegor Gaidar, e tre mesi dopo,
nel marzo 1993, i parlamentari votarono per togliere a Eltsin i poteri speciali che gli avevano garantito
perché imponesse per decreto le sue leggi economiche. Il periodo di grazia era scaduto, e i risultati erano
pessimi: d'ora in poi, le leggi sarebbero dovute passare per il parlamento, una misura standard in ogni
democrazia liberale, e in linea con le procedure indicate nella costituzione russa.
I deputati agivano in conformità ai loro diritti, ma Eltsin si era abituato ai suoi accresciuti poteri ed era
giunto a considerarsi più un monarca che un presidente (aveva preso a chiamarsi Boris I).
Vendicò L'"ammutinamento" parlamentare andando in televisione e dichiarando lo stato di emergenza,
che gli garantiva il ripristino dei poteri imperiali. Tre giorni dopo, la Corte costituzionale indipendente
della Russia (la cui creazione era stata uno dei più importanti progressi in senso democratico compiuti da
Gorbaciov) decretò 9 a 3 che la presa di potere di Eltsin violava, in otto diversi capi d'accusa, la
costituzione che aveva giurato di difendere.
Fino a quel momento, era stato possibile presentare la "riforma economica" e la riforma democratica
come parti dello stesso progetto in Russia. Ma da quando Eltsin dichiarò lo stato di emergenza, i due
progetti furono in rotta di collisione, con Eltsin e i suoi shockterapeuti in opposizione diretta al
parlamento eletto e alla costituzione.
Eppure, l'Occidente appoggiò Eltsin, ancora visto come un progressista "lealmente impegnato per la
libertà e la democrazia, lealmente impegnato per le riforme" nelle parole dell'allora presidente
americano Bill Clinton. Anche la maggioranza della stampa occidentale si schierò con Eltsin contro
l'intero parlamento, definito antidemocratico e composto da "comunisti intransigenti" che cercavano di
disfare le riforme economiche. Secondo il capo dell'ufficio del "New York Times" a Mosca, i
parlamentari avevano "una mentalità sovietica: sospettosi delle riforme, ignoranti della democrazia,
sprezzanti degli intellettuali e dei " democratici" ".''
In realtà, questi erano gli stessi politici, con tutti i loro difetti (e con 1041 deputati, i difetti non
mancavano), che erano rimasti accanto a Eltsin e Gorbaciov contro il golpe degli integralisti che nel
1991 avevano votato per sciogliere l'Unione Sovietica e che, fino a poco prima, avevano continuato a
sostenere Eltsin. Eppure il "Washington Post" descrisse i parlamentari russi come "oppositori del
governo": come se fossero intrusi, e non membri del governo a tutti gli effetti.
Nella primavera del 1993, lo scontro si fece più vicino quando il parlamento presentò un piano di
bilancio che non seguiva le rigide disposizioni di austerity del Fmi. Eltsin rispose cercando di
sbarazzarsi del parlamento. In tutta fretta organizzò un referendum, orwellianamente sostenuto dalla
stampa, in cui si chiedeva agli elettori se erano d'accordo di sciogliere il parlamento e andare a elezioni
anticipate. I cittadini che si presentarono alle urne non furono abbastanza per dare a Eltsin il mandato di
cui aveva bisogno. Ma Eltsin dichiarò di aver vinto, sostenendo che il referendum dimostrava che il
popolo era con lui, poiché aveva inserito una domanda assolutamente non vincolante circa il sostegno
popolare alle sue riforme. Una piccola maggioranza rispose di sì.
In Russia, il referendum fu visto dai più come un esercizio di propaganda (fallito). La realtà era che
Eltsin e Washington erano ancora legati a un parlamento che aveva il diritto costituzionale di fare ciò che
stava facendo: rallentare l'applicazione della shockterapia. Iniziò un'intensa campagna di pressioni.
Lawrence Summers, allora sottosegretario al Tesoro statunitense, ammonì che "il ritmo delle riforme in
Russia dev'essere rafforzato e intensificato, per assicurare un continuo sostegno multilaterale". Il Fmi
afferrò il messaggio, e un anonimo funzionario rivelò alla stampa che il prestito di 1,5 miliardi di dollari
che era stato promesso sarebbe stato annullato, perché il Fmi "era dispiaciuto dalla marcia indietro della
Russia sulle riforme". Piotr Aven, ex ministro di Eltsin, disse:
"L'ossessione maniacale del Fmi per la politica monetaria e di bilancio, e il suo atteggiamento
estremamente superficiale e formale nei confronti di tutto il resto [...] hanno svolto un ruolo non
indifferente in ciò che è accaduto".
Ciò che accadde fu che il giorno dopo la fuga di notizie dal Fmi, Eltsin, sicuro di avere il sostegno
dell'Occidente, compì il primo e irreversibile passo verso quella che ormai tutti chiamavano
"l'opzione Pinochet": approvò il decreto 1400, in cui dichiarò abolita la costituzione e sciolto il
parlamento. Due giorni dopo, il parlamento in sessione speciale votò 636 a 2 per l'impeachment a Eltsin
a causa di quest'atto inaudito (l'equivalente di un presidente americano che, unilateralmente, sciogliesse il
Congresso). Il vicepresidente Alexandr Rutskoi annunciò che la Russia aveva già
"pagato a caro prezzo l'avventurismo politico" di Eltsin e dei riformatori.''"
Una qualche forma di conflitto armato tra Eltsin e il parlamento era ormai inevitabile. Sebbene la corte
costituzionale russa avesse ancora una volta definito incostituzionale il comportamento di Eltsin, Clinton
continuò a sostenerlo, e il Congresso americano votò uno stanziamento di 2,5
miliardi di dollari in aiuti. Rincuorato, Eltsin inviò truppe a circondare il parlamento e fece staccare la
corrente elettrica, il riscaldamento e le linee telefoniche alla Casa Bianca, l'edificio del parlamento.
Boris Kagarlitskij, direttore dell'Istituto di studi sulla globalizzazione a Mosca, mi ha raccontato che i
sostenitori della democrazia in Russia "arrivavano a frotte, cercando di superare le barricate. Ci furono
due settimane di manifestazioni pacifiche contro le truppe e le forze di polizia, in cui la gente riusciva a
portar dentro cibo e acqua. La resistenza pacifica acquistava popolarità e guadagnava sostegno ogni
giorno".
Eltsin e i parlamentari erano giunti a un punto di stallo. L'unico compromesso che avrebbe potuto porre
fine pacificamente al conflitto avrebbe comportato che ambo le parti approvassero le elezioni anticipate,
sottoponendo al pubblico giudizio l'operato di tutti. Molti premevano per questa soluzione, ma mentre
Eltsin valutava le opzioni, e girava voce che tendesse verso le elezioni, dalla Polonia giunse la notizia
che gli elettori avevano inflitto la punizione definitiva a Solidarnosc, il partito che li aveva traditi con la
shockterapia.
Quando videro Solidarnosc pesantemente sconfitta alle urne, fu evidente a Eltsin e ai suoi consiglieri
occidentali che le elezioni anticipate erano un'opzione troppo rischiosa. In Russia, la posta in gioco era
troppo alta: enormi pozzi petroliferi, circa il 30 per cento delle riserve mondiali di gas naturali, il 20 per
cento del nickel, per non parlare delle fabbriche di armi e dell'apparato dei mass media di Stato con cui
il partito comunista aveva controllato l'enorme popolazione.
Eltsin abbandonò le negoziazioni e si mise in tenuta da guerra. Avendo appena raddoppiato i salari dei
militari, aveva quasi tutto l'esercito dalla sua parte, e "circondò il parlamento con migliaia di soldati del
ministero dell'Interno, filo spinato e cannoni ad acqua, e rifiutò di far passare chicchessia", stando al
"Washington
Post". Il vicepresidente Rutskoi, il principale rivale di Eltsin i parlamento, a questo punto aveva già
armato le sue guardie e aveva stretto un accordo con i nazionalisti protofascisti. Disse ai suoi sostenitori
di "non dare un momento di pace" alla "dittatura" e Eltsin." Boris Kagarlitskij, che partecipò alle proteste
e scrisse un libro su questo episodio, ricorda che il 3 ottobre una folla di sostenitori del parlamento
"marciò sul centro televisivo di Ostankin per chiedere che fosse diffusa la notizia. Alcune persone eran
armate, ma la maggior parte non lo era. C'erano anche bambini. Le truppe di Eltsin spararono sulla folla
con i mitra". Un centinaio di dimostranti e un soldato restarono uccisi. La mossa successiva di Eltsin fu
quella di sciogliere tutti i consigli comunali regionali della Russia. La giovane democrazia russa veniva
di strutta pezzo per pezzo.
Non c'è dubbio che alcuni parlamentari mostrassero la propria contrarietà a un accordo pacifico
incitando la folla, ma come ha scritto persino l'ex funzionario del dipartimento di Stato americano Leslie
Gelb, il parlamento "non era dominato da un gruppo di facinorosi di destra". A far precipitare la crisi
furono La dissoluzione illegale del parlamento da parte di Eltsin e la sua sfida alla più alta corte del
Paese: azioni che avrebbero incontrato reazioni disperate in un Paese che non aveva alcuna intenzione d
rinunciare alla democrazia appena conquistata.
Nota: con grande sensazionalismo, il "Washington Post" scrisse: "Circa 200 dimostranti si sono scagliati
poi contro il ministero della Difesa russo, dove si trovano i controlli nucleari della nazione, e dove i
massimi generali dell'esercito erano in riunione" - si sollevava così l'assurdo sospetto che la folla di
russi che cercava di difendere la sua democrazia potesse dare inizio a una guerra atomica.
"Il ministero ha fatto chiudere tutte le porte e ha tenuto fuori la folla senza incidenti" riportava il
"Post".
Un segnale chiaro da Washington o dall'Unione europea avrebbe potuto obbligare Eltsin a intavolare seri
negoziati con parlamentari, ma il presidente ricevette solo incoraggiamenti. Alla fine, la mattina del 4
ottobre 1993, Eltsin portò a compimento il suo destino a lungo anticipato e divenne il Pinochet russo
dando il via a una serie di atti violenti che ricordavano da vicino i golpe cileno di vent'anni prima. In
quello che fu il terzo shock traumatico inflitto da Eltsin al popolo russo, egli ordinò a un riluttante
esercito di invadere la Casa Bianca russa, dar fuoco all'edificio e lasciare carbonizzato il palazzo
difendendo il quale aveva costruito la sua reputazione appena due anni prima. Il comunismo era
collassato senza bisogno di sparare un solo colpo, ma il neoliberismo, si scopriva ora, aveva bisogno di
molti proiettili per difendersi: Eltsin mobilitò cinquemila soldati, dozzine di carri armati e minibus
corazzati, elicotteri e truppe d'assalto armate con mitra automatici: tutto ciò per difendere la nuova
economia capitalista russa dalla grave minaccia della democrazia.
Il "Boston Globe" riferì in questi termini dell'attacco di Eltsin al parlamento: "Per dieci ore, ieri, circa
trenta carri armati dell'esercito russo e veicoli corazzati hanno circondato l'edificio del parlamento nel
centro di Mosca, noto come Casa Bianca, e l'hanno bersagliato con raffiche di esplosivi, mentre truppe di
fanteria facevano fuoco con i mitra. Alle ore 16,15 circa trecento guardie, deputati del Congresso e
impiegati sono usciti in fila indiana dall'edificio con le mani alzate".
In serata, l'assalto militare a oltranza aveva provocato la morte di circa cinquecento persone e il
ferimento di quasi mille: la più grande esplosione di violenza a Mosca dopo il 1917, Peter Reddaway e
Dmitri Gliski, autori del testo più completo sugli anni di Eltsin (The Tragedy of Russia's Reforms:
Market Bolshevism against Democracy), osservano che "durante l'operazione di annientamento nella
Casa Bianca e tutto intorno, erano state arrestate 1700 persone, e sequestrate 11
armi. Alcuni degli arrestati furono internati in uno stadio sportivo, con una procedura simile a quelle
usate da Pinochet dopo il golpe del 1973 in Cile". Molti furono portati alle stazioni di polizia, dove
furono ferocemente picchiati. Kagarlitskij ricorda che mentre lo colpivano alla testa, un funzionario
gridò: "Volevate la democrazia, figli di puttana? Ve la facciamo vedere noi, la democrazia!".
Ma in Russia non si stava ripetendo quanto accaduto in Cile: era il Cile al contrario. Pinochet aveva
organizzato un golpe, sciolto le istituzioni democratiche e poi imposto la shockterapia; Eltsin impose
prima la shockterapia in una democrazia, e poi scoprì che poteva difenderla solo dissolvendo la
democrazia e organizzando un golpe. Entrambe le situazioni ricevettero il sostegno entusiastico
dell'Occidente.
"Eltsin riceve consenso generalizzato per l'assalto" titolava il "Washington Post" il giorno dopo:
"Vittoria per la democrazia". Il "Boston Globe" titolò La Russia evita il ritorno alla prigione del passato.
Il segretario di Stato americano, Warren Christopher, si recò a Mosca per sostenere Eltsin e Gaidar e
dichiarò: "Gli Stati Uniti non appoggiano spesso la sospensione di un parlamento. Ma queste sono
circostanze straordinarie".
Non tutti i russi la vedevano così. Eltsin, l'uomo salito al potere difendendo il parlamento, ora l'aveva
letteralmente messo a fuoco e fiamme, lasciandolo così malmesso che fu ribattezzato "Casa Nera". Un
moscovita di mezz'età disse, orripilato, ai giornalisti stranieri: "La gente sosteneva
[Eltsin] perché ci prometteva la democrazia, ma poi ha sparato a quella democrazia. Non solo l'ha
violata, ma le ha sparato". Vitaliy Neiman, che era di guardia all'ingresso della Casa Bianca durante Il
golpe del 1991, descrisse così il tradimento: "Quello che ottenemmo fu l'esatto opposto di ciò che
sognavamo. Siamo andati alle barricate per loro, abbiamo rischiato la vita, ma loro non hanno mantenuto
le promesse".'"
Jeffrey Sachs, elogiato per aver dimostrato che il liberismo radicale poteva essere compatibile con la
democrazia, continuò a sostenere pubblicamente Eltsin dopo il suo assalto al parlamento, definendo i suoi
oppositori "un gruppo di ex comunisti inebriati di potere". Nel suo libro La fine della povertà, in cui offre
un resoconto definitivo del suo coinvolgimento con la Russia, Sachs non fa menzione di questo
drammatico episodio, così come non fa parola dello stato d'assedio e degli attacchi ai leader sindacali
che accompagnarono il suo programma di shock in Bolivia.
In seguito al colpo di Stato, la Russia si ritrovò sotto una dittatura incontrollata. I corpi legislativi eletti
furono sciolti, la Corte costituzionale fu sospesa, come del resto la costituzione; carri armati
pattugliavano le strade, era in funzione il coprifuoco, e la stampa era oggetto di pesanti censure, anche se
le libertà civili furono ripristinate quasi subito.
Dunque, cosa fecero i Chicago Boys e i loro consiglieri occidentali in questo momento critico? La stessa
cosa che avevano fatto quando Santiago era in fiamme e la stessa cosa che avrebbero fatto quando
Baghdad sarebbe bruciata: finalmente liberi dall'intralcio della democrazia, si dedicarono a scrivere
leggi su leggi. Tre giorni dopo il golpe, Jeffrey Sachs dichiarò che fino a quel momento
"non c'era stata shockterapia", poiché il progetto "è stato messo in pratica in modo incoerente e
intermittente. Ora abbiamo la possibilità di fare qualcosa".
E qualcosa fecero. "Di questi tempi, il team di economisti liberali di Eltsin è scatenato" riferì
"Newsweek". "Il giorno dopo lo scioglimento del parlamento da parte del presidente russo, il
passaparola è arrivato ai riformatori del mercato: iniziate a scrivere decreti." La rivista citava un
"giubilante economista occidentale
che lavora a stretto contatto con il governo", affermando con assoluta chiarezza che in Russia la
democrazia era sempre un ostacolo alla libertà dei mercati. "Con il parlamento fuori dai piedi, è un
grande momento per le riforme [...] Gli economisti qui erano piuttosto depressi. Ora lavorano giorno e
notte." In effetti, pare che non ci sia nulla come un colpo di Stato per migliorare l'umore, come Charles
Blitzer, economista capo per la Russia della Banca mondiale, disse al "Wall Street Journal": "Non mi
sono mai divertito così tanto in vita mia".
E il divertimento era solo agli inizi. Nel Paese ancora scosso dall'attacco, i Chicago Boys di Eltsin
inserirono nel programma le misure più controverse: enormi tagli di bilancio, rimozione dei controlli sui
prezzi dei generi alimentari di base, tra cui il pane, e addirittura privatizzazioni più numerose e veloci; è
il genere di politiche standard che provocano così tanta miseria in così poco tempo che sembra
richiedere uno stato di polizia per prevenire ribellioni.
Dopo il golpe di Eltsin, Stanley Fischer, vicedirettore esecutivo del Fmi (e Chicago Boy nel 1970),
consigliò di "muoversi più in fretta possibile su tutti i fronti". Lo stesso fece Lawrence Summers, allora
supervisore delle politiche per la Russia nell'amministrazione Clinton. "Le tre azioni" come le chiamava
lui, ovvero "privatizzazione, stabilizzazione e liberalizzazione, devono essere completate al più presto."
I mutamenti furono talmente repentini che i russi non riuscirono a tenere il passo. Spesso i lavoratori non
sapevano neppure che le loro fabbriche e miniere erano state vendute; e di certo non sapevano come
erano state vendute, né a chi (la stessa profonda confusione a cui avrei assistito un decennio dopo nelle
fabbriche statali dell'Iraq). In teoria, tutti questi maneggi e sotterfugi avrebbero dovuto creare il boom
economico che avrebbe risollevato la Russia dalla disperazione; in pratica, lo Stato comunista fu
semplicemente rimpiazzato da uno Stato corporativo: a beneficiare del boom fu un piccolo club di russi,
molti dei quali ex apparatchik del partito comunista, e una manciata di manager occidentali di fondi
comuni, che ottennero impressionanti dividendi investendo nelle aziende russe appena privatizzate. Una
cricca di neomiliardari, molti dei quali sarebbero poi confluiti nel gruppo dei cosiddetti "oligarchi", così
chiamati per i loro livelli imperiali di ricchezza e potere, si unirono agli pseudo-Chicago Boys di Eltsin e
strapparono al Paese quasi tutte le sue risorse, spostando all'estero gli enormi profitti al ritmo di due
miliardi di dollari al mese. Prima della shockterapia, in Russia non c'erano milionari; nel2003, il numero
di miliardari russi era salito a diciassette, stando alla lista compilata da "Forbes".
Ciò accadde in parte perché, in un raro esempio di distacco dall'ortodossia della Scuola di Chicago,
Eltsin e il suo team non permisero alle multinazionali estere di comprare direttamente le aziende russe; le
fecero comprare ai connazionali, e poi aprirono le aziende appena privatizzate, possedute dagli oligarchi,
agli azionisti stranieri. Gli utili furono comunque astronomici. "Cercate un investimento che possa
guadagnare il 2000 per cento in tre anni?" chiedeva il "Wall Street Journal".
"C'è un solo mercato azionario che offra una speranza simile [...] la Russia." Molte banche
d'investimento, tra cui la Credit Suisse First Boston, oltre a qualche finanziere dalle tasche profonde,
crearono rapidamente fondi comuni d'investimento limitati alla Russia.
Una sola nuvola aleggiava all'orizzonte per gli oligarchi russi e gli investitori stranieri: la popolarità di
Eltsin era in picchiata libera. Gli effetti del programma economico erano stati tanto brutali, e il processo
era così palesemente permeato di corruzione, che la sua popolarità nei sondaggi scese sotto le due cifre.
Se Eltsin fosse stato rimosso dal suo ufficio, chiunque l'avesse rimpiazzato avrebbe, con tutta probabilità,
messo fine all'avventura della Russia nel capitalismo estremo. E, cosa ancor più preoccupante per gli
oligarchi e i "riformatori", ci sarebbero state forti pressioni per rinazionalizzare molte delle risorse che
erano state consegnate agli stranieri in circostanze così incostituzionali.
Nel dicembre del 1994, Eltsin fece ciò che molti leader disperati hanno fatto nel corso della storia per
aggrapparsi al potere: iniziò una guerra. Il capo della sicurezza nazionale, Oleg Lobov, aveva confidato a
un legislatore: "Abbiamo bisogno di una breve guerra vittoriosa per alzare i livelli di popolarità del
presidente", e il ministro della Difesa predisse che il suo esercito avrebbe potuto sconfiggere le truppe
dei dissidenti ceceni in poche ore - una passeggiata.
Il piano sembrò funzionare, per qualche tempo. Nella prima fase, il movimento indipendentista ceceno fu
parzialmente soppresso, e le truppe russe presero possesso del già abbandonato palazzo presidenziale a
Groznyj, consentendo a Eltsin di dichiararsi vincitore. Si sarebbe dimostrata una vittoria a breve termine,
sia in Cecenia sia a Mosca. Quando Eltsin affrontò la rielezione nel 1996, era ancora così impopolare e
la sua sconfitta sembrava così certa che i suoi consiglieri meditavano di cancellare le elezioni: una
lettera firmata da un gruppo di banchieri russi e pubblicata su tutti i quotidiani nazionali faceva espliciti
riferimenti a questa possibilità." Il ministro della privatizzazione, Anatolij Chubais (che Sachs descrisse
una volta come "un combattente per la libertà"), divenne uno dei più decisi fautori dell'opzione Pinochet.
"Perché una società sia democratica, dev'essere al potere una dittatura" affermò. Era un'eco diretta delle
giustificazioni addotte per Pinochet dai Chicago Boys cileni, e della filosofia di Deng Xiaoping ispirata
al friedmanismo senza la libertà.
Alla fine, le elezioni si tennero e Eltsin vinse, grazie a un centinaio di milioni di dollari in finanziamenti
da parte degli oligarchi (trentatré volte il limite massimo stabilito dalla legge), oltre a una presenza
ottocento volte maggiore rispetto ai suoi rivali sui canali televisivi controllati dagli oligarchi. Rimossa la
minaccia di un improvviso cambio della guardia al governo, gli pseudo-Chicago Boys furono in grado di
passare alla parte più controversa, e più redditizia, del loro programma: svendere quelle che Lenin aveva
chiamato "le altezze vertiginose".
Il 40 per cento di una compagnia petrolifera di dimensioni paragonabili alla francese Total fu venduto per
88 milioni di dollari (le vendite della Total nel 2006 sono pari a 193 miliardi di dollari).
La Norilsk Nickel, che produceva un quinto del nickel mondiale, fu venduta per 170 milioni di dollari,
anche se i suoi profitti raggiunsero presto gli 1,5 miliardi di dollari annui. L'enorme compagnia
petrolifera Yukos, che controlla più petrolio del Kuwait, fu venduta per 309 milioni di dollari; ora
guadagna più di 3 miliardi l'anno. Il 51 per cento del gigante petrolifero Sidanko costava 130 milioni di
dollari; appena due anni dopo quella percentuale sarebbe stata valutata sul mercato internazionale a 2,8
miliardi di dollari. Un'enorme fabbrica di armi fu venduta per 3 milioni di dollari, il prezzo di una casa
per le vacanze ad Aspen, in Colorado.
Lo scandalo non era solo che le ricchezze pubbliche della Russia venissero svendute all'asta per una
frazione del loro valore; era anche il fatto che, in pieno stile corporativista, erano acquistate con denaro
pubblico. Come scrissero i giornalisti del "Moscow Times", Matt Bivens e Jonas Bernstein,
"un pugno di uomini accuratamente selezionati ottennero gratis i bacini petroliferi sviluppati dallo Stato
russo, nell'ambito di un gigantesco gioco delle tre carte, in cui un ramo del governo pagava l'altro". In un
ardito gioco di collusione tra i politici che vendevano le compagnie pubbliche e gli affaristi che le
compravano, diversi ministri di Eltsin,
compreso Yegor Gaidar, trasferirono grosse somme di denaro pubblico, che sarebbe dovuto andare alla
banca nazionale o al Tesoro, in losche banche private costituite in tutta fretta dagli oligarchi.
Nota: le due principali banche connesse agli oligarchi erano la Bank Menatep di Mikhail Khodorkovskij
e la Uneximbank di Vladimir Potanin.
Lo Stato si accordò poi con le stesse banche perché gestissero le aste per le privatizzazioni dei
giacimenti petroliferi e delle miniere. Le banche organizzarono le aste, ma fecero offerte nelle medesime
aste; e com'era da attendersi, le banche di proprietà degli oligarchi decisero di diventare i felici
possessori dei beni un tempo pubblici. I soldi che le banche usarono per comprare le azioni di queste
aziende pubbliche erano probabilmente gli stessi soldi pubblici che i ministri di Eltsin avevano
depositato presso di loro in precedenza. In altri termini, il popolo russo ha anticipato i soldi necessari
per saccheggiare il proprio Paese.
Come ha commentato uno dei "giovani riformatori" russi, quando i comunisti decisero di sciogliere
l'Unione Sovietica, "rinunciarono al potere in cambio della proprietà". Esattamente come il suo mentore
Pinochet, la famiglia di Eltsin si arricchì esponenzialmente, i suoi figli e alcuni cognati furono eletti a
cariche di rilievo nelle principali aziende privatizzate.
Gli oligarchi, ormai al comando delle risorse più importanti per lo Stato russo, aprirono le loro nuove
aziende alle multinazionali dei blue-chip, che si accaparrarono grosse fette delle imprese privatizzate.
Nel 1997, la Royal Dutch/Shell e la BP entrarono in partnerariato con due giganti del petrolio russo, la
Gazprom e la Sidanko. Erano investimenti ad alto profitto, ma la fetta più grossa della ricchezza in Russia
era nelle mani dei russi, non dei loro partner stranieri. È una dinamica che il Fmi e il Tesoro americano
avrebbero rovesciato con successo nelle successive privatizzazioni in Bolivia e Argentina. In Iraq, dopo
l'invasione, gli Stati Uniti avrebbero cercato di tagliar fuori l'élite locale dall'affare delle privatizzazioni.
Wayne Merry, capo analista politico all'ambasciata statunitense a Mosca negli anni chiave dal 1990
al 1994, ha ammesso che la scelta tra democrazia e interessi di mercato in Russia fu netta. "Il governo
americano ha preferito l'economico al politico. Abbiamo scelto la liberalizzazione dei prezzi, la
privatizzazione dell'industria, e la creazione di un capitalismo davvero sfrenato e deregolamentato, e
sostanzialmente abbiamo sperato che la legge, la società civile e la democrazia rappresentativa si
sarebbero in qualche modo sviluppate automaticamente in seguito a quello [...]
Sfortunatamente, si è scelto di ignorare la volontà popolare e di continuare con l'applicazione delle
politiche".
Così tanta ricchezza fu accumulata in Russia in questo periodo che alcuni "riformatori" non resistettero
alla tentazione di entrare nel gioco. Anzi, più che in qualsiasi altro Paese fino a quel momento, la
situazione in Russia mostrava la falsità del mito perpetuato dai tecnocrati, quelle teste d'uovo liberiste
che avrebbero dovuto imporre modelli scientifici di mercato in base alla pura convinzione. Come in Cile
e in Cina, dove la corruzione sfrenata e la shockterapia andavano a braccetto, parecchi ministri e
viceministri di Eltsin finirono per perdere il posto in seguito a grossi scandali legati alla corruzione.
E poi c'erano i bambini prodigio del Progetto Russia di Harvard, incaricati di organizzare le
privatizzazioni russe e il mercato dei fondi comuni d'investimento. Si scoprì che i due docenti a capo del
progetto - il professore di economia ad Harvard Andrei Shleifer e il suo vice Jonathan Hay
- avevano tratto profitti diretti dal mercato che erano impegnati a costruire. Mentre Shleifer era
consigliere capo della squadra di Gaidar sulle politiche di privatizzazione, sua moglie investiva
pesantemente nelle privatizzazioni russe. Hay, trentenne laureato alla Harvard Law School, investì anche
lui personalmente nelle riserve petrolifere privatizzate in Russia, apparentemente in diretta violazione del
contratto di Harvard con l'Usaid. E mentre Hay aiutava il governo russo ad aprire un nuovo mercato per i
fondi comuni d'investimento, la sua fidanzata - poi moglie - ottenne la prima licenza per aprire un'agenzia
di fondi comuni in Russia, agenzia che, agli inizi, era amministrata dall'ufficio di Harvard, finanziato dal
governo Usa. (Tecnicamente, in quanto direttore dell'Istituto per lo sviluppo internazionale ad Harvard,
che ospitava il Progetto Russia, Sachs restò per gran parte di questo periodo il diretto superiore di
Shleifer e Hay. Tuttavia, Sachs non lavorava più sul campo in Russia e non è mai stato implicato in azioni
disdicevoli.)''"
Quando questi intrecci vennero alla luce, il dipartimento di Giustizia americano fece causa ad Harvard,
sostenendo che gli investimenti privati di Shleifer e Hay violavano contratti da loro firmati, in base ai
quali si erano impegnati a non trarre profitto personale dal proprio lavoro. Dopo un'indagine e una
battaglia legale durata sette anni, la Corte distrettuale di Boston trovò che Harvard aveva violato il
contratto, che i due professori avevano
"cospirato per defraudare gli Stati Uniti", che "Shleifer si trovava in evidente conflitto di interessi", che
"Hay aveva cercato di riciclare 400.000 dollari attraverso suo padre e la sua fidanzata". Harvard pagò un
patteggiamento di 26,5 milioni di dollari, il più alto della sua storia. Shleifer accettò di pagare 2 milioni
di dollari. Hay tra 1 e 2 milioni, a seconda del proprio reddito, sebbene nessuno dei due avesse
riconosciuto la propria responsabilità.
Nota: purtroppo, i soldi non andarono al popolo russo, le vere vittime del corrotto processo di
privatizzazione, ma tornarono al governo americano; proprio come i processi seguiti alle denunce di ex
dipendenti dei vincitori di appalti in Iraq dividono la cifra versata nel patteggiamento tra il governo
americano e l'ex dipendente, anch'egli americano.
Forse questo genere di "conflitto di interessi" era inevitabile, data la natura dell'esperimento russo.
Anders Aslund, uno dei più influenti economisti occidentali che lavoravano in Russia all'epoca, aveva
spiegato che la shockterapia avrebbe funzionato perché "i miracolosi incentivi o tentazioni del
capitalismo sono in grado di vincere quasi ogni cosa". Dunque, se era l'avidità il propulsore che avrebbe
permesso di ricostruire la Russia, allora di certo gli uomini di Harvard, le loro fidanzate e mogli, e lo
staff e la famiglia di Eltsin, partecipando in prima persona alla frenesia, stavano solo dando l'esempio.
Questo rimanda a un'annosa domanda a proposito degli ideologi del liberismo: sono "veri credenti",
guidati dall'ideologia e dalla fede nel fatto che i liberi mercati cureranno il sottosviluppo, oppure le loro
idee e teorie sono solo un'elaborata giustificazione che permette di agire per avidità, invocando nel
contempo una motivazione altruistica? Tutte le ideologie sono corruttibili, naturalmente (come gli
apparatchik russi avevano reso evidente allorché, durante l'era comunista, avevano accumulato i loro
abbondanti privilegi), e certamente esistono neoliberisti onesti. Ma l'economia della Scuola di Chicago
sembra particolarmente soggetta alla corruzione. Dopotutto, nel momento in cui si accetta che il profitto e
l'avidità praticati su larga scala creano i massimi benefici possibili per qualsiasi società, praticamente
qualunque atto di arricchimento personale può essere giustificato come un contributo al grande calderone
creativo del capitalismo, che genera ricchezza e dà slancio alla crescita economica - anche se solo per se
stessi e per i propri colleghi.
Il lavoro filantropico di George Soros nell'Europa dell'Est compreso il suo finanziamento dei viaggi di
Sachs nella regione - non è stato immune dalle controversie. Non c'è dubbio che Soros fosse molto
impegnato nella causa della democratizzazione nel Blocco orientale, ma aveva anche chiari interessi
economici nel genere di riforma economica che avrebbe accompagnato quella democratizzazione.
Essendo il più potente trader valutario del mondo, poteva trarre grossi profitti quando i Paesi
implementavano valute convertibili e rimuovevano i controlli sul capitale, e quando le imprese statali
erano messe all'asta Soros era uno dei possibili compratori.
Sarebbe stato perfettamente legale per Soros trarre un profitto diretto dai mercati che, in quanto
filantropo, stava contribuendo ad aprire; ma non avrebbe fatto una buona impressione. Per un certo
periodo, Soros affrontò il conflitto d'interessi proibendo alle sue aziende di investire in Paesi in cui
erano attive le sue fondazioni. Ma quando la Russia fu messa in vendita, Soros non seppe più resistere.
Nel 1994, spiegò che la sua politica "era stata modificata a causa del fatto che i mercati si stanno
sviluppando molto in quella regione, e io non ho alcun motivo né diritto di negare ai miei fondi, o ai miei
azionisti, la possibilità di investire lì, o di negare a quei Paesi la possibilità di mettere le mani su parte di
quei fondi". Soros aveva già comprato azioni della compagnia telefonica russa nel 1994, per esempio
(pessimo investimento, si scoprì in seguito), e aveva acquisito parte di una grossa azienda alimentare in
Polonia. Nei primi giorni della caduta del comunismo Soros, attraverso il lavoro di Sachs, era stato uno
dei promotori dell'approccio shock alla trasformazione economica. Alla fine degli anni Novanta, però,
cambiò apparentemente idea, e diventò uno dei principali critici della shockterapia; istruì le sue
fondazioni a finanziare Ong che si concentrano sull'implementazione di misure anticorruzione prima di
dare il via alle privatizzazioni.
Questa epifania avvenne troppo tardi per salvare la Russia dal capitalismo azzardato. La shockterapia
aveva spalancato la Russia a fiumi di "denaro caldo": investimenti speculativi a breve termine e trading
valutario, operazioni molto redditizie. Speculazioni tanto intense fecero sì che nel 1998, quando la crisi
dei mercati asiatici (di cui ci occuperemo nel capitolo 13) iniziò a diffondersi in altri "mercati
emergenti", la Russia fu lasciata priva di qualsiasi protezione. La sua economia, già precaria, collassò
definitivamente. L'opinione pubblica incolpò Eltsin, e la sua popolarità crollò fino a un insostenibile 6
per cento. Con il futuro di molti oligarchi a repentaglio, ancora una volta solo un massiccio shock
avrebbe potuto salvare il progetto economico e allontanare la minaccia che la vera democrazia giungesse
in Russia.
Nel settembre 1999, il Paese fu colpito da una serie di atroci attacchi terroristici: apparentemente senza
preavviso, quattro condomini furono fatti esplodere nel cuore della notte, uccidendo quasi trecento
persone. In una storia fin troppo familiare agli americani dopo l'11 settembre del 2001, ogni altro
problema fu scalzato dall'agenda politica dall'unica forza sulla Terra in grado di farlo. "Era una sorta di
terrore puro" spiega la giornalista russa Yevgenia Albats. "Tutt'a un tratto, fu chiaro che tutte queste
discussioni sulla democrazia, gli oligarchi... niente di tutto ciò reggeva il confronto con questa paura di
morire dentro la propria casa."
L'uomo cui fu affidata la caccia agli "animali" era il primo ministro russo, il ferreo e vagamente sinistro
Vladimir Putin.
Nota: non sorprende, data la natura criminale della classe dirigente russa, che numerose teorie del
complotto siano emerse a proposito di questi eventi. Molti russi ritengono che i ceceni non abbiano avuto
nulla a che fare con gli attentati nei condomini, che sarebbero piuttosto un'operazione segreta tesa a
ottenere esattamente ciò che ottenne: trasformare Putin nell'erede al trono di Eltsin.
Immediatamente dopo le bombe nel condominio, alla fine di settembre del 1999, Putin lanciò attacchi
aerei sulla Cecenia, colpendo aree popolate da civili. Nella nuova luce del terrore, il fatto che Putin
fosse stato per diciassette anni nel Kgb - il simbolo più temuto dell'era comunista all'improvviso a molti russi sembrò rassicurante. Mentre l'alcolismo di Eltsin lo rendeva sempre più
incapace di agire, Putin "il protettore" era nella posizione ideale per succedergli come presidente. Il 31
dicembre 1999, mentre la guerra in Cecenia impediva un dibattito serio, alcuni oligarchi organizzarono
un passaggio di consegne in sordina da Eltsin a Putin, senza bisogno di elezioni.
Prima di lasciare il potere, Eltsin imitò per l'ultima volta Pinochet, e chiese l'immunità legale. Il primo
atto di Putin come presidente fu una legge che tutelava Eltsin da ogni procedimento penale, compresa la
corruzione e gli omicidi di manifestanti democratici da lui ordinati all'esercito.
Eltsin è considerato dagli storici più come un buffone corrotto che come un uomo dal pugno di ferro.
Eppure le sue politiche economiche, e le guerre che dichiarò per proteggerle, hanno dato un importante
contributo alla conta dei morti della crociata di Chicago, che è in costante aumento dai tempi del Cile
negli anni Settanta. Oltre ai morti del golpe di ottobre di Eltsin, le guerre in Cecenia hanno ucciso circa
centomila civili. I massacri più gravi che egli ha contribuito a provocare si sono svolti al rallentatore, ma
le cifre sono molto più alte: i "danni collaterali" della shockterapia economica.
A parte i casi di grave carestia, pestilenza o battaglia, non era mai accaduto che così tante persone
perdessero così tanto in così poco tempo. Nel 1998, oltre l'80 per cento delle aziende agricole russe era
in bancarotta, e circa 70.000 fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un'epidemia di
disoccupazione. Nel 1989, prima della shockterapia, due milioni di persone nella Federazione russa
vivevano in povertà, con meno di 4 dollari al giorno. Quando gli shockterapeuti ebbero somministrato la
loro "medicina amara" a metà degli anni Novanta, 74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà,
secondo la Banca mondiale. Ciò significa che le "riforme economiche" in Russia sono responsabili della
riduzione in povertà di 72 milioni di persone in soli otto anni. Nel 1996, il 25 per cento dei russi - quasi
37 milioni di persone - vivevano in una povertà descritta come
"disperata".
Anche se milioni di russi sono stati tratti in salvo dalla povertà in anni recenti, grazie soprattutto
all'aumento dei prezzi del petrolio e del gas, il sottoproletariato russo è rimasto immutato, con tutte le
malattie legate alla povertà estrema. Per quanto fosse miserabile la vita sotto il comunismo, in
appartamenti freddi e affollati, almeno i russi avevano un tetto sulla testa; nel 2006 il governo ha
ammesso che in Russia c'erano 715.000 bambini senzatetto, mentre l'Unicef parla di 3,5 milioni di
bambini."
Durante la Guerra fredda, l'alcolismo diffuso era sempre stato visto in Occidente come prova che la vita
sotto il comunismo era tanto terribile che i russi avevano bisogno di grandi quantità di vodka per arrivare
alla fine della giornata. Sotto il capitalismo, tuttavia, i russi bevono oltre il doppio di prima, e
consumano antidolorifici più forti. Lo zar russo della droga, Aleksandr Mikhailov, dice che il numero di
persone che fa uso di stupefacenti è aumentato del 900 per cento tra il 1994 e il 2004, giungendo a oltre 4
milioni di persone, molte delle quali sono dipendenti dall'eroina. L'epidemia di droga ha contribuito a un
altro killer silenzioso: nel 1995, cinquantamila russi erano sieropositivi, e in soli due anni la cifra è
raddoppiata; dieci anni dopo, secondo l'Unaids, quasi un milione di russi sono sieropositivi.
Queste sono morti lente, ma ci sono anche quelle veloci. Appena la shockterapia fu introdotta, nel 1992,
il tasso di suicidi in
Russia, già elevato, iniziò a salire; il 1994, picco delle "riforme" di Eltsin, vide il tasso di suicidi quasi
raddoppiato rispetto a otto anni prima. I russi si ammazzavano anche a vicenda con frequenza molto
maggiore; nel 1994, i crimini violenti erano aumentati di oltre 4 volte.
"Cosa hanno guadagnato la nostra patria e il suo popolo dagli ultimi 15 anni di criminalità?" chiese
Vladimir Gusev, accademico moscovita invitato a una manifestazione per la democrazia nel 2006.
"Gli anni di capitalismo criminale hanno ucciso il 10 per cento della nostra popolazione." La
popolazione russa è effettivamente in forte calo: il Paese sta perdendo circa 700.000 abitanti l'anno.
Tra il 1992, primo anno di shockterapia, e il 2006, la popolazione russa si è ridotta di 6,6 milioni di
persone. Tre decenni fa, André Gunder Frank, l'economista dissidente di Chicago, scrisse una lettera a
Milton Friedman accusandolo di "genocidio economico". Molti russi, oggi, descrivono la lenta sparizione
dei loro concittadini in termini simili.
Questa miseria pianificata è resa ancor più grottesca perché la ricchezza accumulata dalle élite è
ostentata a Mosca come da nessun'altra parte nel mondo, a parte qualche emirato del petrolio. In Russia
oggi, la ricchezza è così stratificata che ricchi e poveri sembrano vivere non solo in Paesi diversi, ma in
diversi secoli. Un fuso orario è quello del centro di Mosca, trasformatosi a gran velocità in una città del
peccato futuristica del ventunesimo secolo, dove gli oligarchi girano in convogli di Mercedes nere,
guardati a vista da soldati mercenari di prima categoria, e dove i manager occidentali sono sedotti di
giorno dalla facilità degli investimenti e di notte dalle prostitute omaggio della casa. Nell'altro fuso
orario, una ragazza di provincia di diciassette anni, quando le si chiede delle sue speranze per il futuro,
risponde: "È difficile parlare del ventunesimo secolo, stando seduti qui a leggere a lume di candela. Il
ventunesimo secolo non importa. Qui siamo fermi al diciannovesimo".''
Il saccheggio di un Paese ricco di risorse come la Russia ha richiesto atti estremi di terrore: dall'incendio
del parlamento all'invasione della Cecenia. "Una politica che conduce alla povertà e al crimine" scrive
Georgi Arbatov, uno dei primi (e ignorati) consulenti economici di Eltsin "[...] può sopravvivere solo a
patto di sopprimere la democrazia." Come era accaduto nel Cono del Sud, in Bolivia durante lo stato di
assedio, in Cina durante Tienanmen. Come sarebbe accaduto in Iraq.
Nel dubbio, è sempre colpa della corruzione.
Leggendo gli articoli della stampa occidentale sulla shockterapia in Russia, si resta sorpresi da quanto le
discussioni di quegli anni siano simili ai dibattiti che più di dieci anni dopo si sarebbero accesi a
proposito dell'Iraq. Per le amministrazioni Clinton e Bush Sr., per non parlare dell'Unione Europea, del
G7 e del Fmi, in Russia l'obiettivo era evidentemente quello di cancellare lo Stato preesistente e creare
le condizioni per una frenesia capitalistica che a sua volta avrebbe dato il via a una rigogliosa
democrazia liberista - gestita da neolaureati americani con troppa fiducia in se stessi.
In altre parole, era l'Iraq senza gli esplosivi.
Nel momento di massimo zelo shockterapico in Russia, i capi della tifoseria neoliberista erano sicuri che
solo la totale distruzione di ogni singola istituzione avrebbe potuto creare le basi per una rinascita
nazionale: il sogno della tabula rasa che si sarebbe ripresentato a Baghdad. È "auspicabile"
scrive lo storico di Harvard Richard Pipes "che la Russia continui a disintegrarsi finché nulla rimarrà
delle sue strutture istituzionali". E l'economista Richard Ericson, della Columbia University, scrisse nel
1995: "Ogni riforma dev'essere distruttiva come mai nessun'altra prima. Un intero mondo va sradicato,
comprese tutte le istituzioni economiche e la maggior parte delle istituzioni sociali e politiche, e
terminando con la struttura fisica di produzione, capitale e tecnologia".
Altro parallelismo con l'Iraq: per quanto Eltsin apparisse ben poco democratico, il suo governo fu
comunque visto in Occidente come parte di "una transizione alla democrazia"; opinione che sarebbe
cambiata solo quando Putin avrebbe iniziato a usare il pugno di ferro contro le proprietà di diversi
oligarchi. Analogamente, l'amministrazione Bush ha sempre dichiarato che l'Iraq avrebbe ottenuto presto
la libertà, anche di fronte alle prove incontrovertibili delle torture, agli squadroni della morte, alla
pervasiva censura sulla stampa. Il programma economico russo è stato sempre descritto come
"riforma", proprio come l'Iraq è perennemente "in ricostruzione", anche dopo la fuga della maggior parte
degli appaltatori americani, che hanno lasciato l'infrastruttura in macerie, mentre la distruzione procede
inesorabile. In Russia a metà degli anni Novanta, chiunque osava mettere in dubbio la saggezza dei
"riformatori" era liquidato come un nostalgico stalinista, esattamente come i critici dell'occupazione
irachena sono stati accusati per armi di pensare che si stesse meglio sotto Saddam Hussein.
Quando non fu più possibile nascondere il fallimento del programma di shockterapia in Russia, la
propaganda si rivolse alla "cultura della corruzione", e si disse che i russi non erano "pronti" per la vera
democrazia, a causa della loro lunga tradizione di autoritarismo.
I neoliberisti di Washington rinnegarono in tutta fretta la "Frankenstein economy" che avevano contribuito
a creare in Russia, chiamandola "capitalismo della mafia": un fenomeno - secondo loro tipico del carattere russo. "Niente di buono verrà mai fuori dalla Russia" scrisse nel 2001 l'"Atlantic
Monthly" citando un impiegato russo. Nel "Los Angeles Times", il giornalista e scrittore Richard Lourie
affermò che "i russi sono una nazione così disastrosa che anche quando fanno qualcosa di logico e banale,
come votare o far soldi, fanno un gran pasticcio". L'economista Anders Aslund ha sostenuto che "le
tentazioni del capitalismo" da sole avrebbero trasformato la Russia, che il potere della pura avidità
avrebbe dato la forza per ricostruire il Paese. Quando, qualche anno dopo, gli fu chiesto cos'era andato
storto, rispose: "Corruzione, corruzione e corruzione"; come se la corruzione fosse qualcosa di diverso
dalla sfrenata espressione delle "tentazioni del capitalismo" che egli aveva elogiato con tanto
entusiasmo.'
Questa farsa sarebbe stata ripetuta un decennio più tardi, per giustificare i miliardi di dollari per la
ricostruzione spariti in Iraq. La deturpante eredità di Saddam e le patologie dell'"Islam radicale"
avrebbero preso il posto dell'eredità del comunismo e dello zarismo. In Iraq, la rabbia degli americani di
fronte all'apparente incapacità degli iracheni di accettare il dono della "libertà" a fucili spianati si
sarebbe tramutata in insulti: se non che, in Iraq, quella rabbia non si sarebbe espressa soltanto negli irosi
editoriali sugli iracheni "ingrati", ma avrebbe colpito, per mano dei soldati inglesi e americani, i corpi
dei civili iracheni.
Il vero problema della scelta di incolpare la Russia è che previene qualsiasi serio tentativo di esaminare
ciò che questo episodio può insegnarci sul vero volto della crociata per il liberismo sfrenato, il trend
politico più potente degli ultimi trent'anni. La corruzione di molti oligarchi è ancora definita una forza
estranea che ha infettato piani liberisti altrimenti validi. Ma la corruzione non era una forza esterna alle
riforme liberiste: i contratti rapidi e sporchi erano incoraggiati dai poteri occidentali'come il modo più
veloce per far ripartire l'economia. La salvezza nazionale attraverso lo sfruttamento dell'avidità era, per i
finti Chicago Boys e i loro consulenti, quanto di più vicino a un progetto avessero a disposizione, per
stabilire cosa fare dopo aver terminato di distruggere le istituzioni russe.
Né questi risultati catastrofici furono limitati alla sola Russia: l'intera, trentennale storia dell'esperimento
condotto dalla Scuola di Chicago è stata una storia di corruzione diffusa e collusione corporativista, tra
stati di sicurezza e grandi corporazioni, dai piranha cileni alle clientelati privatizzazioni argentine, agli
oligarchi russi, al gioco delle tre carte che la Enron ha fatto sull'energia, alla "frode libera" in Iraq. Lo
scopo della shockterapia è aprire una finestra per enormi profitti in brevissimo tempo - non malgrado
l'anarchia ma esattamente grazie a essa. "La Russia è diventata il Klondike per gli speculatori
internazionali" titolava un quotidiano russo nel 1997, mentre "Forbes" descriveva la Russia e l'Europa
centrale come "la nuova frontiera". Il vocabolario coloniale era perfettamente appropriato.
Il movimento che Milton Friedman lanciò negli anni Cinquanta del Novecento può essere descritto come
un tentativo, da parte del capitale multinazionale, di riconquistare la frontiera ricca e selvaggia che Adam
Smith, antesignano intellettuale dei neoliberisti di oggi, ammirava così tanto; ma con una novità. Anziché
esplorare le "nazioni selvatiche e barbare" di cui parlava Smith, in cui non vigevano le leggi occidentali
(non sembrava più un'opzione praticabile), questo movimento decise di smantellare sistematicamente le
leggi e i regolamenti esistenti, per ricreare quella assenza di leggi. E laddove i colonialisti di Smith
facevano i loro profitti record impadronendosi di quelle che lui chiamava "terre incolte" per "pochi
spiccioli", le multinazionali di oggi vedono programmi di governo, beni pubblici e tutto ciò che non è in
vendita come terreno da conquistare e far proprio: l'ufficio postale, i parchi nazionali, le scuole, la
sicurezza sociale, la protezione civile e qualsiasi altra cosa amministrata pubblicamente.
Nell'economia della Scuola di Chicago, lo Stato agisce come la frontiera coloniale, che gli imprenditoriconquistadores saccheggiano con la stessa focosa determinazione ed energia di quando i loro
predecessori portavano a casa l'oro e l'argento delle Ande. Dove Smith vedeva fertili campi verdi
trasformati in redditizie fattorie nelle pampas e nelle praterie, Wall Street vedeva grandiose opportunità
d'investimento nella compagnia telefonica cilena, nelle linee aeree argentine, nei pozzi di petrolio russi,
nel sistema idrico boliviano, nelle frequenze radiotelevisive pubbliche degli Stati Uniti, nelle fattorie
polacche: tutti costruiti con soldi pubblici, e quindi venduti per pochi spiccioli.
E poi ci sono i tesori creati permettendo allo Stato di brevettare forme di vita e risorse naturali mai prima
d'ora considerate merci (e attaccarci sopra un cartellino con il prezzo): semi, geni, carbonio
nell'atmosfera terrestre. Cercando senza sosta nuove frontiere del profitto nelle risorse pubbliche, gli
economisti della Scuola di Chicago hanno svolto un ruolo simile a quello dei cartografi dell'era
coloniale, che identificavano nuovi corsi d'acqua in Amazzonia, segnando l'ubicazione di un forziere
d'oro nascosto in un tempio Inca.
La corruzione è un elemento immancabile di queste frontiere contemporanee, come lo era nella caccia al
tesoro coloniale. Poiché i contratti di privatizzazione più significativi sono sempre firmati nel tumulto di
una crisi economica o politica, non ci sono mai leggi chiare e regolamentazioni efficaci: l'atmosfera è
caotica, i prezzi sono flessibili, e così gli uomini politici. Quello in cui abbiamo vissuto per tre decenni è
capitalismo di frontiera, in cui la frontiera si sposta continuamente da crisi a crisi, allontanandosi non
appena la legge recupera il terreno perduto.
E così, ben lungi dal fungere come ammonimento per il futuro, l'ascesa degli oligarchi miliardari in
Russia dimostrò quanto poteva essere redditizio depredare uno Stato industrializzato: e Wall Street non si
accontentò. Subito dopo il collasso dell'Unione Sovietica, la Tesoreria americana e il Fmi chiesero con
molta più insistenza privatizzazioni immediate in altri Paesi in crisi. Il caso più eclatante finora risale al
1994, l'anno successivo al golpe di Eltsin, quando l'economia del Messico patì un grave crollo noto come
"Crisi della tequila": i termini della cauzione richiesta dagli Stati Uniti imponevano privatizzazioni
immediate, e "Forbes" annunciò che il processo aveva coniato ventitré nuovi miliardari. "La lezione qui è
evidente: per predire da dove arriverà la prossima ondata di miliardari, basta cercare Paesi in cui i
mercati si stanno aprendo." Altra conseguenza fu che il Messico venne spalancato alla proprietà
straniera: nel 1990, solo una delle banche messicane era in mano agli stranieri; ma "nel 2000, 24 su 30
erano in mano straniera". Chiaramente, l'unica lezione appresa dalla Russia è che più è rapido e
fuorilegge il trasferimento di ricchezza, e più sarà profittevole.
Una persona che comprendeva tutto ciò era Gonzalo Saz de Lozada (Goni), l'uomo d'affari nel cui salotto
era stato scritto nel 1985 il progetto per la shockterapia in Bolivia. In qualità di presidente del Paese a
metà degli anni Novanta, vendette la compagnia petrolifera nazionale boliviana. Così come le linee aeree
nazionali, le ferrovie, l'elettricità e le compagnie telefoniche. Diversamente da ciò che è trapelato in
Russia, dove i premi più ambiti erano riservati ai connazionali, i vincitori della svendita boliviana
comprendevano
Enron, Royal Dutch/Shell, Amoco Corp. e Citicorp; e le vendite furono dirette: non c'era alcun bisogno di
associarsi ad aziende locali. Il "Wall Street Journal descrisse così la scena da film western a La Paz nel
1995: "Il Radisson Plaza Hotel è pieno di manager di grandi corporation statunitensi come AMR,
American Airlines, MCI Communications, Exxon, e Salomon Brothers.
Sono stati invitati dai boliviani per riscrivere le leggi che regolano i settori in via di privatizzazione, e
per scommettere sulle aziende in vendita": un'organizzazione perfetta. "La cosa importante è rendere
irreversibili questi cambiamenti, e metterli in atto prima che intervengano gli anticorpi"
disse il presidente Sanchez de Lozada, spiegando il proprio approccio alla shockterapia. Per essere del
tutto sicuro che quegli "anticorpi" non si presentassero, il governo boliviano fece una cosa che aveva già
fatto un'altra volta, in circostanze simili: impose un altro prolungato "stato d'assedio" che proibì le
riunioni politiche e autorizzò l'arresto di tutti gli oppositori del processo.
Questi erano anche gli anni del notoriamente corrotto circo della privatizzazione in Argentina, definito "A
Bravo New World" ["Un nuovo mondo di sgherri"] dalla Goldman Sachs in un rapporto sugli
investimenti. Carlos Menem, il presidente peronista che salì al potere promettendo di dar voce ai
lavoratori, si comportò da padrone, riducendo l'organico e poi vendendo giacimenti petroliferi, telefoni,
linee aeree, treni, aeroporti, autostrade, sistema idrico, banche, lo zoo di Buenos Aires e, alla fine, le
poste e il piano pensionistico nazionale. Mentre la ricchezza della nazione si spostava all'estero, lo stile
di vita dei politici argentini si faceva sempre più lussuoso. Menem, un tempo noto per le sue giacche di
pelle e le basette da operaio, iniziò a indossare abiti italiani e si diffuse la voce che frequentasse
chirurghi plastici (giustificò il volto gonfio con "una puntura d'ape"). Maria Julia Alsogaray, ministro per
le privatizzazioni del governo Menem, posò per la copertina di una rivista vestita solo di una pelliccia
accuratamente drappeggiata, mentre Menem prese a guidare una fiammante Ferrari Testarossa: "regalo"
di un imprenditore riconoscente.
I Paesi che emularono le privatizzazioni russe sperimentarono anch'essi versioni attutite dell'anti-golpe di
Eltsin: i governi saliti al potere in modo pacifico, attraverso elezioni, si ritrovarono a dover aumentare il
tasso di brutalità per conservare il potere e difendere le riforme. In Argentina, il dominio assoluto del
neoliberismo finì il 19 dicembre 2001, quando il presidente Fernando de la Rùa e il suo ministro delle
Finanze, Domingo Cavallo, cercarono di imporre ulteriori misure di austerity prescritte dal Fmi. La
popolazione si ribellò, e de la Rùa inviò la polizia federale con l'ordine di disperdere la folla con ogni
mezzo necessario. De la Rùa fu costretto a fuggire in elicottero, ma non prima che ventuno dimostranti
fossero uccisi dalla polizia e 1350 persone restassero ferite. Gli ultimi mesi e giorni in carica di Goni
furono ancora più sanguinosi. Le sue privatizzazioni provocarono una serie di "guerre" in Bolivia: prima
la guerra per l'acqua, contro il contratto della Bechtel che aveva fatto alzare i prezzi del 300 per cento;
poi una "guerra delle tasse"
contro un piano prescritto dal Fmi che prevedeva di colmare un buco di bilancio tassando i lavoratori
poveri; poi le "guerre del gas" contro i suoi piani per esportare il gas negli Stati Uniti.
Alla fine, anche Goni fu costretto a fuggire dal palazzo presidenziale e ad andare in esilio negli Stati
Uniti, ma, come nel caso di de la Rùa, non prima di aver causato molte vittime. Quando Goni ordinò
all'esercito di soffocare le manifestazioni di piazza, i soldati uccisero quasi settanta persone molti dei quali erano semplici passanti - e ne ferirono quattrocento. All'inizio del 2007 Goni era
ricercato dalla Corte Suprema boliviana, accusato di questo massacro.
I regimi che avevano imposto massicce privatizzazioni in Argentina e Bolivia furono portati come esempi
di come la shockterapia potesse essere imposta pacificamente e democraticamente, senza colpi di Stato o
repressioni. Benché sia vero che nessuna delle due è iniziata con una scarica di pallottole, è significativo
che entrambe siano finite proprio così.
In gran parte dell'emisfero australe, il neoliberismo è spesso definito "il secondo saccheggio coloniale":
nel primo, le ricchezze furono strappate alla terra, e nel secondo furono sottratte allo Stato. Dopo
ciascuna di queste corse al profitto arrivano le promesse: la prossima volta, ci si assicurerà di avere
leggi solide prima di svendere le risorse nazionali, e l'intero processo sarà guardato a vista da regolatori
e investigatori dall'irreprensibile moralità. La prossima volta "si ricostruiranno le istituzioni
democratiche" prima di privatizzare (per usare il lessico in voga dopo gli eventi in Russia). Ma chiedere
giustizia e ordine dopo che i profitti sono stati trasferiti all'estero è in realtà solo un modo di legalizzare
il furto ex post, non diversamente da come i colonizzatori europei regolavano con trattati le proprie
annessioni territoriali. L'assenza di leggi alla frontiera, come Adam Smith aveva compreso, non è il
problema ma lo scopo ultimo, ed è parte del gioco quanto lo sono il falso pentimento e le promesse di far
meglio la prossima volta.
12.
L'identità capitalista.
La Russia e la nuova era del mercato barbaro.
Lei si è reso amministratore fiduciario di coloro che, in ogni Paese, cercano di porre rimedio ai mali
della nostra condizione mediante esperimenti ragionati all'interno della struttura del sistema sociale
esistente. Se lei fallirà, il cambiamento razionale sarà gravemente compromesso in tutto il mondo,
lasciando ortodossia e rivoluzione a combattersi all'ultimo sangue.
John Maynard Keynes in una lettera al presidente ED. Roosevelt, 1933.
Il giorno di ottobre del 2006 in cui feci visita a Jeffrey Sachs, New York era avvolta da una cappa umida
e grigia di pioggia sottile, interrotta, più o meno ogni cinque passi, da un'esplosione di rosso vivo. Era la
settimana scelta per il lancio in grande stile della marca Product Red di Bono, e la città era oggetto di un
vero e proprio blitz. iPod rossi e occhiali da sole rossi di Armani ammiccavano dai cartelloni appesi ai
palazzi, ogni fermata dell'autobus era decorata con foto di Steven Spielberg o Penèlope Cruz vestiti di
rosso, ogni negozio Gap in città si era buttato anima e corpo nel lancio e l'Apple Store sulla Fifth Avenue
emetteva un bagliore roseo. "Può una canottiera cambiare il mondo?" chiedeva un cartellone. Sì che può,
ci assicuravano, perché una parte dei profitti sarebbe andata al Fondo globale per la lotta all'Aids, alla
tubercolosi e alla malaria. "Shop till it stops!", compra finché non finisce, aveva proclamato Bono, nel
mezzo di una spedizione di shopping con Oprah Winfrey trasmessa in tv due giorni prima.
Avevo il sospetto che la maggior parte dei giornalisti desiderosi di parlare con Sachs quella settimana
avrebbero chiesto l'opinione dell'economista superstar su questo nuovo sistema alla moda per raccogliere
fondi a scopo umanitario. Dopotutto, Bono chiama Sachs "il mio professore", e una foto che li ritrae
insieme fu la prima cosa che vidi entrando nell'ufficio di Sachs alla Columbia University (ha lasciato
Harvard nel 2002). Nel bel mezzo di questa beneficenza glamour, mi sentii un po' guastafeste, perché
volevo parlare dell'argomento a lui più odioso, quello che l'ha condotto a minacciare di sbattere il
telefono in faccia agli intervistatori. Volevo parlare della Russia e di cosa andò storto laggiù.
Fu in Russia, dopo il primo anno di shockterapia, che Sachs iniziò la sua transizione personale, da dottor
shock globale a uno dei più accaniti sostenitori degli aiuti ai Paesi poveri. È una transizione che, in questi
anni, l'ha messo in conflitto con molti ex colleghi e collaboratori nei circoli di economia ortodossa. Ma
Sachs ritiene di non essere stato lui a cambiare: è sempre stato convinto della necessità di aiutare i Paesi
a sviluppare economie di mercato sostenute da generosi aiuti e remissioni del debito. Per anni ha ritenuto
possibile ottenere questi obiettivi lavorando con il Fmi e la Tesoreria americana. Ma quando si trovò sul
campo in Russia, il tenore delle discussioni era cambiato e lui si scontrò con un tale livello di
indifferenza ufficiale che rimase scioccato, e si pose su un terreno di aperto conflitto con l'establishment
economico americano.
Con il senno di poi, non c'è dubbio che la Russia abbia segnato l'inizio di un nuovo capitolo
nell'evoluzione della crociata della Scuola di Chicago. Nei precedenti laboratori di shockterapia negli
anni Settanta e Ottanta, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e il Fmi avevano mostrato il desiderio
che questi esperimenti avessero un seppur minimo successo: precisamente perché erano esperimenti, che
dovevano servire da modello per altri Paesi. Le dittature latinoamericane degli anni Settanta furono
ricompensate, per i loro attacchi ai sindacati e per aver aperto le frontiere, con prestiti sostanziosi,
concessi nonostante divergenze dall'ortodossia della Scuola di Chicago come il fatto che lo Stato cileno
continuasse a controllare le miniere di rame più grandi del mondo, o la lentezza dimostrata dalla giunta
argentina nelle privatizzazioni. La Bolivia, in quanto prima democrazia ad adottare la shockterapia negli
anni Ottanta, ottenne alcuni aiuti e la cancellazione di parte del proprio debito, molto prima che Goni
avviasse le privatizzazioni negli anni Novanta. In Polonia, il primo Paese del Blocco orientale a imporre
la shockterapia, Sachs non ebbe problemi a garantire ingenti prestiti e, di nuovo, le grandi privatizzazioni
furono rallentate e bloccate quando il progetto originale incontrò una forte opposizione.
La Russia era diversa. "Troppo shock, poca terapia" era il verdetto diffuso. I poteri occidentali erano
irremovibili nel pretendere le più dolorose "riforme", e intanto si mostravano estremamente tirchi nel
concedere in cambio aiuti economici. Persino Pinochet aveva attutito il colpo della shockterapia
garantendo il cibo per i bambini più poveri; i prestatori di Washington non vedevano motivi di aiutare
Eltsin a fare la stessa cosa, e preferirono spingere il Paese nel suo incubo hobbesiano.
Parlare di Russia con Sachs non è facile. Speravo di condurre la conversazione oltre l'iniziale reticenza
("Avevo ragione io, e loro avevano torto marcio", o "Vada a chiederlo a Larry Summers, non a me;
chieda a Bob Rubin, a Clinton, a Cheney quanto sono contenti di come è finita la Russia"); oltre lo
scoraggiamento ("All'epoca stavo cercando di fare qualcosa, che si dimostrò completamente inutile").
Volevo capire meglio perché aveva fallito così miseramente in Russia, perché la fortuna l'aveva
abbandonato in quel particolare frangente.
Sachs oggi dice di aver capito appena arrivato a Mosca che c'era qualcosa di diverso. "Avevo un gran
brutto presentimento fin da subito [...] ero furioso fin dal primo momento." La Russia aveva di fronte "una
crisi macroeconomica in grande stile, una delle più intense e instabili che io abbia mai visto in vita mia"
disse. E quanto a lui, era convinto che la via d'uscita fosse chiara: le misure di shockterapia che aveva
prescritto alla Polonia. "Le forze base del mercato dovevano mettersi subito al lavoro, e poi una valanga
di aiuti. Pensavo a 30 miliardi di dollari l'anno, 15 alla Russia e 15 alle repubbliche, per riuscire in una
transizione pacifica e democratica."
Sachs, questo va detto, ha una memoria assai selettiva quanto alle politiche draconiane da lui promosse in
Polonia e in Russia. Nella nostra intervista, sorvolò ripetutamente sulle privatizzazioni rapide, i grossi
tagli e gli aumenti dei prezzi (in breve, sulla shockterapia, una definizione che ora sconfessa, sostenendo
che si riferiva solo a ristrette misure delle politiche dei prezzi, non a trasformazioni complete di un
Paese). Per come ricorda il suo ruolo, la shockterapia ha giocato un ruolo minore, e la sua attenzione si è
concentrata quasi esclusivamente sulla raccolta di fondi; il suo piano per la Polonia, dice, era "un fondo
di stabilizzazione, cancellazione del debito, aiuto finanziario a breve termine,
integrazione con l'economia dell'Europa occidentale [...] Quando il team di Eltsin mi chiese di aiutarli,
proposi grossomodo la stessa cosa".
Nel resoconto di Sachs non è trattato l'elemento chiave, ovvero che l'assicurarsi una grossa infusione di
aiuti fosse un pilastro basilare del suo piano per la Russia: fu questo incentivo a convincere Eltsin ad
accettare l'intero programma. Sachs basava questa visione, dice, sul Piano Marshall: i 12,6 miliardi di
dollari (130 miliardi di oggi) che gli Stati Uniti stanziarono in Europa per ricostruire le infrastrutture e le
industrie dopo la Seconda guerra mondiale, uno schema considerato da molti come la migliore iniziativa
diplomatica di Washington. Sachs dice che il Piano Marshall ha mostrato che "quando un Paese è nel
caos non puoi aspettarti che si rimetta in piedi coordinandosi da solo. Quindi per me la cosa interessante
del Piano Marshall [...] è come una modesta infusione di denaro abbia creato le basi per la guarigione
dell'economia [europea]".
All'inizio, era convinto che a Washington ci fosse una simile volontà politica di trasformare la Russia in
un'economia capitalista di successo, così come, dopo la Seconda guerra mondiale, c'era stato un impegno
sincero nei confronti della Germania Ovest e del Giappone.
Sachs era sicuro di poter convincere il Tesoro statunitense e il Fmi a varare un nuovo Piano Marshall, e
non senza ragione. Il "New York Times" lo definiva "probabilmente il più importante economista al
mondo".
Nota: come osservò John Cassidy in un profilo redatto per il "New Yorker" nel 2005: "Il fatto è che sia
in Polonia sia in Russia Sachs preferì l'ingegneria sociale su vasta scala al mutamento graduale e alla
costruzione di istituzioni. La disastrosa politica di privatizzazioni ne è un esempio. Anche se gran parte
delle privatizzazioni si svolsero dopo che Sachs lasciò la Russia, alla fine del 1994, il quadro politico
originario fu messo in pratica tra il 1992 e il 1993, quando lui era ancora lì".
Egli stesso ricorda che, quando era consulente del governo polacco, era riuscito a "raccogliere un
miliardo di dollari in un giorno solo alla Casa Bianca". Ma, mi disse, "quando suggerii di fare la stessa
cosa per la Russia, non suscitai alcun interesse. Nulla. E il Fmi mi guardò come fossi pazzo".
Sebbene Eltsin e i suoi Chicago Boys avessero molti ammiratori a Washington, nessuno era disposto a
fornire gli aiuti di cui parlavano. Ovvero, Sachs aveva caldeggiato l'applicazione di riforme in Russia, e
ora non era in grado di continuare a finanziarle. Fu in questo periodo che mostrò una seppur limitata
capacità di autocritica: "Il mio errore più grande" disse nel bel mezzo della débâcle russa "è stato dire ai
presidente Boris Eltsin: non si preoccupi, gli aiuti stanno arrivando. Credevo davvero che l'assistenza
fosse troppo importante, troppo cruciale per l'Occidente, perché decidessero di mandarla all'aria così
completamente". Ma il problema non era solo che il Fmi e il Tesoro americano non avevano dato retta a
Sachs, ma che Sachs aveva spinto eccessivamente per la shockterapia prima di avere qualsiasi garanzia
che gli dessero retta. Una scommessa per la quale milioni di persone pagarono un prezzo molto alto.
Quando affrontai la questione con lui, Sachs ripetè che il suo vero errore era stato nel fraintendere
l'umore politico di Washington. Ricordò una discussione avuta con Lawrence Eagleburger, segretario di
Stato sotto George H.W. Bush. Sachs aveva esposto la sua opinione: se alla Russia si fosse permesso di
precipitare ulteriormente nel caos economico, potevano scatenarsi forze incontrollabili: carestie, ripresa
del nazionalismo, addirittura il fascismo, che di certo non era una buona idea in un Paese in cui
praticamente l'unico prodotto in surplus erano le armi nucleari. "La sua analisi potrebbe essere corretta,
ma non succederà" rispose Eagleburger. Poi chiese a Sachs:
"Lei sa in che anno siamo?".
Correva il 1992, l'anno dell'elezione in cui Bill Clinton stava per sconfiggere Bush Sr. Il punto di forza
della campagna di Clinton scandita dallo slogan "It's the economy, stupid!" - era che Bush aveva
trascurato i guai economici in patria per inseguire la gloria all'estero. Sachs è convinto che la Russia sia
stata un effetto collaterale di questa battaglia interna. E sostiene che ora capisce che c'era un'altra forza in
campo: molti faccendieri di Washington stavano ancora combattendo la Guerra fredda. Vedevano il
collasso dell'economia russa come una vittoria geopolitica: la vittoria decisiva che avrebbe assicurato la
supremazia americana. "Non la pensavo affatto così" mi disse Sachs, con il solito tono da boy scout finito
per caso in un episodio dei Soprano. "Pensavo solo: "Fantastico, questa è la fine di quell'abominevole
regime. Ora, vediamo di aiutarli davvero [i russi]. Facciamo tutto quel che possiamo [...]". Sono certo
che con il senno di poi, ai pianificatori politici sarà sembrata una cosa folle."
Nonostante il suo fallimento, Sachs non crede che la politica nei confronti della Russia in quel periodo
fosse guidata dall'ideologia liberista; fu caratterizzata, secondo lui, soprattutto "dalla semplice pigrizia".
Avrebbe apprezzato un acceso dibattito sul tema "offrire aiuti alla Russia o lasciare tutto nelle mani del
mercato".
Invece, ci fu una scrollata di spalle collettiva. Sachs disse di essere stupito dall'assenza di un serio
impegno di ricerca e dibattito alla base di decisioni così importanti. "Per me il problema principale era
solo la mancanza di impegno. Dedichiamo un paio di giorni a discuterne... Be', nemmeno questo siamo
riusciti a fare! Non li ho mai visti lavorare seriamente, e dire: rimbocchiamoci le maniche e risolviamo
questi problemi, cerchiamo di capire bene cosa sta succedendo."
Quando Sachs parla con tono appassionato di "lavoro serio", evoca i giorni del New Deal, della Grande
società e del Piano Marshall, quando i giovani laureati dell'Ivy League sedevano attorno a tavoli di
quercia a Washington, in maniche di camicia, circondati da tazze di caffè vuote e documenti, impegnati in
lunghi e accaniti dibattiti sui tassi d'interesse e il prezzo del grano. È così che agivano gli strateghi
politici ai tempi d'oro del keynesianismo, ed è questo il genere di "serietà" che la catastrofe russa
evidentemente meritava.
Ma attribuire l'abbandono della Russia a un attacco di pigrizia collettiva a Washington non basta a
spiegare l'accaduto. Forse un modo migliore per comprendere l'episodio è vederlo attraverso la lente
preferita degli economisti del libero mercato: la competizione nel mercato. Quando la Guerra fredda era
all'apice e l'Unione Sovietica era ancora intatta, i popoli del mondo avrebbero potuto scegliere (almeno
in teoria) quale ideologia volevano consumare. Ciò significava che il capitalismo doveva accaparrarsi
dei clienti; doveva offrire incentivi; doveva offrire un buon prodotto. Il keynesianismo fu sempre
espressione di quel bisogno di competere tipico del capitalismo. Il presidente Roosevelt varò il New
Deal non solo per affrontare la disperazione della Grande depressione, ma per indebolire un potente
movimento di cittadini americani che, duramente colpiti dal liberismo deregolamentato, chiedevano a
gran voce un diverso modello economico. C'era chi ne voleva uno radicalmente diverso: alle elezioni
presidenziali del 1932, un milione di americani votò per candidati socialisti o comunisti. Sempre più
americani, poi, tenevano d'occhio Huey Long, il senatore populista della Louisiana convinto che tutti gli
americani dovessero ricevere un salario annuo garantito di 2500 dollari. Roosevelt, per spiegare come
mai avesse aggiunto sussidi di previdenza sociale al New Deal del 1935, disse che aveva voluto "rubare
la scena a Long".
Fu in questo contesto che gli industriali americani accettarono controvoglia il New Deal di Roosevelt.
Dovettero smussare gli angoli del mercato creando posti di lavoro nel settore pubblico e accertandosi
che nessuno facesse la fame: era in gioco il futuro stesso del capitalismo. Durante la Guerra fredda,
nessun Paese nel mondo libero era immune a questa pressione. Anzi, i risultati ottenuti dal capitalismo di
metà secolo, o quello che Sachs chiama capitalismo "normale" - le tutele per i lavoratori, le pensioni, la
sanità pubblica e il sostegno dello Stato ai cittadini più poveri in Nordamerica - provengono da quello
stesso bisogno pragmatico di fare importanti concessioni a una sinistra potente.
Il Piano Marshall fu l'arma estrema dispiegata su questo fronte economico. Dopo la guerra, l'economia
tedesca era in crisi, e minacciava di far crollare il resto dell'Europa occidentale. Nel frattempo, così tanti
tedeschi furono sedotti dal socialismo che il governo americano scelse di dividere la Germania in due
parti, piuttosto che rischiare di perderla completamente, o perché sarebbe collassata o perché sarebbe
finita in mano alle sinistre. Nella Germania Ovest, il governo americano usò il Piano Marshall per
costruire un sistema capitalista che non mirava a creare nuovi mercati facili e veloci per la Ford e la
Sears, ma che si sarebbe rivelato così riuscito e vincente che il socialismo avrebbe perduto ogni fascino.
Nel 1949, ciò significava tollerare dal governo della Germania Ovest tutte quelle politiche che erano
chiaramente non-capitaliste: creazione diretta di posti di lavoro da parte dello Stato, grossi investimenti
nel settore pubblico, sussidi per le proprie industrie tedesche, sindacati forti. Con una mossa che sarebbe
stata impensabile in Russia negli anni Novanta o in Iraq sotto l'occupazione americana, il governo
statunitense fece infuriare le proprie aziende imponendo una moratoria sugli investimenti esteri, così che
le industrie tedesche, martoriate dalla guerra, non fossero obbligate a competere prima di essersi riprese.
"La sensazione era che lasciar entrare le aziende straniere in quel momento sarebbe stata una forma di
pirateria" mi disse Caroljm Eisenberg, autrice di un importante saggio storico sul Piano Marshall. "La
differenza fondamentale tra ieri e oggi è che il governo americano non vedeva la Germania come una
gallina dalle uova d'oro. Non volevano creare antagonismi. L'idea era che se tu arrivi e cominci a
saccheggiare le loro case, interferisci con la ripresa dell'Europa intera."
Questo approccio, fa notare la Eisenberg, non sorse dall'altruismo. "L'Unione Sovietica era come una
pistola carica. L'economia era in crisi, la sinistra tedesca era influente, e loro [l'Occidente]
dovevano ottenere la fedeltà del popolo tedesco, e in fretta. Si consideravano davvero come combattenti
per l'anima della Germania."
Il resoconto offerto dalla Eisenberg della lotta ideologica che diede vita al Piano Marshall mostra una
lacuna persistente nel lavoro di Sachs, compresi i suoi recenti sforzi per aumentare gli aiuti destinati
all'Africa. I movimenti popolari di massa sono a malapena menzionati. Per Sachs, fare la storia è compito
delle élite: è questione di trovare i tecnocrati giusti e far loro implementare le politiche giuste. Come i
programmi di shockterapia vennero preparati in bunker segreti a La Paz e Mosca, così, in teoria, un
programma di aiuti da 30 miliardi di dollari per le repubbliche sovietiche avrebbe dovuto materializzarsi
sulla sola base delle ragionevoli argomentazioni che Sachs stava proponendo a Washington. Come la
Eisenberg fa notare, tuttavia, il Piano Marshall originario non era nato dalla benevolenza, né dalla
ragionevolezza, ma dalla paura di rivolte popolari.
Sachs ammira Keynes, ma non sembra interessato al fatto che ciò che in ultima analisi rese il
keynesianismo possibile nel suo Paese furono le richieste confuse e militanti dei sindacalisti e dei
socialisti, la cui forza crescente rese credibile la minaccia di una soluzione più radicale, il che trasformò
il New Deal in un compromesso accettabile. Non aver compreso l'importanza del ruolo dei movimenti di
massa nel mutare la marea della storia condusse Sachs a gravi errori. Per esempio, gli impedì di vedere
la concreta realtà politica che aveva di fronte in Russia: non ci sarebbe mai stato un Piano Marshall per
la Russia, e questo perché il Piano Marshall originario era stato varato a causa della Russia. Quando
Eltsin abolì l'Unione Sovietica, la "pistola carica" che aveva costretto a sviluppare il piano originario fu
disarmata. Senza di essa, il capitalismo fu improvvisamente libero di assumere la sua forma più
selvaggia, non solo in Russia ma in tutto il mondo. Con il collasso dell'Unione Sovietica, il capitalismo
poteva contare su un monopolio globale, il che voleva dire che tutte le "distorsioni" che avevano
interferito con il perfetto equilibrio del libero mercato non erano più necessarie.
Era questo il vero lato tragico della promessa fatta ai polacchi e ai russi: che se avessero seguito la
shockterapia Si sarebbero risvegliati all'improvviso in "un normale Paese europeo". Quei normali Paesi
europei - con le loro solide reti di sicurezza sociale, le tutele per i lavoratori, i potenti sindacati e la
sanità socializzata - erano emersi come compromesso tra comunismo e capitalismo.
Ora che non c'era più bisogno di compromesso, tutte le politiche sociali moderate furono prese d'assedio
nell'Europa occidentale, come lo erano in Canada, Australia e negli Stati Uniti. Tali politiche non
sarebbero state introdotte neppure in Russia, e certo non con i soldi degli occidentali.
Questa liberazione da ogni vincolo è l'essenza della Scuola di Chicago (anche nota come neoliberismo o,
negli Stati Uniti, neoconservatorismo): non una nuova invenzione, ma il capitalismo liberato da tutti i suoi
fronzoli keynesiani, il capitalismo nella sua fase monopolistica, un sistema che non deve più sforzarsi di
conservarci come suoi clienti, che può essere antisociale, antidemocratico e disumano quanto vuole.
Finché il comunismo è rimasto una minaccia, il gentleman's agreement del keynesianismo è
sopravvissuto; una volta che quel sistema ha perso terreno, ogni traccia del keynesianismo ha potuto
finalmente essere estirpata, ottenendo così l'obiettivo che Friedman aveva posto per il movimento mezzo
secolo prima.
Era questo il senso ultimo del drammatico pronunciamento di Fukuyama sulla "fine della storia"
all'Università di Chicago nel 1989: non stava realmente dicendo che non c'erano altre idee al mondo, ma
solo che, con il collasso del comunismo, non c'erano altre idee altrettanto potenti da poter rivaleggiare
testa a testa col capitalismo.
Così, mentre Sachs vedeva il collasso dell'Unione Sovietica come liberazione dal gioco autoritario ed
era pronto a rimboccarsi le maniche e dare una mano, i suoi colleghi della Scuola di Chicago lo
vedevano come una libertà di tipo diverso: come la liberazione finale dal keynesianismo e dalle idee
filantropiche di uomini come Jeffrey Sachs. Visto in questa luce, l'atteggiamento rinunciatario che tanto
faceva infuriare Sachs riguardo alla Russia non era "pura pigrizia" ma laissez-faire in azione: non fare
nulla, lascia che le cose procedano da sole. Pur non alzando un dito per aiutare, tutti gli uomini
responsabili delle politiche per la Russia - da Dick Cheney, segretario della Difesa di Bush Sr., a
Summers, sottosegretario al Tesoro, a Stanley Fischer, vicedirettore del Fmi - stavano in effetti facendo
qualcosa: stavano mettendo in pratica la pura ideologia della Scuola di Chicago, lasciando che il mercato
facesse il peggio di cui era capace. La Russia, ancor più del Cile, aveva mostrato cosa succede quando
questa ideologia è tradotta in pratica: un presagio della corsa all'arricchimento che, a opera delle stesse
persone, avremmo visto in atto un decennio dopo in Iraq.
Le nuove regole del gioco erano in mostra a Washington il 13 gennaio 1993. L'occasione era una
conferenza piccola ma importante, riservata agli invitati, al decimo piano del Carnegie Conference
Center sul Duplnt Circle, a sette minuti di macchina dalla Casa Bianca e pochi passi dal quartier generale
del Fmi e della Banca mondiale. John Williamson, il potente economista noto per aver dettato le linee
guida sia della Banca sia del Fondo, aveva convocato la riunione come incontro storico della tribù
neoliberista. Tra i presenti c'era un impressionante dispiegamento di tecnocrati famosi, in prima linea
nella campagna per diffondere la dottrina di Chicago in tutto il mondo.
C'erano ministri ed ex ministri delle Finanze giunti dalla Spagna, dal Brasile e dalla Polonia, direttori
delle banche centrali del Messico e del Perù, il capo dello staff presidenziale messicano e un ex
presidente di Panama. C'era il vecchio amico nonché eroe di Sachs, Leszek Balcerowicz, architetto della
shockterapia polacca, oltre al suo collega di Harvard Dani Rodrik, l'economista che aveva dimostrato
che ogni Paese coinvolto nella ristrutturazione neoliberista si era poi ritrovato in una profonda crisi.
C'era Anne Krueger, futura prima vicedirettrice esecutiva del Fmi, e anche se José Piriera, il più
evangelico ministro di Pinochet, non era riuscito a venire perché impegnato nelle elezioni presidenziali
cilene, aveva mandato al suo posto un documento molto dettagliato. Sachs, all'epoca consulente di Eltsin,
doveva tenere il discorso introduttivo.
Per tutto il giorno, i partecipanti alla conferenza si erano dedicati al tipico passatempo degli economisti:
elaborare strategie per convincere politici riluttanti ad abbracciare politiche impopolari presso
l'elettorato. Quanto tempo bisognava attendere dopo le elezioni per lanciare la shockterapia?
I partiti di centrosinistra sono più efficaci di quelli di destra, dato che l'attacco è inatteso? È meglio
avvisare l'opinione pubblica o prendere la gente di sorpresa con la "politica voodoo"? Sebbene la
conferenza si intitolasse l'economia politica delle riforme - un titolo così volutamente blando che
sembrava fatto apposta per distogliere l'attenzione dei media - uno dei partecipanti osservò acutamente
che in realtà l'argomento era "economia machiavellica".
Sachs ascoltò tutto ciò per diverse ore, e dopo cena salì sul podio per pronunciare il suo discorso, che
portava il sachsiano titolo di Vivere nel pronto soccorso economico. Era visibilmente agitato. Il pubblico
era pronto a sentir parlare uno dei suoi idoli, l'uomo che aveva portato la fiaccola della shockterapia
nell'era democratica. Sachs non era dell'umore giusto per autocelebrarsi.
Piuttosto, era deciso a usare il discorso - come mi avrebbe spiegato in seguito - per cercare di far capire
ai responsabili delle politiche di Washington, e in particolare al Fmi, la gravità di quanto stava
accadendo in Russia.
Ricordò al pubblico gli aiuti che erano stati stanziati per l'Europa e il Giappone dopo la Seconda guerra
mondiale, "vitali per il successivo straordinario successo del Giappone". Raccontò di aver ricevuto una
lettera da un analista della Heritage Foundation - il perno centrale del friedmanismo che "credeva fermamente nelle riforme russe ma non negli aiuti esteri alla Russia. Questa è un'opinione
diffusa tra gli ideologi del libero mercato, tra i quali mi annovero" disse Sachs. "È
plausibile ma è un errore. Il mercato non può cavarsela da solo; gli aiuti internazionali sono di
importanza cruciale." L'ossessione laissez-faire stava conducendo la Russia alla catastrofe, dove disse - "per quanto siano valorosi, bravi e fortunati i riformatori russi, non ci riusciranno senza
un'assistenza esterna su larga scala [...] Rischiamo di perdere un'opportunità storica".
Sachs fu applaudito, naturalmente, ma la reazione fu tiepida. Perché caldeggiava spese sociali così
ingenti? Il suo pubblico era impegnato in una crociata globale per smantellare il New Deal, non per
crearne uno nuovo. Negli interventi che seguirono il suo, neanche uno dei presenti appoggiò la sfida di
Sachs, e anzi molti si opposero.
Ciò che aveva cercato di fare con quel discorso, mi disse Sachs, era stato "spiegare che aspetto aveva
una vera crisi [...] comunicare un senso di urgenza". Le persone che dettano le linee politiche da
Washington, disse, spesso "non capiscono cos'è il caos economico. Non capiscono la confusione che ne
deriva". Voleva metterli di fronte alla realtà che "c'è anche una dinamica in corso per cui le cose
sfuggono sempre più al controllo, finché arrivano altri disastri, finché Hitler torna al potere, finché non
scoppia una guerra civile, o una carestia di massa o chissà cos'altro. [...] Bisogna adottare misure di
emergenza per aiutarli, perché una situazione instabile tende inevitabilmente ad aumentare l'instabilità,
non tende a un normale equilibrio".
Non riuscivo a non pensare che Sachs stesse sottovalutando il suo uditorio. Le persone che lo
ascoltavano conoscevano bene la teoria della crisi di Milton Friedman, e molti l'avevano applicata nei
propri Paesi. I più comprendevano perfettamente quanto potesse essere lancinante e imprevedibile un
crollo economico, ma dalla Russia avevano appreso una lezione diversa: che una situazione politica
dolorosa e disorientante stava obbligando Eltsin a svendere in tutta fretta le ricchezze del Paese; un esito
decisamente favorevole.
Toccò a John Williamson, moderatore della conferenza, riportare la discussione su quelle priorità
pragmatiche. Sachs era la star dell'evento, ma era Williamson il vero guru della folla. Stempiato e poco
telegenico, ma politicamente scorretto in modo affascinante, Wniiamson ha coniato uno degli slogan in tre
parole più citati e controversi dell'economia moderna: quello del Consenso di Washington. E famoso per
le sue conferenze e seminari a porte chiuse, rigidamente strutturati, il cui obiettivo è mettere alla prova
una delle sue innovative ipotesi. Alla conferenza di gennaio, Williamson aveva un impegno pressante:
voleva mettere alla prova "l'ipotesi della crisi" una volta per tutte.
Nella sua conferenza, Williamson non parlò della necessità di salvare un Paese dalla crisi: anzi, parlò
con trasporto di eventi cataclismatici. Ricordò al pubblico le prove schiaccianti del fatto che solo quando
i Paesi soffrono davvero accettano di ingoiare la medicina amara del mercato; solo quando sono sotto
shock si piegano alla shockterapia. "Questi tempi di sventura offrono la migliore delle opportunità per
coloro che comprendono il bisogno di una riforma economica essenziale"
dichiarò."
Wniiamson, con la sua straordinaria capacità di mettere in parole il subconscio del mondo finanziario,
aggiunse poi, quasi tra parentesi, che questo sollevava alcune domande interessanti: Bisognerà chiedersi
se sia una cosa sensata pensare di provocare volontariamente una crisi, così da rimuovere l'impasse
politica alle riforme. Per esempio, in Brasile c'è chi ha suggerito che valesse la pena di alimentare
l'iperinflazione, per spaventarli e convincerli ad accettare quei cambiamenti. [...]
Presumibilmente, nessuna persona dotata di lungimiranza storica avrebbe consigliato, a metà degli anni
Trenta, che la Germania o il Giappone entrassero in guerra per ottenere i benefici della rapida crescita
che seguì alla loro sconfitta. Ma una crisi di proporzioni minori avrebbe potuto ottenere lo stesso
risultato? È possibile immaginare una pseudo-crisi che potrebbe svolgere la stessa funzione positiva
senza i costi legati a una crisi vera?
Il commento di Williamson rappresentava un grosso balzo in avanti per la dottrina dello shock. In una
stanza che conteneva tanti ministri delle Finanze e direttori di banche centrali da fare invidia a un summit
mondiale sul commercio, veniva discussa apertamente l'idea di creare dal nulla una grave crisi in modo
da poter spingere la shockterapia.
Almeno uno dei presenti si sentì obbligato a prendere le distanze da idee così scabrose. "La proposta di
Williamson, secondo cui potrebbe essere una buona mossa sollecitare una crisi artificiale per stimolare
le riforme, andrebbe letta come una provocazione e uno scherzo" disse John Toye, un economista
britannico dell'Università del Sussex. Non c'erano prove che Williamson stesse scherzando. Anzi, c'erano
prove concrete che le sue idee fossero già messe in pratica ai massimi livelli della finanza a Washington
e oltre.
Un mese dopo la conferenza di Williamson a Washington, nel mio Paese abbiamo potuto vedere di
sfuggita un esempio del nuovo entusiasmo per la "pseudo-crisi", anche se all'epoca pochi compresero che
era parte di una strategia globale. Nel febbraio 1993, il Canada era nel mezzo di una catastrofe
finanziaria, o almeno così si sarebbe detto leggendo i giornali e guardando la tv. "La crisi del debito
incombe" titolava a nove colonne il quotidiano nazionale, il "Globe and Mail". Un programma televisivo
molto seguito riferì che "gli economisti prevedono che nel giro di un anno, forse due, il viceministro delle
Finanze si recherà al Consiglio dei ministri [...] e annuncerà che il credito del Canada è esaurito [...] Le
nostre vite muteranno radicalmente".
L'espressione "muro del debito" entrò improvvisamente nel vocabolario canadese. Significava che,
benché in quei giorni la vita sembrasse comoda e pacifica, il Canada stava spendendo così tanto oltre i
propri mezzi che, molto presto, potenti agenzie di Wall Street come Moody's e Standard and Poor's
avrebbero ridotto il nostro rating di credito nazionale dal suo attuale e perfetto triplo A a qualcosa di
molto inferiore. Quando ciò fosse accaduto, gli investitori, resi liberi dalle nuove regole della
globalizzazione e del libero scambio, avrebbero semplicemente ritirato i loro soldi dal Canada per
portarli in un luogo più sicuro. L'unica soluzione, ci dissero, era tagliare radicalmente le spese relative a
programmi come l'assicurazione per i disoccupati e la sanità. Neanche a dirlo, il partito liberale al
governo fece esattamente questo, pur essendo stato eletto poco tempo addietro promettendo di creare
posti di lavoro (la versione canadese della "politica voodoo").
Due anni dopo il picco dell'isteria da deficit, la giornalista investigativa Linda McQuaig mostrò una volta
per tutte che l'intera crisi era stata creata ad arte e manipolata da una manciata di think tanks finanziati
dalle maggiori banche e aziende canadesi, in particolare il CD. Howe Institute e il Fraser Institute (che
Milton Friedman aveva sempre sostenuto attivamente).
Il Canada aveva sì un problema di deficit, che però non era provocato dalle spese per la previdenza
sociale e altri programmi sociali. Secondo la Statistics Canada, il deficit era causato da alti tassi
d'interesse, che avevano fatto aumentare il debito proprio come il Volker Shock aveva fatto esplodere il
debito dei Paesi in via di sviluppo negli anni Ottanta. La McQuaig andò negli uffici centrali di Moody's a
Wall Street e parlò con Vincent Truglia, analista capo incaricato di valutare l'affidabilità creditizia del
Canada. Truglia le disse qualcosa di sorprendente: che riceveva costanti pressioni da parte di
imprenditori e banchieri canadesi perché dipingesse un quadro molto negativo delle finanze del Paese,
cosa che egli rifiutava di fare perché considerava il Canada un investimento eccellente e stabile. "È il
solo Paese di cui mi occupo nel quale, regolarmente, alcuni cittadini desiderano abbassarne il rating.
Credono sia troppo alto." Dichiarò di ricevere spesso telefonate da rappresentanti di altri Paesi che si
lamentavano per il rating troppo basso. "Ma i canadesi di solito disprezzano il loro Paese molto più degli
stranieri."
Era perché, per la comunità finanziaria canadese, la "crisi del deficit" era un'arma importante in un'aspra
battaglia politica. Mentre Truglia riceveva quelle strane telefonate, era in preparazione una massiccia
campagna per spingere il governo ad abbassare le tasse tagliando la spesa per i programmi sociali come
la sanità e l'educazione. Poiché questi programmi sono sostenuti dalla grandissima maggioranza dei
canadesi, l'unico modo per giustificare quei tagli era dire che l'alternativa era il collasso economico
nazionale - una piena crisi. Il fatto che Moody's continuasse a dare al Canada il più alto rating delle
obbligazioni - l'equivalente di un Ai-i- - rendeva estremamente difficile mantenere lo stato d'animo
apocalittico.
Gli investitori, nel frattempo, erano confusi da messaggi così discordanti: Moody's era ottimista sul
Canada, ma la stampa canadese continuava a definire catastrofico lo stato delle finanze nazionali.
Truglia era talmente stanco delle statistiche politicizzate provenienti dal Canada - che gli sembrava
mettessero in questione il suo lavoro - che prese l'inaudita decisione di pubblicare un "rapporto speciale"
in cui chiariva che la spesa pubblica canadese
non era affatto "fuori controllo"; e non si risparmiò qualche frecciatina allo strano uso della matematica
fatto dai think tanks di destra. "Diverse relazioni pubblicate di recente hanno fortemente sovrastimato il
debito fiscale del Canada. Alcune di esse hanno contato le stesse cifre due volte, mentre altre hanno
istituito parallelismi inappropriati con altri Paesi. [...] Questi calcoli imprecisi possono aver contribuito
a stime esagerate della gravità del debito canadese." Con il rapporto speciale di Moody's, era ormai
chiaro a tutti che non c'era alcun "muro del debito" incombente: le aziende canadesi non furono contente.
Truglia dice che quando pubblicò il rapporto, "un canadese
[...] appartenente a una grande istituzione finanziaria di quel Paese mi chiamò al telefono urlando,
letteralmente urlandomi in faccia. Cose mai viste".
Nota: va detto che Truglia è una rarità a Wall Street: i rating del credito e delle obbligazioni sono spesso
molto politicizzati, e vengono usati per aumentare la pressione per le "riforme di mercato".
Quando i canadesi appresero che la "crisi di deficit" era stata brutalmente manipolata dai think tanks
finanziati dalle aziende, la cosa non importava più molto: i tagli al bilancio erano già stati fatti e non si
poteva tornare indietro. Di conseguenza, i programmi sociali per i disoccupati furono radicalmente erosi,
e non si sono mai più ripresi, nonostante le molte successive iniezioni di finanziamenti. La strategia della
crisi fu usata molte altre volte in questo periodo. Nel settembre 1995, alla stampa canadese arrivò un
video di John Snobelen, il ministro dell'Educazione dell'Ontario, che sosteneva in una riunione a porte
chiuse di funzionari pubblici che, prima di annunciare i tagli all'educazione e le altre riforme impopolari,
bisognava creare un clima di panico facendo diffondere informazioni che dipingessero una situazione più
nera "di quanto mi paia il caso di dire". Lo definì "creare una crisi utile".
"Illeciti statistici" a Washington.
Nel 1995, il discorso politico nella maggior parte delle democrazie occidentali era dominato
dall'argomento del "muro del debito" e di un imminente collasso economico, che richiedeva tagli ancor
più decisi e privatizzazioni più ambiziose; e i think tanks friedmaniani erano sempre in prima fila per
gridare alla crisi. Ma nelle più potenti istituzioni finanziarie di Washington, c'era la volontà non soltanto
di creare un'apparenza di crisi attraverso i media, ma anche di adottare misure concrete per generare crisi
fin troppo reali. Due anni dopo le osservazioni di Williamson sul "sollecitare una crisi", Michael Bruno,
economista capo per i Paesi in via di sviluppo presso la Banca mondiale, echeggiò pubblicamente quella
presa di posizione, anche stavolta senza attrarre l'attenzione dei media.
Nota: Bruno non frequentò l'Università di Chicago, ma fu allievo di Don Patinkin, importante teorico
della Scuola di Chicago che abbiamo visto qualche pagina fa paragonare l'economia di Chicago al
marxismo, per la sua "completezza logica".
In una conferenza tenuta per l'Associazione economica internazionale a Tunisi nel 1995, in seguito
pubblicata come articolo dalla Banca mondiale, Bruno disse a cinquecento economisti riuniti da
sessantotto Paesi che stava crescendo il consenso per "l'idea che una crisi di dimensioni sufficienti possa
scioccare politici altrimenti riluttanti e convincerli a istituire riforme che aumentino la produttività",
Bruno indicò l'America Latina come "un ottimo esempio di crisi profonda e apparentemente benefica", e
in particolare l'Argentina, dove, disse, il presidente Carlos Menem e il suo ministro delle Finanze
Domingo Cavallo stavano facendo un ottimo lavoro, "traendo vantaggio dall'atmosfera di emergenza" per
imporre grandi privatizzazioni. Nel caso il pubblico non avesse le idee abbastanza chiare. Bruno
soggiunse: "Ho sottolineato un tema principale: l'economia politica delle crisi profonde tende a produrre
riforme radicali con esiti positivi".
Stabilito ciò, proseguì dicendo che le agenzie internazionali dovevano fare ben più che sfruttare le crisi
economiche già esistenti per imporre il Consenso di Washington: dovevano tagliare preventivamente gli
aiuti per far peggiorare quelle crisi, "Uno shock negativo (come un crollo negli introiti governativi o nei
trasferimenti esterni) può di fatto aumentare il benessere perché riduce il ritardo [prima che le riforme
siano adottate]. L'idea che "le cose devono peggiorare per poter migliorare" emerge naturalmente, [,"] In
realtà, una crisi di iperinflazione può lasciare un Paese in condizioni migliori di quelle in cui si sarebbe
trovato se avesse affrontato una serie di crisi meno gravi,"
Bruno ammise che l'idea di creare o aggravare un serio tracollo economico era spaventosa - i salari
governativi non sarebbero stati pagati, l'infrastruttura pubblica sarebbe marcita - ma, da buon discepolo
di Chicago, esortò il pubblico a considerare positivamente questa distruzione, come la prima fase della
creazione.
"In effetti, man mano che la crisi peggiora, il governo può gradualmente atrofizzarsi" disse Bruno.
"Questo sviluppo ha un esito positivo, e cioè: al momento di applicare le riforme, il potere dei gruppi
trincerati può venire indebolito; e un leader che scelga una soluzione a lungo termine anziché i benefici a
breve termine può ottenere appoggio per le riforme."
La traiettoria intellettuale dei paladini della crisi sfrecciava a gran velocità. Solamente pochi anni prima,
avevano sostenuto che una crisi di iperinflazione poteva creare le condizioni di shock necessarie per la
shockterapia. Ora, un economista capo della Banca mondiale, istituzione in quel momento finanziata con
le tasse di 178 Paesi e il cui mandato era quello di ricostruire e rafforzare le economie in difficoltà,
spingeva per la creazione di Stati falliti, a causa delle opportunità che offrivano per ricominciare da capo
tra le macerie."
Per anni si erano diffuse voci secondo cui le istituzioni finanziarie internazionali si dedicavano all'arte
della "pseudo-crisi", come la chiamava Williamson, per piegare i Paesi al proprio volere, ma era
difficile dimostrarlo. La testimonianza più completa venne da Davison Budhoo, un dipendente del Fmi
che poi ne denunciò gli abusi, accusando l'organizzazione di falsificare i conti allo scopo di danneggiare
l'economia di un Paese povero ma dalla grande forza di volontà.
Budhoo era un economista nato a Grenada, che aveva studiato alla London School of Economics, che si
distingueva a Washington per l'abbigliamento poco convenzionale: era noto per i capelli gonfi e dritti
come quelli di Albert Einstein e preferiva la giacca a vento al completo gessato. Aveva lavorato per
dodici anni al Fmi, dove aveva l'incarico di elaborare programmi di aggiustamento strutturale per
l'Africa, l'America Latina e la sua terra natale, i Caraibi. Quando l'organizzazione compì la sua radicale
svolta a destra, durante l'era Reagan/Thatcher, l'indipendente Budhoo si sentì sempre più a disagio sul
posto di lavoro. Il Fondo era pieno di Chicago Boys zelanti, guidati dal loro direttore esecutivo, il
convinto neoliberista Michel Camdessus. Quando Budhoo lasciò il posto, nel 1988, decise di dedicare le
sue energie a rivelare i segreti del suo ex datore di lavoro. Scrisse una significativa lettera aperta a
Camdessus, adottando il tono accusatorio usato dieci anni prima nelle lettere di André Gunder Frank a
Friedman.
Mostrando un entusiasmo per la lingua assai raro tra gli economisti di alto livello, la lettera esordiva
così: "Oggi ho rassegnato le mie dimissioni dallo staff del Fondo monetario internazionale dopo più di
dodici anni, e dopo mille giorni di lavoro ufficiale sul campo per il Fmi, durante i quali ho venduto la
vostra medicina e i vostri trucchetti a governi e popoli dell'America Latina, dei Caraibi e dell'Africa. Per
me le dimissioni costituiscono una liberazione inestimabile, perché con esse compio il mio primo passo
verso un luogo in cui spero di lavarmi le mani da quello che considero il sangue di milioni di persone
povere e affamate. [...] D sangue è così tanto, sapete, che scorre a fiumi. Si secca anche: mi si rapprende
addosso; a volte mi sembra che al mondo non ci sia abbastanza sapone per ripulirmi dalle cose che ho
fatto a vostro nome".
Proseguì esponendo le sue ragioni. Budhoo accusava il Fondo di aver usato le statistiche come armi
"letali". Documentò in modo esaustivo come, in qualità di dipendente del Fondo a metà degli anni
Ottanta, si era trovato coinvolto in una rete di "illeciti statistici" volti a gonfiare le cifre nei rapporti del
Fmi sulla situazione di Trinidad e Tobago, Paese ricco di petrolio, allo scopo di far apparire quella
nazione molto meno stabile di quanto fosse in realtà. Budhoo affermò che il Fmi aveva più che
raddoppiato i dati di una statistica importantissima che misurava il costo del lavoro nel Paese, facendolo
apparire estremamente improduttivo sebbene, come egli mostrò, il Fondo disponesse dei dati corretti. In
un'altra occasione, sostenne che il Fondo aveva "inventato, letteralmente dal nulla", enormi debiti
governativi non saldati.
Queste "pesanti irregolarità", che Budhoo ritiene volontarie e non semplici "errori di calcolo", furono
prese per buone dai mercati finanziari, che subito classificarono Trinidad come un grave rischio e
tagliarono i finanziamenti. I problemi economici del Paese - scatenati da un crollo del prezzo del
petrolio, la sua principale esportazione - ben presto divennero calamità, e Trinidad fu costretta a
implorare il Fmi di salvarla dal fallimento. Il Fondo pretese allora che Trinidad accettasse ciò che
Budhoo chiamava la "medicina più mortale" del Fmi: licenziamenti, tagli ai salari e "l'intera gamma"
delle politiche di aggiustamento strutturale. Descrisse il processo come "rimozione deliberata di
un'ancora di salvezza per il Paese, attuata mediante sotterfugi" allo scopo di vedere
"Trinidad e Tobago prima distrutta economicamente, e poi convertita".
Nella sua lettera Budhoo, che è morto nel 2001, rendeva esplicito che la disputa verteva su ben altro che
il trattamento di un singolo Paese da parte di un pugno di funzionari. Definì l'intero programma di
aggiustamento strutturale del Fmi come una forma di tortura di massa in cui "i governi e i popoli, fra urla
di dolore, sono costretti a inginocchiarsi davanti a noi, distrutti, terrorizzati e annichiliti, e a chiederci un
barlume di ragionevolezza e decenza. Ma noi ridiamo loro in faccia, e la tortura continua indisturbata".
Dopo la pubblicazione della lettera, il governo di Trinidad commissionò due studi indipendenti per
esaminare le accuse e scoprì che erano vere: il Fmi aveva gonfiato e inventato numeri, con risultati
drammatici per il Paese.
Anche con questa controprova, tuttavia, le inaudite accuse di Budhoo sparirono senza lasciare traccia:
Trinidad e Tobago è un arcipelago di isolette al largo del Venezuela, e a meno che il suo popolo si
rovesci in massa contro gli uffici del Fmi sulla Diciannovesima Strada, le sue lamentele difficilmente
cattureranno l'attenzione del mondo. La lettera fu però trasformata in uno spettacolo teatrale nel 1996,
intitolato Mr. Budhoo's Letter of Resignation from the I.M.E (50 Years Is Enough)
[La lettera di dimissioni del signor Budhoo dal Fmi (Cinquant'anni sono abbastanza)], portato in scena in
un piccolo teatro dell'East Village newyorchese. La rappresentazione ottenne una recensione
sorprendentemente positiva sul "New York Times", che ne elogiò la "creatività fuori dal comune" e "gli
originali oggetti di scena". La breve recensione teatrale costituisce l'unica menzione del nome di Budhoo
mai apparsa sul "New York Times".
13.
Lascia che bruci.
Il saccheggio dell'Asia e "la caduta di un secondo muro di Berlino".
Il denaro scorre là dove ci sono le opportunità, e in questo momento l'Asia appare a buon mercato.
Gerard Smith, banchiere di istituzioni finanziarie alla Ubs Securities, New York, sulla crisi
economica asiatica del 1997-98.
Tempi propizi fanno politiche cattive.
Mohammad Sadli, consulente economico del generale Suharto in Indonesia.
Sembravano domande semplici. Cosa potete comprare con il vostro salario? È abbastanza per vitto e
alloggio? Rimane qualcosa da mandare a casa ai vostri genitori? Quanto spendete per i mezzi di trasporto
per andare e tornare dalla fabbrica? Ma per quanto ponessi le domande in modi diversi, le risposte che
ottenevo erano sempre: "Dipende" oppure "Non lo so".
"Qualche mese fa" spiegò un'operaia di diciassette anni che cuciva abiti per la catena Gap dalle parti di
Manila "avevo abbastanza soldi per inviarne una parte alla mia famiglia ogni mese, ma ora non guadagno
neppure il necessario per comprare da mangiare per me."
"Ti hanno ridotto il salario?" chiesi.
"No, non mi pare" rispose, un po' confusa. "Solo che con gli stessi soldi non si comprano più le stesse
cose. I prezzi continuano ad aumentare."
Era l'estate del 1997, ed ero in Asia per studiare le condizioni di lavoro nelle fabbriche legate al boom di
esportazioni da quella regione. Scoprii che gli operai si trovavano ad affrontare un problema più grande
degli straordinari obbligatori o dei maltrattamenti da parte dei supervisori: i loro Paesi stavano
rapidamente precipitando in quella che presto sarebbe diventata una depressione conclamata. In
Indonesia, dove la crisi era ancor più grave, l'atmosfera sembrava pericolosamente instabile. La valuta
indonesiana perdeva valore continuamente. Il giorno prima, gli operai potevano comprare pesce e riso, e
il giorno dopo dovevano accontentarsi del riso. Chiacchierando nei ristoranti e nei taxi, scoprii che tutti
sembravano avere la stessa teoria su chi fosse il colpevole: "I cinesi", mi dicevano. La classe mercantile
indonesiana, composta da persone di etnia cinese, sembrava trarre il profitto più diretto dall'aumento dei
prezzi, e così gran parte della rabbia si riversava su di loro. Era questo che intendeva Keynes quando
metteva in guardia contro i pericoli del caos economico: non si può mai sapere che combinazione di
rabbia, razzismo e rivoluzione potrà generarsi.
I Paesi del Sudest asiatico erano particolarmente vulnerabili alle teorie del complotto e ai capri espiatori
su base etnica, perché la crisi finanziaria non sembrava avere una motivazione razionale.
In televisione e sui giornali, gli analisti parlavano della regione come se avesse contratto qualche
malattia misteriosa ma fortemente contagiosa: "l'influenza asiatica", come fu immediatamente etichettato
il crollo dei mercati, in seguito modificato in "contagio asiatico" quando si diffuse anche in America
Latina e in Russia.
Poche settimane prima che la situazione precipitasse, questi Paesi erano presi a modello di buona salute e
vitalità economica: le cosiddette Tigri asiatiche, uno dei più grandi successi della globalizzazione. Un
minuto prima, i broker dicevano ai loro clienti che non c'era strada più sicura per fare soldi che investire
i propri risparmi nei fondi comuni dei "mercati emergenti" in Asia; un minuto dopo, tutti si affrettavano a
vendere, mentre gli operatori valutari "attaccavano" le monete: il baht, il ringgit, la rupia; creando quella
che l'"Economist" chiamò "una distruzione di risparmi di proporzioni generalmente associate a una guerra
totale". Eppure, all'interno delle economie delle Tigri asiatiche, nulla di percepibile era mutato: esse
erano ancora in gran parte gestite dalla stessa élite clientelare; non erano state colpite da disastri naturali
o conflitti armati; non presentavano grossi deficit, anzi alcune di loro non ne avevano affatto. Molti grossi
conglomerati erano indebitati pesantemente, ma continuavano a produrre scarpe da ginnastica e
automobili, e le loro vendite erano alte come sempre. Allora, com'era possibile che nel 1996 gli
investitori avessero ritenuto una buona idea investire 100 miliardi di dollari in Corea del Sud e che poi,
un anno dopo, il Paese avesse un investimento negativo di 20 miliardi, una differenza di 120 miliardi di
dollari?' Cosa poteva spiegare un simile colpo di frusta monetario?
Si scoprì che i Paesi erano vittima del panico puro, reso letale dalla velocità e instabilità dei mercati
globalizzati. Quella che era iniziata come una voce di corridoio - che la Thailandia non aveva abbastanza
dollari per sostenere la propria valuta - mise in fuga l'intera mandria elettronica. Le banche revocarono i
prestiti, e il mercato immobiliare, che era cresciuto così rapidamente da diventare una bolla, in pochi
istanti scoppiò. I lavori si interruppero a metà nei cantieri dei centri commerciali, dei grattacieli e dei
villaggi turistici; le gru incombevano immobili sul panorama affollato di Bangkok. In un'era di
capitalismo più lento, la crisi avrebbe potuto fermarsi lì, ma poiché gli intermediari finanziari dei fondi
comuni avevano venduto le Tigri asiatiche nell'ambito di un unico pacchetto di investimenti, quando una
Tigre crollava crollavano tutte: dopo la Thailandia, il panico si diffuse e i soldi sparirono dall'Indonesia,
dalla Malesia, dalle Filippine e persino dalla Corea del Sud, l'undicesima economia più grande nel
mondo, e una stella nel firmamento della globalizzazione.
I governi asiatici furono costretti a prosciugare le proprie riserve economiche nel tentativo di sostenere
le valute, trasformando l'originaria paura in realtà: ora questi Paesi stavano davvero per finire in
bancarotta. Il mercato rispose con ulteriore panico. In un solo anno, erano scomparsi 600
miliardi di dollari dai mercati azionari dell'Asia: ricchezze accumulate nell'arco di decenni.
La crisi provocò l'adozione di misure disperate. In Indonesia, gli abitanti ridotti in miseria si introdussero
nei negozi e presero tutto quello che riuscivano a trasportare. In un'occasione particolarmente
drammatica, un centro commerciale di Giakarta prese fuoco durante il saccheggio, e centinaia di persone
furono bruciate vive.
In Corea del Sud, i canali televisivi iniziarono una massiccia campagna per chiedere ai cittadini di
donare i gioielli d'oro affinché fossero fusi e usati per pagare i debiti del Paese. Nel giro di poche
settimane, tre milioni di persone avevano consegnato le loro collane, orecchini, medaglie e trofei
sportivi. Almeno una donna donò la fede nuziale, e un cardinale donò la sua croce d'oro. Le stazioni
televisive trasmettevano giochi a premi molto kitsch, in cui i concorrenti offrivano il proprio oro, ma
anche dopo aver raccolto duecento tonnellate di metallo prezioso, sufficienti ad abbassare la quotazione
mondiale, la valuta nazionale coreana continuò a precipitare.
Come era successo durante la Grande depressione, la crisi condusse a un'ondata di suicidi, perché le
famiglie vedevano sparire nel nulla i risparmi di una vita, e decine di migliaia di piccole imprese
chiudevano i battenti. In Corea del Sud, il tasso di suicidi salì del 50 per cento nel 1998. Il dramma
coinvolgeva in particolare le persone sopra i sessant'anni: i genitori più anziani cercavano di alleggerire
il carico economico dei figli in difficoltà. La stampa coreana riferì anche di un inquietante aumento dei
patti familiari di suicidio, in cui i padri, sommersi dai debiti, spingevano all'impiccagione l'intera
famiglia. Le autorità facevano notare che, poiché "solo la morte del capofamiglia è classificata come
suicidio, mentre la morte degli altri familiari è considerata omicidio, il vero numero dei suicidi è molto
più alto rispetto alle statistiche pubblicate".
La crisi asiatica fu causata da un classico ciclo della paura, e l'unica mossa che avrebbe potuto frenarlo
era la stessa che aveva salvato la moneta messicana durante la cosiddetta "crisi della tequila" nel 1994:
un prestito rapido e decisivo, che dimostrasse al mercato che il Tesoro americano non avrebbe lasciato
affondare il Messico. Per l'Asia non era previsto un simile tempismo. Anzi, appena la crisi si manifestò,
un sorprendente stuolo di personalità influenti dell'establishment finanziario si fece avanti con un
messaggio comune: non aiutate l'Asia.
Lo stesso Milton Friedman, allora ultraottantenne, fece una rara apparizione sulla Cnn per dire
all'anchorman Lou Dobbs che si opponeva a ogni versamento di liquidità, e che bisognava lasciare che il
mercato si correggesse da solo. "Be', professore, non so dirle quanto sia importante avere il suo appoggio
in questa discussione semantica" disse un Dobbs visibilmente emozionato dalla presenza di cotanta star.
L'approccio "lasciateli affondare" fu adottato anche dal vecchio amico di Friedman Walter Wriston, ex
capo della Citibank, e da George Shultz, che ora lavorava a fianco di Friedman presso la conservatrice
Hoover Institution, ed era membro del comitato direttivo nella società di brokeraggio Charles Schwab.
La stessa opinione era condivisa da una delle principali banche d'investimento di Wall Street, la Morgan
Stanley. Jay Pelosky, l'influente stratega dei mercati emergenti che lavorava per la Morgan Stanley, in una
conferenza organizzata a Los Angeles dal Milken Institute (già noto per i titoli spazzatura), disse che era
imperativo che il Fmi e il Tesoro americano non facessero nulla per alleviare le sofferenze di una crisi di
proporzioni paragonabili a quella degli anni Trenta. "Quello che serve oggi in Asia è ricevere altre
cattive notizie. Le cattive notizie servono a stimolare il processo di aggiustamento"
disse Pelosky.
L'amministrazione Clinton prese spunto da Wall Street. Quando si tenne il summit dell'Apec (AsiaPacific Economie Cooperation), a Vancouver nel novembre 1997, quattro mesi dopo il crollo. Bill
Clinton fece infuriare le sue controparti asiatiche liquidando quella che per loro era un'apocalisse
economica come "qualche piccolo intoppo lungo la strada". Il messaggio era chiaro: il dipartimento del
Tesoro statunitense non aveva alcuna urgenza di porre fine alle sofferenze. Quanto al Fmi, l'organismo
mondiale creato per prevenire crolli come questo, esso assunse l'approccio di inazione che era divenuto
il suo marchio di fabbrica fin dai tempi della Russia. A un certo punto, infine, reagì: ma non con il genere
di prestito di emergenza necessario per stabilizzare la situazione determinata da una crisi puramente
finanziaria. Presentò invece una lunga lista di pretese, cementate dalla certezza della Scuola di Chicago
che la catastrofe asiatica fosse un'opportunità travestita da disgrazia.
All'inizio degli anni Novanta, quando i promotori del liberismo avevano bisogno di un esempio di
successo da evocare nei dibattiti, citavano sempre le Tigri asiatiche: miracoli economici la cui crescita
esponenziale, secondo loro, era da addebitare all'apertura delle frontiere alla globalizzazione sfrenata.
Era una storia utile: in effetti le Tigri si stavano sviluppando a velocità supersonica; ma sostenere che la
loro espansione fosse dovuta al libero mercato era pura finzione.
La Malesia, la Corea del Sud e la Thailandia applicavano ancora politiche altamente protezionistiche,
che proibivano agli stranieri di possedere terre e di comprare imprese nazionali.
Questi Paesi avevano anche riservato un ruolo di primo piano allo Stato, che deteneva ancora settori
chiave come l'energia e i trasporti. Le Tigri avevano anche bloccato molte importazioni dal Giappone,
dall'Europa e dal Nordamerica, mentre rafforzavano i propri mercati interni. Erano storie di successo
economico, senza dubbio, ma proprio perché dimostravano che le economie miste e controllate
crescevano più in fretta e in modo più armonico di quelle che seguivano il Far West del Consenso di
Washington.
La situazione non piaceva affatto alle banche d'investimento e alle multinazionali occidentali e
giapponesi: di fronte all'esplosione dei mercati di consumo in Asia, era comprensibile che volessero
vendere liberamente i loro prodotti in quella regione. Volevano inoltre poter comprare le migliori
aziende delle Tigri, e in particolare gli enormi conglomerati coreani come la Daewoo, la Hyundai, la
Samsung e la LG. A metà degli anni Novanta, dietro pressioni del Fmi e del neonato Wto, i governi
asiatici acconsentirono a un compromesso: avrebbero conservato le leggi che proteggevano le aziende
nazionali dalla proprietà straniera, e avrebbero resistito alle pressioni che volevano spingerli a
privatizzare le più importanti compagnie statali; ma avrebbero eliminato le barriere che chiudevano i loro
settori finanziari, permettendo così un'ondata di investimenti "sulla carta" e trading valutario.
Nel 1997 il flusso di denaro caldo mutò improvvisamente direzione in Asia: fu una diretta conseguenza di
questo tipo di investimento speculativo, legalizzato solo in seguito a forti pressioni da parte
dell'Occidente. Wall Street, naturalmente, non la vedeva in questi termini. I principali analisti
d'investimento riconobbero subito nella crisi un'opportunità per abbattere una volta per tutte le ultime
barriere che proteggevano i mercati asiatici. Pelosky, lo stratega della Morgan Stanley, era
particolarmente schietto nella sua logica; se si lasciava che la crisi peggiorasse, tutta la valuta estera
sarebbe stata portata via dalla regione, e le industrie in mano agli asiatici sarebbero state costrette a
chiudere o a vendersi alle aziende occidentali: due esiti positivi per la Morgan Stanley. "Mi piacerebbe
veder chiudere qualche azienda e vederne altre messe in vendita [...] Non capita spesso di vedere aziende
in vendita: i proprietari non vendono finché non sono costretti. Quindi, abbiamo bisogno di altre cattive
notizie, per continuare a far pressione su queste corporation perché vendano le loro aziende."
Alcuni vedevano il crollo dell'Asia in termini ancor più magniloquenti. José Pinera, il ministro prediletto
di Pinochet, che ora lavorava al Cato Institute di Washington, accolse la crisi con malcelata gioia,
affermando che "il giorno della resa dei conti è arrivato". Agli occhi di Pinera, la crisi era solo l'ultimo
capitolo della guerra che lui e i suoi colleghi Chicago Boys avevano iniziato in Cile negli anni Settanta.
La caduta delle Tigri, disse, rappresentava nientemeno che "la caduta di un secondo muro di Berlino", il
collasso "dell'idea che esista una "terza via" tra il capitalismo democratico liberista e lo statalismo
socialista".
Le idee estremiste di Pinera non erano appannaggio di una frangia di massimalisti. Erano apertamente
condivise da Alan
Greenspan, presidente della Federal Reserve americana e probabilmente il più potente economista
vivente. Greenspan descrisse la crisi come "un evento molto drammatico in direzione di un consenso sul
sistema di mercato che abbiamo in questo Paese". Osservò anche che "l'attuale crisi contribuirà
probabilmente ad accelerare lo smantellamento, in molti Paesi asiatici, dei residui di un sistema
fortemente condizionato da investimenti gestiti dal governo". In altri termini, la distruzione dell'economia
regolata in Asia era in realtà un processo di creazione di una nuova economia in stile americano: dolori
del parto per una nuova Asia, per usare un'espressione che ritroveremo in un contesto molto più violento
qualche anno dopo.
Michel Camdessus, che in quanto capo del Fmi era probabilmente il secondo decisore economico e
monetario del pianeta, espresse un'opinione simile. In una rara intervista, parlò della crisi come di
un'opportunità offerta all'Asia per disfarsi della sua vecchia pelle e rinascere. "I modelli economici non
sono eterni" disse. "Ci sono momenti in cui sono utili e altri [...] in cui diventano superati e vanno
abbandonati." La crisi, nata da una voce di corridoio che era riuscita a trasformare la finzione in realtà,
sembrava fornire il momento ideale.
Il Fmi, non volendo farsi sfuggire l'occasione - dopo mesi in cui non aveva mosso un dito, mentre
l'emergenza si aggravava entrò finalmente in negoziazioni con i moribondi governi dell'Asia.
L'unico Paese che in questo periodo oppose resistenza al Fondo fu la Malesia, il cui debito era
relativamente piccolo. Il controverso primo ministro malese, Mahathir Mohamad, disse che non riteneva
di dover "distruggere l'economia per farla migliorare", il che bastò per etichettarlo come un pazzo
radicale." Le altre economie asiatiche in crisi erano troppo bisognose di denaro estero per rifiutare la
possibilità di decine di miliardi in prestiti del Fmi: la Thailandia, le Filippine, l'Indonesia e la Corea del
Sud si presentarono tutte al tavolo delle contrattazioni. "Non puoi obbligare un Paese a chiederti aiuto.
Deve essere una sua decisione. Ma quando i soldi finiscono, non ha più molta scelta" disse Stanley
Fischer, responsabile delle negoziazioni per il Fmi.
Nota: il Fmi è spesso considerato una marionetta nelle mani del Tesoro americano, ma raramente i fili
sono stati visibili come durante queste negoziazioni. Per assicurarsi che gli interessi delle aziende
americane fossero tutelati negli accordi finali, David Lipton, sottosegretario al Tesoro per gli affari
internazionali (ed ex partner di Sachs nel programma di shockterapia in Polonia), volò in Corea del Sud e
scese al Seoul Hilton, l'hotel dove si svolgevano le negoziazioni tra il Fmi e il governo coreano. La
presenza di Lipton, secondo Paul Blustein del "Washington Post", fu "una manifestazione tangibile
dell'influenza che gli Stati Uniti esercitano sulle politiche del Fmi.
Fischer era stato uno dei più accesi sostenitori della shockterapia in Russia, e nonostante i drammatici
costi umani, il suo atteggiamento fu altrettanto inflessibile in Asia. Diversi governi sostennero che, poiché
la crisi era provocata dalla facilità con cui i soldi potevano entrare e uscire dai loro Paesi senza nessuna
barriera che rallentasse il loro flusso, forse la cosa logica da fare era rimettere qualche barriera: i temuti
"controlli sul capitale". La Cina aveva mantenuto questi controlli (ignorando su questo punto i consigli di
Friedman), ed era l'unico Paese della regione non dilaniato dalla crisi. E la Malesia aveva reintrodotto i
controlli, che sembravano funzionare.
Fischer e gli altri membri del team del Fmi si opposero subito all'idea. Il Fmi non mostrava interesse per
la vera causa della crisi: come un poliziotto che durante un interrogatorio va in cerca dei punti deboli, si
concentrava esclusivamente su come la crisi poteva servire da leva. Il tracollo aveva messo in ginocchio
un gruppo di Paesi dalla grande forza di volontà; non trarre vantaggio da quella finestra di opportunità
era, per gli economisti della Scuola di Chicago che guidavano il Fmi, equivalente a negligenza
professionale.
Il Fmi era convinto che i forzieri vuoti dell'Asia avessero spezzato le Tigri, che adesso erano pronte per
essere ricostruite. Il primo passo era togliere ai Paesi tutto "il protezionismo del commercio e degli
investimenti, e l'intervento attivo dello Stato che erano gli ingredienti chiave del "miracolo asiatico",
nelle parole del politologo Walden Bello. Il Fmi pretese anche che i governi effettuassero sostanziosi
tagli di budget, il che condusse a licenziamenti in massa nel settore pubblico in Paesi nei quali il tasso di
suicidi era già a livelli record. Fischer ammise poi che il Fmi aveva capito che in Corea e Indonesia la
crisi non era collegata alle spese eccessive del governo. Ciò nonostante, utilizzò la straordinaria leva
offerta dalla crisi per implementare queste dolorose misure di austerity.
Come scrisse un reporter del "New York Times", le azioni del Fmi erano "come quelle di un
cardiochirurgo che, nel mezzo di un'operazione, decide di occuparsi anche dei polmoni e dei reni".
Ora che il Fmi aveva strappato loro le vecchie abitudini e consuetudini, le Tigri erano pronte a rinascere,
alla maniera di Chicago: servizi di base privatizzati, banche centrali indipendenti, forze lavoro
"flessibili", spesa sociale bassa e, naturalmente, totale libertà di scambio. In base ai nuovi accordi, la
Thailandia avrebbe permesso agli stranieri di possedere grosse fette azionarie delle proprie banche;
l'Indonesia avrebbe tagliato i sussidi alimentari e la Corea avrebbe abrogato la legge che proteggeva i
lavoratori dai licenziamenti in massa. Il Fmi pose addirittura rigidi obiettivi per i licenziamenti in Corea:
per ottenere il prestito, il settore bancario doveva liberarsi del 50 per cento della forza lavoro (poi
ridotto al 30 per cento). Questo tipo di richiesta era cruciale per molte multinazionali occidentali che
volevano essere certe di poter ridurre drasticamente l'organico delle aziende asiatiche che stavano per
acquistare. Il "muro di Berlino" di Pinera stava crollando.
Misure simili sarebbero state impensabili un anno prima della crisi, quando i sindacati in Corea del Sud
erano al loro picco di militanza. Avevano accolto una proposta di legge che avrebbe ridotto la sicurezza
del posto di lavoro con la più grande e radicale serie di scioperi nella storia del Paese. Ma grazie alla
crisi, le regole del gioco erano cambiate. La crisi economica era così drammatica che dava alle autorità
la licenza (com'era avvenuto in occasione di altre crisi simili, dalla Bolivia alla Russia) di dichiarare un
governo autoritario temporaneo; non durò a lungo, ma giusto il tempo necessario per imporre i decreti del
Fmi.
Il pacchetto di shockterapia destinato alla Thailandia, per esempio, fu imposto all'Assemblea nazionale
non in un normale dibattito, ma come risultato di quattro decreti di emergenza. "Abbiamo perso la nostra
autonomia, la nostra capacità di determinare la nostra politica macroeconomica.
Questa è una sventura" ammise il vicepremier thailandese, Supachai Panitchpakdi (in seguito premiato
per il suo atteggiamento cooperativo con la nomina a direttore del Wto). In Corea del Sud, la sovversione
della democrazia operata dal Fmi fu ancora più palese. Lì, la fine delle negoziazioni del Fmi coincise con
le programmate elezioni presidenziali, in cui due dei candidati proponevano un programma anti-Fmi. Con
un inaudito atto di interferenza nel processo politico di una nazione sovrana, il Fmi rifiutò di sbloccare i
fondi finché non avesse avuto garanzie, dai quattro candidati principali, che si sarebbero attenuti alle
nuove regole se avessero vinto. In un Paese di fatto tenuto in ostaggio, il Fmi trionfò: tutti i candidati
giurarono per iscritto di appoggiarlo. Mai prima di allora era stata così esplicita la missione della Scuola
di Chicago: proteggere le questioni economiche dalle grinfie della democrazia. Potete votare, fu detto ai
sudcoreani, ma il vostro voto non può influire sulla gestione e sull'organizzazione dell'economia. (Il
giorno in cui fu firmato il contratto fu subito ribattezzato "Giorno dell'umiliazione nazionale" della Corea.
In uno dei Paesi più colpiti, simili atti di contenimento della democrazia non furono necessari.
L'Indonesia, la prima nella regione a spalancare le porte agli investimenti stranieri deregolamentati, era
ancora sotto il controllo del generale Suharto, dopo oltre trent'anni. Suharto, tuttavia, man mano che
invecchiava era diventato più restio a dar retta all'Occidente (come spesso accade ai dittatori).
Dopo aver venduto per decenni il petrolio e le ricchezze minerarie dell'Indonesia a corporation straniere,
si era stufato di far arricchire gli altri e aveva passato gli ultimi dieci anni a preoccuparsi di se stesso,
dei suoi figli e dei suoi compagni di golf. Per esempio, il generale aveva concesso ampi finanziamenti
statali a un'azienda produttrice di automobili di proprietà del figlio Tommy; circostanza che aveva
provocato costernazione nella Ford e nella Toyota, che non vedevano motivo di competere con quelli che
gli analisti chiamavano "i giocattoli di Tommy".
Per qualche mese, Suharto cercò di resistere al Fmi, presentando un budget che non conteneva i massicci
tagli da esso richiesti. Il Fondo reagì innalzando la soglia del dolore. Ufficialmente, i rappresentanti del
Fmi non hanno il permesso di parlare alla stampa durante una negoziazione, dal momento che il più
piccolo indizio sull'andamento dei dibattiti può influenzare profondamente il mercato. Ciò non bastò a
impedire a un anonimo "funzionario anziano del Fmi" di rivelare al
"Washington Post" che "i mercati si chiedono quanto la leadership indonesiana si stia impegnando in
questo programma, e in particolare per quanto riguarda le riforme più rilevanti". L'articolo sosteneva che
il Fmi avrebbe punito l'Indonesia rifiutandole miliardi di dollari dei prestiti promessi.
Non appena l'articolo fu pubblicato, la valuta indonesiana crollò, perdendo il 25 per cento in un solo
giorno.
Di fronte a questo duro colpo, Suharto si arrese. "Trovatemi un economista che sappia cosa sta
succedendo" pare avesse supplicato il ministro degli Esteri indonesiano. Alla fine, Suharto gliene trovò
uno; anzi, gliene procurò parecchi. Promettendo che le negoziazioni del Fmi sarebbero andate a buon fine,
riportò nel Paese la "mafia di Berkeley" che, dopo aver svolto un ruolo centrale nei primi giorni del suo
regime, aveva perso la sua influenza sull'anziano generale. Dopo anni allo sbando, erano tornati al potere,
con Widjojo Nitisastro, ormai settantenne e noto in Indonesia come
"il decano della mafia di Berkeley", a capo delle negoziazioni. "Quando i tempi sono propizi, Widjojo e
gli economisti sono messi da parte e il presidente Suharto parla con i suoi compari"
spiegò Mohammad Sadli, ex ministro di Suharto. "Il gruppo dei tecnocrati dà il meglio di sé in tempo di
crisi, Suharto li ascolta di più in questo periodo, e ordina di tacere agli altri ministri." Le comunicazioni
con il Fmi assunsero ora un tono molto più collegiale, più simile a "discussioni intellettuali. Nessuna
pressione da un lato sull'altro", spiegò un membro del team di Widjojo.
Naturalmente, il Fmi ottenne quasi tutto ciò che voleva: 140 "aggiustamenti" in totale.
La rivelazione.
Per il Fmi la crisi si stava mettendo molto bene. In meno di un anno, era riuscito a negoziare l'equivalente
economico di un radicale trattamento di bellezza per la Thailandia, l'Indonesia, la Corea del Sud e le
Filippine. Era finalmente pronto per il momento decisivo di ogni trattamento di bellezza: la Rivelazione,
il momento in cui il paziente, chirurgicamente migliorato, rivestito e pettinato, è mostrato per la prima
volta all'attonito pubblico; in questo caso, i mercati azionari e valutari mondiali. Se tutto fosse andato per
il verso giusto, quando il Fmi avesse alzato il sipario sulle sue nuove creature, il denaro caldo che un
anno prima era fuggito dall'Asia sarebbe tornato di corsa, per comprare gli irresistibili titoli, bond e
valute delle Tigri. Invece accadde qualcos'altro: il mercato si lasciò prendere dal panico. Il ragionamento
era questo: se il Fondo pensava che le Tigri fossero casi così disperati da aver bisogno di essere
ricostruite da zero, allora l'Asia doveva versare in condizioni assai peggiori di quanto si fosse temuto
finora.
Così, anziché rituffarsi in Asia, gli operatori finanziari risposero alla grande rivelazione del Fmi
ritirando altri soldi e attaccando ancor di più le valute asiatiche. La Corea perdeva un miliardo di dollari
al giorno, e il suo debito fu riclassificato come "bond spazzatura". L'"aiuto" del Fmi aveva trasformato
una crisi in una catastrofe. O, come diceva Jeffrey Sachs - ormai in conflitto aperto con le istituzioni
finanziarie internazionali -, "anziché soffocare le fiamme, il Fmi di fatto ha gridato "Al fuoco! " in mezzo
al teatro".
I costi umani dell'opportunismo del Fmi furono quasi altrettanto devastanti in Asia che in Russia.
L'Organizzazione internazionale del lavoro stima che non meno di 24 milioni di persone abbiano perso
l'impiego in quel periodo, e che il tasso di disoccupazione in Indonesia sia aumentato dal 4 al 12 per
cento. La Thailandia perdeva 2000 posti di lavoro al giorno nella fase acuta delle "riforme" 60.000 al mese. In Corea del Sud venivano licenziati 300.000 lavoratori ogni mese, in gran parte a causa
delle pretese assolutamente non necessarie del Fmi che chiedeva il taglio dei bilanci governativi e
l'aumento dei tassi d'interesse. Nel 1999, il tasso di disoccupazione in Corea del Sud e Indonesia era
quasi triplicato in meno di due anni. Come in America Latina negli anni Settanta, ciò che sparì in queste
regioni dell'Asia era proprio ciò che aveva determinato il "miracolo": l'ampia e vitale classe media. Nel
1996, il 63,7 per cento dei sudcoreani si identificava nella classe media; nel 1999 il numero era sceso al
38,4 per cento. Secondo la Banca mondiale, 20 milioni di persone in Asia scesero sotto la soglia di
povertà in questo periodo di quella che Rodolfo Walsh avrebbe chiamato "miseria pianificata".''
Dietro ogni statistica c'era una storia di atroce sacrificio e decisioni sbagliate. Come sempre accade, le
donne e i bambini soffrirono più degli altri. Molte famiglie contadine nelle Filippine e nella Corea del
Sud vendettero le proprie fighe a trafficanti di uomini, che le condussero a lavorare nel circuito della
prostituzione in Australia, Europa e Nordamerica. In Thailandia, i funzionari della sanità pubblica
riferirono un aumento del 20 per cento nella prostituzione infantile in un solo anno, l'anno successivo alle
riforme del Fmi. Le Filippine mostravano lo stesso trend. "Sono stati i ricchi a beneficiare del boom, ma
noi poveri paghiamo il prezzo della crisi" disse Khun Bunjan, un'operatrice sociale del Nordest
thailandese, costretta a mandare i suoi figli a rovistare tra l'immondizia quando suo marito perse il posto
in fabbrica. "Anche il nostro accesso limitato alle scuole e alla sanità sta cominciando a sparire."
Fu in questo contesto che il segretario di Stato americano Madeleine Albright visitò la Thailandia nel
marzo 1999, e ritenne opportuno rimproverare il popolo thailandese per essersi votato alla prostituzione
e "al vicolo cieco delle droghe". È "essenziale che le ragazze non siano sfruttate e maltrattate ed esposte
al rischio dell'Aids. È molto importante combattere" disse la Albright, infiammata
di zelo etico. Evidentemente non percepiva alcuna connessione tra il fatto che tante ragazze thailandesi
fossero costrette alla prostituzione e le politiche di austerity per le quali invece espresse il suo "forte
sostegno" durante lo stesso viaggio. Per la crisi finanziaria asiatica era l'equivalente del dispiacere
espresso da Milton Friedman di fronte alle violazioni dei diritti umani perpetrate da Pinochet e Deng
Xiaoping, mentre elogiava il loro coraggio nell'abbracciare la shockterapia economica.
La storia della crisi asiatica di solito finisce qui: il Fmi ha cercato di dare una mano; non ha funzionato.
Anche l'inchiesta interna del Fmi giunse alla stessa conclusione. L'ufficio di valutazione indipendente del
Fondo concluse che le richieste di aggiustamento strutturale erano state
"imprudenti" e "più ampie di quanto sembrava necessario", oltre a essere state "non determinanti per la
risoluzione della crisi". L'inchiesta sottolineò anche che "la crisi non andrebbe usata come opportunità
per applicare una lunga lista di riforme solo perché si è in una posizione di vantaggio strategico, e senza
curarsi di quanto quelle riforme siano effettivamente giustificabili e meritevoli".
Nota: per motivi non chiari, questo documento di estrema importanza non fu reso pubblico fino al 2003,
cinque anni dopo la crisi. A quel punto era un po' tardi per mettere in guardia qualcuno dall'opportunismo
della crisi: il Fmi stava già aggiustando strutturalmente l'Afghanistan e progettando di far lo stesso in
Iraq.
Una sezione particolarmente irruenta del documento accusava il Fondo di essere così accecato
dall'ideologia liberista da non riuscire neanche a immaginare i controlli sul capitale. "Se era un'eresia
suggerire che i mercati finanziari non distribuivano il capitale mondiale in modo razionale e stabile,
allora era peccato mortale contemplare la sola idea" di controlli sul capitale."
Ciò che pochi all'epoca erano disposti ad ammettere era che, mentre il Fmi aveva certamente tradito i
popoli dell'Asia, non aveva tradito Wall Street: tutt'altro. Il denaro caldo era stato bruciato dalle misure
drastiche del Fmi, ma le grandi case d'investimenti e le multinazionali ne furono incoraggiate. "Certo,
questi mercati sono molto instabili" disse Jerome Booth, capo della ricerca alla Ashmore Investment
Management di Londra, "È questo che li rende così divertenti." Queste aziende edoniste capivano che in
seguito agli "aggiustamenti" del Fmi, quasi tutto in Asia era ormai in vendita; e più il mercato aveva
paura, più le aziende asiatiche avrebbero avuto fretta di vendere, facendo dunque crollare i prezzi. Jay
Pelosky della Morgan Stanley aveva detto che quel che serviva all'Asia era "un altro po' di brutte notizie,
per continuare a far pressione su queste corporation perché vendano le loro aziende" e, grazie al Fmi,
accadde esattamente questo.
Che il Fmi abbia attivamente progettato l'aggravarsi della crisi asiatica o che abbia peccato solo di una
colpevole indifferenza, resta da dimostrare. Forse l'interpretazione più benevola è che il Fondo sapesse
di non poter perdere: se i suoi aggiustamenti avessero fatto gonfiare un'altra bolla nei titoli dei mercati
emergenti, tanto meglio; se avessero generato un'altra fuga di capitali, sarebbe stato un colpo di fortuna
per chi investiva nel capitale di rischio. In ambo i casi, il Fmi non temeva la possibilità di un crollo
totale, ed era disposto a rischiare. Ora è chiaro chi ha vinto la scommessa.
Due mesi dopo l'accordo finale tra Fmi e Corea del Sud, il "Wall Street Journal" pubblicò un articolo
intitolato Gli avvoltoi di Wall Street volteggiano sull'Asia orientale. C'era scritto che la società di
Pelosky e altre importanti case d'investimenti avevano "inviato eserciti di banchieri nella regione del
Sudest asiatico alla ricerca di società di brokeraggio, società di gestione fondi e anche banche, da
acquistare a prezzi bassi. La caccia alle acquisizioni asiatiche è urgente perché molte società americane
di compravendita titoli, guidate dalla Merrill Lynch & Co. e dalla Morgan Stanley, hanno fatto
dell'espansione oltreoceano la loro priorità". In breve, furono siglate parecchie grosse cessioni: La
Merrill Lynch comprò la giapponese Yamaichi Securities oltre alla più grande società di brokeraggio
thailandese, mentre l'Aig comprò la Bangkok Investment per una piccola percentuale del suo valore. La
JP Morgan acquistò una quota della Kia Motors, mentre la Travelers Group e la Salomon Smith Barney's
comprarono una delle principali aziende tessili coreane, e molte altre società. È interessante osservare
che il presidente del comitato consultivo internazionale della Salomon Smith Barney's, che svolgeva
attività di consulenza per le fusioni e le acquisizioni in quel periodo, era Donald Rumsfeld (nominato nel
maggio 1999). Nel comitato c'era anche Dick Cheney.
Un altro vincitore fu il gruppo Carlyle, la riservata società con sede a Washington nota per essere
l'atterraggio morbido preferito da ex presidenti e ministri, dall'ex segretario di Stato James Baker all'ex
primo ministro britannico John Major, fino a Bush Sr., che ricoprì il ruolo di consulente. La Carlyle usò i
suoi contatti ad alto livello per accaparrarsi la divisione Telecom della Daewoo, la Sangyong
Information and Communication (una delle principali aziende della Corea nel settore high-tech), e diventò
uno dei principali azionisti in una delle maggiori banche coreane."
Jeffrey Garten, ex sottosegretario al Commercio statunitense, aveva predetto che quando il Fmi avesse
terminato la sua opera ci sarebbe stata "un'Asia decisamente diversa, e sarà un'Asia in cui le società
americane avranno molta più penetrazione, molto più accesso". Non scherzava. Nel giro di due anni, il
volto di gran parte dell'Asia mutò completamente, con centinaia di marchi locali rimpiazzati da giganti
multinazionali. La chiamarono "la svendita per cessata attività più grande del mondo" (il "New York
Times") e "un bazaar per la vendita di aziende" ("Business Week"). In realtà era un'anteprima del genere
di capitalismo dei disastri che sarebbe diventato la norma sui mercati dopo l'11 settembre: una tragedia
terribile era sfruttata per consentire alle aziende straniere di invadere l'Asia. Non erano lì per costruire
aziende proprie e competere con quelle locali, ma per appropriarsi dell'intero apparato, forza lavoro,
clientela e riconoscibilità del logo, costruiti in lunghi decenni dalle aziende coreane: e tutto ciò, spesso,
al solo scopo di farle a pezzi, ridurne l'organico o chiuderle completamente per eliminare la
competizione nelle importazioni.
Il titano coreano Samsung, per esempio, fu fatto a brandelli e venduto a pezzi: la Volvo si prese la
divisione di industria pesante, la se Johnson & Son il ramo farmaceutico, alla General Electric toccò il
settore elettrico. Qualche anno dopo, la divisione automobilistica della Daewoo, un tempo potentissima,
e il cui valore era stimato dalla compagnia di 6 miliardi di dollari, fu svenduta alla GM per soli 400
milioni di dollari: un ladrocinio degno della shockterapia russa, ma questa volta, a differenza di ciò che
era accaduto in Russia, le aziende locali erano spazzate via dalle multinazionali.
Tra le altre grandi imprese che ottennero una fetta del montepremi asiatico ci furono Seagram's, HewlettPackard, Nestlé, Interbrew and Novartis, Carrefour, Teseo ed Ericsson. La CocaCola comprò una ditta di
imbottigliamento coreana per mezzo miliardo di dollari; la Procter & Gamble acquistò un'azienda
specializzata nella produzione di imballaggi; la Nissan comprò uno dei più importanti produttori di
automobili dell'Indonesia. La General Electric acquisì una partecipazione nell'LC, produttrice di
frigoriferi, e la britannica Powergen si accaparrò la LG
Energy, una grossa compagnia elettrica coreana. "Business Week" riferì che il principe saudita Alwaleed
bin Talal "scorrazzava per l'Asia a bordo del suo Boeing 727 color panna collezionando affari",
compresa una partecipazione azionaria nella Daewoo.
Non a caso, la Morgan Stanley, che più degli altri aveva dichiarato la necessità che la crisi si aggravasse,
si inserì in molti di questi contratti, percependo laute commissioni. Offrì consulenza alla Daewoo per la
vendita della sua divisione automobilistica e fece da mediatore finanziario per la privatizzazione di
svariate banche sudcoreane.'"
Non erano solo le aziende private asiatiche a venire svendute agli stranieri. Come nelle precedenti crisi
in America Latina e in Europa orientale, anche questa obbligò i governi a vendere alcuni servizi pubblici
per accumulare capitale di cui avevano urgente bisogno. Il governo americano aveva previsto da tempo
questo sviluppo. Per dimostrare al Congresso la necessità di stanziare miliardi per il Fmi da impiegare in
Asia, il ministro del Commercio Charlene Barshefsky assicurò che gli accordi avrebbero "creato nuove
opportunità commerciali per le aziende americane", e l'Asia sarebbe stata costretta ad "accelerare le
privatizzazioni di certi settori chiave, tra cui l'energia, i trasporti, i servizi pubblici e le comunicazioni".
Naturalmente, la crisi generò un'ondata di privatizzazioni, e le multinazionali estere portarono a casa il
bottino. La Bechtel ottenne il contratto per la privatizzazione dei sistemi idrici e fognari nella zona Est di
Manila, e un appalto per la costruzione di una raffineria di petrolio a Sulawesi, in Indonesia. La Motorola
ottenne il controllo completo della coreana Appeal Telecom. Il gigante newyorchese dell'energia Sithe
ottenne una grossa partecipazione nell'azienda pubblica del gas thailandese, la Cogeneration. I sistemi
idraulici indonesiani furono spartiti tra la britannica Thames Water e la francese Lyonnaise des Eaux. La
canadese Westcoast Energy si accaparrò un enorme progetto per una centrale elettrica in Indonesia. La
British Telecom comprò una grossa quota dei servizi postali malesi e di quelli coreani. La Bell Canada
ottenne un pezzo della società di telecomunicazioni coreana Hansol.
In tutto, ci furono 186 grosse fusioni e acquisizioni di aziende in Indonesia, Thailandia, Corea del Sud,
Malesia e Filippine, da parte di multinazionali straniere, nel giro di soli venti mesi. Di fronte a ciò
Robert Wade, economista della London School of Economics, e Frank Veneroso, consulente economico,
predissero che il programma del Fmi "potrebbe persino provocare il più grande trasferimento di risorse
in tempo di pace da proprietari locali a proprietari stranieri nella storia mondiale degli ultimi
cinquant'anni"!
Il Fmi, pur ammettendo alcuni errori nelle proprie reazioni immediate alla crisi, sostiene di averli
rapidamente corretti, e che i programmi di "stabilizzazione" hanno avuto successo. È vero che i mercati
asiatici finirono per calmarsi, ma con lentezza e a prezzo di grossi sacrifici. Milton Friedman, al culmine
della crisi, aveva messo in guardia contro il panico, insistendo che "finirà tutto. [...] Quando risolveranno
questa confusione finanziaria, vedremo tornare a crescere l'Asia, ma se ci vorranno uno, due o tre anni
nessuno può dirvelo".'
La verità è che, a distanza di un decennio, la crisi asiatica non è ancora finita. Quando 24 milioni di
persone perdono il lavoro nel giro di due anni, mette radici una nuova forma di disperazione che nessuna
cultura è in grado di assorbire facilmente. Una disperazione che si esprime in modi diversi nella regione,
da un notevole aumento dell'estremismo religioso in Indonesia e Thailandia alla crescita esplosiva della
tratta sessuale dei bambini.
I tassi di occupazione non sono ancora tornati ai livelli precedenti al 1997 in Indonesia, Malesia e Corea
del Sud. E il problema non è solo che chi ha perso il lavoro durante la crisi non l'ha riavuto indietro. I
licenziamenti sono continuati, perché i nuovi padroni stranieri pretendono profitti sempre più alti per i
loro investimenti. Anche i suicidi sono continuati: in Corea del Sud il suicidio è oggi la quarta causa più
frequente di morte, con un tasso più che raddoppiato rispetto a prima della crisi, 38
persone al giorno si tolgono la vita.'"
Questa è la storia non detta delle politiche che il Fmi chiama "programmi di stabilizzazione", come se i
Paesi fossero navi portate in giro nel mare aperto del mercato. Alla fine, in qualche modo, si stabilizzano;
ma quel nuovo equilibrio è ottenuto gettando a mare milioni di persone: i dipendenti pubblici, i piccoli
imprenditori, i coltivatori di sussistenza, i sindacalisti. Il terribile segreto della
"stabilizzazione" è che la grande maggioranza non risale più a bordo. Finiscono nelle baraccopoli, ora
rifugio di un miliardo di persone; finiscono nei bordelli o nei container sulle navi da carico.
Sono i diseredati, che il poeta tedesco Rainer Maria Rilice definisce come coloro a cui non appartiene il
passato né il futuro.
Queste persone non furono le sole vittime della pretesa avanzata dal Fmi di una perfetta ortodossia in
Asia. In Indonesia, i sentimenti anticinesi cui avevo assistito nell'estate del 1997 continuarono a
circolare, fomentati da una classe politica ben felice di distogliere l'attenzione da se stessa. Le cose
peggiorarono molto quando Suharto alzò il prezzo dei generi di prima necessità. Scoppiarono rivolte in
tutto il Paese, molte delle quali contro la minoranza cinese; circa 1200 persone furono uccise, e dozzine
di donne cinesi subirono stupri di gruppo. Anche loro fanno parte delle vittime mietute dall'ideologia
della Scuola di Chicago.
La rabbia degli indonesiani si diresse infine contro Suharto e il palazzo presidenziale. Per trent'anni gli
indonesiani erano stati tenuti più o meno in riga dal ricordo del bagno di sangue che aveva condotto
Suharto al potere, un ricordo rinfrescato con massacri periodici nelle province e a Timor Est. La rabbia
contro Suharto era rimasta sepolta per tutti quegli anni, ma ci voleva il Fmi per versare benzina sul fuoco
- cosa che fece, ironicamente, pretendendo che Suharto alzasse il prezzo della benzina. A quel punto gli
indonesiani insorsero e cacciarono il dittatore.
Come in un interrogatorio sotto tortura, il Fmi usò l'estremo dolore della crisi per piegare la volontà
delle Tigri, per ridurre quei Paesi alla totale sottomissione. Ma i manuali di interrogatorio della Cia
avvertono che questo processo può essere spinto troppo oltre: se si infligge una sofferenza eccessiva,
anziché regressione e collaborazione si stimola fiducia in sé e atteggiamento di sfida. In Indonesia quella
soglia fu superata, dimostrando che era possibile esagerare con la shockterapia, provocando un genere di
reazione contraria che ben presto sarebbe diventato molto familiare, dalla Bolivia all'Iraq.
I crociati del liberismo sono lenti di comprendonio, però, quanto alle conseguenze inattese delle loro
politiche. L'unica lezione che hanno imparato dalla ricchissima svendita sembra essere un'ulteriore
conferma della validità della dottrina dello shock; altra prova (se mai ce ne fosse bisogno) che solo un
vero disastro, un reale scompiglio della società, è in grado di aprire una nuova frontiera. Qualche anno
dopo il suo culmine della crisi, parecchi opinionisti influenti erano addirittura disposti ad affermare che
ciò che era accaduto in Asia, nonostante tutta la devastazione provocata, era stata in realtà una
benedizione. L'"Economist" osservò che "c'è voluta una crisi nazionale perché la Corea del Sud si
trasformasse da nazione autoreferenziale in un Paese aperto al capitale estero, al cambiamento e alla
competizione".
E Thomas Friedman, nel suo bestseller he radici del futuro, dichiarò che quanto accaduto in Asia non era
affatto una crisi. "Sono convinto che la globalizzazione abbia reso all'umanità grande servizio facendo
crollare negli anni Novanta le economie di Thailandia, Corea, Malesia, Indonesia, Messico, Russia e
Brasile perché così ha messo in luce pratiche e istituzioni corrotte" scrisse, aggiungendo che "mettere a
nudo il capitalismo clientelista in Corea non rientra nella mia definizione di crisi." Nella sua rubrica sul
"New York Times", schierandosi a favore dell'invasione in Iraq, avrebbe mostrato una logica simile;
sennonché la distruzione, in quel caso, sarebbe stata portata da missili Cruise, non da scambi di valute.
La crisi asiatica mostrò certamente quanto funzionava bene lo sfruttamento dei disastri. Allo stesso
tempo, la distruttività del crollo dei mercati e il cinismo della risposta occidentali stimolarono la nascita
di potenti contro-movimenti.
Le forze del capitale multinazionale ebbero via libera in Asia, ma suscitarono livelli inauditi di pubblica
ira, che si rivolse infine contro le istituzioni che propugnavano l'ideologia del capitalismo sfrenato. Come
affermò un editoriale del "Financial Times" insolitamente equilibrato, l'Asia era "un segnale che il
disagio dell'opinione pubblica nei confronti del capitalismo e delle forze della globalizzazione sta
raggiungendo livelli preoccupanti. La crisi asiatica ha mostrato al mondo che anche i Paesi più fortunati
possono essere messi in ginocchio da un'improvvisa fuga di capitali. Il popolo è rimasto scandalizzato da
come i capricci degli hedge funds più riservati sembrassero in grado di generare miseria all'altro capo
del mondo".''
A differenza dell'ex Unione Sovietica, dove la miseria pianificata della shockterapia poteva essere fatta
passare come parte della "dolorosa transizione" dal comunismo alla democrazia di mercato, la crisi
asiatica era palesemente una creazione dei mercati globali. Eppure, quando gli alti sacerdoti della
globalizzazione inviarono missioni nelle zone colpite dal disastro, non volevano far altro che acuire la
sofferenza.
Il risultato fu che queste missioni persero il comodo anonimato che le aveva protette in precedenza.
Stanley Fischer del Fmi ricordò l"atmosfera circense" che circondava l'Hilton di Seoul quando andò in
visita in Corea del Sud all'inizio delle negoziazioni. "Restai intrappolato nella mia camera d'albergo: non
potevo uscire perché se avessi aperto la porta avrei trovato diecimila fotografi".
Secondo un altro resoconto, per raggiungere la sala in cui si svolgevano le riunioni, i rappresentanti del
Fmi furono costretti "a passare per un ingresso sul retro, raggiungibile solo attraverso molte rampe di
scale e le enormi cucine dell'Hilton". All'epoca, i funzionari del Fmi non erano abituati a ricevere tanta
attenzione. L'esperienza di prigionia in alberghi a cinque stelle e centri congressi sarebbe diventata
familiare per gli emissari del Consenso di Washington negli anni a venire, quando le proteste di massa
avrebbero iniziato ad accogliere ogni loro spedizione all'estero.
Dopo il 1998, divenne sempre più difficile imporre stravolgimenti shockterapici con mezzi pacifici,
attraverso le solite pressioni esercitate dal Fmi ai summit sul commercio mondiale. L'atteggiamento di
sfida che ora proveniva dal Sud del mondo ebbe il suo debutto globale quando le contrattazioni del Wto
collassarono a Seattie, nel 1999. Anche se furono i manifestanti più giovani a monopolizzare la copertura
mediatica, la vera ribellione si svolse entro le mura del centro congressi, quando i Paesi in via di
sviluppo formarono un blocco compatto votando contro le richieste di ulteriori concessioni in favore del
libero scambio, finché l'Europa e gli Stati Uniti avessero continuato a finanziare e proteggere le proprie
industrie.
All'epoca era ancora possibile considerare la svolta di Seattle come un intoppo momentaneo
nell'irrefrenabile avanzata del corporativismo. Nel giro di qualche anno, tuttavia, la profondità del
mutamento sarebbe stata innegabile: l'ambizioso sogno del governo americano di creare una zona di
libero scambio unificata che comprendesse tutta l'area del Sudest asiatico fu abbandonato, come furono
abbandonati l'idea di un trattato globale per gli investitori e i progetti per una "Free Trade Area" delle
Americhe, che si estendesse dall'Alaska al Cile.
L'impatto forse più profondo del cosiddetto movimento antiglobalizzazione fu quello di spingere
l'ideologia della Scuola di Chicago al centro del dibattito internazionale. Per un breve istante, al volgere
del millennio, non c'erano crisi in fase acuta che potessero distogliere l'attenzione; gli shock del debito
avevano fallito, le "transizioni" erano state completate, e le nostre attenzioni non erano ancora state
fagocitate da una nuova guerra globale. Ciò che rimaneva era il mondo reale, e i risultati concreti della
crociata liberista: l'orrenda realtà dell'ineguaglianza, della corruzione e del degrado ecologico che un
governo dopo l'altro si lasciava alle spalle per seguire il consiglio di Friedman, dato
a Pinochet tanti anni prima, per cui era un errore cercare di "fare del bene con i soldi degli altri".
Con il senno di poi, è sorprendente che il periodo di monopolio del capitalismo, quando non dovette più
combattere con altre ideologie o contropoteri, sia stato così breve: solo otto anni, dal collasso
dell'Unione Sovietica nel 1991 al collasso delle trattative del Wto nel 1999. Ma la crescente opposizione
non avrebbe frenato la volontà di portare avanti un'agenda politica così straordinariamente redditizia; i
suoi sostenitori avrebbero semplicemente cavalcato l'onda della paura e del disorientamento creata da
shock ancora più grandi di quelli patiti fino ad allora.
Parte quinta.
Tempi scioccanti. Ascesa del capitalismo dei disastri.
Distruzione creativa è il nostro secondo nome, sia all'interno della nostra società sia all'estero.
Ogni giorno facciamo a pezzi il vecchio ordine, dall'economia alla scienza, alla letteratura, all'arte,
al cinema, alla politica, alla legge [...] Devono attaccarci per riuscire a sopravvivere, così come noi
dobbiamo distruggere loro per portare avanti la nostra missione storica.
Michael Ledeen, The War Against the Terror Masters, 2002.
La risposta di George a qualsiasi problema del ranch è abbatterlo con una sega elettrica: credo sia
per questo che lui, Cheney e Rumsfeld vanno così d'accordo.
Laura Bush, alla cena per l'Associazione corrispondenti alla Casa Bianca, 30 aprile 2005.
14.
La shockterapia negli Stati Uniti. La bolla della sicurezza interna.
È un piccolo bastardo spregiudicato. Potete starne certi.
Richard Nixon, presidente Usa, a proposito di Donald Rumsfeld, 1971.
Temo che oggi ci stiamo accorgendo di vivere in una società della sorveglianza che è già tutto intorno
a noi
Richard Thomas, commissario britannico per l'informazione, novembre 2006.
La sicurezza interna potrebbe aver raggiunto lo stadio che gli investimenti in internet raggiunsero nel
1997. A quell'epoca, bastava mettere una "e" davanti al nome della propria azienda, e l'Ipo si
impennava. Ora si può fare lo stesso con la parola "fortezza".
Daniel Gross, "Slate", giugno 2005.
Era un afoso lunedì a Washington, e Donald Rumsfeld era in procinto di fare una cosa che odiava: parlare
con il suo staff. Da quando era stato nominato segretario alla Difesa, tra i capi delle forze armate si era
fatto la reputazione di persona dispotica, chiusa e - un aggettivo usato spesso arrogante. Il loro astio era comprensibile. Appena messo piede al Pentagono Rumsfeld aveva accantonato
il suo ruolo di leader e motivatore, per comportarsi come un freddo sicario: un segretario/amministratore
delegato, investito della missione di ridurre l'organico.
Quando Rumsfeld accettò l'incarico, molti si chiesero perche lo volesse. Dopotutto, aveva sessantotto anni, cinque nipoti e un patrimonio personale stimato intorno
ai 250 milioni di dollari; e poi, aveva già svolto la stessa funzione nell'amministrazione Gerald Ford/
Rumsfeld, tuttavia, non voleva essere il classico segretario alla Difesa, che vale quanto le guerre che
combatte; aveva ambizioni molto più alte.
Il segretario entrante aveva passato gli ultimi vent'anni circa a guidare multinazionali e sedere nei loro
consigli d'amministrazione, spesso supervisionando enormi fusioni e acquisizioni, oltre che dolorose
ristrutturazioni. Negli anni Novanta, era giunto a vedersi come un uomo della New Economy, quando
dirigeva un'impresa specializzata nella tv digitale e nel contempo era nel cda di un'altra promettente
azienda di "e-business solutions", nonché presidente di un'azienda di biotecnologie decisamente
fantascientifica, che deteneva il brevetto esclusivo di una terapia per l'influenza aviaria, e svariati
medicinali contro l'Aids. Quando Rumsfeld entrò nel governo di George W. Bush, nel 2001, fu con la
missione personale di reinventare la guerra per il ventunesimo secolo: trasformarla in qualcosa di più
psicologico che fisico, più spettacolo che lotta, e redditizia come mai prima d'allora.
Molto è stato scritto sul controverso progetto di "trasformazione" di Rumsfeld, che condusse otto generali
in pensione a chiedere le sue dimissioni e infine lo costrinse a ritirarsi dopo le elezioni di medio termine
nel 2006. Quando Bush annunciò le dimissioni del suo segretario alla Difesa, parlò del progetto di
"radicale trasformazione" - e non della guerra in Iraq o della più ampia Guerra al Terrore - come il
contributo più significativo di Rumsfeld: "Il lavoro di Don in questi ambiti non sempre è finito sulle
prime pagine dei giornali. Ma le riforme che ha stimolato sono di portata storica". E di fatto lo sono, ma
non è sempre stato chiaro in cosa consistano quelle riforme.
Gli ufficiali di alto rango liquidavano la "trasformazione" come "uno slogan vuoto", e Rumsfeld
sembrava spesso deciso (in modo quasi comico) a dar ragione ai suoi critici: "L'esercito sta
attraversando un intenso processo di modernizzazione" disse nell'aprile 2006. "Da forza articolata in
divisioni si sta trasformando in forza di combattimento basata su brigate modulari [...] da una guerra
incentrata attorno al ruolo delle forze armate alla guerra di deconflittualizzazione, aU'interoperabilità e
ora verso l'interdipendenza. È una cosa difficile." Ma il progetto non fu mai complicato come sembrava
dalle parole di Rumsfeld. Al disotto di tutto il gergo, c'era semplicemente un tentativo di portare al cuore
dell'esercito americano la rivoluzione Woutsourcing e del branding di cui aveva fatto parte nel mondo
aziendale.
Negli anni Novanta, molte aziende che tradizionalmente avevano realizzato i propri prodotti, e mantenuto
forze lavoro ampie e stabili, abbracciarono quello che divenne noto come "Il modello Nike": non
possedere fabbriche, produrre i propri prodotti attraverso un'intricata rete di appalti e subappalti, e
investire le proprie risorse nel design e nel marketing. Altre aziende optarono per il modello alternativo,
quello Microsoft: mantenere un centro di controllo attivo, fatto di azionisti/dipendenti che svolgono le
funzioni centrali, ed esternalizzare tutto il resto a lavoratori temporanei, dallo smaltimento della
corrispondenza alla scrittura del codice. Alcuni chiamavano queste aziende, oggetto di ristrutturazioni
così radicali, hollow corporations, "imprese vuote", perché al loro interno era rimasto ben poco di
tangibile.
Rumsfeld era persuaso che il dipartimento della Difesa avesse bisogno di una riorganizzazione analoga:
come scrisse "Forttine" in occasione del suo arrivo al Pentagono, il "signor Presidente"
avrebbe "supervisionato lo stesso tipo di ristrutturazione che aveva orchestrato così sapientemente nel
mondo aziendale". Naturalmente, c'erano alcune differenze. Mentre le grandi imprese si liberavano di
fabbriche geograficamente localizzate e di dipendenti a tempo pieno, Rumsfeld riteneva che l'esercito
dovesse rinunciare alle grandi truppe a tempo pieno in favore di un piccolo nucleo di dipendenti
supportato da soldati temporanei, più a buon mercato, provenienti dalle riserve e dalla Guardia
nazionale. Intanto, gli appaltatori di aziende private come la Blackwater e la Halliburton avrebbero
svolto compiti come la guida di veicoli in situazioni di alto rischio, gli interrogatori in carcere, il
servizio di approvigionamento e i servizi medici. E mentre le corporation investivano nel design e nel
marketing ciò che risparmiavano sulla forza lavoro, Rumsfeld avrebbe speso i soldi risparmiati
riducendo il numero di soldati e carri armati, comprando dal settore privato i più avanzati strumenti di
comunicazione satellitare e le nanotecnologie. "Nel ventunesimo secolo"
disse, parlando dell'esercito moderno "dovremo smettere di pensare alle cose, ai numeri, alla massa, e
pensare anche - forse soprattutto - alla Velocità, all'agilità e alla precisione." Ricordava l'iperattivo
consulente di gestione aziendale Tom Peters, che nei tardi anni Novanta aveva dichiarato che le aziende
dovevano decidere se volevano "usare solo il cervello" o essere "fornitori di oggetti ingombranti".
Prevedibilmente, i generali abituati a comandare al Pentagono, certi che le "cose" e la "massa" fossero
ancora importanti quando si trattava di andare in guerra, presto si mostrarono profondamente ostili alla
visione rumsfeldiana di un esercito "vuoto". Dopo poco più di sette mesi in carica, il segretario aveva già
pestato un numero sufficiente di piedi importanti perché si mormorasse che i suoi giorni erano contati.
Fu in questo frangente che Rumsfeld convocò un raro "meeting informale" per lo staff del Pentagono. Le
congetture iniziarono immediatamente: avrebbe annunciato le sue dimissioni?
Avrebbe provato a tenere un discorso di incoraggiamento? Stava cercando (in ritardo) di convincere la
vecchia guardia della necessità di una trasformazione? Mentre centinaia di dipendenti del Pentagono si
affollavano nell'auditorio quel lunedì mattina, "c'era grande curiosità" mi ha raccontato un impiegato.
"Tutti pensavamo, come farà a convincerci? Perché c'era già un grande astio nei suoi confronti."
Quando Rumsfeld entrò, "tutti ci alzammo educatamente, e tornammo a sederci". Divenne presto chiaro
che non si trattava di un annuncio di dimissioni, e certo non era un discorso di incoraggiamento.
Potremmo considerarlo il più straordinario discorso mai pronunciato da un segretario alla Difesa
americano. Iniziava così:
L'argomento di oggi è un avversario che pone una minaccia, una minaccia grave, alla sicurezza degli Stati
Uniti d'America. Questo avversario è uno degli ultimi bastioni al mondo della pianificazione
centralizzata. Governa sulla base di piani quinquennali. Da una sola capitale, cerca di imporre le sue
pretese attraverso più fusi orari, continenti, oceani e oltre. Con brutale coerenza, soffoca la libertà di
pensiero e reprime le nuove idee. Mette in crisi le difese degli Stati Uniti e mette a rischio le vite di
uomini e donne in uniforme.
Forse vi sembrerà che questo avversario somigli all'ex Unione Sovietica, ma quel nemico è scomparso: i
nostri avversari di oggi sono più sottili e implacabili. [...] L'avversario è più vicino a casa. È la
burocrazia del Pentagono."
Quando l'artificio retorico di Rumsfeld fu rivelato, i volti dell'uditorio si fecero di sasso. La maggior
parte dei presenti aveva dedicato la propria carriera a combattere l'Unione Sovietica, e non gradiva di
venir paragonato ai comunisti, in questa fase del gioco. Rumsfeld non aveva finito. "Conosciamo il nostro
avversario. Conosciamo la minaccia. E con la stessa fermezza richiesta da ogni lotta contro un avversario
risoluto, dobbiamo opporci e continuare a opporci [...] Oggi dichiariamo guerra alla burocrazia."
L'aveva fatto davvero: il segretario alla Difesa non solo aveva definito il Pentagono una grave minaccia
per l'America, ma aveva appena dichiarato guerra all'istituzione per cui lavorava.
L'uditorio era esterrefatto. "Stava dicendo che noi eravamo il nemico, che il nemico eravamo noi. E
noi lì, a pensare di fare il bene della nazione" mi disse l'impiegato.
Rumsfeld voleva risparmiare i dollari dei contribuenti: aveva appena chiesto al Congresso un aumento di
bilancio dell'11 per cento. Ma in base ai principi corporativisti della controrivoluzione, in cui il Big
Government unisce le forze con il Big Business per redistribuire i fondi verso l'alto, voleva spendere
meno per i dipendenti e trasferire direttamente nei forzieri delle aziende private molto più denaro
pubblico. E con ciò, Rumsfeld dichiarò la sua "guerra". Ogni dipartimento doveva tagliare il personale
del 15 per cento, compresi "tutti i quartieri generali nel mondo. Non è solo la legge, è una buona idea, e
la metteremo in pratica".
Aveva già incaricato i dipendenti di grado superiore di "passare in rassegna il dipartimento [della
Difesa] per scoprire quali funzioni potrebbero essere svolte meglio e più a buon mercato attraverso
Voutsourcing commerciale". Voleva sapere "perché il dipartimento della Difesa è una delle poche
organizzazioni che stacca ancora gli assegni da sola? Quando esiste un intero settore dedicato alla
gestione efficiente dei magazzini, perché noi possediamo e teniamo in funzione tanti magazzini?
Nelle basi militari di tutto il mondo, perché raccogliamo da soli la spazzatura e diamo lo straccio ai
pavimenti, anziché appaltare questi servizi a terzi, come fanno tante aziende? E dovremmo sicuramente
esternalizzare di più l'assistenza per i sistemi informatici".
Se la prese persino con la vacca sacra dell'establishment militare: l'assistenza sanitaria per l'esercito.
Perché c'erano tanti medici?, voleva sapere Rumsfeld. "Ad alcune di quelle esigenze, soprattutto quelle
che riguardano la medicina generale o specializzazioni non legate al combattimento, si potrebbe
rispondere in modo più efficiente attraverso il settore privato." E gli alloggi per i soldati e le loro
famiglie? Di certo si potevano costruire "mediante partnership pubblico-privato".
Il dipartimento della Difesa avrebbe dovuto concentrare l'attenzione sulla sua funzione chiave: "fare la
guerra. [...] Ma per tutto il resto dovremmo rivolgerci a fornitori che possano espletare queste funzioni
non centrali in modo efficiente ed efficace". Dopo il discorso, molti dipendenti del Pentagono si
lamentarono che l'unico ostacolo all'ardito progetto di Rumsfeld, di esternalizzare l'esercito, fosse un
piccolo problema della Costituzione americana che definiva esplicitamente la sicurezza nazionale come
un dovere del Governo, non delle aziende private. "Pensavo che quel discorso sarebbe costato a
Rumsfeld il licenziamento," mi disse la mia fonte.
Così non fu, e la stampa parlò poco della dichiarazione di guerra al Pentagono. Questo perché la data in
cui si svolse il suo controverso proclama fu il 10 settembre 2001. Per una strana ironia della storia, nel
telegiornale della sera sulla CNN fu trasmesso un breve servizio dal titolo: Il segretario alla difesa
dichiara guerra alla burocrazia del Pentagono; la mattina dopo, lo stesso canale televisivo avrebbe
parlato di un attacco alla stessa istituzione, ma di natura assai meno metaforica: un attacco che costò la
vita a 125 dipendenti del Pentagono e ferì gravemente altre 110 di quelle persone che Rumsfeld aveva
definito nemici dello Stato meno di ventiquattr'ore prima.
Cheney e Rumsfeld: proto-capitalisti dei disastri.
L'idea centrale del discorso perduto di Rumsfeld non è altro che il concetto portante del regime di Bush:
che il mestiere di un governo non è quello di governare ma quello di subappaltare l'onere al settore
privato, più efficiente e complessivamente superiore. Come Rumsfeld disse esplicitamente, non era una
questione prosaica, di tagli al bilancio, ma una crociata che avrebbe cambiato il mondo, come la sconfitta
del comunismo.
Quando la squadra di Bush salì al potere, l'ondata di privatizzazioni degli anni ottanta e novanta (cui
aveva partecipato con entusiasmo l'amministrazione Clinton, oltre ai governi statali e locali) aveva
portato alla vendita o alla esternalizzazione di grandi aziende pubbliche in svariati settori: dall'acqua e
l'elettricità, alla hgestione delle autostrade e alla raccolta dei rifiuti. Dopo aver amputato questi arti allo
Stato, ciò che rimaneva era il "nucleo": una serie di funzioni così connaturate al concetto di governo che
l'idea di affidare a privati sfidava la nozione stessa di Stato-Nazione: l'esercito, la polizia, i vigili del
fuoco, le carceri, il controllo delle frontiere, l'intelligence, il controllo delle prigionie, le squole
pubbliche e l'amministrazione burocratica. Le prime fasi dell'ondata
di privatizzazioni, però, si erano rivelate così redditizie che molte di quelle aziende che avevano
fagocitato le appendici dello Stato iniziarono a rivolgere sguardi avidi anche verso quelle funzioni
essenziali, in cui vedevano un'altra fonte di guadagno immediato.
Verso la fine degli anni Novanta, si preparava una mossa decisiva che avrebbe spezzato i tabù che
proteggevano "il nucleo" dalla privatizzazione. In un certo senso si trattò di una logica conseguenza dello
status quo. Come i giacimenti petroliferi russi, le telecomunicazioni latinoamericane e le industrie
asiatiche avevano regalato al mercato azionario enormi profitti negli anni Novanta, così ora lo stesso
governo americano avrebbe svolto quel ruolo centrale nell'economia: ruolo ancor più cruciale perché le
proteste contro la privatizzazione e il liberismo si stavano diffondendo a macchia d'olio nei Paesi in via
di sviluppo, chiudendo altre strade per la crescita.
Fu una mossa che portò la dottrina dello shock verso una fase nuova, autoreferenziale: fino a quel
momento, i disastri e le crisi erano stati sfruttati per applicare progetti radicali di privatizzazione a fatto
compiuto, ma le istituzioni che avevano il potere di creare e rispondere ai cataclismi l'esercito, la Cia, la Croce rossa, l'Onu, gli "operatori di pronto intervento" - erano gli ultimi bastioni del
controllo pubblico. Ora che il "nucleo" stava per essere fagocitato, i metodi di sfruttamento delle crisi
messi a punto negli ultimi tre decenni sarebbero stati usati per accelerare la privatizzazione
dell'infrastruttura di creazione dei disastri come anche quella di risposta agli stessi disastri. La teoria
della crisi di Friedman diventava postmoderna.
In prima linea, nello sforzo per la creazione di quello che non si può definire altrimenti che uno Stato di
polizia privatizzato, c'erano le personalità più influenti della futura amministrazione Bush: Dick Cheney,
Donald Rumsfeld e lo stesso George W. Bush.
Per Rumsfeld, l'idea di applicare le "logiche di mercato" all'esercito americano era un progetto vecchio
di quarant'anni. Era iniziato nei primi anni Sessanta, quando Rumsfeld frequentava seminari al
dipartimento di Economia dell'Università di Chicago. Aveva stretto rapporti molto amichevoli con
Milton" Friedman, il quale, quando Rumsfeld era stato eletto al Congresso all'età di trent'anni, aveva
preso sotto la sua ala protettrice il giovane repubblicano, aiutandolo a sviluppare un'audace piattaforma
liberista e istruendolo nell'economia teorica. I due uomini restarono molto vicini nel corso degli anni;
Rumsfeld partecipava alle celebrazioni annuali.
per il compleanno di Friedman, organizzate dal presidente della Fondazione Heritage, Ed Feulner.
"Milton ha una dote particolare: quando sono vicino a lui, quando parlo con lui, mi sento più intelligente"
disse Rumsfeld del suo mentore quando Friedman compì novant'anni. L'L'ammirazione era reciproca.
Friedman restò talmente colpito dall'impegno di Rusfeld per la deregolamentazione dei mercati che fece
pressione su Reagan perché lo nominasse come proprio vice alle elezioni presidenziali del 1980, al
posto di George H. W. Bush, e non perdonò mai a Reagan per avere ignorato il suo consiglio. "Sono
convinto che Reagan commise un errore scegliendo Bush come candidato alla vicepresidenza" scrisse
Friedman nelle sue memorie, "anzi, la considero la peggior decisione non solo della sua campagna
elettorale ma della sua Presidenza. Il mio candidato preferito era Donald Rumsfeld. Se fosse stato scelto,
credo che sarebbe succeduto a Reagan come presidente, e il triste periodo Bush-Clinton non sarebbe mai
iniziato."
Rumsfeld reagì all'affronto di non essere scelto come vice di Reagan gettandosi a capofitto nella sua
promettente carriera aziendale. Come presidente della Seasle Farmaceuticals, industria chimica
farmaceutica internazionale, usò i suoi legami politici per assicurarsi il controverso ed estremamente
redditizio nullaosta della Food and Drug Administration alla commercializzazione dell'Aspartame (con il
nome commerciale di NutraSleet), e quando Rumsfeld fece da mediatore nella vendita della Searle alla
Montalto, ottenne un guadagno personale stimato intorno ai dodici milioni di dollari. La prestigiosa
vendita fece di Rumsfeld un giocatore di primo piano, garantendogli seggi nei consigli di amministrazione
di aziende Blue-Chit come la Sears e la Kellogg's. Il suo status di ex segretario alla difesa, nel frattempo,
lo rendeva molto appetibile per ogni azienda che facesse parte di quelle che Eisenhower aveva chiamato
il "complesso militare-industriale". Rumsfeld sedeva nel consiglio d'amministrazione del costruttore di
aeroplani Gulfstream, ed era pagato 190000 dollari l'anno come menbro del CdA della Asea Brown
Boveri, Il gigante svizzero dell'ingegneria che finì nell'occhio del ciclone, quando si scoprì che aveva
venduto tecnologia nucleare alla Corea del Nord, mettendola in grado di produrre plutonio. La vendita
del reattore nucleare si svolse nel 2000, e all'epoca Rumsfeld era l'unico nordamericano nel CdA della
ABB. Egli sostenne di non ricordare quella vendita, anche se l'azienda insiste che "i consiglieri erano
informati del progetto".
Nel 1997 Rumsfeld fu eletto presidente del consiglio d'amministrazione dell'azienda di biotecnologie
Gilead Sciences, e si affermò definitivamente come proto-capitalista dei disastri.
L'azienda aveva un brevetto per il Tamiflu, medicinale per varie forme di influenza, molto usato nella
terapia dell'aviaria.
Nota: il Tamiflu è diventato oggetto di accese controversie. Sono stati segnalati molti casi di confusione
mentale, paranoia, allucinazioni e tendenza al suicidio. Tra il novembre 2005 e il novembre 2006,
venticinque morti nel mondo furono collegate al Tamiflu, e negli Stati Uniti il farmaco è ora venduto con
un'avvertenza medica che segnala ai pazienti un "aumentato rischio di autoferimento e confusione" e
raccomanda loro di "restare sotto stretta osservazione per eventuali segni di comportamento anomalo".
Se mai scoppiasse un'epidemia del contagiosissimo virus (o la minaccia di un'epidemia), i governi
sarebbero costretti a comprare farmaci per miliardi di dollari dalla Gilead Sciences.
Il brevetto di farmaci e vaccini per fronteggiare emergenze sanitarie pubbliche resta un argomento
controverso. Gli Stati Uniti non sono colpiti da un'epidemia da diversi decenni, ma al culmine
dell'incidenza della polio, a metà degli anni Cinquanta, si discusse molto sull'eticità o meno del
guadagnare da una malattia. Con quasi 60.000 casi noti di poliomielite, e i genitori preoccupati che i loro
figli potessero contrarre la malattia, debilitante e spesso fatale, la ricerca di una cura era frenetica.
Quando Jonas Salk, scienziato dell'Università di Pittsburgh, la trovò e sviluppò il primo vaccino
antipolio nel 1952, non brevettò questo trattamento salvavita. "Non c'è brevetto" disse al giornalista
televisivo Edward R. Murrow: "Come si fa a brevettare il sole?".
Si può star certi che, se fosse possibile brevettare il sole, Donald Rumsfeld avrebbe aperto da tempo una
pratica con il Patent and Trademark Office. La sua ex azienda Gilead Sciences, che detiene anche i
brevetti di quattro farmaci per l'Aids, cerca anche, in modo molto energico, di bloccare la distribuzione
delle versioni generiche di questi farmaci salvavita nei Paesi in via di sviluppo.
L'azienda è stata criticata da alcuni attivisti americani che si battono per la sanità pubblica, facendo
osservare che alcuni dei principali farmaci commercializzati dalla Gilead sono stati sviluppati con i
soldi dei contribuenti. La Gilead, da parte sua, vede le epidemie come un mercato in crescita, e svolge
un'aggressiva campagna di marketing per incoraggiare aziende e individui a fare scorte di Tamiflu:
perché non si sa mai. Prima di rientrare al governo, Rumsfeld era così convinto di avere a che fare con
un'industria dal potenziale altissimo che contribuì a fondare diversi fondi privati di investimento
specializzati nelle biotecnologie e nei farmaci. Queste aziende lucrano su un futuro apocalittico di
epidemie, un futuro in cui i governi sono costretti a comprare, a prezzi astronomici, qualsiasi prodotto
salvavita di cui il settore privato detenga il brevetto.
Dick Cheney, un protetto di Rumsfeld nell'amministrazione Ford, ha costruito a sua volta una fortuna sulla
base del redditizio prospetto di un tragico futuro, anche se, laddove Rumsfeld vedeva un mercato in
crescita nelle epidemie, Cheneyt lucrava su un futuro fatto di guerre. Come segretario alla difesa sotto
Bush Sr, Cheney ridusse il numero di truppe attive e aumentò notevolmente la dipendenza dagli
appaltatori privati. Incaricò la Brown and Root, divisione ingegneristica della multinazionale texana
Halliburton, di individuare funzioni svolte dalle truppe americane che avrebbero potuto essere svolte dal
settore privato, con un profitto.
Naturalmente, la Halliburton ne individuò moltissime, e ciò condusse a un contratto nuovo di zecca con il
Pentagono: il Logcap (Logistics Simil Augmentation Program, programma per l'incremento della
partecipazione civile nel settore logistico). Il Pentagono era tristemente noto per i contratti
multimiliardari con i costruttori d'armi, ma stavolta era qualcosa di nuovo: non forniture militari, ma
attività gestionale delle operazioni militari. Alcune aziende - un gruppo ristretto - furono invitate a
candidarsi per la fornitura di illimitato "supporto logistico" per le missioni militari americane: una
descrizione estremamente vaga. Peraltro, il contratto non menzionava una cifra in dollari: si assicurava
soltanto all'azienda vincitrice che qualunque cosa avesse fatto per l'esercito, le spese sarebbero state
coperte dal Pentagono, più un profitto garantito - noto come contratto Cost plus.
Questi erano gli ultimi giorni dell'amministrazione Bush Sr, e l'azienda vincitrice dell'appalto fu non altri
che la Hallburton. Come notò T. Christian Miller de Los Angeles Time, la Halliburton "ha battuto 36
concorrenti per un contratto quinquennale: il che non sorprende, forse, essendo stata la stessa azienda ad
elaborare i piani." Nel 1995, Clinton alla Casa Bianca, la Halliburton reclutò Cheney come nuovo capo.
Mentre la divisione Brown and Root della Halliburton aveva una lunga storia di appalti con l'esercito
Usa, sotto la guida di Cheney compito della Halliburton sarebbe stato quello di espandersi così tanto da
trasformare la natura della guerra moderna. Grazie al generico contratto che la Halliburton e Cheney
avevano stipulato quando lui era al Pentagono, l'azienda fu in grado di allargare ed espandere il
significato del termine "supporto logistico" fino a rendere l'Halliburton responsabile per la creazione
dell'intera infrastruttura di un'operazione militare americana oltremare. All'esercito si richiedeva solo di
fornire soldati e armi; in un certo senso, erano fornitori di contenuti, mentre la Halliburton era maestra di
cerimonie.
Il risultato, che fu visibile per la prima volta nei Balcani, fu una specie di esperienza "McMilitare", in cui
inviare le truppe all'estero somigliava a un pacchetto vacanza pericoloso e armato fino ai denti. "La
prima persona che accoglie i nostri soldati quando arrivano nei Balcani, e l'ultima a congedarli quando se
ne vanno, è uno dei nostri impiegati" spiegò un portavoce della Halliburton, dando più l'idea di direttori
di crociera che non di coordinatori di logistica. Questa era la differenza specifica dell'Halliburton:
Cheney non vedeva motivo perché la guerra non dovesse essere parte integrante della fiorente economia
di servizio americana. Invasione sì, ma col sorriso sulle labbra.
Nei Balcani, dove Clinton aveva stanziato 19.000 soldati, le basi Usa spuntarono come mini-città
Halliburton: sobborghi ordinati e recintati, costruiti e gestiti interamente dall'azienda. E la Halliburton
era decisa a garantire alle truppe tutte le comodità di casa, dai fast food ai supermarket, dai cinema alle
palestre high-tech. Alcuni ufficiali di alto rango temevano che la
"commercializzazione" dell'esercito potesse avere conseguenze negative sulla disciplina; ma anche loro
traevano profitto dagli incentivi. "Ogni cosa, con la Halliburton, era placcata d'oro" mi disse uno di loro.
"Dunque non ci lamentavamo." Dal punto di vista della Halliburton, la soddisfazione del cliente era un
ottimo affare: garantiva sempre nuovi contratti, e poiché i profitti erano calcolati come percentuale dei
costi, più i costi erano alti e più lo erano i profitti. "Non preoccuparti, è cost plus" è uno slogan reso
famoso dalla Zona verde di Baghdad, ma il lusso bellico era nato già nell'era Clinton. In soli cinque anni
alla Halliburton, Cheney raddoppiò quasi la cifra che l'azienda riceveva dal Tesoro americano, da 1,2 a
2,3 miliardi di dollari, mentre aumentò di quindici volte l'ammontare dei prestiti federali e delle garanzie
sul prestito. E fu ricompensato lautamente per i suoi sforzi.
Prima di diventare vicepresidente, Cheney "valeva tra i 18 e gli 81,9 milioni netti, dei quali tra 6 e 30
milioni erano in azioni della Halliburton Co. [...] In tutto, Cheney ha ricevuto circa 1.260.000
opzioni sull'acquisto di titoli, di cui 100.000 già utilizzate, 760.000 riscattabili e 166.667 che
diventeranno valide il prossimo dicembre [2000]".
La spinta all'espansione dell'economia di servizio verso il cuore del governo era, per Cheney, un affare
di famiglia. Nei tardi anni Novanta, mentre trasformava le basi militari in filiali della Halliburton, sua
moglie Lynne guadagnava stock options in aggiunta al suo salario come membro del consiglio
d'amministrazione della Lockheed Martin, il più grande appaltatore mondiale nel settore della difesa. Gli
anni trascorsi da Lynne nel cda, dal 1995 al 2001, coincisero con un periodo chiave di transizione per
aziende come la Lockheed. La Guerra fredda era finita, le spese per la difesa calavano rapidamente, e
queste aziende, i cui budget consistevano quasi interamente in contratti con i governi per gli armamenti,
avevano bisogno di un nuovo modello di business. Alla Lockheed e presso le altre aziende produttrici di
armi emerse una strategia fondata sul perseguire aggressivamente un nuovo settore d'interesse: gestire il
governo, dietro pagamento.
A metà degli anni Novanta, la Lockheed iniziò a prendere il controllo delle divisioni informatiche del
governo americano, occupandosi dei sistemi computerizzati e di gran parte della elaborazione dei dati. In
gran parte sotto gli occhi dell'opinione pubblica, l'azienda si spinse così oltre che nel 2004 il "New York
Times" scrisse: "La Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti. Ma contribuisce a gestirne una parte
straordinariamente grande [...] Organizza la vostra posta e computa le vostre tasse. Firma gli assegni
della sicurezza sociale e gestisce il censimento degli Stati Uniti.
Organizza i voli spaziali e monitora il traffico aereo. Per fare tutto ciò, la Lockheed scrive più codice
informatico della Microsoft".
Nota: tutti i grandi produttori di armamenti in quel periodo entrarono nel business della gestione
governativa. La Computer Sciences, che fornisce tecnologie informatiche all'esercito, compresi gli
strumenti per l'identificazione biometrica, ottenne un appalto di 644 milioni di dollari dalla contea di San
Diego per gestire tutte le tecnologie informatiche: uno degli appalti più grandi mai concessi in questo
settore. La contea non fu soddisfatta del rendimento della Computer Sciences e non rinnovò il contratto,
affidandosi invece a un altro gigante delle armi, la Northrop Grumman, produttrice del bombardiere
strategico B-2.
Un team di marito e moglie molto potente. Mentre Dick spingeva la Halliburton a prendere il controllo
dell'infrastruttura bellica all'estero, Lynne aiutava la Lockheed a controllare la gestione ordinaria del
governo in patria. A volte, marito e moglie si trovavano in competizione diretta. Nel 1996, quando lo
Stato del Texas annunciò una gara d'appalto per la gestione del programma di welfare statale, un contratto
quinquennale del valore di due miliardi di dollari, sia la Lockheed sia il gigante informatico Electronic
Data Systems - nel cui cda sedeva Cheney - parteciparono alla gara.
Alla fine, l'amministrazione Clinton intervenne e bloccò l'asta. Pur essendo in generale molto favorevole
aU'esternalizzazione, stabilì che decidere chi avesse i requisiti per ricevere assistenza pubblica era un
ruolo essenziale del governo, come tale non suscettibile di privatizzazione. Sia la Lockheed sia la Eds
gridarono allo scandalo, e così fece anche il governatore del Texas, George W.
Bush, secondo il quale privatizzare il welfare era un'idea geniale.
George W. Bush non si distinse particolarmente come governatore, ma c'era un settore in cui eccelleva:
ripartire tra i privati le varie funzioni del governo per gestire il quale era stato eletto; in particolare, le
funzioni legate alla sicurezza, un'anteprima della Guerra al terrore privatizzata che ben presto avrebbe
scatenato. Durante il suo mandato il numero di carceri private nel Texas aumentò da 26 a 42, spingendo
la rivista "American Prospect" a definire il Texas di Bush "la capitale mondiale dell'industria delle
prigioni private". Nel 1997 l'Fbi avviò un'inchiesta su un carcere nella contea di Brazoria, a 65
chilometri da Houston, dopo che una stazione televisiva locale aveva trasmesso un filmato in cui alcuni
secondini prendevano a calci sul basso ventre detenuti che non opponevano resistenza, li colpivano con
pistole elettriche e aizzavano i cani contro di loro.
Almeno uno dei secondini nel video indossava l'uniforme della Capital Correctional Resources,
un'azienda privata che deteneva l'appalto per la fornitura di guardie carcerarie.
L'entusiasmo di Bush per la privatizzazione non fu minimamente ridotto in seguito all'incidente di
Brazoria. Qualche settimana dopo, ebbe una specie di epifania quando incontrò José Pinera, il ministro
cileno che aveva privatizzato la sicurezza sociale durante la dittatura di Pinochet. Così Pinera descrive
l'incontro: "Dalla sua espressione intenta, il suo linguaggio non verbale e le sue domande mirate, capii
immediatamente che il signor Bush aveva compreso appieno l'essenza della mia idea: che la riforma
della sicurezza sociale poteva essere usata sia per fornire una pensione decente sia per creare un mondo
di capitalistilavoratori, una società di proprietari [...] Era così entusiasta che alla fine mi sussurrò in un
orecchio, sorridendo: "Vada a raccontare tutto questo al mio fratellino, in Florida. Anche a lui piacerà
molto".
L'impegno del futuro presidente nel mettere all'asta lo Stato, assieme alla leadership di Cheney
nell'esternalizzare l'esercito e ai brevetti imposti da Rumsfeld su farmaci che potrebbero scongiurare
epidemie, fornirono un'anteprima del tipo di Stato che questi tre uomini avrebbero costruito insieme:
l'idea di un governo assolutamente vuoto, cavo. Anche se questo programma radicale non costituì il
nucleo della campagna elettorale di Bush nel 2000, non mancarono gli indizi di quanto stava per
accadere: "Ci sono centinaia di migliaia di dipendenti federali a tempo pieno che svolgono mansioni che
potrebbero essere svolte da aziende del settore privato" disse Bush in un comizio.
"Indirò il maggior numero possibile di gare d'appalto per la gestione di queste funzioni. Se il settore
privato è in grado di svolgere un lavoro migliore, dev'essere il settore privato a ottenere il contratto."
L'11 settembre e il ritorno della pubblica amministrazione.
Quando Bush e i suoi ministri si insediarono al governo nel gennaio 2001, le corporation americane
avevano grande bisogno di nuove fonti di crescita. La bolla tecnologica era ufficialmente scoppiata, e il
Dow Jones crollò di 824 punti nei primi due mesi e mezzo del mandato; Bush e colleghi si trovarono di
fronte a una grave flessione economica. Keynes aveva sostenuto che per combattere la recessione i
governi dovevano spendere di più, per garantire stimoli economici attraverso le opere pubbliche. La
soluzione di Bush fu decostruire il governo: tagliare grosse fette della ricchezza pubblica e darle in pasto
alle aziende americane, sotto forma di tagli fiscali da un lato e redditizi appalti dall'altro. Il responsabile
del bilancio, l'ideologo da think tank Mitch Daniels, affermò:
"L'idea generale - che il compito del governo non sia quello di fornire servizi, ma di assicurarsi che
vengano forniti mi sembra autoevidente". In questa affermazione era compresa la reazione ai disastri.
Joseph Allbaugh, funzionario del partito repubblicano che Bush incaricò di guidare la Fema (Federal
Emergency Management Agency) - l'organismo responsabile della risposta ai disastri, ivi compresi gli
attacchi terroristici - descrisse il suo nuovo incarico lavorativo come "un enorme programma governativo
di benefit".
Poi arrivò l'11 settembre e, all'improvviso, un governo la cui missione centrale era l'autoimmolazione
non sembrò una grande idea. Il popolo terrorizzato chiedeva protezione a un governo forte,
robusto: gli attacchi avrebbero potuto mettere fine sul nascere al progetto di Bush di svuotare il governo.
Per qualche tempo, sembrò proprio che le cose si stessero mettendo così. "l'11 settembre ha cambiato
ogni cosa" disse Ed Feulner, vecchio amico di Milton Friedman e presidente della Heritage Foundation,
dieci giorni dopo l'attacco, rendendolo uno dei primi a pronunciare la fatidica frase. Molti diedero per
scontato che parte di quel cambiamento sarebbe consistita in un ripensamento di quell'agenda politica
radicalmente antistatale per la quale Feulner e i suoi alleati ideologici avevano spinto per tre decenni, in
patria e nel mondo. Dopotutto, le falle nella sicurezza evidenziate dall'11 settembre misero in luce i
risultati di oltre vent'anni di tagli al settore pubblico e dell'esternalizzazione di funzioni governative in
favore di grandi aziende votate al profitto. Come l'inondazione di New Orleans avrebbe mostrato il
marcio delle infrastrutture pubbliche, così gli attacchi puntarono i riflettori su uno Stato pericolosamente
indebolito: le comunicazioni radio della polizia e dei pompieri newyorchesi smisero di funzionare a metà
delle operazioni di salvataggio, i controllori di volo non notarono in tempo che gli aerei erano fuori rotta,
e all'aeroporto i terroristi erano passati attraverso controlli di sicurezza gestiti da lavoratori a contratto,
alcuni dei quali guadagnavano meno del personale della mensa.
La prima grande vittoria della controrivoluzione friedmaniana negli Stati Uniti era stato l'attacco di
Ronald Reagan al sindacato dei controllori di volo, e la sua deregolamentazione delle linee aeree.
Vent'anni dopo, l'intero sistema di transito aereo era stato privatizzato, deregolamentato e ridotto, e gran
parte delle mansioni relative alla sicurezza aeroportuale erano svolte da lavoratori a contratto
sottopagati, male addestrati, non iscritti al sindacato. Dopo gli attacchi, l'ispettore generale del
dipartimento dei Trasporti testimoniò che le linee aeree, che erano responsabili della sicurezza a bordo
dei propri voli, avevano lesinato sui controlli per tenere bassi i costi. Le "pressioni contrarie si
manifestarono come significative lacune nella sicurezza" disse alla Commissione sull'11
settembre istituita da Bush, Un funzionario della sicurezza, che lavorava da tempo per l'Agenzia federale
per l'aeronautica (Faa), testimoniò davanti alla Commissione che l'approccio delle compagnie aeree alla
sicurezza era "denigrare, negare, rinviare".
Il 10 settembre, a patto che i voli fossero frequenti e a buon mercato, niente di tutto ciò sembrava
importante. Ma il 12 settembre, affidare la sicurezza dell'aeroporto a lavoratori a contratto pagati sei
dollari l'ora sembrava folle. Poi, in ottobre, buste contenenti una polvere bianca furono inviate a
parlamentari e giornalisti, diffondendo il panico sulla possibilità di un'epidemia di antrace. Ancora una
volta, le privatizzazioni degli anni Novanta sembravano molto diverse sotto questa nuova luce: perché un
laboratorio privato aveva il diritto esclusivo di produrre il vaccino per l'antrace? Il governo federale
aveva forse delegato la propria responsabilità di proteggere il popolo da un'enorme emergenza sanitaria?
A peggiorare le cose, la Bioport, il laboratorio privato in questione, non aveva superato una serie di
ispezioni, e l'amministrazione federale per gli alimenti e i medicinali (Fda) non l'aveva nemmeno
autorizzato a commercializzare i vaccini.'' Inoltre, se era vero - come i media sostenevano - che l'antrace,
il vaiolo e altri microorganismi letali potevano essere diffusi attraverso la posta, il cibo o i sistemi
idraulici, era davvero una buona idea portare avanti i progetti di Bush di privatizzare il servizio postale?
E tutti quegli ispettori di cibo e acqua che erano stati licenziati, c'era modo di riassumerli?
La reazione violenta contro il consenso filoaziendale non fece che acuirsi di fronte a nuovi scandali come
quello sulla Enron. Tre mesi dopo gli attacchi dell'11 settembre, la Enron dichiarò bancarotta, e migliaia
di dipendenti persero i risparmi per la pensione mentre i manager si arricchirono grazie alle informazioni
riservate. La crisi contribuì a un generale crollo della fiducia nella capacità dell'industria privata di
svolgere servizi essenziali, soprattutto quando si scoprì che era stata la manipolazione da parte della
Enron dei prezzi dell'energia a provocare i prolungati blackout in California qualche mese prima. Milton
Friedman, novant'anni, era così preoccupato da questo ritorno al filokeynesianismo da lamentare che "gli
uomini d'affari sono presentati all'opinione pubblica come cittadini di seconda classe".
Mentre gli amministratori delegati cadevano dai loro piedistalli, i lavoratori del settore pubblico iscritti
ai sindacati - i cattivi della controrivoluzione di Friedman - salivano rapidamente nella pubblica stima.
Due mesi dopo gli attacchi, la fiducia nel governo era alta come mai lo era stata dal 1968; e questo, disse
Bush a una folla di dipendenti federali, "è perché avete lavorato bene". Gli eroi indiscussi dell'11
settembre erano i colletti blu, gli operatori di pronto intervento: i vigili del fuoco, la polizia e i
soccorritori, 403 dei quali persero la vita mentre cercavano di evacuare le torri e aiutare le vittime.
All'improvviso, l'America si era innamorata dei suoi uomini e donne in ogni tipo di uniforme, e i politici
- che in tutta fretta si erano messi in testa cappellini con il logo NYPD (dipartimento di polizia di New
York) o FDNY (dipartimento dei vigili del fuoco di New York) - faticavano a tenere il passo con lo stato
d'animo generale.
Quando Bush andò a Ground Zero con i vigili del fuoco e i soccorritori, il 14 settembre - quello che i
suoi consiglieri chiamano "il momento del megafono" - si mostrò vicino a quegli stessi funzionari
pubblici sindacalizzati che il moderno movimento conservatore aveva tentato di distruggere.
Naturalmente, non aveva scelta (persino Dick Cheney indossava un elmetto, in quei giorni), ma non era
obbligato a sembrare così convincente. Sia perché Bush sembrava esprimere sentimenti genuini, sia
perché l'opinione pubblica proiettava su di lui il desiderio di avere un leader degno dell'occasione,
questi furono i discorsi più toccanti della carriera politica di Bush.
Per settimane, dopo gli attacchi, il presidente si imbarcò in un grand tour del settore pubblico -
scuole, caserme dei pompieri, monumenti, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie abbracciando e ringraziando gli operatori per i loro contributi e il loro umile patriottismo. "Abbiamo
guadagnato nuovi eroi" disse in un discorso, lodando non solo il personale dei servizi di emergenza, ma
gli insegnanti, gli impiegati delle poste e gli operatori sanitari. A questi eventi pubblici, parlava del
lavoro svolto nell'interesse della collettività con un livello di rispetto e dignità che negli Stati Uniti non
si vedeva da quattro decenni. Tagliare i costi non era più una voce primaria all'ordine del giorno, e in
ogni discorso il presidente annunciava qualche nuovo e ambizioso programma pubblico.
"Le due esigenze parallele di un'economia in crisi e di una nuova e urgente guerra al terrorismo hanno
trasformato il nucleo filosofico della linea politica di Bush" dichiararono fiduciosi John Harris e Dana
Milbank undici giorni dopo gli attacchi. "Un uomo che era salito al potere dichiarandosi erede ideologico
di Ronald Reagan è emerso nove mesi dopo come più simile a un erede di Franklin D. Roosevelt." I due
osservavano anche che "Bush sta lavorando a un grande pacchetto di stimoli economici per scongiurare la
recessione. Ha affermato che un'economia debole dev'essere pungolata dal governo con una grossa
iniezione di denaro: un precetto basilare dell'economia keynesiana che era ai cuore del New Deal di
Roosevelt".
Shock Economy Un New Deal aziendale.
Al di là delle dichiarazioni pubbliche e dei servizi fotografici, Bush e i suoi più stretti collaboratori non
avevano alcuna intenzione di convertirsi al keynesianismo. Ben lungi dal mettere in forse il loro impegno
per indebolire la sfera pubblica, le falle nella sicurezza evidenziate con l'11 settembre riaffermarono le
loro convinzioni ideologiche (ed egoistiche) più profonde: che solo le aziende private possedevano
l'intelligenza e la capacità di innovazione per affrontare la nuova sfida della sicurezza. Se pure era vero
che la Casa Bianca era in procinto di spendere grandi quantità del denaro dei contribuenti per stimolare
l'economia, di certo non avrebbe seguito il modello di Roosevelt. Piuttosto, Bush avrebbe stretto il patto
del suo New Deal soltanto con le aziende americane: un trasferimento diretto in mani private di centinaia
di miliardi di dollari pubblici ogni anno. Questo trasferimento avrebbe assunto la forma di contratti, molti
dei quali offerti in segreto senza competizione e quasi senza controlli, con una vasta rete di industrie:
tecnologia, media, comunicazione, gestione delle carceri, ingegneria, educazione, sanità.
Nota: l'assenza di competizione nella concessione degli appalti è stato uno dei tratti dominanti degli anni
di Bush. Un'analisi del "New York Times" nel febbraio 2007 appurò che "meno della metà di tutte le
"azioni contrattuali" - i nuovi contratti e i pagamenti relativi ai contratti già stipulati - sono ora soggette a
una piena e aperta competizione. Solo il 48 per cento erano soggetti a competizione nel 2005, rispetto al
79 per cento nel 2001".
Ciò che accadde nella fase di disorientamento che seguì gli attacchi fu, col senno di poi, l'equivalente in
patria della shockterapia economica. La squadra di Bush, friedmaniana nell'animo, si mosse in fretta per
sfruttare lo shock in cui era piombata la nazione, per affermare la sua visione radicale di un governo
vuoto in cui tutto, la guerra come la reazione ai disastri, era un'avventura forprofit.
Era una nuova e sorprendente evoluzione della shockterapia. A differenza dell'approccio seguito negli
anni Novanta, quello di vendere aziende pubbliche già esistenti, il team di Bush creò una struttura del
tutto nuova per le proprie azioni - la Guerra al Terrore - pensata fin dall'inizio come struttura privata.
Questa impresa si articolò in due fasi. Dapprima, la casa Bianca usò l'onnipresente sensazione di
pericolo diffusasi in seguito all'11 settembre per aumentare notevolmente i poteri dell'esecutivo quanto a
servizio d'ordine, sorveglianza, detenzione e azioni belliche: un colpo di mano che lo storico militare
Andrei Bacevich ha definito "un golpe a rotazione",''" E poi queste funzioni di sicurezza, invasione,
occupazione e ricostruzione, migliorate e riccamente finanziate, furono immediatamente esternalizzate e
affidate al settore privato, perché le esercitasse a scopo di lucro.
Benché l'obiettivo dichiarato fosse la lotta al terrorismo, l'effetto fu la creazione del complesso del
capitalismo dei disastri: una nuova e matura economia per la sicurezza interna, la guerra privatizzata e la
ricostruzione post-disastri, incaricata nientemeno che di costruire e gestire uno stato di sicurezza
privatizzato, sia in patria sia all'estero. Lo stimolo economico di questa radicale iniziativa si dimostrò
sufficiente per fare ciò che la globalizzazione e i boom delle dot.com non erano riusciti a portare a
termine. Come internet aveva lanciato la bolla delle dot.com, l'11
settembre lanciò la bolla del capitalismo dei disastri. "Quando il settore delle tecnologie informatiche è
andato in crisi, dopo la rottura della bolla, indovinate chi si è preso tutti i soldi? Il governo" disse Roger
Novak della Novak Biddle Venture Partners, una società di venture capital che investe in aziende del
settore della sicurezza interna. Ora, dice, "ogni fondo vede quant'è grossa la torta, e chiede: posso averne
un pezzo?". Era il culmine della controrivoluzione lanciata da Friedman. Per decenni, il mercato si era
cibato delle appendici dello Stato; ora ne avrebbe divorato il cuore.
Stranamente, lo strumento ideologico più efficace in questo processo fu l'affermazione che l'ideologia
economica non era più una fonte primaria di motivazione per la politica estera o interna degli Stati Uniti.
Il mantra secondo cui "l'11 settembre ha cambiato tutto" nascondeva bene il fatto che, per gli ideologi del
liberismo e per le corporation di cui perseguono gli interessi, l'unica cosa che era cambiata era la facilità
con cui potevano perseguire i loro ambiziosi progetti. Ora, anziché sottoporre le nuove politiche a un
macchinoso dibattito pubblico in Congresso o a estenuanti negoziazioni con i sindacati del settore
pubblico, la Casa Bianca di Bush potrebbe mettere a frutto il patriottismo che ha avvicinato molti al
presidente, e il sostegno mostrato dalla stampa, per smettere di parlare e iniziare ad agire. Come ha
osservato il "New York Times" nel febbraio 2007, "senza un dibattito pubblico o una decisione politica
formale, gli appaltatori sono diventati in sostanza un quarto potere del governo".
Anziché affrontare la sfida della sicurezza posta dall'11 settembre con un progetto organico per tappare i
buchi dell'infrastruttura pubblica, la squadra di Bush inventò un nuovo ruolo per il governo, un ruolo in
cui il compito dello Stato non era quello di fornire sicurezza, ma di acquistarla a prezzi di mercato. Così,
nel novembre 2001, appena due mesi dopo gli attacchi, il dipartimento della Difesa mise insieme quello
che definì "un piccolo gruppo di consulenti in venture capitalism"
con esperienza nel settore delle dot.com. La missione era identificare "soluzioni tecnologiche emergenti
che possano assistere direttamente lo sforzo bellico americano nella Guerra Globale al Terrorismo".
All'inizio del 2006, questo scambio informale era diventato un ramo ufficiale del Pentagono: la Defence
Venture Catalyst Iniziative (DeVenCI, programma di catalizzazione della Difesa per la gestione dei
rischi), un "ufficio pienamente operativo" che invia continuamente informazioni sulla sicurezza a venture
capitalists con ottimi agganci politici, i quali a loro volta cercano nel settore privato nuove imprese in
fase d'avvio che possano fornire nuovi prodotti legati alla sorveglianza. "Siamo un motore di ricerca"
spiega Bob Pohanka, direttore della DeVenCI.''
Secondo la teoria di Bush, il ruolo del governo è solo quello di raccogliere il denaro necessario per
lanciare il nuovo mercato della guerra, e poi comprare i migliori prodotti che emergono da quel crogiolo
di creatività, incoraggiando l'industria a innovare sempre di più. In altri termini, i politici creano la
domanda, e il settore privato fornisce ogni genere di soluzioni: una fiorente economia della sicurezza
interna e tecniche belliche innovative, il tutto sovvenzionato dai contribuenti.
Il dipartimento per la Sicurezza interna, nuova branca dello Stato creata dal regime di Bush, è
l'espressione migliore di questo sistema di governo interamente esternalizzato. Come ha spiegato Jane
Alexander, vicedirettrice della ricerca al dipartimento per la Sicurezza interna: "Noi non creiamo cose.
Abbiamo bisogno che sia l'industria a fornircele".
C'è poi la Counterintelligence Field Activity (Cifa, agenzia nel settore del controspionaggio), una nuova
agenzia di controspionaggio creata durante il mandato di Rumsfeld, indipendente dalla Cia.
Questa agenzia di intelligence parallela esternalizza il 70 per cento del suo budget ad appaltatori privati;
non diversamente dal dipartimento per la Sicurezza interna, è nata come un involucro vuoto.
Ken Minihan, ex direttore della National Security Agency, ha spiegato: "La sicurezza nazionale è troppo
importante per lasciare che se ne occupi il governo". Minihan, come centinaia di altri dipendenti
dell'amministrazione Bush, ha già lasciato il suo incarico governativo per lavorare nella fiorente
industria della sicurezza interna che, in qualità di super-spia, ha contribuito a creare."
Ogni aspetto del modo in cui l'amministrazione Bush ha definito i parametri della Guerra al Terrore ha
contribuito a massimizzare il suo rendimento e la sua sostenibilità finanziaria: dalla definizione
dell'identità del nemico alle regole d'ingaggio, alle proporzioni sempre crescenti della battaglia. Il
documento programmatico del dipartimento per la Sicurezza Interna recita: "I terroristi di oggi possono
colpire ovunque, in qualunque momento, e con qualsiasi arma" - il che, opportunamente, significa che i
servizi di sicurezza necessari devono fornire protezione contro ogni rischio immaginabile in ogni luogo
pensabile in ogni momento possibile. E non è necessario dimostrare che una minaccia sia concreta perché
sia meritevole di una risposta ad ampio raggio: non quando la famosa "dottrina dell'un per cento" di
Cheney giustifica l'invasione dell'Iraq sulla semplice base del fatto che, se esiste un un per cento di
probabilità che qualcosa costituisca una minaccia, gli Stati Uniti sono tenuti a reagire come se la
minaccia fosse certa al cento per cento. Questa logica ha costituito un grosso vantaggio per i produttori di
strumenti tecnologici per il rilevamento di minacce: per esempio, essendo ipotizzabile un attacco con il
virus del vaiolo, il dipartimento per la Sicurezza interna ha stanziato mezzo miliardo di dollari ad
aziende private per sviluppare e installare strumentazioni per rilevare la presenza di questa minaccia del
tutto ipotetica."
Attraverso i suoi tanti cambi di nome - la Guerra al Terrore, la guerra contro l'Islam radicale, la guerra
contro l'islamofascismo, la Terza guerra mondiale, la lunga guerra, la guerra generazionale la struttura di base del conflitto è rimasta immutata. Non si lascia circoscrivere nel tempo, nello spazio o
nell'obiettivo. Da un punto di vista militare, questi tratti amorfi e tentacolari fanno della Guerra al
Terrore una battaglia persa in partenza. Ma dal punto di vista economico, la rendono imbattibile: non una
guerra lampo che potrebbe forse essere vinta, ma un elemento nuovo e permanente nell'architettura
economica globale. "
Questo era il prospetto informativo che l'amministrazione Bush presentò alle aziende americane dopo l'11
settembre. Il flusso di profitti sembrava un fiume in piena di dollari dei contribuenti che sarebbe sgorgato
dal Pentagono (270 miliardi all'anno per gli appaltatori privati, un aumento di 137
miliardi dall'inizio del
mandato di Bush); le agenzie di intelligence americane (42 miliardi l'anno agli appaltatori per
l'intelligence esternalizzata, più del doppio dei livelli del 1995) e il nuovo arrivato, il dipartimento per la
Sicurezza interna. Tra l'11 settembre 2001 e il 2006, il dipartimento ha versato 130 miliardi di dollari ad
appaltatori privati: denaro che non era nell'economia prima di quel momento, ed è una cifra superiore al
prodotto interno lordo del Cile o della Repubblica Ceca. Nel 2003, l'amministrazione Bush spese 327
miliardi in appalti ad aziende private: quasi 40 centesimi per ogni dollaro disponibile.
In brevissimo tempo, i sobborghi di Washington si riempirono di palazzi grigi, sede di aziende in fase
d'avvio e "incubatrici", imprese avviate in gran fretta lì dove, come nella Silicon Valley dei tardi anni
Novanta, i soldi arrivavano così velocemente che non c'era tempo di montare i mobili.
Nel frattempo, l'amministrazione Bush giocava il ruolo del generoso venture capitalist della stessa
inebriante era. Mentre negli anni Novanta l'obiettivo era sviluppare il software perfetto, la "nuova
frontiera", e venderlo alla Microsoft o alla Oracle, ora lo scopo era inventare una nuova ed efficace
tecnologia acchiappa-terroristi, e venderla al dipartimento per la Sicurezza interna o al Pentagono.
Ed è per questo che, oltre ai fondi di avvio attività e di investimento, l'industria dei disastri diede vita
anche a un esercito di agenzie di lobbying, che promettevano di mettere in contatto le nuove aziende con
le persone giuste al Campidoglio; nel 2001 esistevano due di questi gruppi di pressione nel settore della
sicurezza, ma a metà del 2006 ce n'erano 543. "Lavoro nel settore del capitale privato dai primi anni
Novanta" ha detto a "Wired" Michael Steed, direttore dell'agenzia per la sicurezza nazionale Paladin, "e
non ho mai visto un flusso di contratti continuo come questo".
Un mercato per il terrorismo.
Come la bolla delle dot.com, la bolla dei disastri si sta gonfiando in modo caotico e ad hoc. Uno dei
primi boom per l'industria della sicurezza nazionale è stato quello delle telecamere di sorveglianza, 4,2
milioni delle quali sono state installate in Gran Bretagna, una ogni 14 persone, e 30 milioni negli Stati
Uniti, per un totale di circa 4 miliardi di ore di registrazioni all'anno. Questo ha creato un problema: chi
guarderà 4 miliardi di ore di filmati? È emerso quindi un nuovo mercato per il
"software di analisi", che
passa in rassegna le cassette e le confronta con immagini già in archivio (il collegamento di vari sistemi
di sicurezza è stato fonte di alcuni dei contratti più redditizi, come i 9 miliardi di dollari dati
dall'aeronautica militare a un consorzio di imprese tra cui la Booz Allen Hamilton, una delle più vecchie
agenzie di consulenza strategica, e tra i maggiori appaltatori della Difesa).
Questo sviluppo, a sua volta, diede luogo a un altro problema, perché il software per il riconoscimento
facciale è in grado di identificare con sicurezza una persona solo se essa si posiziona di fronte alla
telecamera, cosa che raramente si fa quando ci si affretta per andare in ufficio. Così, si è sviluppato un
altro mercato, quello per il ritocco digitale delle immagini. La Salient Stills, un'azienda che vende
software per isolare e ritoccare le immagini video, propose fin da subito le sue tecnologie alle aziende
operanti nel multimediale, ma presto scoprì che c'era molto più potenziale di guadagno con l'Fbi e altre
forze dell'ordine. '° Con tutto lo spionaggio che c'è in giro - tabulati, intercettazioni telefoniche,
informazioni finanziarie, controllo della posta, telecamere a circuito chiuso, navigazione in internet - il
governo sta letteralmente affogando nei dati, il che ha aperto un altro mercato ancora, quello della
gestione delle informazioni e del data mining, e del software che promette di "unire i puntini" in questo
oceano di parole e numeri, evidenziando le attività sospette.
Negli anni Novanta, le aziende tecnologiche cantavano incessantemente le lodi di un mondo senza più
confini e del potere dell'informazione di rovesciare regimi autoritari e buttar giù muri. Oggi, dentro il
complesso del capitalismo dei disastri, gli strumenti della rivoluzione informatica sono stati votati allo
scopo opposto, trasformando cellulari e internet in potenti strumenti per la sorveglianza di massa da parte
di regimi sempre più autoritari, con la piena cooperazione di compagnie telefoniche private e motori di
ricerca: Yahoo collabora con il governo cinese per localizzare i dissidenti, e l'AT&T aiuta l'Agenzia Usa
per la sicurezza nazionale a intercettare le telefonate dei propri clienti, senza l'emissione di un mandato
(una pratica che l'amministrazione Bush dichiara non più in uso). Lo smantellamento delle frontiere, il
grande simbolo e la grande promessa della globalizzazione, è stato rimpiazzato dalla fiorente industria
della sorveglianza delle frontiere, dagli scanner ottici all'identificazione biometrica, fino al progetto per
la recinzione ipertecnologica sul confine tra Stati Uniti e Messico, che può valere fino a 2,5 miliardi per
la Boeing e un consorzio di altre imprese.
Mentre le aziende high-tech saltano da una bolla all'altra, il risultato è una bizzarra fusione di cultura
della sicurezza e cultura dello shopping. Molte tecnologie in uso oggi nell'ambito della Guerra al Terrore
- i sistemi di riconoscimento biometrico, la videosorveglianza, il tracking sul web, il data mining, venduti
da aziende come la Verint Systems e la Seisint, la Accenture e la ChoicePoint - erano state sviluppate dal
settore privato prima dell'11 settembre, allo scopo di realizzare dettagliati profili della clientela, aprendo
così nuove prospettive per il commercio al dettaglio. Promettevano anche di ridurre il numero di
commessi nei supermercati e grandi magazzini, perché le identificazioni biometriche, unite alle tessere
bancomat, avrebbero eliminato la necessità di casse. Quando molte di queste iniziative furono bloccate
dal sempre più diffuso senso di disagio tra i consumatori per le tecnologie-Grande fratello, ci fu
sgomento sia tra i venditori sia tra i produttori. L'11 settembre allentò questa impasse nel mercato:
improvvisamente, la paura del terrore era diventata più grande della paura di vivere in una società di
sorveglianza. Così oggi, le stesse informazioni raccolte dalle tessere bancomat o dalle "carte fedeltà"
possono essere rivendute non soltanto a un'agenzia di viaggi o alla Gap come dati per il marketing, ma
anche all'Fbi come dati per la sicurezza, che possono evidenziare un interesse "sospetto" nelle carte
telefoniche prepagate o nei viaggi in Medioriente.
Come spiegò un entusiastico articolo nella rivista di economia "Red Herring", uno di questi programmi
"segue le tracce dei terroristi calcolando se un nome, con cento diverse ortografie possibili, coincide con
un nome contenuto in un database della sicurezza interna. Prendiamo il nome Mohammad. Il software
contiene centinaia di possibili spelling del nome, e può ricercare interi terabe di dati in un secondo".
Impressionante, a meno che non incastrino il Mohammad sbagliato, cosa che hanno la brutta abitudine di
fare, dall'Iraq all'Afghanistan alla periferia di Toronto.
Questo potenziale per l'errore si trova dove l'incompetenza e l'avidità, che sono state il tratto distintivo
degli anni di Bush, dall'Iraq a New Orleans, diventano drammatiche. Un'errata identificazione che risulti
da uno di questi controlli elettronici è sufficiente perché un padre di famiglia apolitico, che somiglia
vagamente a qualcuno il cui nome assomiglia un poco al suo (almeno alle orecchie di chi non sa nulla di
cultura araba o musulmana), sia denunciato come possibile terrorista. E il compito di compilare liste di
nomi e organizzazioni da tenere sotto controllo è ora affidato ad aziende private, così come le operazioni
di confronto incrociato tra i nomi dei viaggiatori e i nomi nelle banche dati. Nel giugno 2007 c'era mezzo
milione di nomi su una lista di sospetti terroristi tenuta dal National Counterterrorism Center. Un altro
programma, detto Automated Targeting System (Ats, Programma di identificazione automatica), reso
pubblico nel novembre 2006, ha già assegnato un "livello di rischio" a decine di milioni di viaggiatori
che attraversano gli Stati Uniti. La graduatoria, mai resa nota ai viaggiatori, è basata su modelli di
comportamento sospetti rivelati attraverso il data mining commerciale per esempio le informazioni
fornite dalle linee aeree sui "passati acquisti, da parte del passeggero, di biglietti di sola andata, le
preferenze nella scelta dei posti a sedere, l'adesione ai programmi di "miglia aeree" per chi vola di
frequente, il numero di colli nel bagaglio, il metodo usato per pagare i biglietti e addirittura i pasti
ordinati a bordo".' ' Le istanze di comportamento ritenuto sospetto sono sommate per generare il rating di
pericolosità di ciascun passeggero.
Chiunque può essere fermato prima di salire a bordo, vedersi rifiutare un visto d'ingresso negli Stati
Uniti, o addirittura essere arrestato e qualificato come "combattente nemico" sulla base di dati forniti da
queste dubbie tecnologie: un'immagine sfocata elaborata da un software di riconoscimento facciale, un
nome dall'ortografia sbagliata, un brano di conversazione frainteso. Se i
"combattenti nemici" non sono cittadini americani, probabilmente non sapranno mai perché sono stati
incarcerati, dal momento che l'amministrazione Bush ha levato loro l'habeas corpus, il diritto a esaminare
le prove in tribunale, oltre al diritto a un giusto processo e a una giusta difesa.
Se il sospettato è condotto, di conseguenza, a Guantanamo, può benissimo ritrovarsi nella prigione di
massima sicurezza, con capienza di duecento detenuti, costruita dalla Halliburton. Se è una vittima del
programma di "consegne straordinarie" della Cia, rapito per le strade di Milano o mentre aspetta una
coincidenza in un aeroporto americano, e poi trasportato in un cosiddetto black site da qualche parte
nell'arcipelago delle prigioni segrete della Cia, il prigioniero incappucciato probabilmente volerà su un
Boeing 737, progettato come jet di lusso per uomini d'affari, riadattato allo scopo. Secondo il "New
Yorker", la Boeing è di fatto "l'agente di viaggio della Cia": ha bloccato il traffico aereo per consentire
qualcosa come 1245 "consegne straordinarie", organizza il personale di terra e prenota addirittura le
camere d'albergo.
Un rapporto della polizia spagnola spiega che il lavoro è stato svolto dalla Jeppesen International Trip
Planning, una consociata della Boeing a San José. Nel maggio 2007 l'American Civil Liberties Union
intentò causa contro la filiale della Boeing; la compagnia ha rifiutato di confermare o smentire le accuse.''
Giunti a destinazione, i prigionieri subiscono interrogatori, anche da parte di persone non stipendiate
dalla Cia o dall'esercito ma da appaltatori privati. Secondo Bill Golden, che gestisce il sito web
www.IntelligenceCareers.com, "più della metà degli esperti qualificati di controspionaggio sul campo
lavorano per appaltatori privati". Se questi specialisti dell'interrogatorio freelance vogliono continuare a
ottenere contratti redditizi, devono strappare ai prigionieri il genere di
"informazioni suscettibili di azione legale" che i loro datori di lavoro a Washington stanno cercando. È
una dinamica che si presta facilmente ad abusi: come i prigionieri sotto tortura sono disposti ad
ammettere qualsiasi cosa pur di porre fine alla sofferenza, così gli appaltatori hanno un potente incentivo
economico a usare tutte le tecniche necessarie per portare le informazioni richieste, anche a scapito della
loro attendibilità. (Uno dei motivi per cui l'amministrazione Bush si è affidata tanto agli operatori privati
dell'intelligence, in strutture nuove come il riservatissimo Office of Special Plans di Rumsfeld, l'ufficio
per i piani speciali, è che essi si sono dimostrati molto più disponibili rispetto alle loro controparti
governative a manipolare e alterare le informazioni per adeguarsi agli obiettivi politici
dell'amministrazione; dopotutto, il loro prossimo contratto dipende da questo.)
Poi c'è la versione low-tech di questa applicazione di soluzioni di mercato alla Guerra al Terrore: la
disponibilità a pagare grosse cifre in cambio di informazioni sui presunti terroristi. Durante l'invasione
dell'Afghanistan, alcuni agenti dell'intelligence statunitense resero noto di essere disposti a pagare dai
3000 ai 25.000 dollari in cambio della consegna di militanti di al-Qaida o Talebani.
"Diventa ricco e potente al di là dei tuoi sogni" recita un tipico dépliant diffuso dagli americani in
Afghanistan, portato come prova di fronte a una corte federale americana nel 2002 in una causa collettiva
intentata da alcuni detenuti di Guantanamo. "Potrete ricevere milioni di dollari se aiuterete le forze antitalebane. [...] Con questi soldi potrete aiutare la vostra famiglia, il vostro villaggio, la vostra tribù per il
resto della vita."
Ben presto, le celle di Bagram e Guantanamo traboccavano di pastori di capre, tassisti, cuochi e
negozianti: tutti pericolosissimi,
a sentire coloro che li avevano denunciati e avevano incassato la ricompensa.
"Hai una teoria sul perché il governo e i tizi dell'intelligence pachistana ti avrebbero denunciato e
venduto agli americani?" chiese un membro di un tribunale militare a un prigioniero egiziano detenuto a
Guantanamo.
Nella trascrizione desecretata, il prigioniero appare incredulo. "Ma dai, amico" rispose "lo sai bene
cos'è successo. In Pakistan puoi comprare una persona con dieci dollari, figuriamoci con cinquemila."
"Quindi ti hanno venduto?" chiese l'altro, come se il pensiero non l'avesse mai sfiorato.
"Sì."
Secondo le cifre diffuse dal Pentagono, l'80 per cento dei detenuti di Guantanamo sono stati consegnati da
combattenti o agenti afghani e pachistani dopo l'annuncio delle taglie che pendevano sulla loro testa. A
tutto il dicembre 2006, il Pentagono aveva rilasciato 360 prigionieri da Guantanamo, La Associated
Press ne ha rintracciati 245. 205 erano stati liberati o prosciolti da tutte le accuse quando tornarono nei
rispettivi Paesi. Sono cifre che proiettano ombre minacciose sulla qualità delle informazioni raccolte
dall'amministrazione con un approccio all'identificazione dei terroristi basato sull'economia di mercato.
In pochi anni, l'industria della sicurezza nazionale, che prima dell'11 settembre esisteva a malapena, è
esplosa fino a proporzioni molto maggiori di quelle di Holliwood o dell'industria discografica.
Eppure, il dato più sorprendente è quanto poco il boom della sicurezza sia analizzato e discusso in quanto
economia, in quanto inedita convergenza di poteri incontrollati della polizia e capitalismo incontrollato,
una fusione di centro commerciale e prigione segreta. Quando le informazioni su chi costituisce o meno
una minaccia per la sicurezza diventano un prodotto, che può essere venduto con la stessa nonchalance
delle informazioni su chi compra libri di Harry Potter su Amazon, o su chi ha fatto una crociera ai
Caraibi e potrebbe gradirne una in Alaska, i valori stessi di una cultura finiscono per mutare. Non solo si
crea un incentivo alla delazione, alla tortura, alla creazione di false informazioni; ma si crea un forte
stimolo a perpetuare la paura e il senso di pericolo che per primi hanno dato vita a quell'economia.
In passato, quando emergevano nuove economie, dalla rivoluzione fordista al boom delle tecnologie
informatiche, stimolavano un fiume di analisi e dibattiti su come questi profondi mutamenti nella
produzione di ricchezza alterassero anche il modo in cui noi, come cultura, lavoriamo, viaggiamo,
addirittura il modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni. La nuova economia dei disastri non è
stata sottoposta a questo genere di discussione approfondita. Ci sono stati e ci sono dibattiti,
naturalmente: sulla costituzionalità del Patriot Act, sulla detenzione indefinita, sulla tortura, sulle
"consegne straordinarie". Ma la discussione su cosa significa trasformare queste funzioni in transazioni
commerciali è stata quasi completamente evitata. Quello che si spaccia per dibattito è in realtà una serie
di casi individuali di profitti illeciti tratti dalla guerra e di scandali di corruzione, oltre alle solite strette
di mano nel concordare su come il governo non ha controllato a sufficienza gli appaltatori privati;
raramente ci si rammarica per il più vasto e più profondo fenomeno di cosa significa essere coinvolti in
una guerra totalmente privatizzata, costruita per non avere fine.
Parte del problema è che l'economia dei disastri ci ha colti di sorpresa. Negli anni Ottanta e Novanta, le
nuove economie si sono annunciate con grande orgoglio e squilli di tromba. La bolla tecnologica, in
particolare, ha creato un precedente per una nuova classe di proprietari, scatenando livelli assordanti di
retorica: un'infinità di servizi giornalistici su giovani e affascinanti amministratori delegati, ritratti a
fianco del loro jet privato, del loro yacht telecomandato, della loro idilliaca villa sulle montagne di
Seattle.
Quel genere di ricchezza è generata oggi dal complesso dei disastri, anche se ne sentiamo parlare molto
di rado. Secondo uno studio del 2006, "dall'inizio della "Guerra al Terrore", gli amministratori delegati
dei 34 principali appaltatori nel settore della difesa percepiscono compensi doppi rispetto a quelli che
percepivano nei quattro anni precedenti all'11 settembre". Mentre questi amministratori delegati hanno
visto salire i loro stipendi mediamente del 108 per cento tra il 2001 e il 2005, i dirigenti di altre grandi
aziende americane hanno guadagnato solo il 6 per cento in più nello stesso periodo."
L'industria del disastro si avvicina a livelli di profitto analoghi all'industria delle dot.com, ma
generalmente si avvale di livelli di discrezione degni della Cia. I capitalisti dei disastri schivano la
stampa, sminuiscono le proprie fortune e si guardano bene dal vantarsi. "Non è fonte di gioia per noi
sapere che esiste questa grande industria che fiorisce grazie alla necessità di proteggerci dal terrorismo"
ha dichiarato John Elstner del Chesapeake Innovation Center, una società incubatrice nel settore della
sicurezza interna. "Ma circolano molti soldi, e il Cic è tra i protagonisti."
Peter Swire, consulente del governo americano per la privacy durante l'amministrazione Clinton,
descrive così la convergenza di forze che dà luogo alla Guerra al Terrore: "C'è un governo investito della
sacra missione di migliorare la raccolta delle informazioni, e c'è un settore delle tecnologie informatiche
che cerca disperatamente nuovi mercati". In altri termini, c'è il corporativismo: il Big Business e il Big
Government combinano i loro formidabili poteri per regolare e controllare i cittadini.
15.
Uno Stato corporativo. Dal governo alle aziende.
È una cosa ridicola, e folle. Insinuare che agiamo solo per avidità, credo sia assurdo. Penso che lei
dovrebbe tornare a scuola.
George H.W. Bush, in risposta all'accusa che suo figlio abbia invaso l'Iraq allo scopo di aprire nuovi
mercati per le aziende americane.
I funzionari pubblici hanno qualcosa che il settore privato non ha. E questo qualcosa è la
responsabilità nei confronti di un bene più alto: il dovere di mostrarsi leali all'interesse collettivo,
piuttosto che all'interesse di pochi. Le aziende sono responsabili davanti ai loro azionisti, non al
Paese.
David M. Walzer, controller general degli Stati Uniti, febbraio 2007.
Non coglie la differenza tra gli interessi privati e quelli pubblici.
Sam Gardiner, colonnello dell'aeronautica statunitense in pensione, a proposito di Dick Cheney,
febbraio 2004.
Tre settimane prima di annunciare le dimissioni di Donald Rumsfeld, in piena campagna elettorale per le
elezioni di medio termine del 2006, George W. Bush firmò il Defense Authorization Act in una cerimonia
privata nello Studio ovale. Nascosta nelle sue 1400 pagine c'è una clausola che passò quasi inosservata
all'epoca. Essa garantiva al presidente il potere di dichiarare la legge marziale e
"impiegare le forze armate, compresa la Guardia nazionale", anche contro la volontà dei governatori
statali, nell'eventualità di un'"emergenza pubblica", allo scopo di "ripristinare l'ordine pubblico" e
"soffocare" i disordini. Quell'emergenza poteva essere un uragano, una protesta di massa o "un'emergenza
per la pubblica sanità", nel qual caso l'esercito poteva essere usato per imporre quarantene e per
assicurare la fornitura di vaccini.'' Prima di quel provvedimento, il presidente disponeva di questi poteri
di legge marziale solo in caso di insurrezione.
Con i suoi colleghi di campagna elettorale, il senatore democratico Patrick Leahy era una voce nel
deserto; affermò pubblicamente che "usare l'esercito per applicare la legge va contro uno dei principi
fondanti della nostra democrazia", e osservò che "le conseguenze della modifica legislativa sono
pesantissime, ma questa modifica è stata semplicemente inserita nel testo di legge come clausola, senza
averla prima studiata a fondo. Altri comitati congressuali che hanno giurisdizione in questa materia non
hanno avuto la possibilità, non dico di tenere udienze, ma anche solo di commentare queste proposte".'
Oltre al ramo esecutivo, che otteneva gli straordinari nuovi poteri, ci fu almeno un altro chiaro vincitore:
l'industria farmaceutica. In caso di epidemia, di qualsiasi genere, ora l'esercito poteva intervenire per
proteggere i loro laboratori e le loro scorte e imporre quarantene: un obiettivo perseguito a lungo
dall'amministrazione Bush. Era una buona notizia per l'ex azienda di Rumsfeld, la Gilead Sciences, che
detiene il brevetto del Tamiflu, un farmaco per l'influenza aviaria. La nuova legge, insieme ai ricorrenti
allarmi sull'aviaria, potrebbe aver contribuito alla performance stellare del Tamiflu dopo le dimissioni di
Rumsfeld: in soli cinque mesi il titolo in Borsa salì del 24 per cento.
Quale ruolo hanno svolto gli interessi delle industrie nel dare forma alla legge? Forse nessuno, ma la
domanda merita di esser posta. Analogamente, e su scala molto più ampia, quale ruolo hanno svolto i
benefit elargiti ad appaltatori come la Halliburton e la Bechtel e a compagnie petrolifere come la
ExxonMobil nell'entusiasmo con cui Bush e la sua squadra hanno invaso e occupato l'Iraq?
Queste domande sulle motivazioni non possono ricevere una risposta precisa, dal momento che le
persone coinvolte sono famigerate per aver mescolato gli interessi aziendali con l'interesse nazionale,
tanto da sembrare essi stessi incapaci di distinguerli.
Nel suo saggio del 2006, Overthrow (Rovesciamento), l'ex corrispondente del "New York Times"
Stephen Kinzer cerca di scavare a fondo nelle motivazioni che hanno spinto i politici americani a
ordinare e orchestrare colpi di Stato in Paesi esteri negli ultimi cento anni. Studiando il coinvolgimento
degli Stati Uniti nelle operazioni di cambio di regime, dalle Hawaii nel 1893
all'Iraq nel 2003, egli osserva il ripetersi di un preciso processo in tre fasi. In primo luogo, una
corporation multinazionale con sede negli Stati Uniti si trova ad affrontare una qualche minaccia
finanziaria, a causa delle azioni di un governo straniero, il quale pretende che l'impresa "paghi le tasse o
che rispetti la legislazione sul lavoro o sull'ambiente. A volte quell'azienda è nazionalizzata o è in
qualche modo tenuta a vendere parte della sua terra o delle sue risorse" dice Kinzer. In secondo luogo, i
politici americani vengono a sapere di questo ostacolo e lo interpretano come un attacco agli Stati Uniti:
"trasformano una motivazione economica in una politica o geostrategica. Danno per scontato che un
regime che infastidisce o disturba un'azienda americana debba essere per forza antiamericano,
repressivo, dittatoriale, e probabilmente uno strumento nelle mani di qualche potere o interesse straniero
che vuole danneggiare gli Stati Uniti". La terza fase si ha quando i politici devono convincere l'opinione
pubblica della necessità di intervenire, e a questo punto inizia una lotta senza quartiere del bene contro il
male, "la possibilità di liberare una nazione povera e oppressa dalla brutalità di un regime che noi diamo
per scontato sia una dittatura: perché quale altro tipo di regime darebbe fastidio a un'azienda
americana?". Gran parte della politica estera americana, dunque, è un esercizio di proiezione di massa, in
cui una piccola élite con interessi egoistici mescola le proprie esigenze e desideri con quelli del mondo
intero.
Kinzer osserva che questa tendenza è particolarmente pronunciata nei politici che arrivano direttamente
dal mondo aziendale. Per esempio, il segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles, lavorò per
quasi tutta la vita come avvocato societario ad alti livelli, rappresentando alcune tra le principali aziende
del pianeta nei loro conflitti con i governi esteri. I vari biografi di Dulles hanno concluso, come Kinzer,
che il segretario di Stato era semplicemente incapace di distinguere gli interessi delle aziende da quelli
del suo Paese. "Dulles ha avuto due grandi ossessioni, durate tutta la vita: combattere il comunismo e
tutelare i diritti delle multinazionali" scrive Kinzer. "Le due cose, secondo lui, erano correlate e si
rafforzavano a vicenda." Di conseguenza, non aveva bisogno di scegliere una delle due ossessioni: se il
governo del Guatemala prendeva un provvedimento tale da ledere gli interessi
della United Fruit Company, per esempio, di fatto si trattava di un attacco all'America, meritevole di una
reazione militare.
L'amministrazione Bush, piena di amministratori delegati freschi di sala riunioni, mentre persegue le
ossessioni gemelle - lotta al terrorismo e protezione degli interessi delle multinazionali - è soggetta alle
stesse confusioni e fusioni. Ma c'è una differenza importante. Le aziende con cui Dulles si identificava
erano multinazionali che investivano somme imponenti all'estero: nel settore minerario, nell'agricoltura,
nelle banche e nel petrolio. Queste aziende di solito condividevano un obiettivo chiaro: volevano
situazioni stabili e redditizie in cui fare affari; leggi benevole sugli investimenti, lavoratori flessibili e
nessuna brutta sorpresa con le espropriazioni. Colpi di Stato e interventi militari erano un mezzo per
quello scopo, non lo scopo in sé.
Come i proto-capitalisti dei disastri, gli architetti della Guerra al Terrore sono parte di una nuova razza
di politici-affaristi, diversa dalla precedente, per la quale guerre e altri disastri sono in effetti un fine a sé
stante. Quando Dick Cheney e Donald Rumsfeld fondono ciò che è bene per Lockheed, Halliburton,
Carlyle e Gilead con ciò che è bene per gli Stati Uniti, anzi per il mondo, si tratta di una proiezione che
ha conseguenze estremamente pericolose. Il motivo è che per i guadagni di queste aziende i cataclismi
sono indubbiamente un vantaggio: le guerre, le epidemie, i disastri naturali e le carenze di risorse; ed è
per questo che le loro fortune sono aumentate notevolmente dall'inizio del mandato di Bush. A rendere
ancor più pericolosi questi atti di proiezione è il fatto che, a livelli mai visti prima, funzionari di primo
piano dell'amministrazione Bush hanno mantenuto i propri interessi nel complesso del capitalismo dei
disastri anche mentre inauguravano l'era della guerra privatizzata e della risposta ai disastri, traendo così
profitto simultaneamente dai disastri che contribuivano a generare.
Per esempio, quando Rumsfeld si dimise dopo la sconfitta repubblicana alle elezioni di medio termine
del 2006, la stampa riferì che sarebbe tornato al settore privato. La verità è che non l'aveva mai lasciato
davvero. Quando accettò la nomina a segretario alla Difesa, Rumsfeld, come tutti i pubblici funzionari, fu
obbligato a spogliarsi di tutte le partecipazioni azionarie che avrebbero potuto essere influenzate - nel
bene o nel male - dalle decisioni prese durante il mandato. Molto semplicemente, ciò significava vendere
tutte le azioni legate alla sicurezza nazionale o alla difesa.
Ma Rumsfeld faticò molto. Le sue partecipazioni azionarie
in aziende legate in vario modo ai disastri erano così numerose che il neosegretario affermò che non
sarebbe riuscito a disfarsene entro i termini stabiliti, e piegò le norme etiche in suo favore, cercando di
tenersi strette più azioni possibili.
Vendette le azioni della Lockheed, della Boeing e di altre imprese del settore della difesa, e mise in un
blind trust 50 milioni di dollari in azioni. Ma dopo tutto ciò, era ancora proprietario unico o parziale di
agenzie private d'investimento attive nel settore della difesa e delle biotecnologie.
Rumsfeld era restio a subire una perdita vendendo in fretta quelle aziende, e invece chiese proroghe di
due-tre mesi rispetto alla data stabilita: un evento molto raro a quei livelli di governo. Ciò significava
che, per sei mesi dopo l'elezione a segretario alla Difesa, e forse ancora oltre, Rumsfeld fu impegnato
nella ricerca di acquirenti appropriati alle sue aziende.
Quando si trattò della Gilead Sciences, l'azienda che Rumsfeld presiedeva e che deteneva il brevetto per
il Tamiflu, il segretario alla Difesa si impuntò. Quando gli fu chiesto di scegliere tra i suoi interessi
finanziari e il suo incarico pubblico, lui, semplicemente, si rifiutò di farlo. Le epidemie sono questioni
che toccano la sicurezza nazionale, e dunque rientrano interamente nell'ambito di competenza del
segretario alla Difesa. Eppure, in barba a questo palese conflitto di interessi, Rumsfeld restò proprietario
di azioni della Gilead per un valore stimato tra gli 8 e i 39 milioni di dollari per tutta la durata del suo
mandato."
Quando il Comitato etico del Senato cercò di farlo tornare in linea con lo standard delle regole sul
conflitto di interessi, Rumsfeld si mostrò apertamente ostile. A un certo punto scrisse una lettera
all'Office of Government Ethics, lamentando di aver dovuto spendere 60.000 dollari in compensi per
ragionieri e contabili, che avevano dovuto aiutarlo con i "complessi e astrusi" moduli da compilare. Per
un uomo che, durante il suo mandato, era intenzionato a conservare 95 milioni di dollari in azioni,
spenderne 60.000 in contabilità non sembrava una sproporzione eccessiva.
Il deciso rifiuto opposto da Rumsfeld alla possibilità di smettere di arricchirsi sui disastri, mentre
ricopriva la più importante carica nella sicurezza nazionale, ebbe diverse concrete ripercussioni sul suo
rendimento lavorativo. Per gran parte del suo primo anno in carica, mentre cercava di scaricare i suoi
pacchetti azionari, Rumsfeld dovette sottrarsi a un numero impressionante di decisioni politiche cruciali;
secondo l'Associated Press, "ha evitato riunioni al Pentagono in cui si parlava di Aids". E quando il
governo federale dovette decidere se intervenire in diverse fusioni e vendite di alto profilo che
coinvolgevano grossi appaltatori della difesa (tra cui General Electric, Honeywell, Northrop Grumman e
Silicon Valley Graphics), Rumsfeld si astenne dal partecipare a quelle discussioni. Aveva legami
finanziari, come rivelò il suo portavoce, con gran parte di quelle aziende.
"Finora ho cercato di starne lontano" disse Rumsfeld a un giornalista che gli domandava di una di quelle
vendite.
Per i sei anni del suo mandato, Rumsfeld dovette lasciare la stanza ogni volta che la discussione verteva
sulla possibilità di una terapia per l'influenza aviaria e l'acquisto di farmaci per curarla.
Secondo quanto riportato nel documento che gli permetteva di conservare le sue partecipazioni azionarie,
era obbligato a tenersi fuori da qualunque dibattito che "potesse influire direttamente e prevedibilmente
sulla Gilead". I suoi colleghi, tuttavia, si prendevano ogni cura dei suoi interessi.
Nel luglio 2005, il Pentagono acquistò dosi di Tamiflu per un valore di 58 milioni di dollari, e qualche
mese dopo il dipartimento della Sanità annunciò di volerne ordinare scorte per un miliardo di dollari.
Il rifiuto di Rumsfeld di piegarsi alla legge si rivelò molto redditizio. Se avesse venduto le azioni Gilead
all'inizio del mandato, nel gennaio 2001, ognuna gli avrebbe fruttato solo 7,45 dollari. Ma conservandole
durante l'allarme sull'influenza aviaria, l'isteria collettiva sul bioterrorismo e le decisioni della sua stessa
amministrazione di investire fortemente nell'azienda, Rumsfeld si ritrovò alla fine del suo mandato con
azioni che valevano 67,60 dollari l'una: un aumento dell'807 per cento. (Nell'aprile 2007 erano arrivate a
84 dollari l'una). Ciò significa che quando lasciò il posto di segretario alla Difesa, Rumsfeld era un uomo
incomparabilmente più ricco di quando era arrivato: un evento raro per un multimiliardario che svolge un
incarico pubblico.
Se Rumsfeld non si lasciò mai davvero alle spalle la Gilead, Cheney fu altrettanto restio a tagliare
completamente i ponti con la Halliburton: una questione che, a differenza dei legami di Rumsfeld con la
Gilead, era stata oggetto di grande attenzione da parte dei media. Prima di dimettersi da amministratore
delegato per entrare in campagna elettorale come vice di Bush, Cheney negoziò un pacchetto pensione che
lo lasciò pieno di azioni e opzioni. In seguito ad alcune domande spiacevoli dei giornalisti, accettò di
vendere parte dei suoi titoli Halliburton, ricavandone un profitto di ben 18,5 milioni di dollari. Ma non
vendette tutto. Secondo il "Wall Street Journal", Cheney tenne 189.000 azioni Halliburton e 500.000
opzioni non investite quando salì alla vicepresidenza.
Il fatto che Cheney conservi una tale quantità di azioni Halliburton significa che, per tutto il suo mandato
da vicepresidente, ha raccolto milioni ogni anno in dividendi, e ha ricevuto anche risconti passivi
dall'Halliburton nell'ordine dei 211.000 dollari l'anno: cifra più o meno equivalente al suo salario
governativo. Quando lascerà l'incarico nel 2009, e potrà incassare tutte le sue partecipazioni nella
Halliburton, Cheney avrà l'opportunità di trarre straordinari profitti dalla grande ascesa delle fortune
dell'azienda, le cui azioni dell'azienda sono salite dai 10 dollari di prima della guerra in Iraq a 41 dollari
tre anni dopo. Un balzo del 300 per cento, grazie a una combinazione di aumento dei prezzi dell'energia e
appalti in Iraq; due fattori, questi, che sono diretta conseguenza dell'impegno di Cheney nel trascinare il
Paese in guerra con l'Iraq. L'Iraq sembra coincidere perfettamente con la formula enunciata da Kinzer.
Saddam non era una minaccia per la sicurezza Usa, ma lo era per le compagnie elettriche americane,
perché aveva recentemente firmato contratti con un gigante russo del petrolio ed era in negoziazioni con
la francese Total, lasciando le compagnie petrolifere americane e inglesi con un pugno di mosche; la
terza riserva di petrolio più grande del mondo si stava sottraendo al controllo angloamericano. La
deposizione di Saddam ha aperto nuove prospettive e opportunità per i giganti del petrolio, tra cui
ExxonMobil, Chevron, Shell e BP: tutte queste aziende hanno gettato le fondamenta per nuovi contratti in
Iraq; e per la Halliburton, che, trasferitasi a Dubai, si trova nella posizione ideale per vendere i suoi
servizi energetici a tutte quelle industrie. La guerra si è rivelata l'evento più redditizio nella storia della
Halliburton.
Sia Rumsfeld che Cheney avrebbero potuto ricorrere a misure semplici per dissociarsi completamente
dalle loro partecipazioni azionarie collegate alle catastrofi, eliminando così qualsiasi dubbio sul ruolo
che il profitto ha giocato nel loro entusiasmo per le situazioni foriere di disastri.
Ma se l'avessero fatto, non avrebbero partecipato agli anni di boom delle proprie industrie. Di fronte alla
scelta tra il profitto privato e la vita pubblica, hanno sempre optato per il profitto, obbligando i comitati
per l'etica governativa a piegarsi alla loro volontà.
Durante la Seconda guerra mondiale, il presidente Franklin D. Roosevelt si era scagliato contro chi si
approfittava della guerra, dicendo: "Non voglio vedere un solo nuovo miliardario di guerra negli Stati
Uniti, la cui ricchezza sia il risultato di questo disastro mondiale". Ci si può domandare cosa Roosevelt
avrebbe pensato di Cheney, che accumulava milioni seduto sulla poltrona di vicepresidente. O di
Rumsfeld, il quale, nel 2004, non resistette alla tentazione di incassare alcune azioni della Gilead,
guadagnando in tutta serenità cinque milioni di dollari, stando alla sua dichiarazione dei redditi, mentre
era in carica come segretario alla Difesa: un piccolo assaggio dei profitti che lo attendevano al termine
del suo mandato,. Nell'amministrazione Bush, i profittatori della guerra non solo si accalcano per entrare
nel governo, ma sono il governo; non c'è distinzione tra le due cose.
Gli anni di Bush, naturalmente, sono stati caratterizzati da scandali di corruzione tra i più squallidi e
manifesti della storia recente: Jack Abramoff e le vacanze sui campi da golf che offriva ai membri del
Congresso; Randy "Duke" Cunningham, che sta attualmente scontando una condanna a otto anni, e il suo
yacht The Duke-Stir, parte di un "menu di mazzette" redatto su carta intestata del Congresso e recapitato a
un appaltatore del settore della difesa; le feste all'hotel Watergate con prostitute offerte dalla casa: tutto
molto simile a Mosca e Buenos Aires a metà degli anni Novanta.
E poi ci sono i funzionari governativi che si trasferivano nelle aziende, È un fenomeno sempre esistito,
ma di solito i politici aspettavano la fine del mandato prima di trarre profitto dai loro contatti altolocati.
Sotto Bush, il fiorente mercato della sicurezza interna si è dimostrato una tentazione irresistibile per molti
funzionari. Anziché attendere il termine del mandato, centinaia di politici, provenienti da una vasta
gamma di agenzie governative, si sono già tuffati nel settore aziendale. Secondo Eric Lipton, che ha
analizzato il fenomeno relativamente al dipartimento per la Sicurezza interna per conto del "New York
Times", "lobbisti veterani di Washington e comitati di controllo dicono che l'esodo di una parte così
consistente dei manager di livello alto di un'agenzia governativa, prima della fine del mandato, trova ben
pochi parallelismi nella storia recente". Lipton ha identificato 94 esempi di funzionari pubblici che
lavoravano nella sicurezza nazionale e ora lavorano in ambiti connessi all'industria della sicurezza
interna.
I casi sono fin troppi per enumerarli qui, ma ce ne sono alcuni che spiccano, perché coinvolgono i grandi
architetti della Guerra al Terrore. John Ashcroft, ex procuratore generale e promotore del Patriot Act,
oggi è a capo dell'Ashcroft Group, specializzato nel procurare contratti federali alle aziende che operano
nella sicurezza interna. Tom Ridge, primo direttore del dipartimento della Sicurezza
interna, oggi è alla Ridge Global ed è consulente della Lucent, azienda di tecnologie della comunicazione
attiva nel settore della sicurezza. Rudy Giuliani, ex sindaco di New York ed eroe della risposta all'11
settembre, fondò la Giuliani Partners quattro mesi dopo gli attacchi terroristici, per vendere i suoi servigi
come consulente per le crisi. Richard Clarke, zar dell'antiterrorismo sotto Clinton e Bush, nonché
apertamente critico nei confronti dell'amministrazione, è ora presidente della Good Harbor Consulting,
specializzata in sicurezza interna e antiterrorismo. James Woolsey, capo della Cia fino al 1995, si trova
ora al Paladin Capital Group, una società di private equity che investe in aziende legate alla sicurezza
interna, e vicepresidente della Booz Alien, tra i leader nel settore della sicurezza interna. Joe Allbaugh,
che l'11 settembre era a capo della Fema (agenzia federale per la gestione delle emergenze), ne uscì
appena 18 mesi dopo per fondare la New Bridge Strategies, che prometteva di fare da "ponte" tra il
business e il redditizio mondo degli appalti governativi e delle opportunità di investimento in Iraq. Fu
sostituito da Michael Brown, che lasciò dopo soli due anni per fondare la Michael D. Brown LLC,
specializzata nella prevenzione dei disastri.
"Posso andarmene, ora?" scrisse Brown in una famigerata email a un collega della Fema nel mezzo
dell'emergenza provocata dall'uragano Katrina." La filosofia, in ultima analisi, è questa: restare al
governo il minimo indispensabile per ricoprire una carica importante in un dipartimento che elargisce
grossi contratti, e per raccogliere informazioni riservate su cosa venderà; e poi dimettersi e vendere
l'accesso agli ex colleghi. Il servizio pubblico è ridotto a poco più che una missione di ricognizione per
garantirsi affari futuri nel complesso del capitalismo dei disastri.
In un certo senso, tuttavia, le storie di corruzione e scambi tra governo e aziende danno una falsa
impressione. Lasciano supporre che esista ancora una linea di demarcazione chiara tra lo Stato e il
complesso, quando in realtà quella linea è scomparsa molto tempo fa. La vera novità degli anni di Bush
non è la velocità con cui i politici si spostano dall'uno all'altro dei mondi, ma il numero enorme di
persone che si sentono autorizzate a occupare entrambi i mondi simultaneamente.
Persone come Richard Perle e James Baker elaborano linee politiche, offrono consulenze di alto livello e
parlano alla stampa come esperti e statisti disinteressati, quando in realtà sono profondamente vincolati
al business della guerra privatizzata e della ricostruzione. Costoro rappresentano il successo della
missione corporativista: una fusione totale di élite politiche ed élite aziendali nel nome della sicurezza,
con lo Stato nel ruolo di presidente della lega, oltre che di fonte principale delle opportunità di business,
grazie all'economia degli appalti.
Ovunque sia emersa negli ultimi 35 anni da Santiago a Mosca a Pechino alla Washington di Bush l'alleanza tra una ristretta élite aziendale e un governo di destra è stata liquidata come una sorta di
aberrazione: capitalismo mafioso, capitalismo oligarchico e ora, sotto Bush, "capitalismo clientelare".
Ma non è affatto un'aberrazione, anzi è qui che ci ha condotti la crociata della Scuola di Chicago, con la
sua triplice ossessione: privatizzazione, deregulation e pugno di ferro contro i sindacati.
Gli ostinati rifiuti opposti da Rumsfeld e Cheney all'ingiunzione di scegliere tra le loro partecipazioni
azionarie legate ai disastri e i loro doveri pubblici sono stati il primo segnale del fatto che un vero Stato
corporativo era arrivato. Il primo segnale di una lunga serie.
Il potere degli ex.
Uno dei tratti caratteristici dell'amministrazione Bush è stato il fare affidamento su consulenti esterni e
diplomatici freelance per svolgere funzioni chiave: James Baker, Paul Bremer, Henry Kissinger, George
Shultz, Richard Perle, i membri del Defense Policy Board e del comitato per la liberazione dell'Iraq, e
molti altri. Mentre il Congresso si limitava ad avallare le decisioni cruciali, e le sentenze della Corte
Suprema venivano trattate come poco più che cortesi suggerimenti, questi consulenti, per lo più volontari,
hanno goduto di enorme influenza.
Il loro potere deriva dal fatto che in passato hanno ricoperto ruoli di primo piano nel governo: sono ex
segretari di Stato, ex ambasciatori ed ex sottosegretari alla Difesa, Tutti sono fuori dal governo da anni, e
nel frattempo hanno fatto carriera nel complesso del capitalismo dei disastri. Poiché sono considerati
appaltatori, e non dipendenti, molti di loro non sono soggetti alle stesse regole sui conflitti d'interessi a
cui devono attenersi i politici eletti o nominati; sempre che siano soggetti a regole. Ciò ha condotto
all'eliminazione della "porta girevole", come viene chiamato l'esodo dei politici verso le industrie, e alla
sua sostituzione con "un arco trionfale" (come l'ha definito lo specialista nella gestione dei disastri Irwin
Redlener). Ha permesso alle industrie dei disastri di fare affari dentro il governo, usando come copertura
la reputazione di ex politici così illustri.
Quando, nel marzo 2006, James Baker fu nominato co-presidente dell'Iraq Study Group, il comitato di
consulenza incaricato di mostrare la strada da seguire in Iraq, il sollievo bipartisan era palpabile: ecco
un politico della vecchia scuola, che aveva condotto il Paese alla stabilità, un adulto. Certo, Baker è un
veterano di un'epoca meno avventata dell'attuale quanto alla politica estera degli Stati Uniti. Ma parliamo
di quindici anni fa. Chi è oggi James Baker?
Come Cheney, quando lasciò la carica alla fine del mandato di Bush Sr., James Baker III fece fortuna
grazie ai suoi contatti nel governo. Particolarmente redditizie furono le amicizie che strinse in Arabia
Saudita e Kuwait durante la Prima guerra del Golfo. Il suo studio legale con sede a Houston, Baker Botts,
rappresenta la famiglia reale saudita, la Halliburton e la Gazprom, la più grande compagnia petrolifera
russa; ed è uno dei più importanti studi legali al mondo nel settore petrolifero e del gas. Baker ha anche
una partecipazione azionaria nel Carlyle Group, società estremamente riservata che gli ha fruttato,
secondo le stime, 180 milioni di dollari.
Il gruppo Carlyle ha beneficiato enormemente della guerra, grazie alla vendita di sistemi robotizzati,
sistemi di comunicazione per la difesa e un enorme appalto per l'addestramento della polizia in Iraq,
vinto da una sua holding, la Usis. La compagnia, del valore di 56 miliardi di dollari, dispone di una
società di investimenti orientata alla difesa, specializzato nel raccogliere appaltatori e poi quotarli in
borsa, attività che ultimamente si è dimostrata molto redditizia. "Sono stati i migliori 18 mesi della nostra
storia" ha detto il direttore degli investimenti della Carlyle, Bill Conway, riferendosi ai primi 18 mesi
della guerra in Iraq. "Abbiamo fatto soldi, e li abbiamo fatti in fretta." La guerra, che già si profilava
chiaramente come un disastro, si tramutò in un guadagno record di 6,6 miliardi di dollari per i
selezionatissimi investitori del gruppo.
Quando Bush Jr. lo riportò nella vita pubblica, affidandogli la questione del debito iracheno, Baker non
fu obbligato a liberarsi dalle partecipazioni azionarie nel Carlyle Group o a dissociarsi dallo studio
Baker Botts, nonostante i loro interessi diretti nella guerra. All'inizio, molti commentatori fecero notare
questi potenziali gravi conflitti. Il "New York Times" pubblicò un editoriale in cui chiedeva a Baker di
dimettersi dal gruppo Carlyle e dalla Baker Botts per preservare l'integrità del suo nuovo incarico. "Il
signor Baker è al centro di una matassa fin troppo intricata di relazioni con aziende private a scopo di
lucro, situazione che fa di lui una parte potenzialmente interessata in qualsiasi formula di ristrutturazione
del debito" affermava l'editoriale. Concludeva poi dicendo che non era sufficiente che Baker rinunciasse
"ai clienti palesemente legati ai debiti iracheni [...] Per svolgere con dignità il suo nuovo ruolo pubblico,
il signor Baker deve rinunciare a questi due ruoli privati".
Seguendo l'esempio dato agli alti livelli dell'amministrazione, Baker si rifiutò di farlo, e Bush appoggiò
la sua decisione, lasciandogli l'incarico di persuadere i governi del mondo a condonare l'enorme debito
estero dell'Iraq. Quando era in carica da circa un anno, mi procurai una copia di un documento riservato
che dimostrava che Baker si trovava in un conflitto di interessi ben più grave e diretto di quanto si
pensasse. Il documento era un piano aziendale di 65 pagine, sottoposto da un consorzio che comprendeva
il Carlyle Group al governo del Kuwait, uno dei maggiori creditori dell'Iraq. Il consorzio si offriva di
usare i propri contatti politici ad alto livello per raccogliere dall'Iraq 27 miliardi di dollari in debiti non
pagati, che provenivano dall'invasione del Kuwait da parte di Saddam: in altre parole, Baker prometteva
di fare esattamente l'opposto del suo incarico ufficiale, che consisteva appunto nel convincere i governi
che i debiti dell'era Saddam andavano cancellati.
Il documento, intitolato Proposta di assistenza al governo del Kuwait nella protezione e nel recupero dei
crediti verso l'Iraq, fu presentato quasi due mesi dopo la nomina di Baker. Faceva il nome di James
Baker undici volte, precisando che il Kuwait avrebbe beneficiato dalla collaborazione con una società
che stipendiava l'uomo incaricato di cancellare il debito iracheno.
Ma c'era un prezzo. In cambio di questi servizi, diceva il documento, il governo kuwaitiano avrebbe
dovuto investire un miliardo di dollari con il Carlyle Group. Non era altro che smercio illegale di
influenza: pagare l'azienda di Baker per ricevere protezione da lui. Mostrai il documento a Kathleen
Clark, docente di legge alla Washington University ed esperta mondiale di etica e deontologia
governativa, e lei mi disse che Baker era "in una classica posizione di conflitto d'interessi. Baker si trova
da ambo le parti di questa transazione: dovrebbe rappresentare gli interessi degli Stati Uniti, ma è anche
un importante consulente della Carlyle, e la Carlyle vuol essere pagata per aiutare il Kuwait a recuperare
i suoi crediti dall'Iraq". Dopo aver esaminato i documenti, la Clark stabilì che
"la Carlyle e le altre società stanno sfruttando l'attuale posizione di Baker per cercare di ottenere un
contratto con il Kuwait che andrebbe contro gli interessi del governo americano".
Il giorno successivo alla pubblicazione del mio articolo su Baker in "The Nation", la Carlyle si ritirò dal
consorzio, rinunciando alla speranza di ottenere il miliardo di dollari; parecchi mesi dopo, Baker
vendette le sue azioni del Carlyle Group e si dimise da consulente. Ma i danni erano fatti: Baker aveva
svolto male il suo ruolo di inviato, non riuscendo a ottenere l'annullamento del debito che Bush aveva
promesso e che l'Iraq pretendeva. Nel 2005 e nel 2006, l'Iraq pagò 2,59 miliardi di dollari di
risarcimenti per la guerra di Saddam, la maggior parte dei quali andarono al Kuwait: risorse di cui c'era
disperato bisogno per affrontare la crisi umanitaria in Iraq e per ricostruire il Paese, soprattutto dal
momento che le aziende americane erano uscite dall'Iraq, lasciando il lavoro incompiuto pur avendo
sperperato gli aiuti economici. Il mandato di Baker era di cancellare dal 90
al 95 per cento del debito iracheno. Invece, il debito fu semplicemente prorogato, e a tutt'oggi ammonta al
99 per cento del prodotto interno lordo del Paese
Altri aspetti centrali della politica irachena furono demandati a inviati freelance, le cui aziende trassero
profitti record dalla guerra. L'ex segretario di Stato George Shultz guidò il Comitato per la liberazione
dell'Iraq, un gruppo di pressione formato nel 2002 su richiesta di Bush, per aiutare la Casa Bianca a
convincere l'opinione pubblica della necessità di una guerra. Shultz non si fece pregare. Poiché il suo
ruolo lo metteva a stretto contatto con l'amministrazione, fu in grado di suscitare un'isteria collettiva
sull'imminente minaccia rappresentata da Saddam, senza alcun bisogno di portare prove a sostegno di
quanto diceva. "Se c'è un serpente a sonagli in giardino, non aspetti che colpisca prima di difenderti"
scrisse sul "Washington Post" nel settembre 2002, sotto il titolo Agire ora: il pericolo è immediato.
Saddam Hussein dev'essere rimosso. Schultz non rivelò ai suoi lettori di essere membro del consiglio
d'amministrazione della Bechtel, di cui era stato amministratore delegato molti anni prima. L'azienda
avrebbe raccolto 2,3 miliardi di dollari per ricostruire il Paese che Shultz era così ansioso di vedere
distrutto. Dunque, col senno di poi, sembra opportuno domandarci: quando Schultz esortò il mondo ad
"agire ora", parlava in veste di anziano e preoccupato statista, o in veste di rappresentante della Bechtel,
o magari della Lockheed Martin?
Secondo Danielle Brian, direttore esecutivo del Project on Government Oversight, un comitato di
controllo non-profit, "è impossibile dire dove finisce il governo e dove inizia la Lockheed". È ancor più
arduo stabilire dove finisce la Lockheed e dove inizia il Comitato per la liberazione dell'Iraq. Il gruppo
di cui Shultz era a capo e che usava come piattaforma interventista fu convocato da Bruce Jackson, che,
appena tre mesi prima, ricopriva il ruolo di vicepresidente per la strategia e la pianificazione alla
Lockheed Martin. Jackson sostiene che a chiedergli di formare il gruppo furono
"uomini della Casa Bianca", ma lui lo imbottì di vecchi colleghi della Lockheed. Oltre a Jackson, tra i
rappresentanti della Lockheed c'erano Charles Kupperman, vicepresidente per i missili spaziali e
strategici, e Douglas Graham, direttore dei sistemi di difesa. Anche se il comitato fu creato su esplicita
richiesta della Casa Bianca, per gestire la propaganda bellica, nessuno fu costretto a dimettersi dalla
Lockheed o a vendere le proprie azioni. Il che si rivelò un ottimo affare per i membri del comitato, dal
momento che le azioni della Lockheed salirono di un impressionante 145
per cento grazie alla guerra che avevano contribuito a organizzare: dai 41 dollari del marzo 2003 ai 102
del febbraio 2007."
E poi c'è Henry Kissinger, l'uomo che diede il via alla controrivoluzione con il suo sostegno al golpe di
Pinochet. Nel suo libro del 2006 Le verità negate, Bob Woodward rivela che Dick Cheney si incontra
mensilmente con Kissinger, mentre Bush vede Kissinger più o meno ogni due mesi, "il che fa di lui il più
regolare e frequente consulente esterno di Bush in politica estera". Cheney disse a Woodward: "Credo di
parlare più spesso con Henry Kissinger che con chiunque altro".
Ma chi rappresentava Kissinger in tutte queste riunioni al vertice? Come Baker e Shultz, era un ex
segretario di Stato; ma non ricopre più la carica da quasi trent'anni. Dal 1982, quando avviò la sua
società privata, la Kissinger Associates, il suo ruolo è stato quello di rappresentare una serie di clienti
che, si dice, include giganti come la Coca-Cola, la Union Carbide, la Hunt Oil e la Fluor (industria
meccanica tra i principali appaltatori in Iraq), e persino ritt, suo vecchio partner nel complotto cileno."
Quindi, quando incontrava Cheney, parlava in veste di anziano e preoccupato statista, o in veste di
prestigioso lobbista per i suoi clienti nel ramo petrolifero e industriale?
Kissinger chiarì quali erano i suoi interessi nel novembre 2002, quando Bush lo nominò presidente della
Commissione sull'11 settembre, forse il ruolo più cruciale per cui un patriota possa essere richiamato
dalla pensione. Eppure, quando i familiari delle vittime chiesero a Kissinger di fornire una lista dei suoi
clienti, preoccupati per i possibili conflitti d'interessi nelle indagini, egli rifiutò questo gesto basilare di
responsabilità pubblica e di trasparenza. Anziché rivelare i nomi dei suoi clienti, preferì dimettersi da
presidente della Commissione.
Richard Perle, amico e socio di Kissinger, avrebbe fatto la stessa scelta un anno dopo. Perle, funzionario
alla Difesa sotto Reagan, fu invitato da Rumsfeld a presiedere il Defense Policy Board (Commissione per
le politiche sulla difesa). Prima dell'arrivo di Perle, la Commissione era un tranquillo comitato di
consulenza, un modo per trasferire all'attuale amministrazione le conoscenze accumulate dalle precedenti.
Perle la trasformò in una piattaforma per se stesso, usando il prestigioso titolo per alzare la voce sulla
stampa in favore di un attacco preventivo all'Iraq. Lo usò anche in altri modi. Secondo un'indagine del
premio Pulitzer Seymour Hersh sul "New Yorker", lo usò per stimolare investimenti nella sua azienda.
Perle, si scoprì, era uno dei primi capitalisti dei disastri post-11 settembre: appena due mesi dopo gli
attacchi, lanciò la sua società di venture capital, la Trireme Partners, che avrebbe investito in aziende che
sviluppavano prodotti e servizi legati alla sicurezza nazionale e alla difesa. Nelle sue lettere la Trireme
si vantava dei propri agganci politici: "Tre membri del comitato direttivo della Trireme sono consulenti
del segretario alla Difesa americano e fanno parte del Defense Policy
Board". Quei tre erano Perle, il suo amico Gerald Hillman e Henry Kissinger.
Uno dei primi investitori di Perle fu la Boeing - il secondo appaltatore più grande del Pentagono che impegnò 20 milioni per avviare la Trireme. Perle divenne un grande fan della Boeing, e scrisse un
editoriale in favore del controverso contratto di quest'ultima con il Pentagono per la fornitura di
petroliere.
Nota: l'appalto delle petroliere divenne il più grande scandalo nella storia recente del Pentagono, e fece
finire in prigione un funzionario di alto livello del dipartimento della Difesa e un manager della Boeing.
In una successiva inchiesta, a Rumsfeld fu domandato perché non si fosse accorto di quanto stava
accadendo. Rispose che non ricordava i dettagli del suo ruolo in un contratto che avrebbe bruciato tra i
17 e i 30 miliardi di dollari, denaro dei contribuenti. "Non ricordo di averlo approvato.
Ma certo non ricordo neppure di non averlo approvato, diciamo così." Rumsfeld fu criticato per
incompetenza, ma la sua smemoratezza potrebbe essere un effetto collaterale delle sue frequenti assenze
forzate dai dibattimenti, onde evitare possibili conflitti con le sue molte partecipazioni azionarie nel
settore della difesa.
Benché Perle avesse detto ai suoi investitori della propria influenza al Pentagono, molti suoi colleghi al
Defense Policy Board riferiscono che Perle non menzionò la Trireme. Sentendone parlare, uno di loro la
definì "al limite dell'immoralità, o oltre". Alla fine, tutti i nodi del conflitto vennero al pettine e Perle,
come Kissinger, dovette scegliere: fare politica nella difesa, o trarre profitto dalla Guerra al Terrore. Nel
marzo 2003, proprio mentre la guerra in Iraq iniziava e stava per cominciare la cuccagna degli
appaltatori, Perle si dimise da presidente del Defense Policy Board.
Non c'è nulla che faccia infuriare Perle più dell'insinuazione che il suo sostegno a una guerra illimitata
che mettesse fine a tutti i mali sia stato in qualsiasi modo influenzato dall'enorme redditività, per lui, di
quell'ipotesi. Sulla Cnn, Wolf Blitzer riportò a Perle l'osservazione di Hersh per cui " [Perle] ha avviato
un'azienda che potrebbe trarre guadagno da una guerra". Era una verità autoevidente; eppure Perle si
infuriò, chiamando Hersh vincitore di un premio Pulitzer - "la cosa più vicina a un terrorista di cui
disponga il giornalismo americano, francamente". Disse a Blitzer: "Io non credo che un'azienda possa
guadagnare in una guerra. [...] L'insinuazione che le mie opinioni siano legate al potenziale di
investimenti nella difesa nazionale è completamente priva di fondamento".
Era un'affermazione curiosa. Se una società di venture capital creata per investire in aziende del settore
sicurezza e difesa riusciva a non trarre profitto da una guerra, allora sarebbe venuta meno agli impegni
presi con i suoi investitori. L'episodio sollevò questioni più ampie, sul ruolo svolto da figure come Perle,
che vivono in una zona grigia tra il capitalista dei disastri, l'intellettuale pubblico e il decisore politico.
Se un manager della Lockheed o della Boeing fosse andato in televisione, su Fox News, a perorare la
causa di un cambio di regime in Iran (come aveva fatto Perle), il loro palese interesse personale avrebbe
destituito di fondamento ogni loro argomentazione. Eppure Perle continua a essere definito "analista" o
consulente del Pentagono, magari un "neo-con", ma certo nessuno insinua mai che possa essere un
semplice mercante d'armi dotato di grande "proprietà di linguaggio.
Ogni volta che i membri di questa combriccola washingtoniana sono messi di fronte ai loro interessi
economici nelle guerre che appoggiano, rispondono invariabilmente come aveva risposto Perle: e cioè
che ogni insinuazione a riguardo è ridicola, sciocca,
velatamente terroristica. I neo-con, un gruppo che comprende Cheney, Rumsfeld, Shultz, Jackson e
- oserei dire - Kissinger, fanno di tutto per mostrarsi come intellettuali raffinati o aggressivi realisti,
guidati dall'ideologia e da grandi idee, non da questioni materiali come il profitto. Bruce Jackson, per
esempio, sostiene che la Lockheed non ha approvato il suo impegno extracurricolare nella politica estera.
Perle dice che il suo rapporto con il Pentagono l'ha danneggiato negli affari perché
"significa che ci sono [...] cose che non puoi dire o fare". Il suo socio Gerard Hillman insiste che Perle
"non è una creatura finanziaria. Non ha alcun desiderio di guadagnare". Douglas Feith, quando era
sottosegretario alla Difesa e si occupava di sviluppare le linee politiche, affermò che
"l'antico legame del vicepresidente [con la Halliburton] rese alcune persone nel governo riluttanti,
anziché propense, a concedere l'appalto, anche se accordarlo alla Kbr (Kellogg Brown Root, ex
sussidiaria della Halliburton) era la cosa giusta da fare"."
Anche i critici più feroci tendono a dipingere i neo-con come uomini di fede, persone motivate da un tale
impegno per la supremazia americana e israeliana da essere pronti a sacrificare gli interessi economici in
favore della "sicurezza". Questa distinzione, oltre che artificiosa, denuncia una scarsa memoria. Il diritto
all'illimitata ricerca del profitto è sempre stato al centro dell'ideologia neo-con.
Prima dell'11 settembre, le richieste di privatizzazione radicale e gli attacchi alla spesa sociale davano
impulso al movimento neo-con - friedmaniano nell'animo - nei think tanks come l'American Enterprise
Institute, l'Héritage e il Cato.
Con la Guerra al Terrore i neo-con non hanno abbandonato i loro obiettivi economici corporativisti:
hanno trovato un modo nuovo, ancor più efficace, per ottenerli. Naturalmente, questi falchi di Washington
lottano per fare degli Stati Uniti l'imperatore del mondo, e di Israele l'imperatore del Medioriente. È
impossibile, tuttavia, separare questo progetto militare - guerra infinita all'estero, e uno stato di sicurezza
in patria - dagli interessi propri del capitalismo dei disastri, che ha costruito un'industria multimiliardaria
proprio su questi presupposti. La fusione di questi obiettivi politici e finanziari non è mai stata più
evidente che sui campi di battaglia in Iraq.
Parte sesta.
Iraq, al punto di partenza, Ipershock.
Uno dei rischi connessi alle operazioni basate sullo shock ha a che fare con la possibilità di
"conseguenze inattese", ovvero la possibilità di accelerare reazioni che non ci si attendeva. Per
esempio, attacchi prolungati condotti contro le infrastrutture, la rete elettrica o il sistema economico
di una nazione possono creare una situazione talmente pesante che la resistenza che ne risulta
rafforza, anziché indebolirla, la volontà di combattere della nazione avversaria.
Tenente colonnello John N.T. Shanahan, Shock-Based Operations, "Air and Space Power", 15
ottobre 2001.
La violenza fisica diretta genera soltanto risentimento, ostilità e atteggiamento di sfida [...] Gli
interrogati che hanno sopportato il dolore sono più difficili da gestire con altri metodi. L'effetto non è
stato quello di reprimere il soggetto ma di restituirgli fiducia e maturità.
Kubark Counterintelligence Interrogation, manuale Cia, 1963.
16.
Cancellare l'Iraq.
In cerca di un "modello" per il Medioriente.
Il soggetto introverso, schizofrenico o malinconico, può essere paragonato a una città fortificata che
ha chiuso le sue mura e rifiuta gli scambi commerciali con il resto del mondo. [...] Si apre una breccia
nel muro, e le relazioni con il mondo sono ripristinate. Sfortunatamente, non possiamo controllare
l'entità dei danni inflitti dal bombardamento.
Andrew M. Wyllie, psichiatra britannico, sulla terapia di elettroshock, 1940.
Credevo che, nel mondo post-11 settembre, un uso prudente della violenza potesse rivelarsi
terapeutico.
Richard Cohen, editorialista del "Washington Post", sul suo sostegno all'invasione dell'Iraq.
Era il marzo del 2004. Ero a Baghdad da meno di tre ore, e le cose non si mettevano per niente bene.
Tanto per cominciare, l'auto che doveva venirci a prendere al checkpoint dell'aeroporto non si era
presentata, e io e il mio fotografo, Andrew Stern, avevamo dovuto fare l'autostop su quella che era già
chiamata "la strada più pericolosa del mondo". Quando finalmente giungemmo all'albergo, nel caotico
quartiere di Karada, fumano accolti da Michael Birmingham, un pacifista irlandese che si era trasferito a
Baghdad prima dell'invasione. Gli avevo chiesto di presentarmi alcuni iracheni preoccupati per il
progetto di privatizzare la loro economia. "A nessuno qui importa nulla della privatizzazione" ci disse
Michael. "A loro interessa solo sopravvivere."
Seguì un acceso dibattito sui risvolti etici dell'implementare un'agenda politica in una zona di guerra.
Michael non diceva che gli iracheni appoggiavano i progetti di privatizzazione; solo che la maggior parte
delle persone aveva cose più urgenti a cui pensare. Temevano che scoppiasse una bomba nella loro
moschea, o cercavano un cugino sparito nella prigione di Abu Ghraib, gestita dagli americani. Pensavano
a come ottenere acqua per bere e lavarsi il giorno dopo, non al fatto che un'azienda straniera volesse
privatizzare la loro rete idrica e rivendergliela tra un anno. Il compito di un osservatore esterno,
sosteneva Michael, è cercare di documentare la realtà della guerra e dell'occupazione, non decidere quali
dovrebbero essere le priorità dell'Iraq.
Mi difesi come meglio potevo, sottolineando che vendere il Paese alla Bechtel e alla ExxonMobil non
era un'idea che mi ero inventata io: era un processo già avviato, e guidato dal principale inviato della
Casa Bianca in Iraq, L. Paul Bremer III. Per mesi avevo scritto articoli sulla messa all'asta delle risorse
statali irachene: fiere di settore tenute nelle sale da ballo degli alberghi, eventi surreali in cui le ditte
produttrici di protezioni antiproiettile terrorizzavano gli uomini d'affari con storie di arti maciullati,
mentre i funzionari del commercio Usa cercavano di rassicurare tutti, dicendo che le cose non stavano
davvero così male come diceva la tv. "Il momento migliore per investire è quando c'è ancora sangue per
terra" mi disse in tutta serietà un delegato alla conferenza "Ricostruire l'Iraq 2" a Washington.
Il fatto che fosse difficile trovare a Baghdad persone interessate a parlare di economia non era
sorprendente. Gli architetti di questa invasione credevano fermamente nella dottrina dello shock:
sapevano che mentre gli iracheni erano distratti dalle emergenze quotidiane, il Paese avrebbe potuto
essere svenduto con discrezione e i risultati annunciati come fatto già compiuto. Quanto a giornalisti e
attivisti, la nostra attenzione sembrava concentrata unicamente sugli spettacolari attacchi fisici, e
dimenticavamo che le parti in causa che hanno più da guadagnare non si presentano mai sul campo di
battaglia. E in Iraq c'era molto da guadagnare: non solo le riserve petrolifere, terze al mondo per
grandezza, ma uno degli ultimi territori non ancora toccati dalla spinta alla globalizzazione basata sulla
visione friedmaniana di capitalismo sfrenato. Dopo aver conquistato l'America Latina, l'Africa, l'Europa
dell'Est e l'Asia, il mondo arabo si presentava ai crociati come l'ultima frontiera.
Mentre io e Michael dibattevamo, Andrew uscì a fumare una
sigaretta sul balcone. Quando aprì la portafinestra, sembrò che tutta l'aria fosse risucchiata fuori dalla
stanza. Fuori dalla finestra c'era una palla di fuoco, simile a lava, rosso intenso con scaglie di nero.
Afferrammo le nostre scarpe e corremmo giù per cinque piani di scale. L'atrio era ricoperto di vetri rotti.
Dietro l'angolo, l'hotel Mount Lebanon era ridotto in macerie, insieme a un edificio lì vicino, distrutti
entrambi da una bomba di 450 chili: fino a quel momento, il più grave attacco di questo genere dalla fine
della guerra.
Andrew corse con la macchina fotografica verso le macerie; io cercai di non farlo, ma finii per seguirlo.
Dopo sole tre ore a Baghdad, stavo già contravvenendo alla mia regola numero uno: non inseguire le
bombe. Tornata in albergo, vidi reporter indipendenti e membri delle Ong che bevevano arak e cercavano
di tenere sotto controllo l'adrenalina. Tutti mi sorridevano e mi ripetevano:
"Benvenuta a Baghdad!". Guardai Michael, ed entrambi ammettemmo silenziosamente che, sì, aveva vinto
lui il dibattito. Alla guerra spettava l'ultima parola: "Qui sono le bombe, non i giornalisti, a stabilire
cos'è urgente". Ed è certamente così. Non si limitano a risucchiare l'ossigeno nel loro vortice, ma
pretendono tutto: la nostra attenzione, la nostra compassione, la nostra rabbia.
Quella sera, pensai a Claudia Acuna, la straordinaria giornalista che avevo conosciuto a Buenos Aires
due anni prima, e che mi aveva dato una copia della "Lettera aperta di uno scrittore alla giunta militare"
di Rodolfo "Walsh. Mi aveva avvertita che la violenza estrema tende a impedirci di vedere gli interessi
che serve. In un certo senso, era già successo nel movimento pacifista. Le nostre argomentazioni sul
perché fosse scoppiata la guerra si spingevano raramente al di là di singole parole: petrolio, Israele,
Halliburton. La maggior parte di noi scelse di opporsi alla guerra perché la riteneva un atto di follia
perpetrato da un presidente che si credeva un re, e dal suo scagnozzo britannico che voleva ritrovarsi nei
libri di storia dalla parte dei vincitori. Non eravamo molto interessati all'idea che la guerra fosse una
scelta politica razionale, che gli architetti dell'invasione avessero scatenato una violenza feroce perché
non erano riusciti a spalancare le economie chiuse del Medioriente con mezzi pacifici; che il livello di
terrore fosse proporzionale a ciò che era in palio.
L'invasione dell'Iraq fu venduta all'opinione pubblica sulla base della paura delle armi di distruzione di
massa perché, come spiegò Paul Wolfowitz, le armi erano "l'unico argomento su cui tutti potessero
trovarsi d'accordo". Era, in altri termini, il minimo comun denominatore dei pretesti. La motivazione più
raffinata, preferita dai più intellettuali tra gli interventisti, era la teoria del
"modello". Secondo gli esperti che proposero questa teoria, molti dei quali si definivano neo-con, il
terrorismo proveniva da diverse zone del mondo arabo e musulmano: i dirottatori dell'11 settembre
provenivano dall'Arabia Saudita, dall'Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Libano; l'Iran finanziava
Hezbollah; la Siria ospitava la leadership di Hamas; l'Iraq mandava soldi alle famiglie dei kamikaze
palestinesi. Per questi sostenitori della guerra, che facevano un tutt'uno degli attacchi agli Stati Uniti e a
Israele, come se tra i due fenomeni non vi fossero differenze, ciò bastava per considerare l'intera regione
come un potenziale terreno fertile per il terrorismo.
Allora - chiesero - cos'è che in questa parte del mondo produce il terrorismo? Accecati dall'ideologia,
tanto da non riuscire a vedere le politiche americane o israeliane come fattori significativi, o addirittura
scatenanti, identificarono la vera causa con qualcos'altro: la carenza di democrazia liberista in quella
regione.
Nota: l'ondata liberista aveva bypassato questa regione, per vari motivi. I Paesi più ricchi - Kuwait,
Arabia Saudita, gli emirati - guadagnavano così tanto con il petrolio che erano riusciti a non contrarre
debiti, e quindi a restare fuori dalla stretta del Fmi (l'84 per cento dell'economia dell'Arabia Saudita, per
esempio, è controllato dallo Stato). L'Iraq invece aveva debiti pesanti, accumulati durante la guerra con
l'Iran, ma proprio mentre iniziava l'era della globalizzazione, era terminata la Prima guerra del Golfo e
l'Iraq era stato sottoposto a rigide sanzioni: non solo non vi sarebbe stato "libero scambio", ma
praticamente nessuna forma legale di scambio.
Vista l'impossibilità di conquistare l'intero mondo arabo in una volta sola, bisognava scegliere un singolo
Paese che fungesse da catalizzatore. Gli Stati Uniti avrebbero invaso quel Paese e l'avrebbero
trasformato (per dirla con le parole di Thomas Friedman, che più di ogni altro contribuì a far proseliti
per questa teoria nei mass media) in "un modello diverso al cuore del mondo arabo-musulmano",
circostanza che a sua volta avrebbe dato il via a una serie di ondate democratiche/neoliberiste in tutta la
regione. Joshua Muravchik, dell'American Enterprise Institute, previde "uno tsunami in tutto il mondo
islamico" a "Teheran e Baghdad", mentre l'ultraconservatore Michael Ledeen, consulente
dell'amministrazione Bush, descrisse l'obiettivo come "una guerra per ricostruire il mondo".
Nota: l'idea che non unirsi al Consenso di Washington potesse bastare a scatenare un'invasione straniera
potrà sembrare esagerata, ma c'era un precedente. Quando la Nato bombardò Belgrado nel 1999, la
motivazione ufficiale furono le enormi violazioni dei diritti umani commesse da Slobodan Milosevic, che
avevano fatto inorridire il mondo. Ma in una rivelazione fatta anni dopo la guerra in Kosovo, e passata
quasi sotto silenzio sulla stampa. Strobe Talbott, vicesegretario di Stato sotto la presidenza Clinton e
capo dei negoziatori Usa durante la guerra, fornì una spiegazione decisamente meno idealizzata: "Mentre
le nazioni in tutta la regione tentavano di risollevare le loro economie, mitigare le tensioni etniche e
allargare lo spazio della società civile, Belgrado sembrava felice di muoversi nella direzione opposta.
Non sorprende che la Nato e la Jugoslavia siano finite in rotta di collisione. La resistenza opposta dalla
Jugoslavia alle più ampie tendenze della riforma economica e politica - e non la sofferenza degli albanesi
del Kosovo - incarna al meglio la guerra della Nato". La rivelazione era contenuta in un libro del 2005,
Collision Course: NATO, Russia, and Kosovo (Rotta di collisione: la Nato, la Russia e il Kosovo),
scritto dall'ex direttore delle comunicazioni di Talbott, John Norris.
In base alla logica interna di questa teoria, combattere il terrorismo, diffondere il capitalismo di frontiera
e indire elezioni costituivano un progetto unico e unitario. Il Medioriente sarebbe stato
"ripulito" dai terroristi e sarebbe stata creata una gigantesca zona di libero scambio, e il tutto sarebbe
stato coronato da elezioni indette a fatto compiuto: una specie di promozione "prendi tre e paghi uno".
George W. Bush in seguito semplificò questa agenda politica riassumendola in una sola frase:
"Diffondere la libertà in una regione tormentata", e molti fraintesero questo sentimento come un impegno
sincero per la democrazia. Ma al centro del modello teorico c'era sempre quell'altro tipo di libertà,
quella offerta al Cile negli anni Settanta e alla Russia nei Novanta: la libertà per le multinazionali di
appropriarsi delle ricchezze di Stati appena privatizzati. Il presidente rese questo punto perfettamente
chiaro solo otto giorni dopo aver dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq, quando annunciò i progetti
per "la creazione di una zona di libero scambio tra Stati Uniti e Medioriente entro un decennio". La figlia
di Dick Cheney, Liz, veterana dell'avventura della shockterapia in Unione Sovietica, fu messa a capo del
progetto.
Quando l'idea di invadere un Paese arabo e trasformarlo in uno Stato modello iniziò a farsi concreta,
dopo l'11 settembre, cominciarono a circolare i nomi di svariate nazioni: l'Iraq, la Siria, l'Egitto o (il
preferito di Michael Ledeen) l'Iran. Molti elementi puntavano all'Iraq, però: oltre ai vasti giacimenti di
petrolio, il Paese avrebbe costituito una buona posizione strategica per le basi militari, ora che l'Arabia
Saudita sembrava meno affidabile, ed era facile incanalare l'odio verso Saddam, che aveva usato le armi
chimiche contro il suo stesso popolo. Un altro fattore, spesso trascurato, è che gli Stati Uniti avevano già
un certo grado di familiarità con l'Iraq.
La Guerra del Golfo del 1991 era stata l'ultima grande offensiva via terra degli Stati Uniti, che aveva
coinvolto centinaia di migliaia di soldati, e nei dodici anni trascorsi da allora il Pentagono aveva usato
quella battaglia come punto di riferimento per gli addestramenti e le complesse esercitazioni militari. Un
esempio di questa teoria è un saggio che aveva catturato l'immaginazione di Donald Rumsfeld, intitolato
Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance (Shock e sgomento.
Come ottenere rapidamente il predominio). Scritto da un gruppo di strateghi anticonformisti alla National
Defense University nel 1996, il saggio si autodefinisce una dottrina militare multiuso, ma in realtà parla
di una nuova Guerra del Golfo. L'autore principale, il comandante della marina in pensione Harlan
Ullman, spiegò che il progetto nacque quando al generale Chuck Horner, comandante della guerra aerea
durante l'invasione del 1991, fu chiesto quale fosse la sua più grande frustrazione nel combattere Saddam
Hussein. Rispose che non sapeva dove "infilare l'ago" per far collassare l'esercito iracheno. "Shock and
Awe" scrive Ullman (che coniò l'espressione) "aveva lo scopo di rispondere a questa domanda: se
avessimo potuto rifare da capo l'operazione Tempesta nel deserto, come avremmo potuto vincere in metà
tempo e dispiegando molte meno forze? [...] La chiave del successo è trovare i punti d'entrata per gli aghi
di Horner: i punti che, se colpiti, causano il collasso immediato del nemico." Gli autori erano convinti
che, se l'esercito americano avesse avuto l'occasione di combattere ancora Saddam, si sarebbe trovato in
una posizione molto migliore per individuare quei "punti d'entrata", grazie a nuove tecnologie satellitari e
grandi innovazioni nelle armi di precisione, che gli avrebbero permesso di inserire gli "aghi" con
un'accuratezza mai vista prima.
L'Iraq presentava un altro vantaggio. Mentre l'esercito Usa era occupato a fantasticare una nuova
operazione Tempesta nel deserto con un progresso tecnologico che un cronista definì "equivalente alla
differenza tra una consolle Atari e una Playstation", la capacità militare dell'Iraq aveva fatto grossi passi
indietro, erosa dalle sanzioni e praticamente smantellata dal programma di ispezioni degli armamenti
promosso dalle Nazioni Unite. Ciò significava che, in confronto all'Iran o alla Siria, l'Iraq sembrava il
luogo adatto per una guerra con le massime probabilità di vittoria.
Thomas Friedman fu molto diretto nell'enunciare cosa avrebbe significato per l'Iraq essere scelto come
modello. "Non andiamo in Iraq per costruire una nazione. Andiamo a creare una nazione"
scrisse; come se selezionare un Paese arabo, ricco di petrolio, per ricrearlo da capo fosse un'azione
naturale, addirittura "nobile", nel ventunesimo secolo." Friedman è parte di un gruppo di ex sostenitori
dell'intervento militare che in seguito hanno dichiarato di non aver previsto il massacro che sarebbe
seguito all'invasione. È difficile capire come possa non aver notato quel dettaglio.
L'Iraq non era uno spazio vuoto su una mappa; era e rimane una cultura antica come la civiltà stessa, con
un grande orgoglio antimperialista, un forte nazionalismo arabo, fedi religiose profondamente radicate, e
dove la maggioranza dei cittadini maschi adulti è addestrato all'uso delle armi. Se il compito di "creare
una nazione" doveva essere svolto in Iraq, cosa ne sarebbe stato, esattamente, della nazione che c'era già?
L'assunto implicito fin dall'inizio era che gran parte di essa avrebbe dovuto scomparire, per fare spazio
al grandioso esperimento: un'idea che conteneva, nel suo nucleo, la certezza di una spaventosa violenza
colonialista.
Trent'anni prima, quando la controrivoluzione della Scuola di Chicago aveva spiccato il primo balzo dai
libri di testo al mondo reale, anch'essa aveva cercato di cancellare nazioni e crearne di nuove al loro
posto. Come l'Iraq nel 2003, il Cile nel 1973 doveva servire da modello per l'intero continente ribelle, e
per molti anni le cose andarono proprio così. I brutali regimi che negli anni Settanta applicarono le idee
della Scuola di Chicago comprendevano che, perché le nuove nazioni ideali potessero sorgere in Cile,
Argentina, Uruguay e Brasile, intere categorie di persone e intere culture avrebbero dovuto essere
"sradicate".
Nei Paesi che subirono le operazioni di pulizia politica, ci sono stati sforzi collettivi per venire a capo di
questa storia di violenza: commissioni per la verità, scavi di fosse comuni, avvio di processi per crimini
di guerra. Ma le giunte latinoamericane non agivano da sole: erano sostenute, prima e dopo i golpe, da
Washington - circostanza ampiamente documentata. Per esempio, nel 1976, l'anno del golpe argentino,
quando migliaia di giovani attivisti furono rapiti dalle loro case, la giunta ottenne un completo sostegno
finanziario da Washington ("Se ci sono cose che vanno fatte, bisogna farle in fretta" aveva detto
Kissinger). Quell'anno era presidente Gerald Ford, Dick Cheney era il capo del personale, Donald
Rumsfeld era il segretario alla Difesa, e l'assistente di Kissinger era un giovane ambizioso di nome Paul
Bremer. Questi uomini non sono finiti in tribunale per il loro appoggio alle giunte, e le loro carriere sono
continuate, prosperando a lungo. Così a lungo, in verità, che quasi trent'anni dopo costoro avrebbero
svolto un esperimento molto simile - anche se molto più violento - in Iraq.
Nel suo discorso inaugurale nel 2005, George W. Bush descrisse l'era intercorsa tra la fine della Guerra
fredda e l'inizio della Guerra al Terrore come "anni di riposo, anni sabbatici; e poi venne il giorno del
fuoco". L'invasione dell'Iraq segnò il violento ritorno alle antiche tecniche della crociata liberista: l'uso
di shock traumatici per spazzar via gli ostacoli e costruire Stati corporativi rispondenti al modello.
Ewen Cameron, lo psichiatra che, finanziato dalla Cia, aveva cercato di "decondizionare" i suoi pazienti
facendoli regredire a uno stadio infantile, era convinto che se un piccolo shock serviva allo scopo, uno
shock più grande era ancora meglio. Si abbatteva sui cervelli con ogni arma possibile: elettricità,
allucinogeni, deprivazione sensoriale, sovraccarico sensoriale. Qualunque cosa, pur di spazzar via quello
che c'era e ottenere una tabula rasa su cui stampare nuovi pensieri, nuove strutture. Con una tela molto più
ampia, fu questa la strategia alla base dell'invasione e dell'occupazione dell'Iraq. Gli architetti della
guerra analizzarono l'arsenale globale di tattiche per l'induzione di shock e decisero di usarle tutte: guerra
lampo e bombardamenti, uniti a complicate operazioni psicologiche, seguite dal programma di
shockterapia politica ed economica più veloce e più completo mai tentato al mondo, supportato - se mai
dovesse esserci opposizione - dall'arresto e dalla tortura spietata inflitta a coloro che provavano a
resistere.
Spesso, nelle analisi della guerra in Iraq, si giunge alla conclusione che l'invasione è stata "un successo",
ma l'occupazione si è rivelata un fallimento. Ciò che questo giudizio trascura è che invasione e
occupazione erano due parti di un'unica strategia: il bombardamento iniziale era progettato per
imbiancare la tela su cui sarebbe stata dipinta la nazione modello.
La guerra come tortura di massa.
Per gli strateghi dell'invasione dell'Iraq nel 2003, la risposta alla domanda "dove infilare gli aghi"
sembra essere: ovunque. Durante la Guerra del Golfo nel 1991, circa 300 missili cruise Tomahawk
furono lanciati in cinque settimane. Nel 2003, ne furono lanciati in un solo giorno più di 380. Tra il 20
marzo e il 2 maggio, le settimane di "combattimento intenso", l'esercito americano lanciò più di
trentamila bombe sull'Iraq, oltre a ventimila missili cruise radiocomandati ad alta precisione, il 67
per cento del totale dei missili di quel tipo mai fabbricati.
"Ho una tale paura" disse durante i bombardamenti Yasmine Musa, madre di tre figli. "Non passa un
minuto senza che cada una bomba da qualche parte. Non credo ci sia un solo metro sicuro in tutto l'Iraq."
Shock and Awe stava facendo il suo lavoro. In aperta sfida alle leggi che proibiscono le punizioni
collettive in tempo di guerra, la dottrina militare Shock and Awe si vanta di puntare non solo alle forze
militari del nemico, ma, come sottolineano gli autori, alla "società in senso lato": la paura di massa è
parte integrante della strategia.
Un altro elemento che distingue Shock and Awe è la sua chiara percezione della guerra come spettacolo
mediatico, da mostrare a pubblici diversi in contemporanea: il nemico, gli americani a casa e chiunque
altro abbia intenzioni bellicose. "Quando i risultati di questi attacchi sono trasmessi in diretta in tutto il
mondo dalla Cnn, l'impatto positivo sul sostegno alla coalizione e l'impatto negativo sul potenziale
sostegno alla minaccia può essere decisivo" afferma il manuale ufficiale di Shock and Awe
Nota: la Guerra del Golfo del 1991 è stata la prima guerra della Cnn, ma poiché l'idea di una copertura
mediatica in diretta ventiquattr'ore su ventiquattro era ancora agli albori, l'esercito all'epoca non l'aveva
ancora resa parte integrante del suo progetto bellico.
Fin dall'inizio, l'invasione fu concepita come un messaggio da Washington al mondo, messaggio inviato
nel linguaggio delle bombe, delle esplosioni assordanti e dei terremoti che sconquassano le città. Nella
Dottrina dell'1%, Ron Suskind spiega che per Rumsfeld e Cheney "l'impulso primario all'invasione
dell'Iraq" fu il desiderio di "creare un modello dimostrativo che guidasse le azioni di chiunque avesse la
temerarietà di acquisire armi distruttive, o di sfidare in qualsiasi altro modo l'autorità degli Stati Uniti".
Più che una strategia bellica, era "un esperimento globale di comportamentismo".
La guerra è sempre in parte una performance, ed è sempre una forma di comunicazione di massa, ma il
modo in cui Rumsfeld applicò le proprie conoscenze tecnologiche e mediatiche, acquisite nel mondo
finanziario, mise al centro della dottrina militare americana 'A marketing della paura.
Durante la Guerra fredda, la paura di un attacco nucleare era al centro della strategia di deterrenza, ma
l'idea era che i missili nucleari dovessero rimanere ben chiusi nei loro silos. Questo attacco era diverso:
la guerra di Rumsfeld avrebbe usato di tutto - tranne una bomba nucleare - per dare uno spettacolo
progettato per bombardare i sensi, giocare con le emozioni, esprimere messaggi durevoli, con obiettivi
scelti attentamente in virtù del loro valore simbolico e del loro impatto televisivo. In questo modo, la
teoria della guerra di Rumsfeld, parte del suo progetto di "trasformazione", aveva molto meno in comune
con le strategie militari "sul campo" dei generali che non facevano che rallentarlo, e molto più in comune
con i terroristi contro i quali Rumsfeld aveva dichiarato una guerra permanente. I terroristi non cercano di
vincere attraverso il confronto diretto; tentano di spezzare il morale di un popolo con dimostrazioni
spettacolari e telegeniche tali da mettere in risalto la vulnerabilità del nemico e la propria crudeltà. Era
questa la teoria alla base degli attacchi dell'11
settembre, ed era questa la teoria alla base dell'invasione dell'Iraq.
Shock and Awe è spesso presentata come una semplice strategia di supremazia nella potenza di fuoco, ma
gli autori della dottrina la vedono in termini molto più ampi: si tratta, sostengono, di un sofisticato
modello psicologico indirizzato "direttamente alla volontà pubblica di resistere dell'avversario". Gli
strumenti sono quelli resi familiari da un altro ramo del complesso militare americano: deprivazione e
sovraccarico sensoriale, destinati a indurre disorientamento e regressione. Riecheggiando i manuali di
interrogazione della Cia, Shock and Awe dichiara: "In termini più chiari, l'applicazione della dottrina di
Rapid Dominance (predominio rapido) garantirebbe il controllo dell'ambiente, e paralizzerebbe o
sovraccaricherebbe la percezione dell'avversario e la sua capacità di comprensione degli eventi".
L'obiettivo è "rendere l'avversario completamente impotente". Per far ciò si utilizzano strategie come "la
manipolazione in tempo reale dei sensi e degli input [...] letteralmente, accendere e spegnere le "luci" che
permettono a un potenziale aggressore di vedere e comprendere le condizioni e gli eventi relativi alle sue
forze e, in ultima analisi, alla sua società", oltre a "privare il nemico, in aree specifiche, dell'abilità di
comunicare e di osservare". L'Iraq fu sottoposto a questo esperimento di tortura di massa per mesi interi,
un processo iniziato ben prima che le bombe cominciassero a cadere.
Fear up: terrorizzare l'Iraq.
Quando il cittadino canadese Maher Arar fu catturato da agenti americani all'aeroporto JFK nel 2002 e
condotto in Siria, vittima di tina "consegna straordinaria", i suoi aguzzini usarono una tecnica di tortura
ben sperimentata. "Mi fecero sedere, e uno degli uomini cominciò a farmi domande. [...] Se non
rispondevo abbastanza in fretta, lui indicava una sedia di metallo nell'angolo della stanza e chiedeva:
"Vuoi che usi quella?" [...] Ero terrorizzato, e non volevo essere torturato.
Avrei detto qualsiasi cosa per evitare la tortura." La tecnica a cui Arar era sottoposto è nota come
"presentazione degli strumenti" o, nel gergo dei militari americani, Fear up, alimentare la paura. I
torturatori sanno che una delle armi più potenti a loro disposizione è l'immaginazione del prigioniero:
spesso, mostrare strumenti di tortura è più efficace che usarli.
Con l'avvicinarsi del giorno fissato per l'invasione dell'Iraq, il Pentagono incaricò i mass media
americani di "alimentare la paura" degli iracheni. "Lo chiamano A-Day" esordiva un servizio della Cbs
News trasmesso due mesi prima dell'inizio della guerra. "A come airstrikes [incursioni aeree]
così devastanti che lascerebbero i soldati di Saddam incapaci o riluttanti a combattere." Ai telespettatori
fu presentato Harlan Ullman, autore di Shock and Awe, il quale spiegò loro che "c'è questo effetto
simultaneo, simile alle armi nucleari di Hiroshima: non ci vogliono giorni o settimane, ma minuti". Il
conduttore, Dan Rather, concluse la trasmissione con un avvertimento: "Vi assicuriamo che questo
servizio non contiene informazioni che a giudizio del dipartimento della Difesa potrebbero agevolare
l'esercito iracheno". Avrebbe potuto spingersi oltre: il servizio, come tanti altri servizi giornalistici in
quel periodo, era parte integrante della strategia del dipartimento: fear up.
Gli iracheni, che vedevano i terrificanti servizi con parabole satellitari di contrabbando o ne ricevevano
notizia dalle telefonate dei parenti all'estero, passarono mesi a immaginare gli orrori di Shock and Have.
Il nome stesso divenne una potente arma psicologica. Sarebbe stato peggio che nel 1991? Se davvero gli
americani credevano che Saddam avesse le armi di distruzione di massa, avrebbero lanciato un attacco
nucleare?
Una settimana prima dell'invasione, giunse una risposta. Il Pentagono invitò la stampa americana alla
base aeronautica di Eglin, in Florida, per una dimostrazione del funzionamento del Moab, sigla che
ufficialmente sta per Massive Ordnance Air Blast (enorme ordigno a esplosione aeree), ma che tutti,
nell'esercito, chiamano Mother Of All Bombs (la madre di tutte le bombe). Con le sue 9,5
tonnellate di peso, è il più grande esplosivo non nucleare mai costruito, capace di creare, per dirla con
Jamie Mclntyre della Cnn, "una nuvola a forma di fungo alta tre chilometri che appare indistinguibile da
un'arma nucleare".''
Nel suo resoconto, Mclntyre disse che anche se non fosse mai stata usata, la sola esistenza della bomba
"avrebbe comunque potuto infliggere un duro colpo psicologico": un tacito riconoscimento del proprio
ruolo nell'infliggere quel colpo. Come prigionieri nelle celle di interrogatorio, agli iracheni venivano
mostrati gli strumenti. "L'obiettivo è quello di rendere così chiare ed evidenti le capacità della coalizione
da rendere un eventuale combattimento estremamente controproducente per l'esercito iracheno" spiegò
Rumsfeld nel corso della stessa trasmissione."
Quando la guerra ebbe inizio, gli abitanti di Baghdad furono sottoposti a deprivazione sensoriale su scala
collettiva. Uno dopo l'altro, gli input sensoriali della città furono recisi: le prime ad andarsene furono le
orecchie.
Nella notte del 28 marzo 2003, mentre le truppe americane si avvicinavano a Baghdad, il ministero delle
Comunicazioni fu bombardato e incendiato, come anche quattro centrali telefoniche di Baghdad, con
bombe bunker-buster capaci di penetrare il cemento armato: migliaia di linee telefoniche in tutta la città
furono tagliate. l'offensiva contro le centrali telefoniche - dodici in tutto continuò finché, il 2 aprile, non c'era praticamente più alcun telefono funzionante in tutta Baghdad.
Nota: la motivazione ufficiale per il completo annichilimento della rete telefonica di Baghdad fu la
necessità di impedire a Saddam di comunicare con il suo commando d'élite. Ma dopo la guerra, gli
americani condussero molte "interviste" a prigionieri iracheni di alto livello e scoprirono che per anni
Saddam, convinto che le spie potessero rintracciarlo attraverso le telefonate, aveva usato un telefono solo
due volte in tredici anni. Come al solito, non erano necessarie informazioni attendibili; ci sarebbero stati
molti soldi a disposizione della Bechtel per costruire una nuova rete di telecomunicazioni.
Durante lo stesso attacco, furono colpiti anche i trasmettitori radiotelevisivi, impedendo così alle
famiglie di Baghdad, che erano rifugiate in casa, di ricevere anche il più remoto segnale che portasse
notizie di cosa stava succedendo fuori dalle loro abitazioni.
Molti iracheni dicono che la distruzione della loro rete telefonica fu la parte più snervante dell'attacco
aereo, dal punto di vista psicologico. Sentir esplodere bombe da ogni parte, e percepire le vibrazioni
della deflagrazione, e non poter telefonare ai propri cari, neanche a pochi isolati di distanza, per
accertarsi che fossero vivi, né poter rassicurare i parenti terrorizzati che vivevano all'estero, era un
tormento senza fine. I giornalisti presenti a Baghdad furono presi d'assalto dagli abitanti che chiedevano
di poter usare per pochi secondi i loro telefoni satellitari, o che mettevano in mano ai reporter bigliettini
con numeri di telefono pregando di chiamare un fratello o uno zio a Londra o a Baltimora. "Gli dica che
va tutto bene. Gli dica che suo padre e sua madre stanno bene.
Lo saluti. Gli dica di non preoccuparsi per noi." A quel punto la maggior parte delle farmacie di Baghdad
aveva esaurito le scorte di sonniferi e antidepressivi, e in città non era rimasta una sola confezione di
Valium.
Poi se ne andarono gli occhi. "Non si udirono esplosioni, nulla sembrò cambiare nei bombardamenti del
tardo pomeriggio, ma in un istante, un'intera città di 5 milioni di persone piombò in una notte terribile e
infinita" scrisse il "Guardian" il 4 aprile. Il buio "era rischiarato solo dai fari delle auto di passaggio".
Intrappolati nelle loro case, gli abitanti di Baghdad non riuscivano a comunicare, sentirsi l'un l'altro o
guardare cosa succedeva fuori. Come un prigioniero diretto a un carcere segreto della Cia, l'intera città fu
ammanettata e incappucciata. E poi fu spogliata.
Oggetti di conforto.
Durante gli interrogatori dei nemici, la prima fase del processo di annientamento della volontà è
strappare ai prigionieri i loro abiti e qualsiasi oggetto che abbia il potere di evocare un senso di identità:
i cosiddetti "oggetti di conforto". Spesso, oggetti che hanno un valore particolare per un prigioniero,
come una copia del Corano o la fotografia di una persona cara, sono trattati con aperto disprezzo. Il
messaggio è: "Tu non sei nessuno, tu sei ciò che noi vogliamo tu sia", l'essenza della disumanizzazione.
Gli iracheni hanno subito collettivamente questo processo di disfacimento, mentre vedevano profanate le
loro istituzioni più importanti, la loro storia caricata su un camion e fatta sparire. I bombardamenti
danneggiarono pesantemente l'Iraq, ma fu lo sciacallaggio, ignorato dalle truppe di occupazione, a
cancellare davvero il cuore del Paese.
"Le centinaia di saccheggiatori che hanno fatto a pezzi ceramiche antiche, svuotato vetrine e intascato oro
e altri oggetti antichi dal Museo nazionale iracheno si sono portati via testimonianze della prima società
umana" riferì il "Los Angeles Times". "[...] Sono spariti l'80 per cento dei 170.000 inestimabili oggetti
custoditi nel museo." La biblioteca nazionale, che conteneva copie di ogni libro e tesi di dottorato mai
pubblicate in Iraq, era una rovina carbonizzata. Corani miniati vecchi di mille anni erano spariti dal
ministero degli Affari religiosi, di cui rimaneva solo uno scheletro bruciato. "Il nostro patrimonio storico
nazionale è perduto" proclamò un insegnante liceale di Baghdad. Un negoziante del luogo disse che il
museo "era l'anima dell'Iraq. Se il museo non recupera i tesori trafugati, sentirò che una parte della mia
anima è stata rubata". McGuire Gibson, archeologo dell'Università di Chicago, la definì "qualcosa di
molto simile a una lobotomia.
La memoria profonda di un'intera cultura, una cultura che dura da migliaia di anni, è stata rimossa".
Grazie soprattutto agli sforzi dei religiosi che organizzarono missioni di salvataggio durante lo
sciacallaggio, una parte degli oggetti fu recuperata. Ma molti iracheni erano, e sono ancora, convinti che
la lobotomia mnemonica fosse intenzionale: che fosse parte del progetto di Washington di fare a pezzi la
nazione forte e radicata che c'era prima e sostituirla con il loro modello. "Baghdad è la madre della
cultura araba" disse il settantenne Ahmed Abdullah al "Washington Post"; "e loro vogliono spazzar via la
nostra cultura".
Come gli architetti della guerra erano ansiosi di far notare, gli atti di sciacallaggio furono compiuti da
iracheni, non dalle truppe straniere. Ed è vero che Rumsfeld non aveva progettato il saccheggio dell'Iraq,
ma è anche vero che non prese misure per impedire che accadesse, o per porvi fine. Questi sono
fallimenti che non possono essere liquidati come semplici negligenze.
Durante la Guerra del Golfo nel 1991, tredici musei iracheni furono oggetto di sciacallaggio, dunque
c'era ogni ragione di credere che la povertà, la rabbia nei confronti del vecchio regime e la generale
atmosfera di caos avrebbero spinto qualche iracheno a rispondere allo stesso modo (soprattutto dal
momento che Saddam aveva svuotato le prigioni qualche mese prima). Il Pentagono era stato avvertito da
importanti archeologi che c'era bisogno di una strategia a prova di bomba per proteggere musei e
biblioteche prima di ogni attacco, e il 26 marzo un memorandum dal Pentagono al comando della
coalizione enumerava, "in ordine di importanza, 16 siti che era vitale proteggere a Baghdad", Secondo
nella lista era il museo. Altri avvertimenti esortavano Rumsfeld a inviare un contingente di polizia
internazionale con le truppe, per mantenere l'ordine pubblico: altro suggerimento ignorato.
Anche senza polizia, però, c'erano abbastanza soldati a Baghdad perché qualcuno di loro potesse essere
dislocato nei siti di interesse culturale; ma così non fu. Ci sono numerosi resoconti di soldati americani
che restavano a guardare, a fianco dei loro automezzi blindati, mentre camion pieni di refurtiva
passavano davanti a loro: un ottimo esempio dell'indifferenza ("sono cose che capitano") dimostrata da
Rumsfeld. Alcune unità si incaricarono di fermare lo sciacallaggio, ma in altri casi i soldati si unirono ai
saccheggiatori. L'aeroporto internazionale di Baghdad fu messo a soqquadro da un gruppo di soldati che,
secondo il "Time", ruppero i mobili e poi si dedicarono ai jet sulla pista:
"Soldati americani in cerca di sedili più confortevoli e souvenir hanno strappato via pezzi
dell'arredamento degli aerei, tagliato i rivestimenti dei sedili, danneggiato l'equipaggiamento della cabina
di pilotaggio e rimosso tutti i finestrini". Il risultato fu un danno stimato in 100 milioni di dollari alle
linee aeree irachene: una delle prime aziende a essere messe all'asta in una privatizzazione parziale,
immediata e controversa.
In seguito, due uomini che hanno svolto un ruolo cruciale nell'occupazione hanno spiegato in parte il
motivo di questo scarso interesse ufficiale a fermare lo sciacallaggio: si tratta di Peter McPherson,
consulente economico di Paul Bremer, e di John Agresto, direttore della ricostruzione dell'istruzione
superiore. McPherson disse che vedere gli iracheni appropriarsi dei beni dello Stato - automobili,
autobus, attrezzatura dei ministeri - non gli dava fastidio. Il suo lavoro, in quanto principale
shockterapeuta dell'Iraq, era di ridurre drasticamente le prerogative dello Stato e privatizzare le sue
risorse, per cui gli sciacalli in realtà gli stavano dando una mano. "Pensavo che la privatizzazione che
avviene in un certo senso naturalmente, quando qualcuno si appropria di un veicolo di proprietà dello
Stato, o comincia a guidare un camion che era dello Stato, fosse una buona cosa", disse. Vecchio
burocrate dell'amministrazione Reagan e fermamente convinto della bontà della teoria economica della
Scuola di Chicago, McPherson definì il saccheggio una forma di
"contrazione" del settore pubblico."
Nota: è una versione dei fatti che getta nuova luce sul fatto che la Halliburton abbia defraudato i
contribuenti Usa e che il Pentagono l'abbia lasciata fare: forse il dipartimento della Difesa vedeva i
milioni mancanti non come furto ma come contrazione, facente parte della campagna per alleggerire il
governo e gonfiare il business. Fine nota.
Anche il suo collega John Agresto vedeva i risvolti positivi dello sciacallaggio che guardava in tv.
Concepiva il suo incarico "un'avventura che non si ripeterà mai più" - come il rifacimento totale del
sistema educativo iracheno. In quel contesto, il saccheggio delle università e del ministero
dell'Educazione era, spiegò, "un'opportunità per ricominciare da capo", un'occasione per dare alle scuole
irachene "le migliori attrezzature moderne". Se la missione era "creare una nazione", come molti
evidentemente credevano che fosse, allora tutto ciò che restava del vecchio Paese sarebbe stato solo
d'intralcio. Agresto era l'ex presidente del St. John College nel New Mexico, un istituto specializzato in
un curriculum sui grandi classici. Spiegò che, pur non sapendo nulla dell'Iraq, aveva evitato di leggere
libri su quel Paese prima del suo viaggio, per poter arrivare "con la mente più aperta possibile". Come le
scuole irachene. Agresto sarebbe stato una tabula rasa.
Se Agresto avesse letto qualche libro, forse ci avrebbe pensato due volte prima di dire che bisognava
cancellare tutto e ricominciare da capo. Avrebbe potuto apprendere, per esempio, che prima che le
sanzioni strangolassero l'Iraq, quel Paese aveva il miglior sistema educativo del Medioriente, con i più
alti tassi di alfabetizzazione del mondo arabo: nel 1985, l'89 per cento degli iracheni sapevano leggere e
scrivere. Nel New Mexico, invece lo Stato di provenienza di Agresto -, il 46 per cento della popolazione
è di fatto analfabeta, e il 20 per cento è incapace "di compiere semplici operazioni matematiche per
calcolare il totale di uno scontrino". Eppure Agresto era così convinto della superiorità dei sistemi
americani che sembrava incapace di considerare la possibilità che gli iracheni potessero voler
salvaguardare e proteggere la loro cultura e potessero percepire la sua distruzione come una perdita
dolorosa.
Quando Agresto fallì miseramente nel compito di ricostruire il sistema universitario iracheno, e lasciò il
Paese senza aver portato a termine il lavoro, dovette rivedere il suo antico entusiasmo per lo
sciacallaggio, descrivendosi come "un neoconservatore che è stato scippato dalla realtà". Questo e altri
dettagli provengono dal libro di Rajiv Chandrasekaran, Imperial Life in the Emerald City, un vivido
ritratto della Zona verde.
Questa cecità neocolonialista è un tema ricorrente nella Guerra al Terrore. Nella prigione di
Guantanamo, gestita dagli Stati Uniti, c'è una stanza nota come "la capanna dell'amore". I detenuti sono
condotti lì quando i loro carcerieri hanno stabilito che non sono combattenti nemici e verranno presto
rilasciati. Nella capanna dell'amore, i prigionieri possono vedere film holliwoodiani e abbuffarsi con
cibo spazzatura americano. Asif Iqbal, uno dei tre detenuti britannici noti come i Tipton Three, potè
visitare la capanna varie volte, prima che lui e i suoi due amici fossero finalmente mandati a casa.
"Potevamo guardare dvd, mangiare roba di McDonalds e Pizza Hut, in pratica potevamo rilassarci. Non
eravamo ammanettati in quell'area [...] Non avevamo idea del perché ci trattassero così. Per il resto della
settimana ci riportavano nelle gabbie, come al solito. [...]
Una volta Lesley [un funzionario dell'Fbi] ci portò delle patatine Pringles, gelato e cioccolata, era
l'ultima domenica prima che tornassimo in Inghilterra." Il suo amico Rhuhel Ahmed ipotizzò che il
trattamento speciale "fosse dovuto al fatto che loro sapevano di averci trattati in modo indecente, e
torturati per due anni e mezzo, e speravano che ce ne saremmo dimenticati".
Ahmed e Iqbal erano stati catturati dall'Alleanza del Nord mentre erano in visita in Afghanistan per un
matrimonio. Erano stati brutalmente picchiati, erano state iniettate nelle loro vene droghe sconosciute,
erano stati messi in posizioni di stress per ore, sottoposti a privazione del sonno, rasati a forza e non
avevano goduto di alcun diritto legale per ventinove mesi.'' Eppure si pensava che avrebbero
"dimenticato tutto" di fronte aU'irresistibile fascino delle Pringles. Era questo il piano.
E difficile da credere; ma d'altronde, era questo il progetto di Washington per l'Iraq: scioccare e
terrorizzare l'intero Paese, ridurre in rovina le sue infrastrutture, restare con le mani in mano mentre la
sua cultura e la sua storia venivano saccheggiate, e poi rimettere tutto a posto con una scorta illimitata di
elettrodomestici a basso costo e cibo da fast food d'importazione. In Iraq, questo ciclo di cancellazione e
rimpiazzo di culture non era teorico: tutto si svolse nel giro di poche settimane.
Paul Bremer, nominato da Bush direttore dell'autorità di occupazione in Iraq, ammette che quando arrivò
per la prima volta a Baghdad, lo sciacallaggio era ancora diffuso, e l'ordine era ben lungi dall'essere
ripristinato. "Baghdad andava a fuoco, letteralmente, mentre arrivavo in macchina dall'aeroporto. [...]
Non c'era traffico nelle strade; non c'era corrente elettrica da nessuna parte; non si estraeva petrolio; non
c'era attività economica; non c'era un solo poliziotto in servizio." Eppure, la sua soluzione alla crisi era
di aprire immediatamente le frontiere irachene alle importazioni, senza alcuna restrizione: niente tariffe,
niente imposte, niente ispezioni, niente tasse. L'Iraq, dichiarò Bremer due settimane dopo il suo arrivo,
era "pronto a ricevere clienti". Da un giorno all'altro l'Iraq, che era uno dei Paesi più isolati al mondo,
tagliato fuori da ogni scambio commerciale a causa di severe sanzioni dell'Onu, divenne il mercato più
aperto di tutti.
Mentre i camion pieni di refurtiva erano portati dai compratori in Giordania, Siria e Iran, incrociavano
convogli che venivano dalla direzione opposta: camion pieni di televisori cinesi, dvd hollywoodiani e
antenne satellitari giordane, pronti per essere scaricati sui marciapiedi del distretto di Karada, a
Baghdad. Mentre una cultura veniva bruciata e smembrata, un'altra si rovesciava dentro, preconfezionata,
per rimpiazzarla.
Una delle società americane che attendevano di fungere da varco per l'esperimento di capitalismo di
frontiera era la New Bridge Strategies, fondata da Joe Allbaugh, l'ex capo della Fema sotto Bush.
Promise di usare i propri contatti nell'alta politica per aiutare le multinazionali americane a spartirsi il
bottino in Iraq. "Ottenere i diritti di distribuzione dei prodotti della Procter&Gamble sarebbe una miniera
d'oro" si entusiasmò uno dei soci della New Bridge. "Un supermercato ben fornito potrebbe far chiudere
trenta negozi iracheni; un Wal-Mart potrebbe conquistare il Paese".
Come i prigionieri nella capanna dell'amore a Guantanamo, tutto l'Iraq stava per essere comprato con le
Pringles e la cultura pop: o, almeno, questa era l'idea di Bush di un piano postbellico.
17.
Ritorno di fiamma ideologico.
Un disastro molto capitalista.
Il mondo è un posto incasinato, e qualcuno deve rimetterlo a posto.
Condoleezza Rice, settembre 2002, sulla necessità di invadere l'Iraq.
La capacità di Bush di immaginare un Medioriente diverso potrebbe essere legata alla sua relativa
ignoranza sulla regione. Se avesse viaggiato in Medioriente, se avesse visto i suoi tanti problemi, si
sarebbe potuto scoraggiare. Non dovendo osservare le realtà quotidiane, Bush ha mantenuto intatto il
suo ideale di come la regione sarebbe potuta essere.
Fareed Zakaria, editorialista di "Newsweek".
E Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: "Scrivi, perché
queste parole sono certe e veraci".
Apocalisse.
La guerra in Iraq prosegue a intensità contenuta da così tanto tempo che è facile dimenticare il progetto
originario di come sarebbe dovuta andare a finire. Ma c'era un ideale, ben riassunto in una conferenza
tenuta dal dipartimento di Stato americano a Baghdad nei primi mesi dell'occupazione.
All'incontro parteciparono quattordici uomini politici e burocrati di alto livello provenienti dalla Russia
e dall'Europa dell'Est: un assortimento di ministri delle Finanze, presidenti di banche centrali ed ex vice
primi ministri. Atterrarono tutti all'aeroporto internazionale di Baghdad nelsettembre 2003, equipaggiati
con elmetti da combattimento e giubbotti antiproiettile, e furono portati in gran fretta nella Zona verde, la
cittadella fortificata all'interno della capitale che ospitava il governo iracheno guidato dagli americani, la
epa (Autorità provvisoria della coalizione), e che ora ospita l'ambasciata Usa. Nell'ex centro congressi
di Saddam, gli invitati vip diedero lezioni di trasformazione capitalistica a un ristretto gruppo di iracheni
influenti.
Uno dei relatori più importanti era Marek Belka, l'ex ministro delle Finanze della destra polacca, che
aveva lavorato per diversi mesi in Iraq con Bremer. Secondo un rapporto ufficiale del dipartimento di
Stato su questa riunione, Belka disse ripetutamente agli iracheni che dovevano approfittare di questo
momento di caos e spingere "con forza" per l'approvazione di politiche che
"avrebbero privato molte persone del loro posto di lavoro". La prima lezione dalla Polonia, disse Belka,
era che "le imprese statali improduttive dovrebbero essere vendute immediatamente, senza tentare di
salvarle con fondi pubblici". (Omise di segnalare che la pressione popolare aveva costretto Solidarnosc
ad abbandonare i suoi progetti di rapida privatizzazione, salvando la Polonia da una crisi analoga a
quella russa.) La seconda lezione era ancor più ardita. Erano trascorsi cinque mesi dalla caduta di
Baghdad, e l'Iraq era in piena emergenza umanitaria. La disoccupazione era al 67 per cento, la
malnutrizione era diffusa e l'unica cosa che impediva una carestia era il fatto che le famiglie irachene
ricevevano ancora cibo e altri beni di prima necessità dal governo, come era accaduto durante il
programma oil-for-food delle Nazioni Unite nel periodo delle sanzioni. Gli iracheni potevano anche
riempire i serbatoi delle loro auto per pochi spiccioli, quando la benzina era disponibile. Belka disse
loro che queste regalie distorcevano il mercato e occorreva porvi fine immediatamente. "Sviluppate il
settore privato, iniziando con l'eliminazione dei sussidi." Sottolineò che queste misure erano "molto più
importanti e foriere di dissenso rispetto alla privatizzazione".
Il relatore successivo fu non altri che Yegor Gaidar, l'ex vice primo ministro di Eltsin, considerato
l'artefice della shockterapia in Russia. Invitando Gaidar a Baghdad, il dipartimento di Stato sembrava
pensare che gli iracheni non sapessero che a Mosca era considerato un paria, macchiato dai suoi stretti
legami con gli oligarchi e da politiche che avevano ridotto in povertà decine di milioni di russi.
Nota: molti dei protagonisti dell'invasione e occupazione dell'Iraq erano veterani dell'originaria squadra
che a Washington aveva preteso l'applicazione della shockterapia in Russia: Dick Cheney era segretario
della Difesa quando George Bush Sr. delineò la sua politica per la Russia post-sovietica, e Paul
Wolfowitz era il vice di Cheney, mentre Condoleèzza Rice era consulente capo dell'amministrazione
Bush Sr. sulla transizione russa. Per tutte queste figure di spicco, e dozzine di comprimari minori,
l'esperienza della Russia negli anni Novanta, malgrado i pessimi risultati per la gente comune, era spesso
presentata, senza traccia di ironia, come il modello che l'Iraq avrebbe dovuto imitare per la propria
transizione.
Se era vero che sotto Saddam gli iracheni avevano accesso limitato alle notizie dall'estero, i partecipanti
alla conferenza nella Zona verde erano in gran parte ex esuli rientrati in patria di recente; negli anni
Novanta, mentre la Russia implodeva, loro leggevano l'"International Herald Tribune".
Fu Mohamad Tofiq, il ministro dell'Industria ad interim, a raccontarmi di questa strana conferenza, di cui
all'epoca non si parlò sulla stampa. Mesi dopo, quando lo incontrai nel suo ufficio provvisorio a
Baghdad (il vecchio ministero era uno scheletro carbonizzato), Tofiq ne stava ancora ridendo. Mi disse
che gli iracheni avevano stroncato i visitatori in giubbotto antiproiettile, avvertendoli che la decisione di
Paul Bremer di spalancare le frontiere alle importazioni illimitate aveva già drammaticamente peggiorato
le vite di una popolazione funestata dalla guerra: se si fosse spinto oltre, tagliando i sussidi per la
benzina ed eliminando gli aiuti in generi alimentari, le forze di occupazione avrebbero dovuto affrontare
una vera e propria rivoluzione. Quanto all'ospite d'onore, Tofiq disse: "Ho spiegato ad alcuni degli
organizzatori della conferenza che, se avessi voluto incoraggiare le privatizzazioni in Iraq, avrei portato
Gaidar perché dicesse loro: Fate esattamente il contrario di quello che abbiamo fatto noi".
Quando Bremer iniziò a emanare decreti legge a Baghdad, Joseph Stiglitz, l'ex economista capo della
Banca mondiale, avvertì che l'Iraq stava subendo "una forma di shockterapia ancor più radicale di quella
implementata nell'ex mondo sovietico". Era proprio vero. Nelle intenzioni originarie di Washington,
l'Iraq sarebbe dovuto diventare una frontiera, proprio come lo era stata la Russia nei primi anni Novanta,
ma stavolta sarebbero state le aziende americane - non quelle locali o europee, russe o cinesi le prime
nella fila per fare miliardi facili. E niente avrebbe dissuaso dall'apportare mutamenti anche dolorosi
nell'economia, perché a differenza dell'ex Unione Sovietica, o dell'America Latina o dell'Africa, la
trasformazione non avrebbe comportato una complicata coreografia di danza tra i funzionari del Fmi e gli
idealisti politici locali, mentre il dipartimento del Tesoro americano dirigeva il tutto dalla sua suite in
fondo al corridoio. In Iraq, Washington faceva a meno degli intermediari: il Fmi e la Banca mondiale
furono relegati a ruoli di supporto, mentre l'America saliva alla ribalta. Paul Bremer era il governo; come
un ufficiale d'alto rango dell'esercito americano disse alla Associated Press che non c'era motivo di
negoziare con il governo locale, perché "a questo punto sarebbe come negoziare con noi stessi".
Questa dinamica differenzia la trasformazione economica dell'Iraq dagli altri laboratori. Tutti gli sforzi
compiuti negli anni Novanta per presentare il "libero scambio" come qualcosa di diverso da un progetto
imperialista furono abbandonati. Altrove, ci sarebbe ancora stato il "libero scambio in versione leggera",
con le sue proficue negoziazioni, ma ora ci sarebbe stato anche il "libero scambio in versione pesante",
senza procure né intermediari, pronto a mettere le mani su nuovi mercati direttamente per le
multinazionali occidentali sui campi di battaglia delle guerre preventive.
I sostenitori della "teoria modello" oggi affermano che fu allora che la guerra iniziò a mettersi molto
male: come disse Richard Perle alla fine del 2006, "l'errore originario" fu "coinvolgere Bremer".
David Frum si disse d'accordo, aggiungendo che avrebbero dovuto collaborare con "qualche faccia
irachena" nella ricostruzione del Paese, fin da subito. Invece chiamarono Bremer, il quale, insediatosi nel
Palazzo repubblicano di Saddam, dalla cupola turchese, riceveva via email dal dipartimento della Difesa
le leggi sul commercio e gli investimenti, le stampava, le firmava e le imponeva dall'alto al popolo
iracheno. Bremer non era un americano silenzioso, che manovrava e manipolava dietro le quinte. Con il
suo aspetto da divo del cinema e il suo amore per le troupe televisive, sembrava deciso a ostentare il suo
potere assoluto sull'Iraq, attraversando il Paese in un vistoso elicottero Blackhawk fiancheggiato da
guardie della sicurezza privata della Blackwater, e sempre nella sua uniforme d'ordinanza: completi
Brooks Brothers impeccabilmente stirati e stivaletti Timberland beige. Gli stivali erano un regalo di suo
figlio, in occasione del viaggio a Baghdad: "Vai lì e falli neri, papà" diceva il biglietto.
Per sua stessa ammissione, Bremer sapeva ben poco dell'Iraq ("Avevo vissuto in Afghanistan", disse a un
intervistatore). Questa
ignoranza però contava poco, perché se c'era una cosa di cui Bremer era esperto, era la missione
fondamentale da compiere in Iraq: il capitalismo dei disastri.
L'11 settembre 2001, Bremer lavorava come direttore esecutivo e "consulente politico senior" al gigante
delle assicurazioni Marsh & McLennan. Gli uffici della società erano nella Torre Nord del World Trade
Center, e furono devastati dagli attacchi. Nei primi giorni, 700 dipendenti risultavano dispersi; alla fine,
295 di loro furono dichiarati morti. Esattamente un mese dopo, l'11 ottobre, Paul Bremer lanciò la Crisis
Consulting Practice, una nuova divisione della Marsh specializzata nell'aiutare le multinazionali a
prepararsi a possibili attacchi terroristici e altre crisi. Facendo pubblicità alla sua esperienza come
ambasciatore mondiale dell'antiterrorismo sotto l'amministrazione Reagan, Bremer e la sua società
offrivano ai clienti servizi completi di antiterrorismo, dall'assicurazione per i rischi politici alle
pubbliche relazioni, e addirittura consigli sui generi merceologici di cui fare scorta.
Il ruolo di primo piano svolto da Bremer nell'industria della sicurezza interna costituiva un
addestramento utilissimo in vista dell'Iraq. Infatti, per ricostruire l'Iraq Bush usò la stessa formula che
aveva utilizzato per reagire all'11 settembre: decise di trattare l'Iraq del dopoguerra come se fosse
un'eccitante offerta pubblica iniziale, colma di promesse di rapido e incessante profitto.
Bremer può aver pestato molti piedi, ma la sua missione non è mai stata quella di conquistare i cuori e le
menti degli iracheni. Piuttosto, la missione era preparare il Paese per il lancio dell'Iraq S.p.A. Viste in
quest'ottica, le precedenti e criticate decisioni assumono una perfetta coerenza logica.
Dopo aver rimpiazzato il titubante generale Jay Garner come inviato americano, Bremer passò i suoi
primi quattro mesi in Iraq concentrandosi quasi esclusivamente sulla trasformazione economica,
approvando una serie di leggi che, nel loro insieme, costituiscono un classico programma di shockterapia
della Scuola di Chicago. Prima dell'invasione, l'economia irachena era tenuta insieme dalla compagnia
petrolifera nazionale e da duecento aziende statali, che producevano i generi alimentari più consumati
dagli iracheni e le materie prime dell'industria, dal cemento alla carta all'olio da cucina. Un mese dopo il
suo arrivo, Bremer annunciò che le duecento aziende sarebbero state privatizzate immediatamente.
"Portare in mani private le inefficienti imprese statali"
disse "è essenziale per il recupero dell'economia irachena.".
Poi fu la volta delle nuove leggi sull'economia. Per invogliare gli investitori stranieri a partecipare
all'asta per le privatizzazioni, e a costruire nuove fabbriche e negozi in Iraq, Bremer studiò un pacchetto
di leggi radicali, elogiate dall'"Economist" come "la risposta a tutti i sogni degli investitori stranieri e
delle organizzazioni benefiche per i mercati in via di sviluppo". Una di queste leggi abbassava le imposte
societarie da circa il 45 per cento a un 15 per cento fisso (come da manuale del friedmanismo). Un'altra
consentiva alle aziende straniere di possedere il 100 per cento delle risorse irachene: scongiurando così
la ripetizione di quanto avvenuto in Russia, dove a guadagnare di più erano stati gli oligarchi locali.
Ancora meglio, gli investitori potevano portar fuori dall'Iraq il 100 per cento dei profitti ottenuti; non
erano obbligati a reinvestire, e non pagavano tasse. Il decreto stipulava anche che gli investitori potevano
firmare locazioni e contratti della durata di quarant'anni rinnovabili, il che significava che i futuri governi
eletti sarebbero stati vincolati a contratti firmati dai loro occupanti. L'unica area in cui Washington si
trattenne fu il petrolio: i consulenti iracheni avvertirono che qualsiasi tentativo di privatizzare la
compagnia petrolifera statale, o di rivendicare diritti sulle riserve non sfruttate, prima della formazione
di un governo iracheno sarebbe stato considerato un atto di guerra. Ma l'autorità per l'occupazione si
impossessò comunque di 20 miliardi di dollari di profitti della compagnia petrolifera irachena, da
spendere a proprio piacimento."
Nota: di questi 20 miliardi, circa 8,8 sono chiamati "i miliardi scomparsi dall'Iraq", essendo svaniti nei
ministeri iracheni controllati dagli Usa nel 2004, senza quasi lasciare traccia. Bremer difese questa grave
negligenza di fronte a un comitato congressuale nel febbraio 2007, dicendo: "La nostra priorità era
smuovere l'economia. Il primo passo era mettere soldi nelle mani del popolo iracheno il prima
possibile". Quando al consulente finanziario di Bremer, l'ammiraglio in pensione David Oliver, fu
chiesto dal comitato di questi miliardi scomparsi, rispose: "Sì, capisco. Be', che differenza fa?".
La Casa Bianca era così decisa a dare alla luce una nuova economia irachena che nei primi giorni
dell'occupazione deliberò di lanciare una nuova valuta: un impegno logistico massiccio. La società
britannica De La Rue si occupò della stampa, e le banconote furono consegnate in flotte di aeroplani e
distribuite con veicoli e camion corazzati che fecero almeno mille viaggi nel Paese: tutto ciò in un
periodo nel quale il 50 per cento della popolazione non aveva acqua potabile, i semafori non
funzionavano e il crimine era in continua crescita.
Anche se fu Bremer a implementare questi piani, la definizione delle priorità veniva direttamente dal
vertice. Testimoniando di fronte a un comitato del Senato, Rumsfeld disse che le "radicali riforme" di
Bremer avevano creato "alcune fra le leggi fiscali e sugli investimenti più illuminate - e invitanti dell'intero mondo libero". All'inizio gli investitori sembrarono apprezzare lo sforzo. Nel giro di qualche
mese si parlò di aprire un McDonalds nel centro di Baghdad - il simbolo per eccellenza dell'ingresso
dell'Iraq nell'economia globale -, erano quasi pronti i fondi per un albergo di lusso col marchio
Starwood, e la General Motors progettava di costruire una catena di montaggio per automobili. Dal lato
finanziario, la Hsbc, banca internazionale con sede a Londra, ottenne un contratto per aprire filiali in tutto
l'Iraq, mentre la Citigroup annunciò di voler offrire prestiti considerevoli garantiti contro le future
vendite di petrolio iracheno. I giganti del petrolio - Royal Dutch/Shell, Bp, ExxonMobil, Chevron e la
russa Lukoil - fecero timidi approcci, firmando accordi per l'addestramento di funzionari civili iracheni
nelle più avanzate tecniche di estrazione e modelli di management, fiduciosi che il momento giusto
sarebbe presto arrivato.
Le leggi di Bremer, progettate per creare le condizioni per stimolare gli investimenti, non erano
esattamente originali: erano solo una versione accelerata di quanto era stato fatto in precedenti
esperimenti di shockterapia. Ma i ministri di Bush, votati al capitalismo dei disastri, non si
accontentavano di attendere che le leggi entrassero in vigore. Il punto su cui l'esperimento iracheno si
rivelava profondamente innovativo era il fatto che esso trasformava l'invasione, l'occupazione e la
ricostruzione in un nuovo mercato, effervescente e interamente privatizzato. Questo mercato fu creato
(esattamente come l'industria della sicurezza interna) con un enorme dispendio di denaro pubblico. Per la
sola ricostruzione, il boom iniziò con 38 miliardi di dollari dal Congresso americano, 15 miliardi da altri
Paesi e 20 miliardi provenienti direttamente dalle riserve petrolifere dell'Iraq."
Quando i primi miliardi furono annunciati, vi furono, inevitabilmente, paragoni favorevoli con il Piano
Marshall. Bush accolse con favore i parallelismi, definendo la ricostruzione "il più grande impegno
finanziario del suo genere dai tempi del Piano Marshall", e affermando in tv nei primi mesi
dell'occupazione che "l'America ha già fatto questo tipo di lavoro prima d'ora. In seguito alla Seconda
guerra mondiale, abbiamo risollevato le nazioni sconfitte, Giappone e Germania, e le abbiamo aiutate a
costruire governi rappresentativi".
Ciò che accadde ai miliardi destinati alla ricostruzione dell'Iraq, tuttavia, non era in alcun modo
collegato alla storia evocata da Bush. Nell'ambito dell'originario Piano Marshall, le aziende americane
traevano profitto dall'invio in Europa di attrezzature e cibo, ma l'obiettivo esplicito era aiutare le
economie messe in ginocchio dalla guerra a ridiventare mercati autosufficienti, creando posti di lavoro a
livello locale e sviluppando basi impositive in grado di finanziare i servizi sociali: i cui risultati sono
evidenti nelle economie miste della Germania e del Giappone di oggi.
Il governo Bush aveva di fatto lanciato un anti-Piano Marshall, il suo opposto speculare in ogni aspetto.
Era un piano che dal principio non poteva che indebolire ulteriormente il già fragile settore industriale
iracheno, e far impennare il tasso di disoccupazione. Se il piano implementato dopo la Seconda guerra
mondiale aveva proibito alle aziende straniere di investire, per evitare la percezione che stessero traendo
vantaggio dall'indebolimento di altri Paesi, questo progetto faceva il possibile per corteggiare le aziende
americane (con qualche contentino anche alle aziende di Paesi che si erano uniti alla "Coalizione dei
volenterosi"). Fu questo furto di fondi destinati alla ricostruzione dell'Iraq, e sottratti agli iracheni,
giustificato con pregiudizi immotivati e razzisti sulla superiorità degli Stati Uniti e l'inferiorità dell'Iraq e non solo i generici mali della "corruzione" e dell'"inefficienza" a segnare fin dall'inizio la sconfitta del
progetto.
Quel denaro non andò alle fabbriche irachene, perché potessero riaprire e dar vita a un'economia
sostenibile, creare posti di lavoro e finanziare la previdenza sociale. Gli iracheni non ebbero
praticamente alcun ruolo in questo progetto: gli appalti concessi dal governo federale americano, per la
maggior parte dall'Usaid, commissionarono una sorta di Paese preconfezionato, progettato in Virginia e in
Texas, da assemblare in Iraq. Come ripetevano le autorità di occupazione, si trattava di
"un dono dal popolo degli Stati Uniti al popolo dell'Iraq": gli iracheni dovevano solo scartare il pacco
regalo. Per assemblare il nuovo Stato non fu richiesta neppure la manodopera irachena a basso costo,
dato che i principali appaltatori americani come Halliburton, Bechtel e il gigante californiano
dell'ingegneria Parsons preferirono importare lavoratori stranieri, che sapevano di poter controllare.
Ancora una volta, gli iracheni furono spettatori passivi e intimoriti: intimoriti prima dalla tecnologia
militare americana, poi dalla sua potenza ingegneristica e di marketing.
Come nell'industria della sicurezza interna, il ruolo dei dipendenti governativi - anche di quelli americani
- fu ridotto all'osso. Lo staff di Bremer ammontava ad appena 1500 persone, per governare un grande
Paese con 25 milioni di abitanti. In confronto, l'Halliburton disponeva di 50.000 dipendenti in quella
regione, molti dei quali erano ex funzionari pubblici attratti nel settore privato da offerte di salari
migliori.
La debole presenza pubblica e la forte presenza delle aziende private riflettevano il fatto che l'esecutivo
Bush stava usando la ricostruzione dell'Iraq (sulla quale aveva il completo controllo) per mettere in atto
la sua visione radicale di un governo vuoto, interamente esternalizzato. In Iraq, non c'era una sola
funzione governativa che fosse considerata così "centrale" da non poter essere affidata a un appaltatore,
preferibilmente uno che contribuisse a finanziare il partito repubblicano o i fondamentalisti cristiani
durante le campagne elettorali. Il consueto motto di Bush governava ogni aspetto dell'intervento straniero
in Iraq: se una funzione poteva essere svolta da un'entità privata, doveva esserlo.
Così, se fu Bremer a firmare le leggi, furono contabili privati a progettare e gestire l'economia. (La
BearingPoint, un ramo della grande società internazionale di contabilità e consulenza Kpmg, ricevette
240 milioni di dollari per costruire un "sistema guidato dal mercato" in Iraq: il contratto di 107 pagine
contiene 51 occorrenze del termine "privatizzazione"; gran parte del contratto originale fu redatta dalla
Bearing Point.) I think tanks erano pagati per pensare (il britannico Adam Smith Institute fu messo sotto
contratto per aiutare nella privatizzazione delle aziende irachene). Agenzie di sicurezza private e
appaltatori nel settore della difesa addestrarono il nuovo esercito e la nuova polizia dell'Iraq (DynCorp,
Vinnell e la Usis del Carlyle Group, tra gli altri). E le società attive nel settore dell'educazione
progettarono il nuovo curriculum di studi postSaddam e stamparono i nuovi libri di testo (la Creative
Associates, una società di consulenza per il management e l'educazione con sede a Washington, ottenne
appalti per un valore superiore ai 100 milioni di dollari a questo scopo) .
Nota: Ahmed al-Rahim, un iracheno-americano che ha lavorato per la Creative Associates, ha spiegato:
"L'idea iniziale era che avremmo scritto un curriculum di studi e l'avremmo portato in Iraq". Gli iracheni
però lamentarono che "qualcosa di preconfezionato in America non era accettabile, e lo rifiutarono".
Nel frattempo, il modello introdotto da Cheney per la Halliburton nei Balcani, dove le basi erano state
trasformate in mini-città Halliburton, fu adottato su scala decisamente più vasta. Oltre a costruire e
gestire basi militari in tutto il Paese, sin dall'inizio la Halliburton fece della Zona verde una città-Stato di
sua proprietà, della quale gestiva la manutenzione stradale, la disinfestazione, i cinema e le discoteche.
La Coalition Provisional Authority (Cpa, Autorità provvisoria della coalizione) non aveva abbastanza
personale per monitorare tutti gli appaltatori. Inoltre, l'amministrazione Bush vedeva questi controlli
come una funzione non centrale, che come tale andava esternalizzata. La CH2M
HiU, società di costruzioni e ingegneria con sede in Colorado, ottenne 28,5 milioni in una joint venture
con la Parsons per monitorare quattro altri grandi appaltatori. Anche la costruzione di una
"democrazia locale" fu privatizzata, a favore del Research Triangle Institute della Carolina del Nord, con
un contratto da 466 milioni di dollari, anche se non è del tutto chiaro quali titoli avesse l'Rti per portare
la democrazia in un Paese islamico. La leadership dell'operazione irachena dell'Rti era dominata da
mormoni d'alto rango: persone come James Mayfield, che disse ai colleghi di Houston di ritenere che i
musulmani potessero essere persuasi a considerare il Libro di Mormon come compatibile con gli
insegnamenti del profeta Maometto. In un'email ai familiari immaginò che gli iracheni avrebbero eretto
una statua in suo onore, come "fondatore della democrazia".
Nota: invece, l'Rti fu cacciato dal Paese per aver contribuito a impedire ai partiti islamici locali di
prendere il potere con mezzi democratici in diverse città e villaggi.
Mentre le corporation straniere invadevano l'Iraq, i macchinari delle duecento aziende statali restarono
immobili, congelati da continui black-out. Un tempo, l'Iraq aveva una delle economie industriali più
sofisticate della regione; ora le aziende più grandi non riuscivano a ottenere neppure un sub-subsubappalto per la ricostruzione del loro stesso Paese. Per partecipare alla corsa all'oro, le aziende
irachene avrebbero avuto bisogno di generatori d'emergenza e qualche riparazione: un ostacolo che non
doveva essere insormontabile, vista la rapidità con cui la Halliburton aveva costruito basi militari che
sembravano sobborghi del Midwest.
Mohamad Tofiq, del ministero dell'Industria, mi disse di aver ripetutamente chiesto generatori,
sottolineando che le 17 fabbriche di cemento di proprietà statale avrebbero potuto produrre materiali per
la ricostruzione e dar lavoro a decine di migliaia di iracheni. Le fabbriche non ricevettero nulla: nessun
appalto, nessun generatore, nessun aiuto. Le aziende americane preferivano importare il loro cemento,
come la forza lavoro, dall'estero, a un prezzo fino a dieci volte superiore. Uno degli editti economici di
Bremer proibiva espressamente alla Banca centrale irachena di offrire finanziamenti alle imprese statali
(fatto che non fu reso pubblico per molti anni).
La motivazione per questo boicottaggio delle industrie irachene non era pratica, mi disse Tofiq, ma
ideologica. Tra coloro che prendevano le decisioni, disse, "nessuno ha fiducia nel settore pubblico".
Mentre le aziende private irachene chiudevano una dopo l'altra, incapaci di competere con le
importazioni che si riversavano dalle frontiere spalancate, lo staff di Bremer aveva poche parole di
conforto da offrire. Rivolgendosi a un gruppo di uomini d'affari iracheni, Michael Fleischer, uno dei vice
di Bremer, confermò che molte delle loro aziende sarebbero in effetti fallite a causa della competizione
straniera, ma disse che era proprio quello il bello del libero mercato. "Sarete sopraffatti dalle industrie
estere?" chiese, retoricamente. "La risposta dipende da voi. Solo i migliori tra voi sopravviveranno." Le
sue parole suonavano come quelle di Yegor Gaidar, che pare avesse commentato così il fatto che le
piccole aziende russe fossero state danneggiate dalla shockterapia:
"E allora? Se uno sta morendo, merita di morire".
Com'è noto, nulla andò come previsto nell'anti-Piano Marshall di Bush. Gli iracheni non percepirono la
ricostruzione aziendalista come un "dono"; la maggior parte di loro la vide come una forma ammodernata
di saccheggio, e le imprese americane non stupirono nessuno con la propria velocità ed efficienza; anzi,
riuscirono a trasformare la parola ricostruzione in "una barzelletta a cui non ride nessuno", nelle parole
di un ingegnere iracheno. Ogni errore di valutazione provocava livelli sempre crescenti di resistenza, a
cui le truppe straniere rispondevano con una contro-repressione, fino a spingere il Paese in un vortice
infernale di violenza. Nel luglio 2006, secondo lo studio più autorevole, la guerra in Iraq era già costata
la vita a 655.000 iracheni, che non sarebbero morti se non ci fossero state un'invasione e un'occupazione.
Nel novembre 2006 Ralph Peters, l'ufficiale dell'esercito americano in pensione, scrisse su "Usa Todap
che "noi abbiamo dato agli iracheni una possibilità straordinaria di costruire una democrazia basata sulla
legalità", ma gli iracheni "hanno preferito crogiolarsi nei vecchi rancori, nella violenza religiosa, nella
bigotteria etnica e in una cultura della corruzione. Pare che i cinici avessero ragione: le società arabe non
possono reggere la democrazia come la conosciamo noi. E i popoli hanno i governi che si meritano [...]
La violenza che macchia le strade di Baghdad non è solo un sintomo dell'incompetenza del governo
iracheno, ma della totale incapacità del mondo arabo di progredire in qualsiasi sfera di impegno umano
organizzato. Siamo di fronte al collasso di una civiltà". Nonostante Peters fosse particolarmente ottuso,
molti osservatori occidentali sono giunti allo stesso verdetto: è colpa degli iracheni.
Ma le divisioni settarie e l'estremismo religioso che affliggono l'Iraq non possono essere distinti
nettamente dall'invasione e dall'occupazione. Anche se queste forze esistevano già prima della guerra,
erano però molto più deboli prima che l'Iraq fosse trasformato in un laboratorio di shockterapia
americano. Vale la pena di ricordare che nel febbraio 2004, undici mesi dopo l'invasione, un sondaggio
della Oxford Research International scoprì che la maggioranza degli iracheni voleva un governo laico:
solo il 21 per cento degli intervistati disse che il proprio sistema politico preferito era "uno Stato
islamico", e soltanto il 14 per cento disse che i "politici religiosi"
erano i suoi soggetti politici prediletti. Sei mesi dopo, durante una nuova e più violenta fase
dell'occupazione, un altro sondaggio appurò che il 70 per cento degli iracheni volevano la legge islamica
come base dello Stato. Quanto alla violenza tra fazioni, era pressoché sconosciuta nel primo anno di
occupazione. Il primo evento tragico, il bombardamento di moschee sciite durante la ricorrenza di
Ashoura, fu nel marzo 2004, un anno dopo l'invasione. Non c'è dubbio che l'occupazione abbia
approfondito e stimolato l'odio.
In realtà, tutte le forze che oggi dilaniano l'Iraq - corruzione diffusa, settarismo violento, ascesa del
fondamentalismo religioso e crudeltà degli squadroni della morte - hanno acquistato potenza di pari
passo con l'implementazione dell'anti-Piano Marshall di Bush. Dopo la deposizione di Saddam Hussein,
l'Iraq aveva disperato bisogno - e meritava - di essere ricostruito e riunificato, un processo che poteva
essere guidato soltanto dagli iracheni. Invece, in quel precario momento, il Paese fu trasformato in un
laboratorio di capitalismo ipercompetitivo: un sistema che metteva l'uno contro l'altro individuo e
comunità, che eliminava posti di lavoro e mezzi di sussistenza, rimpiazzando la ricerca di giustizia con
l'assoluta impunità per gli occupanti stranieri.
L'attuale disastro dell'Iraq non può essere ridotto né all'incompetenza e al clientelismo della Casa Bianca
di Bush, né al settarismo
o al tribalismo dell'Iraq. È un disastro molto capitalista, un incubo di avidità incontrollata sorta sulle
ceneri di una guerra. Il fiasco dell'Iraq è 'A risultato di un'attenta e fedele applicazione dell'ideologia
della Scuola di Chicago, nella sua versione più sfrenata. Quanto segue è un resoconto iniziale (e non
esaustivo) dei legami tra la "guerra civile" e il progetto corporativista al cuore dell'invasione. E un
processo in cui l'ideologia si ritorce contro il popolo che l'ha applicata: un ritorno di fiamma ideologico.
Il caso più universalmente noto di ritorno di fiamma fu provocato dalla prima azione politica importante
di Bremer, il licenziamento di circa 500.000 dipendenti statali, la maggior parte dei quali erano soldati,
ma anche medici, infermieri, insegnanti e ingegneri. La "deBaathificazione", come fu chiamata, era
apparentemente guidata dal desiderio di ripulire il governo dai fedelissimi di Saddam, del partito Baath.
Senza dubbio ciò costituiva parte della motivazione, ma questo fattore non spiega l'enorme numero di
licenziamenti, né il livello di accanimento contro il settore pubblico, che portò alla punizione di
lavoratori che non erano funzionari di alto livello.
La purga somigliava ad attacchi analoghi contro il settore pubblico che hanno accompagnato i programmi
di shockterapia fin da quando Milton Friedman consigliò a Pinochet di tagliare la spesa pubblica del 25
per cento. Bremer non faceva mistero della sua antipatia per l'"economia stalinista"
dell'Iraq - così descriveva i grandi ministeri e le aziende statali del Paese - e non mostrava alcun rispetto
per l'esperienza pluriennale e le abilità degli ingegneri, medici, elettricisti e operai iracheni.
Bremer sapeva che quelle persone avrebbero sofferto perdendo il posto di lavoro ma, come testimonia
chiaramente la sua autobiografia, non si rese conto che l'improvvisa amputazione della classe
professionale irachena avrebbe reso impossibile il funzionamento dello Stato ostacolando così anche il
suo stesso lavoro. Questa cecità aveva poco a che fare con l'opposizione a Saddam: era una diretta
conseguenza del fervore liberista. Solo una persona profondamente incline a vedere il governo come un
mero fardello, e i dipendenti pubblici come rami secchi, avrebbe potuto compiere le scelte che Bremer
ha compiuto.
Quella cecità ideologica produsse tre risultati concreti: minò la possibilità della ricostruzione
rimuovendo lavoratori qualificati dai loro settori, indebolì la voce degli iracheni laici, e stimolò una
resistenza sempre più rabbiosa. Dozzine di ufficiali anziani dell'esercito e dell'intelligence hanno
ammesso che molti dei 400.000 soldati licenziati da Bremer finirono dritti nell'emergente movimento di
resistenza. Nelle parole del colonnello della marina Thomas Hammes: "Ora avete circa 200.000 persone
armate - perché si sono portati a casa le armi - che sanno usare le armi, che non hanno futuro, che hanno
un buon motivo per essere infuriati con voi".
Nel frattempo, la decisione di Bremer (in classico stile Chicago) di spalancare le frontiere a importazioni
illimitate, permettendo inoltre alle aziende straniere di detenere il 100 per cento delle risorse irachene,
fece infuriare la classe imprenditoriale irachena. Molti risposero finanziando la resistenza con i pochi
introiti rimasti. Dopo aver raccontato il primo anno di resistenza irachena nel triangolo sunnita, il
reporter investigativo Patrick Graham scrisse sulla rivista "Harper's" che gli uomini d'affari iracheni
"sono scandalizzati dalle nuove leggi sugli investimenti esteri, che permettono alle aziende straniere di
comprare fabbriche a prezzi stracciati. I loro profitti sono crollati, perché il Paese è stato invaso dalle
merci straniere. [...] Questi affaristi sanno che la violenza è il loro unico appiglio competitivo. È
semplice logica aziendale: più problemi ci sono in Iraq, più è difficile per gli outsider inserirsi nel
sistema".
Altri ritorni di fiamma ideologici furono provocati dalla determinazione con cui la Casa Bianca agì per
impedire che i futuri governi iracheni potessero modificare le leggi economiche di Bremer: lo stesso
impegno nel rendere permanenti le riforme varate in seguito a una crisi è stato profuso fin dal primo
programma di "aggiustamento strutturale" del Fmi. Dal punto di vista di Washington, non c'era ragione di
avere le regole di investimento più illuminate del mondo, se un governo sovrano dell'Iraq poteva salire al
potere nel giro di qualche mese e riscriverle. Poiché molti decreti di Bremer erano in una zona grigia
della legalità, la soluzione escogitata dall'amministrazione Bush fu quella di scrivere per l'Iraq una nuova
costituzione: un obiettivo perseguito con assoluta determinazione, prima con una costituzione ad interim
che rese immutabili le leggi di Bremer, e poi con una costituzione permanente che cercò, non riuscendoci,
di fare lo stesso.
Molti esperti di diritto erano perplessi di fronte all'ossessione di Washington per le questioni
costituzionali. In apparenza non c'era urgente bisogno di scrivere una nuova carta costituzionale da zero:
la costituzione vigente in Iraq, approvata nel 1970 e ignorata da Saddam, funzionava perfettamente, e il
Paese aveva molte cose più urgenti a cui pensare. E soprattutto, il processo di stesura di una costituzione
è tra i più dolorosi che un Paese possa affrontare, anche in tempo di pace. Porta in superficie ogni
tensione, rivalità, pregiudizio, odio latente. Imporre questo processo per due volte - a un Paese diviso e
distrutto come l'Iraq del dopo-Saddam significava aumentare considerevolmente la possibilità di un
conflitto civile. Le disparità sociali create dalle negoziazioni non si sono minimamente attutite, e anzi
potrebbero condurre a una secessione.
Così come la rimozione di tutte le restrizioni al commercio, anche il progetto di Bremer di privatizzare le
duecento compagnie statali fu visto da molti iracheni come un ulteriore atto di guerra da parte degli
americani. I lavoratori appresero che per rendere le aziende appetibili agli investitori stranieri, fino a
due terzi di loro avrebbero perso il posto. In una delle più grandi società statali - un agglomerato di sette
fabbriche che producevano olio da cucina, sapone, detersivo per piatti e altri beni di prima necessità - mi
raccontarono una storia che mostrava bene quanti nuovi nemici avesse creato l'annuncio della
privatizzazione.
Mentre visitavo il complesso di stabilimenti, in un sobborgo di Baghdad, incontrai Mahmud, un
venticinquenne spigliato con una bella barba. Mi disse che quando lui e i suoi colleghi avevano saputo
che si progettava di vendere la loro fabbrica, sei mesi dopo l'inizio dell'occupazione americana,
"restammo scioccati. Se il settore privato comprasse l'azienda per cui lavoriamo, la prima cosa che
farebbero sarebbe ridurre lo staff per fare più soldi. E noi saremmo condannati a un amaro destino,
perché la fabbrica è il nostro unico sostentamento". Terrorizzati da questa possibilità, diciassette
dipendenti, tra cui Mahmud, si presentarono nell'ufficio di uno dei dirigenti. Scoppiò una rissa: un
operaio colpì un dirigente, e la guardia del corpo di quest'ultimo aprì il fuoco sugli operai, che gli si
rivoltarono contro. L'uomo passò un mese in ospedale. Un paio di mesi dopo, ci furono altri episodi di
violenza. Il dirigente e suo figlio furono gravemente feriti a colpi d'arma da fuoco mentre andavano al
lavoro. Al termine del nostro incontro, chiesi a Mahmud cosa sarebbe successo se lo stabilimento fosse
stato venduto, nonostante le loro obiezioni. "Ci sono due possibilità" rispose con un sorriso. "Potremmo
appiccare il fuoco alla fabbrica e lasciarla bruciare, oppure dar fuoco a noi stessi dentro la fabbrica. Ma
non lasceremo che sia privatizzata." Era uno dei primi segnali - uno dei tanti - che la squadra di Bush
aveva decisamente sovrastimato la propria abilità di sottomettere gli iracheni attraverso lo shock.
C'era un altro ostacolo ai sogni di privatizzazione di Washington: il fondamentalismo liberista che
determinava la struttura dell'occupazione stessa. A causa del suo disprezzo per ogni forma di
"statalismo", l'autorità d'occupazione insediata nella Zona verde era troppo a corto di personale e di
risorse per realizzare i suoi ambiziosi progetti: soprattutto di fronte all'agguerrita resistenza dei
lavoratori come Mahmud. Come rivelò Rajiv Chandrasekaran sul "Washington Post", la Cpa era
un'organizzazione così scheletrica che soltanto tre persone erano responsabili dell'impari compito di
privatizzare le compagnie statali irachene. "Non scomodatevi a iniziare" consigliò ai tre dipendenti
solitari una delegazione dalla Germania Est: Paese che, quando aveva venduto le proprie aziende statali,
aveva assegnato al progetto 8000 persone. In breve, la Cpa era troppo privatizzata per privatizzare l'Iraq.
Il problema non era solo che la Cpa fosse a corto di personale, ma anche che il personale mancava della
fiducia di base nella sfera pubblica che è necessaria per il difficile processo di ricostruzione di uno Stato
dalle fondamenta. Nelle parole del politologo Michael Wolfe, "i conservatori non sanno governare bene
per lo stesso motivo per cui i vegetariani non sanno cucinare un beouf bourguignon di prim'ordine: se sei
convinto che ciò che sei chiamato a fare sia sbagliato, è difficile che tu lo faccia molto bene". Wolfe
aggiunge: "Come forma di governo, il conservatorismo è un altro nome del disastro".
Così stavano le cose in Iraq, senza dubbio. Si è parlato molto della giovinezza e inesperienza dei delegati
politici americani nella Cpa, del fatto che una manciata di repubblicani poco più che ventenni avessero
importanti responsabilità nella supervisione del bilancio iracheno, che ammontava a 13 miliardi di
dollari. Se da un lato è innegabile che i membri del cosiddetto brut pack
[branco di marmocchi] erano di una giovinezza preoccupante, non era questa, però, la loro colpa
peggiore. Questi non erano solo compari politici qualunque: erano guerrieri in prima linea della
controrivoluzione americana, nemica di ogni relitto del kemesianismo; molti di loro erano legati alla
Heritage Foundation, il fulcro centrale del friedmanismo fin dalle sue origini, nel 1973. Dunque, che
fossero ventiduenni stagisti di Dick Cheney o sessantenni presidi d'università, avevano in comune
un'antipatia culturale per il governo e il governare che, sebbene inestimabile per lo smantellamento della
sicurezza sociale e della scuola pubblica in patria, serviva a poco quando si trattava di ricostruire
istituzioni pubbliche che erano state smantellate.
In realtà, molti sembravano credere che il processo non fosse necessario. James Haveman, incaricato di
ricostruire il sistema sanitario iracheno, era così ideologicamente contrario alla sanità pubblica e gratuita
che, in un Paese nel quale il 70 per cento della mortalità infantile è causata da malattie curabili come la
diarrea, e le incubatrici sono tenute insieme con il nastro adesivo, decise che la priorità assoluta era
privatizzare il sistema di distribuzione dei farmaci.
La scarsità di funzionari pubblici esperti nella Zona verde non era frutto di una distrazione: era
espressione del fatto che l'occupazione dell'Iraq era stata, fin dall'inizio, un esperimento radicale di
"governo vuoto". Quando gli uomini dei think tanks arrivarono a Baghdad, i ruoli cruciali nella
ricostruzione erano già stati esternalizzati alla Halliburton e alla Kpmg. Come funzionari pubblici, il loro
lavoro consisteva semplicemente nell'amministrare gli spiccioli, il che in Iraq significava consegnare agli
appaltatori mazzette di banconote da cento dollari avvolte nel cellophane. Fu un esempio da manuale di
quale fosse il ruolo accettabile per un governo in uno Stato corporativo: agire come nastro trasportatore
per condurre il denaro pubblico in mani private, un lavoro per svolgere il quale l'impegno ideologico è
molto più importante di una vasta esperienza sul campo.
Quel nastro trasportatore in perenne movimento era uno degli aspetti che più facevano infuriare gli
iracheni: la pretesa, da parte degli Stati Uniti, che l'Iraq si adattasse a un liberismo in senso stretto, privo
di qualsiasi sussidio statale o protezioni doganali. In una delle tante conferenze rivolte agli uomini
d'affari iracheni, Michael Fleischer spiegò che "le attività economiche protette non diventano mai - mai competitive". Sembrava impermeabile all'ironia del fatto che la Halliburton, la Bechtel, la Parsons, la
Kpmg, l'Rti, la Blackwater e tutte le altre grandi aziende americane che erano in Iraq per trarre profitto
dalla ricostruzione facevano parte di un vasto racket protezionistico, per cui il governo americano aveva
creato i loro mercati attraverso la guerra, aveva impedito ai loro concorrenti anche solo di partecipare
alla gara, e poi le aveva pagate per il loro lavoro, garantendo loro un profitto ulteriore: tutto a spese dei
contribuenti. La crociata della Scuola di Chicago, nata con lo scopo precipuo di smantellare lo statalismo
del welfare tipico del New Deal, aveva finalmente raggiunto il suo zenit in questo New Deal aziendale.
Era una forma di privatizzazione più facile, più elementare; non era neppure necessario il trasferimento di
grossi fondi: semplicemente, le aziende pescavano a piene mani dalle casse dello Stato. Nessun
investimento, nessuna responsabilità, profitti astronomici.
Le disparità e le ingiustizie furono tremende, come lo fu la sistematica esclusione degli iracheni dal
progetto. Dopo aver patito le sanzioni e l'invasione, molti iracheni davano ormai per scontato di avere il
diritto di beneficiare dalla ricostruzione del loro Paese: non solo dal prodotto finale, ma dai posti di
lavoro che si sarebbero creati lungo la strada. Quando decine di migliaia di lavoratori stranieri si
riversarono entro i confini iracheni per firmare contratti a termine con gli appaltatori stranieri, la cosa fu
vista come un'estensione dell'invasione. Quella non era una ricostruzione, era una distruzione mascherata:
fu liquidata in blocco l'industria nazionale, che era stata fonte di grande orgoglio nazionale, al di là di
ogni settarismo. Solo 15.000 iracheni furono assunti per lavorare alla ricostruzione finanziata dagli Stati
Uniti durante il mandato di Bremer, una cifra straordinariamente bassa." "Quando il popolo iracheno
vede che tutti questi appalti vanno agli stranieri, e che queste persone portano con sé i loro agenti di
sicurezza e tutti i loro ingegneri, e noi dovremmo restare a guardare, be', cosa vi aspettate?" mi disse
Nouri Sitto, un irachenoamericano che avevo incontrato nella Zona verde. Era tornato a Baghdad per
assistere la Cpa nella ricostruzione, ma era stanco di essere diplomatico. "L'economia è il motivo
principale del terrorismo e della mancanza di sicurezza."
Gran parte della violenza si orientò contro l'occupazione straniera, i suoi progetti e i suoi dipendenti.
Alcuni attacchi provenivano palesemente da alcuni elementi presenti in Iraq, come alQaida, che sono
guidati da una strategia di diffusione del caos. Tuttavia, se la ricostruzione fosse stata vista fin dall'inizio
come parte di un progetto nazionale, il popolo iracheno avrebbe potuto difenderla come estensione delle
proprie comunità, complicando di molto il lavoro dei provocatori.
L'amministrazione Bush avrebbe potuto facilmente richiedere che ogni azienda che riceveva denaro dagli
Stati Uniti assumesse lavoratori iracheni. Avrebbe anche potuto stipulare contratti direttamente con le
aziende irachene. Queste misure semplici, di senso comune, non sono state adottate per anni, perché erano
in conflitto con la strategia sotterranea di trasformare l'Iraq in una bolla economica da mercato
emergente: e tutti sanno che le bolle non si gonfiano a forza di regole e norme, ma grazie alla loro
assenza. Dunque, in nome della rapidità e dell'efficienza, gli appaltatori potevano assumere chiunque
volessero, importare da qualsiasi Paese straniero e subappaltare a qualsiasi azienda.
Se entro sei mesi dall'invasione gli iracheni si fossero trovati a bere acqua pulita dalle tubature della
Bechtel, se le loro case fossero state illuminate dalla General Electric, i malati curati in ospedali
costruiti dalla Parsons, le strade pattugliate da competenti poliziotti addestrati dalla DynCorp, molti
cittadini (ma non tutti) avrebbero probabilmente temperato la loro rabbia per essere stati esclusi dal
processo di ricostruzione. Ma nulla di tutto ciò accadde, e ben prima che le forze di resistenza irachene
iniziassero ad attaccare sistematicamente i cantieri della ricostruzione, era già chiaro che applicare
principi laissez-faire a un impegno governativo così ingente era stata una scelta con conseguenze
disastrose.
Libere da ogni regolamentazione, in gran parte protette da azioni legali, tutelate da contratti che
garantivano loro la copertura dei costi, più un profitto, molte aziende estere fecero qualcosa di
assolutamente prevedibile: imbrogliarono ripetutamente. I grandi appaltatori, noti in Iraq come the prime
(i principali, l'apice), elaborarono ingegnosi schemi di subappalto. Aprirono uffici nella Zona verde, o
addirittura a Kuwait City e Amman, poi subappaltarono ad aziende kuwaitiane, che a loro volta
subappaltarono ai sauditi, i quali, quando la situazione della sicurezza si fece troppo difficile, finirono
per subappaltare ad aziende irachene, spesso dal Kurdistan, per una minima parte dell'effettivo valore dei
contratti. Il senatore democratico Byron Dorgan descrisse questa ragnatela portando come esempio un
contratto d'appalto per la fornitura di condizionatori d'aria a Baghdad:
"Il contratto va a un subappaltatore, e da lì a un altro, e a un subappaltatore di quarto livello. E il
pagamento per l'aria condizionata si rivela un pagamento a quattro appaltatori, il quarto dei quali monta
un ventilatore in una stanza. Sì, il contribuente americano ha pagato per un impianto di aria condizionata,
e in effetti, dopo che i soldi sono passati per quattro paia di mani come i cubetti di ghiaccio fanno il giro
della stanza, viene montato un ventilatore in una stanza in Iraq". Esempi a parte: per tutto questo tempo gli
iracheni si sono visti rubare i fondi destinati agli aiuti, mentre il Paese ribolliva.
Quando la Bechtel fece i bagagli e lasciò l'Iraq nel novembre 2006, incolpò "la violenza diffusa" per la
propria incapacità di realizzare i progetti. Ma il fallimento degli appalti iniziò ben prima che la
resistenza armata in Iraq guadagnasse forza. Le prime scuole ricostruite dalla Bechtel attirarono subito
critiche. All'inizio di aprile del 2004, prima che l'Iraq precipitasse nella violenza, visitai l'ospedale per
l'infanzia di Baghdad. In teoria era stato ricostruito da un altro appaltatore americano, ma nei corridoi
c'erano acque di scarico, nessuno dei gabinetti funzionava e gli uomini che cercavano di porre rimedio a
questo caos erano così poveri che non avevano scarpe: erano sub-sub-subappaltatori, come le donne che
cuciono a cottimo sedute al tavolo della cucina per un sub-sub-subappaltatore dei supermercati Wal-
Mart.
La cattiva amministrazione continuò per tre anni e mezzo, finché tutti i principali appaltatori americani
della ricostruzione uscirono dall'Iraq, lasciando il lavoro a metà pur avendo speso miliardi. La Parsons
aveva ricevuto 186 milioni di dollari per costruire 142 cliniche mediche. Solo 6
di esse furono completate. Anche i progetti presentati come successi della ricostruzione sono stati oggetto
di dubbi. Nell'aprile 2007, gli ispettori americani in Iraq esaminarono otto progetti completati dagli
appaltatori statunitensi - fra cui un reparto maternità e un sistema per la purificazione dell'acqua - e
scoprirono che "sette di essi non funzionavano più secondo il progetto originario", stando al "New York
Times". Il quotidiano riferì anche che la rete elettrica irachena stava producendo molto meno energia nel
2007 rispetto al 2006. Nel dicembre 2006, quando tutti i principali contratti d'appalto per la ricostruzione
erano vicini alla scadenza, presso l'Ufficio dell'ispettore generale erano in corso 87 inchieste su sospette
frodi in relazione agli appalti americani in Iraq. Durante l'occupazione, la corruzione non era
conseguenza di una cattiva gestione, ma una linea politica: se l'Iraq doveva essere la nuova frontiera del
capitalismo selvaggio, allora doveva essere liberato dalla legge.
La Cpa di Bremer non avrebbe mai tentato di porre fine alle irregolarità, alle truffe e alle frodi, perché la
Cpa era in se stessa una truffa. Pur essendo ufficialmente definita come autorità di occupazione
statunitense, probabilmente i suoi poteri non andavano al di là dell'altisonante nome.
Questo punto è stato sottolineato con forza da un giudice nel famigerato caso di corruzione che coinvolse
la Custer Battles.
Due ex dipendenti della società di sicurezza la citarono in giudizio, accusandola di aver barato sui
contratti di ricostruzione con la Cpa e di aver defraudato il governo americano per milioni di dollari, la
maggior parte dei quali per lavori all'aeroporto internazionale di Baghdad. Il caso si fondava su
documenti prodotti dall'azienda
che mostravano chiaramente come la Custer Battles tenesse due registri contabili: uno per sé, uno per le
fatturazioni alla Cpa. Il generale di brigata in pensione Hugh Tant testimoniò che la performance della
società era "probabilmente la più grave che io abbia visto in trent'anni di carriera militare". (Tra le molte
accuse rivolte alla Custer Batdes, c'è quella di essersi appropriata di elevatori a forcale di proprietà
dell'aeroporto, di averli riverniciati e di aver chiesto alla Cpa un canone d'affitto.)
Nel marzo 2006, una giuria federale in Virginia emise una sentenza sfavorevole all'azienda, trovandola
colpevole di frode, e la obbligò a pagare 10 milioni di dollari in risarcimenti. L'azienda chiese poi al
giudice di ribaltare il verdetto, portando una linea di difesa molto significativa.
Affermò che la Cpa non faceva parte del governo americano, e dunque non era soggetta alle sue leggi, ivi
compreso il False Claims Act, la legge che permette ai cittadini americani di fare causa ad appaltatori
federali per frode contro il governo. Le implicazioni di questa linea di difesa erano enormi.
L'amministrazione Bush aveva sollevato le aziende americane in Iraq da ogni responsabilità nei confronti
delle leggi irachene: dunque, se la Cpa non era soggetta neppure alle leggi americane, significava che gli
appaltatori non erano tenuti a rispettare alcuna legge - americana o irachena che fosse. Stavolta il giudice
si espresse a favore dell'azienda: disse che c'erano molte prove che la Custer Batdes avesse presentato
alla Cpa "fatture false e gonfiate in modo fraudolento", ma stabilì che i querelanti "non avevano
dimostrato che le richieste di pagamento fossero state inviate agli Stati Uniti". In altre parole, la presenza
del governo americano in Iraq nel primo anno di esperimento economico era stata un miraggio: non c'era
stato alcun governo, soltanto un imbuto attraverso cui i dollari dei contribuenti americani e del petrolio
iracheno erano finiti nelle mani delle aziende straniere, completamente al di fuori della legge. In questo
modo, l'Iraq rappresenta l'espressione più estrema della controrivoluzione antistatale: uno Stato vuoto,
nel quale, come le corti infine stabilirono, non c'era nulla.
Dopo aver consegnato i suoi miliardi agli appaltatori, la Cpa si sciolse. I suoi ex dipendenti tornarono al
settore privato, e quando esplosero gli scandali, non c'era rimasto nessuno per difendere la pessima
reputazione della Zona verde. Ma in Iraq, si percepiva chiaramente la mancanza dei miliardi spariti. "La
situazione attuale è molto peggiore e non sembra migliorare, nonostante gli enormi contratti firmati con le
aziende americane", osservò un ingegnere che lavorava per il ministero dell'Elettricità,
una settimana dopo l'annuncio dell'abbandono dell'Iraq da parte della Bechtel. "È strano come miliardi di
dollari spesi in elettricità non abbiano portato alcun miglioramento, ma anzi abbiano aggravato la
situazione." Un tassista di Mosul chiese: "Quale ricostruzione? Oggi beviamo acqua non potabile da una
cisterna costruita decenni fa, mai sottoposta a manutenzione. L'elettricità viene a farci visita due ore al
giorno. E ora stiamo tornando indietro. Per cucinare accendiamo il fuoco con la legna che raccogliamo
nella foresta, perché non c'è gas".
Il catastrofico fallimento della ricostruzione contribuì direttamente alla forma più letale di ritorno di
fiamma: la drammatica ascesa del fondamentalismo religioso e del conflitto tra fazioni. Quando le forze
di occupazione si dimostrarono incapaci di fornire anche i servizi di base, tra cui la sicurezza, furono le
moschee e le milizie locali a colmare questa lacuna. Il giovane imam sciita Moqtada al-Sadr si mostrò
particolarmente abile nel mettere in luce le carenze della ricostruzione privatizzata di Bremer, mettendo
mano alla propria ricostruzione-ombra nelle baraccopoli sciite, da Baghdad a Bassora: si guadagnò così
un folto numero di seguaci. Finanziati dalle donazioni alle moschee, e forse in seguito da aiuti provenienti
dall'Iran, i centri inviavano elettricisti per riparare le linee elettriche e telefoniche, organizzavano la
raccolta dei rifiuti a livello locale, installavano generatori d'emergenza, gestivano un programma per la
donazione di sangue e dirigevano il traffico. "Ho trovato un vuoto, e nessuno l'ha riempito" disse al-Sadr
nei primi giorni dell'occupazione, aggiungendo: "Quello che posso fare, lo faccio". Si occupò anche dei
giovani che non trovavano lavoro né speranza nell'Iraq di Bremer: li vestì di nero e li armò con
kalashnikov arrugginiti. Il risultato fu l'armata Mahdi, oggi una delle forze più brutali nei conflitti
iracheni. Queste milizie sono anche l'eredità del corporativismo: se la ricostruzione avesse creato posti
di lavoro, sicurezza e servizi per gli iracheni, al-Sadr sarebbe stato privato sia della sua missione sia di
molti dei suoi nuovi seguaci. Ma stando così le cose, i fallimenti del business americano posero le basi
per i successi di al-Sadr.
L'Iraq sotto Bremer era la logica conclusione della teoria della Scuola di Chicago: un settore pubblico
ridotto a un numero minimo di dipendenti, per lo più a contratto, che abitavano in una città-Stato
dell'HaUiburton, incaricati di firmare leggi scritte dalla Kpmg a favore delle aziende, e di consegnare
sacchi di banconote ad appaltatori occidentali protetti da soldati mercenari, a loro volta tutelati da
un'assoluta immunità legale. E circondati da un popolo furioso, che sempre di più si volge al
fondamentalismo religioso, unica fonte di potere in uno Stato svuotato. Come i gangster in Russia e il
sistema clientelare che circonda Bush, l'Iraq di oggi è una creatura dei cinquant'anni di crociata per
privatizzare il mondo. Anziché essere rinnegata dai suoi creatori, essa va invece vista come
l'incarnazione finora più pura dell'ideologia che le ha dato vita.
18.
Al punto di partenza.
Dalla tabula rasa alla terra bruciata.
Non sarebbe più semplice allora che il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?
Bertolt Brecht, La soluzione, 1953.
L'Iraq è l'ultima grande frontiera del Medioriente [...] In Iraq, l'80 per cento dei pozzi scavati hanno
trovato il petrolio.
David Horgan, amministratore delegato della compagnia petrolifera irlandese Petrel, gennaio 2007.
È possibile che l'amministrazione Bush non fosse consapevole che il suo programma economico aveva il
potenziale per suscitare una violenta rivolta in Iraq? Una persona che probabilmente doveva essere al
corrente di possibili conseguenze negative era l'uomo responsabile dell'implementazione delle misure,
Paul Bremer. Nel novembre 2001, poco dopo il lancio della sua nuova società di antiterrorismo, la Crisis
Consulting Practice, Bremer scrisse un memorandum per i suoi clienti in cui spiegava perché le
multinazionali erano sempre più a rischio di attentati terroristici in patria e all'estero. Nel saggio,
intitolato Nuovi rischi nel business internazionale, diceva ai suoi facoltosi clienti che i pericoli stavano
aumentando a causa del modello economico che aveva permesso loro di arricchirsi così tanto. Il libero
scambio, scriveva Bremer, ha condotto alla "creazione di una ricchezza mai vista prima", ma ha anche
"conseguenze immediate per molti".
Esso "richiede il licenziamento di una parte dei lavoratori. E l'apertura dei mercati al commercio estero
esercita una pressione fortissima sui commercianti e i monopoli commerciali di tipo tradizionale". Tutti
questi cambiamenti conducono a "ineguaglianze crescenti nel reddito e tensioni sociali", che a loro volta
possono portare a una serie di attacchi contro le aziende americane, ivi compresi gli attacchi terroristici.
È certamente questo ciò che è accaduto in Iraq. Se gli artefici della guerra si convinsero che non ci
sarebbe stata nessuna reazione politica violenta al loro programma economico, probabilmente non fu
perché credevano che gli iracheni avrebbero acconsentito a quelle politiche di sistematica spoliazione.
Piuttosto, gli architetti della guerra facevano affidamento su qualcos'altro: il disorientamento degli
iracheni, la loro regressione collettiva, la loro incapacità di tenersi al passo con il ritmo della
trasformazione. Approfittavano, in altre parole, del potere dello shock. L'assunto di base degli
shockterapeuti militari ed economici dell'Iraq, riassunto nelle parole dell'ex vicesegretario di Stato
Richard Armitage, era che gli iracheni sarebbero stati così sconvolti dalla potenza di fuoco americana, e
così sollevati per essersi liberati da Saddam, "che li si sarebbe potuti condurre facilmente dal punto A al
punto B". Poi, dopo qualche mese, sarebbero emersi dal loro stordimento, felicemente sorpresi di vivere
in una Singapore araba, una "Tigre sul Tigri", come la chiamava con entusiasmo qualche analista di
mercato.
Invece, moltissimi iracheni pretesero subito di avere voce in capitolo nella trasformazione del loro
Paese. E fu la risposta dell'amministrazione Bush a questa svolta inattesa a generare il ritorno di fiamma
peggiore.
Smantellare la democrazia.
L'estate successiva all'invasione dell'Iraq, il desiderio represso di partecipazione politica era così forte
che a Baghdad, nonostante le sofferenze quotidiane, si respirava un'aria quasi carnevalesca.
C'era rabbia per i licenziamenti operati da Bremer, e frustrazione per i black out e gli appalti concessi
agli stranieri. Ma per mesi quella rabbia si espresse primariamente attraverso scoppi di sregolata ed
esuberante libertà di parola. Per tutta l'estate, ogni giorno vi furono dimostrazioni fuori dai cancelli della
Zona verde, spesso guidate da lavoratori che rivolevano indietro i loro impieghi.
Centinaia di nuove testate giornalistiche uscivano dai torchi di stampa, piene di articoli critici nei
confronti di Bremer e del suo programma economico, I religiosi parlavano di politica nei loro sermoni
del venerdì: una libertà impensabile sotto Saddam.
Ma la cosa più emozionante furono le elezioni spontanee nelle città, nei villaggi e nelle province in tutto
il Paese. Finalmente liberi dal pugno di ferro di Saddam, gli iracheni organizzavano riunioni nei centri di
aggregazione del villaggio ed eleggevano leader che li rappresentassero in questa nuova era. In città
come Samarra, Hilla e Mosul, i leader religiosi, i professionisti laici e la gente delle tribù lavoravano
insieme per stabilire priorità locali per la ricostruzione, sfidando le peggiori previsioni sul settarismo e
sul fondamentalismo. Le riunioni erano accese, ma per molti versi erano anche gioiose: le sfide erano
enormi ma la libertà stava diventando realtà. In molti casi le forze americane, che credevano al
presidente quando questi diceva loro che l'esercito era stato inviato in Iraq per diffondere la democrazia,
aiutarono gli iracheni a organizzare le elezioni, addirittura costruendo le urne.
L'entusiasmo per la democrazia, unito al netto rifiuto del programma economico di Bremer, mise
l'amministrazione Bush in una posizione estremamente delicata. Aveva fatto grandi promesse di
consegnare il potere a un governo iracheno eletto nel giro di pochi mesi, e di includere gli iracheni nel
processo decisionale fin da subito. Ma quella prima estate non lasciò dubbi sul fatto che rinunciare a
parte del potere avrebbe significato abbandonare il sogno di trasformare l'Iraq in un'economia modello
privatizzata, costellata di tentacolari basi militari americane; il nazionalismo economico era troppo
radicato nella popolazione, in particolare quando si trattava delle riserve nazionali di petrolio, il premio
più ambito di tutti. Così, Washington abbandonò le sue promesse democratiche e ordinò di aumentare i
livelli di shock nella speranza che una dose più massiccia permettesse di riuscire nell'intento. Fu una
decisione che riportò indietro al punto di partenza la crociata per il liberismo puro, indietro fino alle
radici nel Cono del Sud dell'America Latina, quando la shockterapia economica era stata imposta
sopprimendo con violenza la democrazia e facendo sparire o torturando chiunque fosse d'intralcio.
Quando Paul Bremer giunse in Iraq, il progetto degli americani era quello di raccogliere una grossa
assemblea costituente, che rappresentasse tutti i settori della società irachena, e in cui i delegati
potessero votare per i membri di un esecutivo ad interim. Dopo due settimane a Baghdad, Bremer
rinunciò all'idea, Piuttosto, decise di scegliere personalmente i membri di un Consiglio governativo
iracheno. In un messaggio al presidente Bush, Bremer descrisse il suo processo di selezione dei membri
iracheni del consiglio come "un incrocio tra la mosca cieca e una versione tridimensionale del gioco del
tris".'
Bremer aveva detto che il Consiglio avrebbe avuto potere esecutivo, ma ancora una volta cambiò idea.
"La mia esperienza con il Consiglio governativo fino a quel momento suggeriva che non fosse una grande
idea", l'ex inviato avrebbe detto in seguito, spiegando che i membri del consiglio erano troppo lenti e
meditabondi, tratti caratteriali poco adatti ai suoi piani di shockterapia. "Non avrebbero saputo
organizzare una parata di due auto" disse Bremer. "Erano semplicemente incapaci di prendere decisioni
rapide, o decisioni in genere. Inoltre, ero ancora fermamente intenzionato a far approvare una costituzione
prima di consegnare la sovranità nelle mani di chiunque".
Il problema successivo per Bremer furono le elezioni spontanee nei villaggi e nelle città di tutto il Paese.
Alla fine di giugno, solo il suo secondo mese in Iraq, Bremer annunciò che tutte le elezioni locali
dovevano cessare immediatamente. I leader locali dell'Iraq sarebbero stati nominati dalle forze di
occupazione, esattamente come il Consiglio governativo. Uno scontro cruciale si ebbe a Najaf, la città
sacra degli sciiti iracheni, il gruppo religioso più diffuso nel Paese. A Najaf si stavano organizzando
elezioni cittadine con l'aiuto delle truppe americane quando, solo un giorno prima del voto, il tenente
colonnello responsabile ricevette una telefonata dal generale della marina Jim Mattis. "L'elezione dovette
essere annullata. Bremer temeva la vittoria di un candidato islamico a lui ostile. [...] Bremer non avrebbe
permesso che la persona sbagliata vincesse le elezioni. Ai Marines fu consigliato di selezionare un
gruppo di iracheni che ritenevano affidabili e di incaricarli di scegliere un sindaco. In questo modo gli
Stati Uniti avrebbero controllato il processo" scrissero Michael Gordon e il generale Bernard Trainor,
autori di Cobra II, considerata la più autorevole storia militare dell'invasione. Alla fine, l'esercito
americano nominò un colonnello dell'era Saddam come sindaco di Najaf, e fece lo stesso in varie città e
villaggi del Paese.
Nota: era questa una delle ragioni per cui la "de-Baathificazione" suscitò tanta rabbia: mentre i soldati di
basso rango avevano tutti perso il lavoro, assieme agli insegnanti e ai medici cui era stata richiesta
l'adesione al partito per poter fare carriera, gli ufficiali militari baathisti di alto livello, ben noti per gli
abusi umanitari, erano incaricati di ripristinare l'ordine nelle città e nei villaggi.
In alcuni casi, il divieto di Bremer arrivò quando gli iracheni avevano già votato per l'elezione dei
rappresentanti locali. Impassibile, Bremer ordinò di formare nuovi consigli. Nella provincia di Taji, la
Rti, società gestita da mormoni a cui era stata appaltata la creazione dei governi locali, smantellò il
consiglio eletto dal popolo mesi prima del suo arrivo, e pretese di ricominciare da capo. "Ci sembra di
stare andando a ritroso" si lamentò un uomo. Bremer insisteva che non c'era alcuna
"proibizione a tappeto" contro la democrazia. "Non mi oppongo, ma voglio realizzarla in modo coerente
alle nostre preoccupazioni. [...] Elezioni troppo precoci possono essere distruttive. Bisogna agire con
molta cautela."
A quel punto gli iracheni aspettavano ancora che Washington mantenesse la promessa di indire elezioni
nazionali e cedere il potere direttamente a un governo eletto dalla maggioranza dei cittadini. Ma nel
novembre 2003, dopo aver cancellato le elezioni locali, Bremer tornò a Washington per concitate
riunioni alla Casa Bianca. Di ritorno a Baghdad, annunciò che non ci sarebbero state elezioni generali. Il
primo governo "sovrano" dell'Iraq sarebbe stato nominato, non eletto.
Il voltafaccia aveva forse a che fare con un sondaggio condotto in quel periodo dall'International
Republican Institute di Washington. Nel sondaggio si chiedeva agli iracheni che genere di politici
avrebbero votato se ne avessero avuto la possibilità. I risultati furono illuminanti per i corporativisti
della Zona verde: il 49 per cento degli intervistati disse che avrebbe votato per il partito che avrebbe
promesso di creare "più posti di lavoro nel settore governativo". Solo il 4,6 per cento disse che avrebbe
votato un partito che promettesse di creare "più posti di lavoro nel settore privato". Solo il 4,2 per cento
disse che avrebbe votato un partito che promettesse "di mantenere le forze della coalizione finché la
sicurezza sia a livelli accettabili". In parole semplici: se gli iracheni avessero potuto eleggere
liberamente il loro prossimo governo, e se quel governo avesse avuto un potere reale, Washington
avrebbe dovuto rinunciare a due dei principali obiettivi della guerra: l'accesso all'Iraq per le basi
militari americane, e il pieno accesso all'Iraq per le multinazionali statunitensi.
Alcuni critici dell'ala neo-con del regime di Bush criticano il suo piano per l'Iraq perché fa troppo
affidamento sulla democrazia, perché mostra una fiducia ingenua nell'autodeterminazione.
Ciò che questa versione dei fatti non dice sono gli esatti risultati dell'intero primo anno di occupazione,
quando Bremer soffocò la democrazia ogni volta che alzava una delle sue teste da idra. Entro i primi sei
mesi del suo mandato, aveva sciolto un'assemblea costituente, bocciato l'idea di eleggere gli estensori
della costituzione, annullato e invalidato dozzine di elezioni locali e provinciali e sconfitto il mostro
delle elezioni nazionali: non esattamente le azioni tipiche di un idealista democratico. E neppure uno dei
neo-con d'alto rango che ora danno la colpa dei problemi in Iraq all'assenza di "una faccia irachena"
appoggiò le richieste di elezioni dirette che venivano dalle strade di Baghdad e Bassora.
Molti di coloro che furono inviati in Iraq nei primi mesi tracciano un legame diretto tra le varie decisioni
di posticipare e indebolire la democrazia e la feroce ascesa della resistenza armata. Salim Lone, un
diplomatico delle Nazioni Unite che era in Iraq dopo l'invasione, individuò il momento cruciale nella
prima decisione antidemocratica di Bremer. "I primi, devastanti attacchi alla presenza straniera in Iraq,
per esempio, giunsero poco dopo la nomina da parte americana, nel 2003, del primo organismo esecutivo
in Iraq, il Consiglio governativo iracheno: la missione giordana e, poco dopo, il quartier generale
dell'Onu a Baghdad furono fatti saltare in aria, uccidendo molti innocenti.
[...] La rabbia suscitata dalla composizione di questo consiglio, e dal fatto che l'Onu l'appoggiasse, era
palpabile in Iraq." Lone nell'attacco perse molti amici e colleghi.
La cancellazione da parte di Bremer delle elezioni nazionali fu un amaro tradimento per gli sciiti
iracheni. Essendo il gruppo etnico più numeroso, erano certi di dominare un governo eletto dopo decenni
di assoggettamento. All'inizio, la resistenza sciita prese la forma di massicce dimostrazioni pacifiche:
100.000 manifestanti a Baghdad, 30.000 a Bassora. Lo slogan di tutti era: "Sì, sì alle elezioni. No, no alle
selezioni". "La nostra richiesta principale in questo processo è di stabilire la composizione di tutte le
istituzioni costituzionali attraverso elezioni e non nomine", scrisse Ali Abdel Hakim al-Safi, il secondo
imam sciita per anzianità in Iraq, in una lettera a George Bush e Tony Blair. Definì il nuovo piano di
Bremer "nient'altro che rimpiazzare una dittatura con un'altra" e li avvertì che se lo avessero applicato si
sarebbero trovati a combattere una battaglia persa in partenza." Bush e Blair continuarono impassibili a
lodare le manifestazioni come prova della buona salute della libertà, e proseguirono imperterriti nella
nomina del primo governo post-Saddam.
Fu in questa circostanza che Moqtada al-Sadr divenne una forza politica con cui fare i conti.
Quando gli altri grandi partiti di orientamento sciita decisero di partecipare al governo nominato, e di
giurare fedeltà a una costituzione ad interim scritta entro la Zona verde, al-Sadr spezzò i ranghi,
denunciando il processo e la costituzione come illegittimi e paragonando esplicitamente Bremer a
Saddam Hussein. Iniziò anche a costruire sul serio l'armata Mahdi. Di fronte all'inefficacia delle proteste
pacifiche, molti sciiti si convinsero che perché la democrazia e il dominio della maggioranza potessero
diventare realtà, c'era bisogno di combattere.
Se l'amministrazione Bush avesse mantenuto la promessa di cedere il potere in tempi brevi a un governo
iracheno eletto, con tutta probabilità la resistenza sarebbe rimasta circoscritta e contenibile, anziché
diventare una ribellione su scala nazionale. Ma mantenere quella promessa avrebbe significato
sacrificare l'agenda economica alla base della guerra, cosa che non si poteva lasciar accadere: ed è per
questo che le violente ripercussioni in Iraq della negazione della democrazia da parte dell'America
devono essere considerate anch'esse come forme di ritorno di fiamma ideologico.
Shock corporei.
Mentre la resistenza si andava organizzando, le forze di occupazione risposero con un'escalation di
tattiche atte a provocare shock. Accadeva a notte fonda, o alle prime luci dell'alba: i soldati buttavano giù
le porte, illuminando il buio delle case con le loro torce elettriche, gridando in inglese (alcune parole si
capivano: "Figli di puttana", "Ali Baba", "Osama bin Laden"). Le donne cercavano disperatamente una
sciarpa per coprirsi la testa di fronte agli intrusi; gli uomini erano incappucciati a forza, caricati su
camion dell'esercito e portati in prigioni e campi di detenzione. Nei primi tre anni e mezzo di
occupazione, si stima che circa 61.500 iracheni siano stati catturati e imprigionati dalle forze americane,
generalmente con metodi progettati per "massimizzare lo shock della cattura". Circa 19.000 di loro erano
ancora detenuti durante la primavera del 2007. Nelle prigioni, li attendevano altri shock: secchiate
d'acqua gelida; pastori tedeschi che ringhiavano con la bava alla bocca; pugni e calci; e a volte lo shock
della corrente elettrica proveniente da cavi scoperti.
Tre decenni prima, la crociata neoliberista era iniziata con tattiche analoghe a queste: con i cosiddetti
sovversivi e i presunti terroristi rapiti dalle loro case, bendati e incappucciati, portati in celle buie dove
subivano pestaggi e peggio. Ora, per difendere la speranza di un libero mercato ideale in Iraq, il progetto
aveva compiuto la sua parabola ed era tornato al punto di partenza.
Un fattore che rese pressoché inevitabile la diffusione sempre maggiore delle tattiche di tortura fu la
determinazione con cui Rumsfeld intese gestire l'esercito non come un segretario alla Difesa ma come il
vicepresidente di una catena di supermercati, desideroso di togliere qualche ora in più dal libro paga.
Dopo aver dato ai generali meno di 200.000 soldati invece dei 500.000 richiesti, Rumsfeld credeva di
poter dare qualche altra spuntatina: all'ultimo minuto, per gratificare il suo ego da amministratore
delegato, tagliò altre decine di migliaia di unità dall'organico destinato alla battaglia.
L'esercito così decurtato fu in grado di rovesciare Saddam, ma non aveva speranza di gestire la
situazione creatasi in Iraq in seguito agli editti di Bremer: un popolo in aperta ribellione e un enorme
vuoto dove un tempo c'erano l'esercito e la polizia irachene. Mancando loro i numeri per tenere sotto
controllo le strade, le forze di occupazione dovettero limitarsi a raccogliere persone dalle strade e
metterle in prigione. Le migliaia di detenuti rastrellati durante i raid furono portate agli agenti della Cia,
ai soldati americani e agli appaltatori privati - molti dei quali non addestrati che condussero interrogatori aggressivi per scoprire quel che potevano sulla resistenza.
Nei primi giorni dell'occupazione, la Zona verde era stata sede di economisti shockterapeuti provenienti
da Polonia e Russia: ora divenne una calamita per un diverso tipo di esperti di shock: quelli specializzati
nelle arti oscure della soppressione dei movimenti di resistenza. Le società di sicurezza private ricorsero
alla consulenza di veterani delle guerre sporche in Colombia, Sudafrica e Nepal. Secondo il giornalista
Jeremy Scahill, la Blackwater e altre agenzie private di sicurezza assunsero più di 700 militari cileni molti dei quali erano operatori delle forze speciali - da impiegare in Iraq; alcuni di loro erano stati
addestrati e avevano collaborato con il regime di Pinochet.
Uno dei più quotati specialisti di shock era il comandante americano James Steele, che arrivò in Iraq nel
maggio 2003. Steele era stato una figura di spicco nelle crociate della destra in Centroamerica, dove era
stato consulente capo per diversi battaglioni dell'esercito salvadoregno accusati di essere squadroni della
morte. Più di recente, era stato vicepresidente della Enron e in origine era andato in Iraq come consulente
per l'energia, ma quando era sorta la resistenza era tornato nel suo vecchio ruolo ed era diventato il
principale consulente di Bremer per la sicurezza. Steele fu incaricato di portare in Iraq quella a cui fonti
anonime al Pentagono davano l'inquietante nome di "Opzione Salvador". John Sifton, ricercatore capo
alla Human Rights Watch, mi disse che gli abusi contro i prigionieri in Iraq non seguivano lo schema
abituale. Di solito, nelle zone di conflitto, gli abusi hanno luohgo nella prima fase, nella cosiddetta legge
della guerra, quando il campo di battaglia è caotico e nessuno conosce le regole. Così è andata in
Afghanistan, disse Sifton, "ma in Iraq è diverso: le cose sono iniziate in modo professionale e poi sono
peggiorate, non migliorate". Per Sifton la svolta si situa alla fine dell'agosto del 2003: quattro mesi dopo
la caduta di Baghdad. Fu in quel momento, disse, che le denunce di abusi cominciarono a farsi numerose.
Secondo questa cronologia, lo shock della camera di tortura emerse subito dopo gli shock economici più
controversi di Bremer. Gli ultimi giorni di agosto segnarono la fine della lunga estate di Bremer: un'estate
di leggi approvate ed elezioni cancellate. Poiché quelle mosse non facevano che affollare i ranghi della
resistenza, furono inviati soldati americani a buttar giù porte e tentare di soffocare i sentimenti di sfida
che animavano gli Iracheni, un uomo in età militare per volta. La tempistica di questa svolta può essere
seguita chiaramente attraverso una serie di documenti desecretati che vennero alla luce in seguito allo
scandalo su Abu Ghraib. La traccia cartacea emerse il 14 agosto 2003, quando il capitano William
Ponce, funzionario dell'intelligence al quartier generale dell'esercito americano in Iraq, inviò una e-mail
ai suoi colleghi ufficiali di stanza in varie aree del Paese. Conteneva ormai la famigerata affermazione:
"Signori: riguardo a questi detenuti, ci stiamo togliendo i guanti. [...] [un colonnello] ha detto chiaramente
che vogliamo spezzare le difese di questi individui. Le perdite umane aumentano, e noi dobbiamo iniziare
a raccogliere le informazioni per proteggere i nostri soldati da ulteriori attacchi". Ponce chiedeva ai
militari incaricati degli interrogatori quali tecniche avrebbero voluto usare contro i detenuti: la chiamava
"lista dei desideri". La sua cartella inbox si riempì di suggerimenti, tra cui
"elettrocuzione". Due settimane dopo, il 31 agosto, il maggiore Geoffrey Miller, guardiano della prigione
di Guantanamo, fu inviato in Iraq con la missione di "guantanamizzare" la prigione di Abu Ghraib. Altre
due settimane dopo, il 14 settembre, il tenente generale Eicardo Sanchez, comandante delle truppe in Iraq,
autorizzò una vasta gamma di nuove procedure per gli interrogatori, basate sul modello in uso a
Guantanamo, tra cui l'umiliazione deliberata (detta pride and ego down), lo
"sfruttamento della paura degli arabi nei confronti dei cani", la deprivazione sensoriale (o "controllo
delle luci"), la sovrastimolazione sensoriale (urla, musica a tutto volume) e le "posizioni di stress".
Poco dopo la diffusione del memorandum di Sanchez, all'inizio di ottobre, ebbero luogo gli episodi
documentati nelle famigerate fotografie di Abu Ghraib.
La squadra di Bush non era riuscita a ridurre all'obbedienza gli iracheni attraverso lo shock, né con
l'operazione Shock and Awe né con la shockterapia economica. Ora le tattiche di shock diventavano più
personali, avvalendosi dell'inconfondibile formula del manuale Kubark per indurre la regressione.
Molti dei prigionieri più importanti furono condotti in un'area di sicurezza vicino all'aeroporto
internazionale di Baghdad, gestito da una task force militare e dalla Cia. Accessibile solo dietro
presentazione di speciali permessi, e nascosto alla Croce Rossa, l'edificio era così clandestino che
l'ingresso era vietato anche a ufficiali militari di alto livello. Per mantenere la copertura cambiava spesso
nome: da Task Force 20 a 121 a 6-26 a Task Force 145.
I prigionieri risiedevano in un piccolo edificio progettato per ricreare le condizioni da manuale del
Kubark, tra cui la totale deprivazione sensoriale. L'edificio era diviso in cinque aree: un ambulatorio
medico, una "stanza soft" che somigliava a un salotto (per i prigionieri che collaboravano), una stanza
rossa, una stanza blu e la temutissima stanza nera, una piccola cella in cui ogni superficie era pitturata di
nero e c'erano casse acustiche ai quattro angoli.
L'esistenza di questa struttura segreta divenne di pubblico dominio solo quando un sergente che lavorava
lì contattò la Human Rights Watch con lo pseudonimo di Jeff Perry e descrisse loro questo strano luogo.
In confronto al manicomio di Abu Ghraib, con le sue guardie non addestrate che inventavano le procedure
giorno per giorno, l'edificio gestito dalla Cia all'aeroporto era ordinato e disciplinato in maniera
inquietante. Secondo Perry, quando gli addetti agli interrogatori volevano usare "tattiche oppressive"
contro i prigionieri nella stanza nera, usavano un computer e stampavano un modulo che costituiva una
specie di menu per le torture. "Era già tutto scritto" ricordò Perry.
"Controlli dell'ambiente, caldo e freddo, luci stroboscopiche, musica eccetera. I cani... Bastava mettere
una crocetta sulle tecniche che volevi usare." Una volta compilati, i moduli venivano portati a un ufficiale
superiore per ricevere l'autorizzazione. "Non ho mai visto un foglio che non sia stato firmato" disse
Perry.
Lui e altri colleghi erano preoccupati per il fatto che le tecniche usate violassero la Convenzione di
Ginevra, che proibisce l'uso di "trattamenti atti a umiliare e degradare". Temendo di rischiare un
processo se il loro lavoro fosse divenuto pubblico, Perry e altri tre andarono dal loro colonnello e
"gli dicemmo che non ci sentivamo a nostro agio con questo genere di abusi". La prigione segreta era così
efficiente che nel giro di due ore un team di avvocati militari giunse sul posto con una presentazione
PowerPoint che spiegava perché i detenuti non erano protetti dalle Convenzioni di Ginevra, e perché la
deprivazione sensoriale - nonostante le ricerche della stessa Cia provassero il contrario - non era
definibile come tortura. "Oh, accadde tutto molto in fretta" disse Perry a proposito dei tempi di reazione.
"Era come se avessero già tutto pronto. Voglio dire, avevano due ore di diapositive, già preparate."
C'erano altri luoghi, in giro per l'Iraq, dove i prigionieri erano sottoposti alle stesse tattiche di
deprivazione sensoriale mutuate dal manuale Kubark; alcune di esse ricordavano più gli esperimenti di
McGill di tanti anni prima. Un altro sergente parlò di una prigione situata in una base militare chiamata
"Tiger", nei pressi di al-Qaim, vicino al confine siriano, che ospitava dai venti ai quaranta detenuti.
Erano bendati, ammanettati e rinchiusi in arroventati container di metallo per ventiquattr'ore - "senza
sonno, senza cibo, senza acqua" riferì il colonnello. Dopo essere stati ammorbiditi dalla cella di
deprivazione sensoriale, i prigionieri venivano bombardati con luci stroboscopiche e musica heavy
metal.
Metodi analoghi erano in uso in una base di Operazioni speciali vicino a Tikrit; ma qui i prigionieri
erano rinchiusi in scatole ancora più piccole: un metro e mezzo per un metro e mezzo e profonde mezzo
metro, troppo piccole perché un adulto potesse sdraiarsi o stare in piedi, e che ricordavano da vicino le
celle descritte nel Cono del Sud latinoamericano. I prigionieri erano tenuti in questo isolamento
sensoriale estremo anche per una settimana. Almeno uno dei prigionieri riferì di aver subito scariche
elettriche da parte dei soldati americani, anche se questi ultimi negarono. C'è tuttavia un corpus di prove
significative, ma poco discusse, che suggeriscono che i militari americani abbiano effettivamente usato
l'elettricità come tecnica di tortura in Iraq. Il 14 maggio 2004, in un caso che ricevette pochissima
attenzione dai media, due marines furono condannati al carcere per aver torturato con scariche elettriche
un prigioniero un mese prima. In base a documenti governativi ottenuti dall'Unione americana per le
libertà civili, un soldato "colpì un detenuto iracheno con un trasformatore elettrico. [...] Tenne i cavi
vicino alla spalla del detenuto" finché "il detenuto si mise a "ballare" mentre subiva la scarica elettrica".
Quando furono pubblicate le terribili fotografie scattate ad Abu Ghraib, tra cui quella che raffigurava un
prigioniero incappucciato in piedi su una scatola con cavi elettrici che gli penzolavano dalle braccia,
l'esercito ebbe uno strano problema: "Diversi detenuti hanno sostenuto di essere la persona ritratta nella
fotografia in questione" spiegò il portavoce del Comando di investigazione criminale dell'esercito,
l'agenzia incaricata di indagare sugli abusi ai prigionieri. Uno di quei detenuti era Haj Ali, ex sindaco
distrettuale. Ali disse di essere stato incappucciato, costretto a stare in piedi su una scatola, e che gli
erano stati applicati cavi elettrici sul corpo. Ma, contrariamente alle guardie di Abu Ghraib, che
sostenevano che nei cavi non passava corrente elettrica. Ali disse alla Pbs: "Quando mi hanno fulminato
con l'elettricità, mi pareva che i bulbi oculari mi uscissero dalle orbite".
Come migliaia di altri prigionieri, Ali fu liberato da Abu Ghraib senza alcuna incriminazione a suo
carico, e spinto giù da un camion con le parole "Sei stato arrestato per errore". Ufficiali dell'esercito Usa
hanno ammesso (e la Croce Rossa ha confermato) che tra il 70 e il 90 per cento delle detenzioni in Iraq
erano frutto di "errori". Secondo Ali, molti di questi errori umani sono usciti dalle prigioni americane in
cerca di vendetta. "Abu Ghraib è terreno fertile per la ribellione [...] Tutti gli insulti e le torture li
rendono disposti a fare praticamente qualsiasi cosa. Chi può biasimarli?" Molti soldati americani
comprendono, e temono, questa reazione. "Se prima era un brav'uomo, capisci, ora è un uomo malvagio
per via di come noi l'abbiamo trattato", disse un sergente dell'ottantaduesima divisione aviotrasportata, di
stanza in un edificio adibito a prigione particolarmente brutale presso una base militare americana nei
pressi di Fallujah, sede di un battaglione che si autodefiniva con fierezza "i Maniaci assassini".
La situazione è molto peggiore nelle carceri gestite da iracheni. Saddam ha sempre fatto largo uso della
tortura per consolidare il suo potere. Perché la tortura smettesse di essere usata nell'Iraq postbellico, un
nuovo governo avrebbe dovuto sforzarsi di ripudiare queste tattiche. Invece, gli Stati Uniti sfruttarono la
tortura per i propri scopi, fissando uno standard negativo proprio mentre addestravano e
supervisionavano la nuova forza di polizia irachena.
Nel gennaio 2005, la Human Rights "Watch scoprì che all'interno delle prigioni e dei centri di detenzione
gestiti da iracheni (e sorvegliate dagli americani) l'uso della tortura era "sistematico", e comprendeva
l'applicazione di elettroshock. Un rapporto interno della Prima divisione di cavalleria sostiene che
"l'elettroshock e il soffocamento" sono "regolarmente usati per ottenere confessioni" da parte della
polizia e dell'esercito iracheno. I carcerieri iracheni usavano anche il celebre simbolo della tortura
latinoamericana, la picana, il pungolo elettrico per il bestiame. Nel dicembre 2006, il
"New York Times" parlò del caso di Faraj Mahmoud, che era stato "spogliato e appeso al soffitto.
Mahmoud raccontò che gli era stato applicato sui genitali un pungolo elettrico, che aveva fatto rimbalzare
il suo corpo contro le pareti".
Nel marzo 2005, il reporter del "New York Times Magazine" Peter Maass si infiltrò in un'unità speciale
della polizia, addestrata da James Steele. Maass visitò una biblioteca pubblica a Samarra che era stata
convertita in una macabra prigione. All'interno, vide prigionieri bendati e ammanettati, alcuni di essi
picchiati a sangue, e vide una scrivania "macchiata sui lati con rivoli di sangue". Sentì urla e conati di
vomito che descrisse come "agghiaccianti, come le grida di un pazzo, o di qualcuno che sta diventando
pazzo". Udì anche chiaramente due colpi d'arma da fuoco sparati "dentro o dietro il centro di detenzione".
A El Salvador, gli squadroni della morte erano famigerati per il loro uso dell'omicidio non solo come
mezzo per disfarsi degli oppositori politici, ma per inviare messaggi di terrore a un pubblico più ampio. I
corpi mutilati che apparivano sul ciglio delle strade dicevano a ogni cittadino che se infrangeva le regole,
il prossimo cadavere sarebbe stato il suo. Spesso, i corpi torturati erano corredati da un cartello con la
firma dello squadrone: Mano Bianco o Brigata Maximiliano Hernandez. Nel 2005 questi messaggi erano
ormai uno spettacolo frequente sui marciapiedi iracheni: prigionieri, visti per l'ultima volta sotto custodia
dei commando iracheni, generalmente legati al ministero dell'Interno, ritrovati con un singolo foro di
proiettile in testa, le mani ancora legate dietro la schiena, o con buchi di trapano elettrico nel cranio. Nel
novembre 2005, il "Los Angeles Times" riferì che all'obitorio di Baghdad "arrivano dozzine di cadaveri
a orari fissi ogni settimana, tra cui moltissimi corpi con i polsi legati da manette della polizia". Spesso
gli obitori conservavano le manette di ferro per restituirle alla polizia.
In Iraq, ci sono anche sistemi più tecnologici per inviare messaggi di terrore. Sul network televisivo Al
Iraqiya, finanziato dagli Stati Uniti, il programma Terrorismo nella morsa della giustizia è seguito da un
vasto pubblico. La serie è prodotta in collaborazione con i commando iracheni
"salvadorizzati". Diversi prigionieri rilasciati hanno spiegato in che modo è registrata la trasmissione: i
detenuti, spesso catturati a caso in rastrellamenti di quartiere, vengono picchiati e torturati, si minacciano
le loro famiglie finché non sono pronti a confessare qualsiasi crimine, anche crimini che, come hanno
dimostrato gli avvocati, non sono mai stati commessi. Poi le telecamere immortalano i prigionieri mentre
"confessano" di essere ribelli, oltre che ladri, omosessuali e bugiardi. Ogni sera, gli iracheni guardano
queste confessioni provenire dai volti feriti e gonfi di uomini che con ogni evidenza hanno subito torture.
"La trasmissione ha un buon effetto sui civili"
ha detto a Maass Adnan Thabit, leader dei commando salvadorizzati.
Dieci mesi dopo la prima menzione dell'"opzione Salvador" sulla stampa, divennero chiare le sue atroci
implicazioni. I commando iracheni, originariamente addestrati da Steele, lavoravano ufficialmente per il
ministero dell'Interno iracheno, che, di fronte alle domande di Maass su ciò che aveva visto nella
biblioteca, aveva dichiarato di "non permettere che avvengano abusi dei diritti umani contro prigionieri
che sono nelle mani delle forze di sicurezza del ministero dell'Interno". Ma nel novembre 2005, 173
iracheni furono scoperti in un sotterraneo del ministero: alcuni di loro avevano subito così tante torture
che la pelle si staccava dal corpo; altri avevano i segni di trapano nel cranio ed erano state rimosse loro
le unghie dei piedi. I prigionieri rilasciati dissero che non tutti ne erano usciti vivi. Compilarono una lista
di 18 persone che erano state torturate a morte nei sotterranei del ministero: i desaparecidos dell'Iraq."
Durante le mie ricerche sugli esperimenti di Ewen Cameron con l'elettroshock negli anni Cinquanta, mi
imbattei in un'osservazione di uno dei suoi colleghi, uno psichiatra di nome Fred Lowy. "I freudiani
avevano sviluppato tutti quei metodi approfonditi per spellare la cipolla e arrivare al cuore del
problema" aveva detto.
"Cameron voleva trapanare dritto al centro, e al diavolo gli strati intermedi. Ma, come poi scoprimmo,
gli strati sono tutto ciò che c'è." Cameron pensava di poter spazzare via tutti gli strati dei suoi pazienti e
ricominciare da capo; sognava di creare personalità nuove di zecca. Ma i suoi pazienti non rinascevano:
erano confusi, feriti, spezzati.
Anche gli shockterapeuti dell'Iraq fecero esplodere gli strati superficiali, alla ricerca di quella sfuggente
tabula rasa su cui creare il loro nuovo Paese modello. Trovarono soltanto i cumuli di macerie che loro
stessi avevano creato, e milioni di persone psicologicamente e fisicamente distrutte
- distrutte da Saddam, distrutte dalla guerra, distrutte l'una dall'altra. I capitalisti dei disastri arruolati
dalla Casa Bianca di Bush non ripulirono l'Iraq, lo resero solo inquieto. Anziché una tabula rasa,
purificata dalla storia, trovarono antiche faide, riportate in superficie per fondersi con le nuove ritorsioni
che seguivano ogni attacco: a una moschea di Karbala, a Samarra, in un mercato, un ministero, un
ospedale. I Paesi, come le persone, non si riavviano da zero con una giusta dose di shock; si spezzano e
continuano a spezzarsi.
Il che, naturalmente, richiede ulteriori esplosioni: aumentare le dosi, tener premuto il bottone più a lungo,
più dolore, più bombe, più torture. L'ex vicesegretario di Stato Richard Armitage, che aveva predetto che
gli iracheni sarebbero stati facilmente condotti dal punto A al punto B, nel frattempo è giunto alla
conclusione che il vero problema era l'eccessiva delicatezza degli Stati Uniti. "Il modo umano in cui la
coalizione ha combattuto la guerra" disse "ha condotto in realtà a una situazione in cui è più difficile anziché più facile - spingere le persone a unirsi. In Germania e in Giappone
[dopo la Seconda guerra mondiale], la popolazione era esausta e profondamente scioccata da quanto era
accaduto, ma in Iraq è successo il contrario. Una vittoria molto rapida sulle forze nemiche non ci ha
permesso di sottomettere la popolazione come era avvenuto in Giappone e Germania [...] Gli Stati Uniti
hanno a che fare con un popolo iracheno non-scioccato e nonterrorizzato." Nel gennaio 2007 Bush e i suoi
consiglieri erano ancora convinti di poter ottenere il controllo dell'Iraq con una sola efficace "scarica",
una scarica che riuscisse a spazzar via Moqtada al-Sadr: un "cancro che mina l'autorità" del governo
iracheno. Il rapporto su cui si basava questa strategia della scarica mirava "allo svuotamento del centro
di Baghdad" e, quando le forze di al-Sadr si fossero spostate a Sadr City, "svuotare con la forza [anche]
quella roccaforte sciita".
Negli anni Settanta, quando iniziò la crociata corporativista, si usavano tattiche che i tribunali hanno in
seguito dichiarato apertamente genocide: la deliberata cancellazione di un segmento della popolazione. In
Iraq, era accaduto qualcosa di ancor più mostruoso: la cancellazione non di un segmento ma di un intero
Paese; l'Iraq sta scomparendo, si sta disintegrando. Iniziò, come spesso succede, con la sparizione delle
donne, dietro veli e porte, e poi sparirono i bambini dalle scuole (nel 2006 due terzi di loro rimasero a
casa). Poi fu la volta dei professionisti: medici, professori, imprenditori, scienziati, farmacisti,
magistrati, avvocati. Si stima che trecento accademici iracheni siano stati assassinati dagli squadroni
della morte dall'invasione americana a oggi, tra cui diversi direttori di dipartimento; altre migliaia di
persone sono fuggite. Ai medici è andata ancora peggio: si stima che nel febbraio 2007 duemila di loro
fossero stati uccisi e 12.000 fossero fuggiti. Nel novembre 2006, l'Alto commissariato dell'Onu per i
rifugiati stimò che tremila iracheni scappassero dal Paese ogni giorno. Nell'aprile 2007 l'organizzazione
riferiva che 4 milioni di persone erano state costrette a lasciare le loro case: circa un iracheno su sette.
Solo poche centinaia di quei rifugiati erano stati accolti negli Stati Uniti.
Con l'industria irachena sull'orlo del collasso, uno fra i pochi business locali di successo è quello dei
rapimenti. In soli tre mesi e mezzo all'inizio del 2006, in Iraq furono rapite quasi 20.000 persone. I media
internazionali si occupano della cosa solo quando a essere rapito è un occidentale, ma la grande
maggioranza degli ostaggi sono professionisti iracheni, prelevati mentre vanno o tornano dal lavoro. Le
loro famiglie devono raccogliere decine di migliaia di dollari americani per il riscatto, oppure
identificare i corpi dei loro cari all'obitorio. Anche la tortura è un'industria fiorente. I gruppi umanitari
hanno documentato numerosi casi di poliziotti iracheni che chiedono migliaia di dollari alle famiglie dei
prigionieri in cambio dell'interruzione delle torture. È il capitalismo dei disastri in versione autoctona
irachena.
Non era questo che l'amministrazione Bush aveva in mente per l'Iraq quando lo scelse come nazione
modello per il resto del mondo arabo. L'occupazione era iniziata con allegri discorsi sulla tabula rasa e i
nuovi inizi. Non ci volle molto, però, perché il desiderio di pulizia si tramutasse in discorsi sullo
"sradicare l'Islamismo" a Sadr City o Najaf e "rimuovere il cancro dell'Islam radicale" da Fallujah e
Ramadi: ciò che non era pulito sarebbe stato ripulito con la forza.
È così che funzionano i progetti di costruzione di società modello in Paesi altrui. Le campagne di
ripulitura sono raramente premeditate. È solo quando gli abitanti del posto rifiutano di abbandonare il
loro passato che il sogno della tabula rasa si tramuta nel suo tragico alter ego, la terra bruciata; solo
allora il sogno di creazione totale diventa una campagna di totale distruzione.
La violenza inattesa che oggi attanaglia l'Iraq è la creazione dell'ottimismo tragico degli artefici della
guerra; era già preannunciata in quell'espressione apparentemente innocua, persino idealistica: un
modello per un nuovo Medioriente. La disintegrazione dell'Iraq affonda le sue radici nell'ideologia che
richiedeva una tabula rasa su cui scrivere la sua nuova storia. E quando nessuna tela bianca si profilò
all'orizzonte, il fautore di quell'ideologia rase al suolo, ricostruì e rase al suolo nuovamente, nella
speranza di raggiungere quella terra promessa.
Fallimento: il nuovo volto del successo.
In aereo, di ritorno da Baghdad, ogni posto era occupato da un appaltatore straniero in fuga dalla
violenza. Era l'aprile 2004, e sia Fallujah sia Najaf erano sotto assedio; 1500 appaltatori uscirono
dall'Iraq in quella sola settimana. Molti altri avrebbero fatto lo stesso. All'epoca ero convinta di essere
di fronte alla prima vera sconfitta della crociata corporativista. L'Iraq era stato messo a ferro e fuoco con
ogni arma di shock tranne la bomba atomica, eppure nulla poteva piegare questo Paese.
L'esperimento, evidentemente, era fallito.
Oggi non ne sono più così sicura. Da un certo punto di vista, non c'è dubbio che alcune parti del progetto
siano state un disastro. Bremer era stato inviato in Iraq per costruire un'utopia commerciale: invece, l'Iraq
è diventato un'utopia negativa e tragica, in cui andare a una semplice riunione di lavoro può significare
finire linciati, bruciati vivi o decapitati. Nel maggio 2007, più di 900 appaltatori erano stati uccisi e "più
di 12.000 feriti in battaglia o sul lavoro", secondo un'analisi del "New York Times". Gli investitori che
Bremer si era tanto sforzato di attrarre non si erano mai fatti vedere - né l'Hsbc, né la Procter&Gamble,
che come la General Motors aveva lasciato in sospeso la sua joint venture. La New Bridge Strategies,
l'azienda che aveva rilasciato roboanti dichiarazioni su come "un Wal-Mart avrebbe potuto conquistare il
Paese", dovette ammettere che
"McDonalds non
aprirà i battenti in Iraq nel prossimo futuro". I contratti della Bechtel per la ricostruzione non si
trasformarono automaticamente in appalti a lungo termine per la gestione dei sistemi idrici ed elettrici. E
alla fine del 2006, le attività private di ricostruzione che erano al centro dell'anti-Piano Marshall erano
state quasi tutte abbandonate: e si erano verificate alcune sostanziali inversioni di politica.
Stuart Bowen, ispettore speciale americano per la ricostruzione in Iraq, riferì che nei pochi casi in cui gli
appalti andarono direttamente ad aziende irachene, "era più efficiente e meno costoso. E ha dato una
spinta all'economia perché fa lavorare gli iracheni". Si scopre cioè che finanziare gli iracheni perché
ricostruiscano il loro Paese è più conveniente che affidarsi a gigantesche multinazionali che non
conoscono il Paese né la lingua, si circondano di mercenari da 900 dollari al giorno e consumano fino al
55 per cento del loro bilancio contrattuale per le spese generali. John C.
Bowersox, che lavorava come consulente per la sanità all'ambasciata Usa a Baghdad, fece questa
radicale osservazione: il problema della ricostruzione in Iraq, disse, era il desiderio di ricostruire tutto
da zero. "Avremmo potuto apportare migliorie a basso costo, invece di cercare di trasformare il loro
intero sistema sanitario in due anni."
Un voltafaccia ancor più vistoso venne dal Pentagono. Nel dicembre 2006, annunciò un nuovo progetto
per risollevare le fabbriche statali irachene: le stesse a cui Bremer si era rifiutato di dare generatori
d'emergenza perché le considerava residui stalinisti. Ora il Pentagono capì che anziché comprare
cemento e parti di macchinari dalla Giordania e dal Kuwait, avrebbe potuto comprarle dalle fabbriche
irachene in crisi, dando lavoro a decine di migliaia di persone e redistribuendo gli introiti nelle comunità
locali. Paul Brinkley, vice sottosegretario alla Difesa per la trasformazione commerciale in Iraq, disse:
"Abbiamo esaminato più attentamente alcune di queste fabbriche, e abbiamo scoperto che non erano le
malandate imprese sovietiche che credevamo fossero"; ammise però che alcuni suoi colleghi avevano
iniziato a dargli dello stalinista.
Il generale dell'esercito Peter W. Chiarelli, l'ufficiale-americano di più alto rango in Iraq, spiegò che
"dobbiamo mettere al lavoro i giovani arrabbiati. [...] Una diminuzione relativamente contenuta del tasso
di disoccupazione potrebbe avere un effetto molto consistente sul numero di omicidi commessi nelle lotte
tra fazioni". Non riuscì a trattenersi dall'aggiungere: "Trovo incredibile che dopo quattro anni non siamo
ancora riusciti a capirlo. [...] Per me, è una cosa enorme. È altrettanto importante di qualsiasi altra parte
della campagna militare".''"
Questi voltafaccia sono un segnale che il capitalismo dei disastri è morto? Niente affatto. Quando gli
ufficiali americani giunsero alla conclusione che non c'era bisogno di ricostruire un Paese nuovo di
zecca, che era più importante dare agli iracheni posti di lavoro e alle loro industrie una fetta dei miliardi
stanziati per la ricostruzione, i soldi che avrebbero finanziato quell'impresa erano già stati spesi.
Nel frattempo, nel pieno dell'ondata di epifanie neo-keynesiane, l'Iraq fu colpito dal tentativo finora più
scenografico di sfruttamento della crisi. Nel dicembre 2006, l'Iraq Study Group, organizzazione
bipartisan guidata da James Baker, pubblicò il suo attesissimo rapporto. Chiedeva agli Stati Uniti di
"assistere i leader iracheni nella riorganizzazione dell'industria petrolifera nazionale come impresa
commerciale" e di "incoraggiare gli investimenti nel settore petrolifero iracheno da parte della comunità
internazionale e delle compagnie elettriche internazionali".
Gran parte delle raccomandazioni offerte dall'Iraq Study Group furono ignorate dalla Casa Bianca, ma
non questa: l'amministrazione Bush contribuì immediatamente alla stesura di una nuova e radicale
legislazione sul petrolio per l'Iraq, che avrebbe permesso a giganti come la Shell e la BP di firmare
contratti di 30 anni che avrebbero garantito loro una larga fetta dei profitti, decine o centinaia di miliardi
di dollari: una cosa inaudita in Paesi come l'Iraq, dove il petrolio è facilmente accessibile, e una
condanna alla povertà perpetua in un Paese dove il 95 per cento delle entrate del governo provengono dal
petrolio. Era una proposta così impopolare che neppure Paul Bremer aveva osato farla nel primo anno di
occupazione. Eppure saltava fuori adesso, approfittando del caos sempre maggiore. Per spiegare come
mai fosse giustificabile far uscire dall'Iraq una percentuale così alta dei profitti, le compagnie petrolifere
parlarono dei rischi per la sicurezza. In altri termini, fu il disastro a rendere possibile la radicale
proposta di legge.
Il tempismo di Washington fu estremamente rivelatore. Mentre si cercava l'approvazione della legge,
l'Iraq era di fronte alla crisi più profonda della sua storia: il Paese era dilaniato dai conflitti tra fazioni,
con una media di mille iracheni uccisi alla settimana. Saddam Hussein era appena stato messo a morte: un
episodio provocatorio e brutale. Simultaneamente, Bush sguinzagliava le sue truppe in Iraq, agendo in
base a regole d'ingaggio "meno restrittive". In questo periodo l'Iraq era troppo instabile perché i giganti
del petrolio potessero rischiare grossi investimenti, quindi non c'era bisogno urgente di una nuova legge:
a meno di voler usare il caos per evitare un dibattito pubblico sulla questione più pressante per il Paese.
Molti legislatori eletti iracheni dissero di non aver mai saputo che si stava preparando una legge, e di non
essere stati minimamente consultati nella sua stesura. Greg Muttitt, un ricercatore del gruppo di controllo
del petrolio Platform, riferì: "Di recente ho partecipato a una riunione di parlamentari iracheni, e ho
chiesto quanti di loro avessero visto la legge. Su venti persone, solo una l'aveva vista". Secondo Muttitt,
se la legge fosse passata, gli iracheni "sarebbero stati molto danneggiati perché al momento non sono in
grado di fare un buon affare".
I sindacati iracheni dichiararono che "la privatizzazione del petrolio è una linea rossa che non può essere
superata" e, in una dichiarazione congiunta, condannarono la legge come un tentativo di impadronirsi
"delle risorse energetiche irachene in un momento in cui il popolo iracheno cerca di costruire il suo
futuro, pur ancora in condizioni di occupazione". La legge che fu infine adottata dal governo iracheno nel
febbraio 2007 era ancor peggio del previsto: non poneva limiti ai profitti che le aziende straniere
potevano fare nel Paese, e non richiedeva obblighi specifici riguardo al fatto che gli investitori stranieri
stringessero partnership con le aziende irachene o che assumessero iracheni nei giacimenti petroliferi. La
legge negava espressamente ai parlamentari eletti dell'Iraq il diritto di avere voce in capitolo nei termini
contrattuali per i futuri appalti nel settore petrolifero. Creò invece un nuovo organismo, il Consiglio
federale per il petrolio e il gas, che, secondo il "New York Times", si sarebbe avvalso di "un gruppo di
consulenti esperti del settore petrolifero e provenienti sia dall'Iraq sia dall'estero". Questa commissione
non eletta, consigliata da stranieri non meglio specificati, avrebbe avuto potere decisionale su tutte le
questioni legate al petrolio, con la piena autorità di decidere quali contratti l'Iraq avrebbe firmato e quali
no. Di fatto, la legge chiedeva che le riserve petrolifere pubbliche dell'Iraq, ovvero la più grande fonte di
reddito del Paese, fossero sottratte al controllo democratico e gestite invece da una potente e ricca
dittatura del petrolio, che sarebbe coesistita con il malandato e inefficiente governo iracheno.
È difficile sopravvalutare l'entità dei drammi provocati da
questo tentativo di accaparramento delle risorse irachene. I profitti dell'industria petrolifera sono l'unica
speranza per l'Iraq di finanziare la propria ricostruzione, quando finalmente tornerà qualcosa di simile
alla pace. Avanzare pretese su quelle ricchezze future in una fase di disintegrazione nazionale è stata
l'espressione più spudorata del capitalismo dei disastri.
Il caos in Iraq ebbe un'altra conseguenza, di cui si parlò meno: più a lungo il caos si trascinava, e più la
presenza estera diventò privatizzata, fino a forgiare un nuovo paradigma di guerra e di risposta alle
catastrofi umane.
È qui che l'ideologia della privatizzazione radicale, che è al cuore dell'anti-Piano Marshall, pagò i suoi
dividendi. Il netto rifiuto opposto dall'amministrazione Bush alla possibilità di inviare risorse umane per
la guerra in Iraq - sia sotto forma di truppe, sia di amministratori civili - produsse chiari benefici per
l'altra guerra che Bush stava combattendo, quella per esternalizzare il governo americano. Questa
crociata, pur cessando di essere oggetto della retorica pubblica dell'amministrazione, è sempre rimasta
un'ossessione dietro le quinte, e ha avuto più successo di tutte le altre battaglie dell'amministrazione
messe insieme.
Poiché Rumsfeld definiva la guerra come un'invasione organizzata all'ultimo istante, in cui i soldati erano
lì all'unico scopo di combattere, e poiché nel primo anno di missione in Iraq aveva eliminato 55.000
posti di lavoro nel dipartimento della Difesa e in quello dei Veterani di guerra, il settore privato dovette
colmare le lacune a tutti i livelli. In pratica, questa configurazione significava che mentre l'Iraq
precipitava nella spirale dei disordini, nacque un'industria bellica privata ancor più elaborata per
sostenere l'esercito ridotto all'osso: sia sul campo, in Iraq, sia in patria, ad assistere i soldati feriti al
Walter Reed Medical Center.
Dal momento che Rumsfeld aveva rifiutato bruscamente ogni soluzione che richiedesse di aumentare le
dimensioni dell'esercito, i militari dovettero trovare altri modi per arruolare nuovi soldati nelle attività
di combattimento. Le agenzie di sicurezza private si riversarono in Iraq per svolgere funzioni un tempo
appannaggio dei soldati: sicurezza personale per gli ufficiali di rango elevato, sorveglianza nelle basi
militari, guardie del corpo per altri appaltatori. Una volta lì, i loro ruoli si espansero ulteriormente in
risposta al caos. L'originario contratto firmato dalla Blackwater in Iraq prevedeva la fornitura di
sicurezza privata per Bremer, ma a un anno dall'inizio dell'occupazione si ritrovò a combattere per
le strade. Durante la rivolta del movimento di Moqtada al-Sadr, a Najaf nell'aprile 2004, la Blackwater
assunse di fatto il comando sui marines americani in servizio attivo in una battaglia durata un giorno
intero con l'esercito Mahdi, durante la quale persero la vita dozzine di iracheni.'' '
All'inizio dell'occupazione, in Iraq c'erano circa 10.000 soldati privati, già molti di più rispetto alla
Prima guerra del Golfo. Tre anni dopo, un rapporto dell'Ufficio contabilità del governo americano scoprì
che c'erano 48.000 militari privati, provenienti da tutto il mondo, di stanza in Iraq. I mercenari
rappresentavano il più ampio contingente di soldati dopo l'esercito americano: più di tutti gli altri membri
della "Coalizione dei volenterosi" messi assieme. Il "boom di Baghdad", come lo chiamavano i giornali
finanziari, incorporò pienamente nelle macchine belliche inglese e americana quello che era un settore in
ombra e malvisto. La Blackwater assunse aggressivi lobbisti di Washington per cancellare la parola
"mercenario" dal vocabolario pubblico e trasformare l'azienda in un marchio americano per eccellenza.
Secondo l'amministratore delegato, Erick Prince, "Tutto questo deriva dal nostro mantra aziendale:
cerchiamo di fare per l'apparato federale di sicurezza quello che la Fedex ha fatto per il servizio
postale".''
Quando la guerra si spostò dentro le carceri, l'esercito disponeva di così pochi interpreti dall'arabo e
carcerieri specializzati nelle tecniche di interrogatorio che non riusciva a estorcere informazioni ai
prigionieri e dovette rivolgersi a un appaltatore della difesa, la Caci International Inc. Nel contratto
originario, il ruolo della Caci in Iraq era quello di fornire "tecnologie dell'informazione" all'esercito, ma
i termini in cui era espresso erano talmente vaghi che "tecnologie dell'informazione" poteva giungere a
significare "tecniche di interrogatorio". La flessibilità era voluta: la Caci è parte di una nuova razza di
appaltatori che funge da agenzia di lavoro temporaneo per il governo federale, a cui è legato da contratti
scritti in linguaggio vago, e arruola molti potenziali lavoratori, pronti a riempire i posti liberi. Chiamare
la Caci, i cui dipendenti non sono tenuti a rispettare i rigorosi livelli di addestramento e sicurezza
richiesti agli impiegati governativi, era facile come ordinare cancelleria per l'ufficio: dozzine di nuovi
carcerieri arrivarono in un lampo.
Nota: il rovescio della medaglia è che gli appaltatori agivano con pochissima supervisione. Come
appurò l'inchiesta condotta dall'esercito sullo scandalo di Abu Ghraib, i funzionari governativi incaricati
di monitorare la Services Ine, che vinse l'appalto per svolgere molti dei servizi all'ospedale militare
Walter Reed.
L'azienda che guadagnò di più dal caos fu la Halliburton. Prima dell'invasione, aveva ottenuto un appalto
per spegnere gli incendi dei pozzi di petrolio appiccati dalle armate di Saddam in ritirata.
Quando quegli incendi non scoppiarono, il contratto della Halliburton fu allargato per ricomprendere una
nuova funzione: fornire carburante all'intera nazione, un incarico così vasto che
"comprarono ogni autobotte disponibile in Kuwait, e ne importarono altre centinaia". Promettendo di
liberare soldati da destinare al campo di battaglia, la Halliburton si accollò altre dozzine di funzioni
tradizionalmente appannaggio dell'esercito, tra cui la manutenzione dei veicoli e delle radio.
Anche il reclutamento, a lungo considerato lavoro da soldati, divenne rapidamente un business forprofit
con il progredire della guerra. Nel 2006, i nuovi soldati erano reclutati da cacciatori di teste privati come
la Serco, o una divisione del gigante delle armi L-3 Communications. I reclutatori privati, molti dei quali
non erano mai stati nell'esercito, ricevevano un bonus per ogni soldato, tanto che il portavoce di una delle
aziende si vantò: "Se volete mangiare bistecche, dovete mettere gente nell'esercito". Anche sotto il regno
di Rumsfeld ci fu un boom di addestramento esternalizzato: aziende come la Cubie Defense Applications
e la Blackwater addestravano i soldati al combattimento con esercitazioni realistiche e simulazioni di
guerra, portandoli in campi di allenamento privati, dove si esercitavano nel combattimento in villaggi
ricostruiti in studio.
E grazie all'ossessione di Rumsfeld per la privatizzazione, come egli stesso aveva suggerito per la prima
volta nel discorso del 10 settembre 2001, quando i soldati tornavano a casa malati o con lo shock
posttraumatico, erano curati da aziende sanitarie private per le quali la drammatica guerra in Iraq
generava profitti a valanga. Una di queste aziende, la Health Net, si piazzò settima nella classifica
Fortune 500 nel 2005, in gran parte a causa del numero di soldati traumatizzati di ritorno dall'Iraq.
Un'altra era la lap Worldwide
performance degli interrogatori non erano nemmeno fisicamente presenti in Iraq, figuriamoci ad Abu
Gtiraib; il che rendeva "molto difficile, se non impossibile, gestire un contratto in modo efficace". Il
generale George Fay, autore del rapporto, concludeva che "gli interrogatori, analisti e leader del governo
erano impreparati per l'arrivo di specialisti dell'interrogatorio a contratto, e non erano addestrati alla
gestione, al controllo e alla disciplina di questo personale. [...] È evidente che ad Abu Ghraib non c'è
stata adeguata supervisione della performance richiesta dai contratti."
La scelta di privatizzare la gestione del centro medico sembra aver contribuito a uno scioccante
deterioramento dei livelli di manutenzione e cura, dato che più di cento dipendenti federali specializzati
lasciarono la struttura.
Il ruolo fortemente espanso delle aziende private non fu mai apertamente messo in questione come
problema politico (non diversamente da come la proposta di legge sul petrolio iracheno si era
materializzata all'improvviso). Rumsfeld non dovette ingaggiare aspre battaglie con i sindacati dei
dipendenti federali o i generali d'alto rango. Tutto accadde sul campo, in tempo reale, in quello che
l'esercito descrive come un mission creep (espansione indebita di una missione). Più la guerra andava
avanti, più si privatizzava e, ben presto, questo diventò semplicemente il nuovo modo di fare la guerra.
La crisi era il catalizzatore del boom, esattamente come lo era stata per tanti altri boom prima di allora.
Le cifre raccontano la drammatica storia del mission creep aziendale. Durante la Prima guerra del Golfo
nel 1991, c'era un appaltatore ogni cento soldati. All'inizio dell'invasione irachena del 2003, la
proporzione era di uno a dieci. Dopo tre anni di occupazione, c'era un appaltatore ogni tre soldati.
Meno di un anno dopo, quando l'occupazione entrava nel suo quarto anno, il rapporto era di uno a 1,4. Ma
quella cifra comprende solo gli appaltatori che lavoravano direttamente per il governo americano, non
per gli altri partner della coalizione né per il governo iracheno; e non tiene conto degli appaltatori che
risiedevano in Kuwait e Giordania e del loro stuolo di subappaltatori.
I soldati britannici in Iraq sono già tre volte meno numerosi dei loro compatrioti che lavorano nelle
agenzie private di sicurezza. Quando Tony Blair annunciò, nel febbraio 2007, che avrebbe rimpatriato
dall'Iraq 1600 soldati, la stampa riferì immediatamente che "i funzionari pubblici sperano che i
"mercenari" possano contribuire a colmare le lacune", con le aziende stipendiate direttamente dal
governo britannico. Allo stesso tempo, l'Associated Press stimò il numero di appaltatori in Iraq intorno ai
120.000, cifra più o meno equivalente al numero di soldati americani.''
In proporzione, questa guerra privatizzata ha già superato abbondantemente le Nazioni Unite. Il budget
dell'Onu pev'A peacekeeping nel 2006-2007 era di 5,25 miliardi di dollari: meno di un quarto dei 20
miliardi che l'HaUiburton ottenne con gli appalti in Iraq, e secondo le stime più recenti l'industria dei
mercenari vale, da sola, 4 miliardi di dollari.
Così, mentre la ricostruzione dell'Iraq è stata indubbiamente un fallimento per gli iracheni e per i
contribuenti americani, non lo è stata affatto per il complesso del capitalismo dei disastri. Resa possibile
dagli attacchi dell'11 settembre, la guerra in Iraq non rappresentò altro che la nascita violenta di una
nuova economia. Fu questo l'aspetto geniale del piano di "trasformazione" di Rumsfeld: dal momento che
ogni possibile aspetto sia della distruzione sia della ricostruzione è stato esternalizzato e privatizzato, c'è
un boom economico quando le bombe iniziano a cadere, quando smettono e quando ricominciano: un
circolo vizioso di profitto, di distruzione e ricostruzione, di demolizione e riedificazione. Per aziende
dinamiche e lungimiranti, come la Halliburton e il Carlyle Group, i distruttori e i costruttori sono diverse
branche della stessa società.
Nota: la Lockheed Martin si è spinta oltre in questa direzione. All'inizio del 2007 iniziò ad
"acquisire società nel mercato della sanità, da mille miliardi di dollari l'anno" secondo il "Financial
Times", e acquistò anche il gigante dell'ingegneria Pacific Architects and Engineers. L'ondata di
acquisizioni inaugurò una nuova era di morbosa integrazione verticale nel complesso del capitalismo dei
disastri: nei conflitti futuri, la Lockheed è nella posizione di trarre profitto non solo dalla costruzione di
armi e jet da combattimento, ma dalla ricostruzione di ciò che distruggerà, e anche dalle cure prestate alle
persone ferite dalle sue stesse armi.
L'amministrazione Bush ha preso diverse misure importanti, ma di cui si è parlato poco, per
istituzionalizzare il modello di guerra privatizzata nato in Iraq, rendendolo un elemento permanente della
sua politica estera. Nel luglio 2006, Bowen, l'ispettore generale per la ricostruzione in Iraq, pubblicò un
rapporto sulle "lezioni imparate" dalle varie débâcle degli appaltatori. Giunse alla conclusione che i
problemi derivavano dall'insufficiente pianificazione e caldeggiò la creazione di
"una riserva di personale a contratto, pronto per essere impiegato sul campo, addestrato per prestare
soccorso e appaltare la ricostruzione durante le operazioni di emergenza" e la "pre-qualificazione di una
vasta gamma di appaltatori con esperienza nelle aree di ricostruzione specialistica": in altri termini, un
esercito permanente di appaltatori. Nel suo Discorso sullo stato dell'Unione nel 2007, Bush si fece
promotore dell'idea, annunciando la creazione di un nuovo corpo di riserva composto da civili. "Un tale
corpo funzionerebbe in modo non dissimile dalla nostra riserva militare.
Alleggerirebbe il carico di lavoro delle forze armate permettendoci di assumere civili in possesso di
competenze necessarie per svolgere missioni all'estero quando l'America ha bisogno di loro", disse Bush.
"Darebbe agli americani che non vestono l'uniforme una possibilità di prendere parte alla battaglia che
sta forgiando il nostro tempo."
A un anno e mezzo dall'inizio dell'occupazione, il dipartimento di Stato americano inaugurò una nuova
branca: l'Ufficio per la ricostruzione e la stabilizzazione. Ogni giorno l'Ufficio paga appaltatori privati
per elaborare piani dettagliati di ricostruzione di 25 diversi Paesi che, per un motivo o per l'altro,
potrebbero trovarsi nel mirino della distruzione sponsorizzata dagli Stati Uniti, dal Venezuela all'Iran.
Corporation e consulenti sono in fila con "contratti prefirmati", pronti a passare all'azione appena si
verifica una catastrofe. Per l'amministrazione Bush, è stata un'evoluzione naturale: dopo aver rivendicato
il diritto di provocare illimitata distruzione preventiva, ha inventato la ricostruzione preventiva:
ricostruire luoghi che non sono ancora stati distrutti.
Così, alla fine, la guerra in Iraq creò un modello economico: non fu solo "la Tigre sul Tigri" di cui
parlavano i neo-con. Piuttosto, fu un modello di guerra privatizzata e ricostruzione; un modello che ben
presto fu pronto per essere esportato. Prima dell'Iraq, le frontiere della crociata di Chicago erano state
segnate dalla geografia: Russia, Argentina, Corea del Sud. Oggi, una nuova frontiera può aprirsi ovunque
si verifichi il prossimo disastro.
Parte settima.
La Zona verde mobile.
Zone cuscinetto e mura antiesplosione.
Poiché avete la possibilità di iniziare da capo, potete iniziare in una situazione di vantaggio
competitivo, che è un'ottima cosa. È un privilegio per voi avere quell'opportunità, perché ci sono altri
luoghi che non hanno potuto disporre di questi sistemi, o che sono gravati da sistemi vecchi di cento o
duecento anni. In un certo senso, questo è un vantaggio per l'Afghanistan: poter ricominciare da zero
con le idee migliori e conoscenze tecniche all'avanguardia.
Paul O'Neill, segretario del Tesoro Usa, novembre 2002, a Kabul dopo l'invasione.
19.
Tabula rasa in spiaggia. "Il secondo tsunami".
Lo tsunami che ha raso al suolo la costa come un bulldozer gigante ha offerto agli imprenditori edili
un'opportunità che non osavano neppure sognare, e si sono mossi rapidamente per coglierla.
Sedi Mydans, "International Herald Tribune", 10 marzo 2005.
Andai in spiaggia all'alba, sperando di incontrare i pescatori prima che prendessero il largo sulle acque
turchesi per la loro giornata di lavoro. Era il luglio 2005, e la spiaggia era quasi deserta, ma c'erano
alcuni catamarani di legno dipinto a mano, e vicino a uno di questi una famiglia si preparava a uscire in
mare. Roger, quarant'anni e seduto a torso nudo nel suo sarong sulla sabbia, stava riparando una rete
rossa che si era impigliata e annodata, insieme al figlio Ivan, vent'anni. Jenita, la moglie di Roger, girava
intorno alla barca agitando un barattolino di incenso fumante. "Chiediamo fortuna" disse, spiegando il
rituale, "e sicurezza."
Non molto tempo prima, su questa spiaggia e dozzine di altre spiagge lungo la costa dello Sri Lanka si era
svolta una concitata missione di soccorso in seguito al più devastante disastro naturale nella storia
recente: lo tsunami del 26 dicembre 2004, che costò la vita a 250.000 persone e ne lasciò senzatetto 2,5
milioni in tutta la regione. Ero venuta in Sri Lanka, uno dei Paesi più duramente colpiti, sei mesi dopo,
per confrontare gli sforzi per la ricostruzione con quelli in Iraq.
La mia compagna di viaggio, Kumari, un'attivista di Colombo, aveva partecipato alle operazioni di
soccorso e riabilitazione e aveva accettato di farmi da guida e interprete nella regione colpita dallo
tsunami. Il nostro viaggio iniziò ad Arugam Bay, un villaggio di pescatori e località turistica in crisi sulla
costa orientale dell'isola, che la squadra di ricostruzione del governo portava a esempio del suo progetto
di "ricostruire, migliorando".
Qui incontrammo Roger, che dopo pochi minuti ci diede una versione dei fatti molto diversa. Lo
chiamava "un piano per cacciare i pescatori dalla spiaggia". Sosteneva che questo progetto di
sfollamento esisteva da molto prima dell'onda anomala; ma lo tsunami, come tanti altri disastri, era stato
sfruttato per applicare un'agenda politica molto impopolare. Per quindici anni, Roger ci disse, la sua
famiglia aveva trascorso la stagione della pesca in una capanna di paglia sulla spiaggia ad Arugam Bay,
vicino a dove ci trovavamo ora. Insieme a dozzine di altre famiglie di pescatori, avevano tenuto le barche
vicino alle loro capanne e fatto asciugare i pesci su foglie di banano nella sabbia bianca e sottile. Erano
molto socievoli con i turisti, molti dei quali erano surfisti europei e australiani che dormivano negli
ostelli lungo la costa, il genere di posto con vecchie amache appese fuori e musica da discoteca di
Londra che rimbomba da casse nascoste nelle palme. I ristoranti compravano il pesce direttamente dalle
barche, e i pescatori, con il loro allegro stile di vita tradizionale, fornivano il tocco di autenticità che gli
esigenti viaggiatori cercavano.
Per molto tempo, non c'erano stati conflitti tra gli hotel e i pescatori di Arugam Bay, in parte perché la
guerra civile in corso in Sri Lanka faceva sì che nessuna delle due industrie potesse crescere più di tanto.
La costa orientale dello Sri Lanka fu teatro di alcuni degli scontri più violenti, perché era rivendicata da
ambo le parti - le Tigri per la liberazione del Tamil Eelam (note come Tigri Tamil) al Nord, e il governo
centrale cingalese a Colombo ma mai pienamente controllata da nessuna delle due fazioni. Per
raggiungere Arugam Bay bisognava districarsi in un labirinto di posti di blocco, e rischiare di essere
coinvolti in una sparatoria o in un attentato suicida (alle Tigri Tamil è attribuita l'invenzione della cintura
esplosiva per kamikaze). Tutte le guide turistiche contenevano severi ammonimenti sulla necessità di
tenersi lontani dall'irrequieta costa Est dello Sri Lanka; le onde erano ottime, ma solo i surfisti migliori
erano disposti a correre il rischio.
La svolta giunse nel febbraio 2002, quando Colombo e le Tigri firmarono un cessate il fuoco. Non era
esattamente pace, quanto un intervallo teso, punteggiato da occasionali bombe o omicidi.
Nonostante questa precarietà, appena le strade furono riaperte, le guide turistiche iniziarono a
pubblicizzare la costa orientale come la nuova Phuket: ideale per il surf, splendide spiagge, hotel
eleganti, cibo piccante, nave al chiaro di luna... "il posto ideale per un party", secondo la guida Lonely
Planet? E Arugam Bay era al centro dell'azione. Nel frattempo, l'apertura di checkpoint significava che i
pescatori di tutto il Paese potevano tornare in massa verso acque tra le più ricche della costa Est,
compresa Arugam Bay.
La spiaggia stava diventando affollata. Arugam Bay era classificata come porto di pesca, ma i proprietari
degli alberghi della zona iniziarono a lamentarsi perché le capanne nascondevano il panorama, e l'odore
dei pesci morti infastidiva i loro clienti (un albergatore di origine olandese mi disse che "l'inquinamento
olfattivo esiste davvero"). Alcuni albergatori iniziarono a fare pre