ACCADDE A RORARO

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ACCADDE A RORARO
ACCADDE A RORARO
di G. Giacomo Guilizzoni
«Zitti, non fate domande. In questi casi la
miglior cosa è fare quello che fa la folla».
«Ma se vi sono due folle?», chiese il signor
Snodgrass. «Bisogna gridare con la più
numerosa», rispose il signor Pickwick.
Interi volumi non avrebbero potuto dire di più».
Charles Dickens
(Quaderni postumi del Circolo Pickwick)
«Si respirava un’atmosfera cupa. Tutto,
intorno, era “impegnato”. Ridere
era un peccato, il successo una colpa,
la dietrologia una regola».
Renzo Arbore
(Intervista su Sette, 9.7.1998)
1.
Un mattino di primavera, negli Anni Cinquanta, la relativa quiete
della via Canonico G.B. Marchetti Benefattore, a Roraro, fu
improvvisamente rotta da una voce stentorea: « ... zia cristiana, voti
45 972, aumento del 73,5 % rispetto alle precedenti amministrative; partito
socialista, voti 30 581, aumento del 67,2 % rispetto alle politiche dello
scorso anno ... ».
Gian Giovanni Giovannini superò il suo record di salto in alto
orizzontale da fermo, svegliato bruscamente, come accadeva da parecchi
giorni, dalla radio a tutto volume dell’osteria sottostante. Le elezioni
politiche si erano svolte cinque giorni prima e tutti i partiti, come sempre,
risultavano vincitori, avendo migliorato le loro posizioni rispetto a qualche
prossima o remota consultazione. Ciononostante, la radio continuava a
vomitare cifre su cifre, relative ai risultati ottenuti anche nei piccolissimi
centri.
Gli abitanti del quartiere in cui abitava Gian Giovanni erano costretti
ad ascoltare il noiosissimo elenco ma l’oste era sordo alle loro rimostranze.
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Tutte le mattine, alle cinque in punto, dopo aver sollevato con grazia la
saracinesca del locale, accendeva la radio - la manopola del volume era
bloccata al massimo - ed iniziava le pulizie, senza ascoltare. La politica non
lo interessava.
Altrove, si poteva udire il cicaleccio degli uccelli, l’aria profumava
di fieno ed il primo sole inondava le case. Altrove, poichè la stanza dove
dormiva Gian Giovanni era protetta dalle pericolose radiazioni visibili e
UV dal muro della casa di fronte, essendo la via Marchetti poco più di uno
stretto pertugio. Come in altri quartieri popolari, le radio funzionavano
giorno e notte a tutto volume; ai loro suoni insopportabili si univano le
grida dei venditori ambulanti, i pianti dei neonati, le urla emesse nelle
frequenti, furibonde liti tra le comari. Inoltre, l’aria non poteva profumare
di fieno, malgrado i prati fossero abbastanza vicini, essendo ammorbata dai
miasmi di uno dei tanti pozzi neri in fase di espurgo. L’operazione era
eseguita con una pompa a mano manovrata dal Carlomagnozzi Pietro, più
noto in paese come Pédar d’la merda.
Le strade di Roraro, quando Gian Giovanni era ancora bambino,
erano anche allietate dalla vista e dal profumo degli escrementi dei cavalli e
dei muli, in dialetto bulàk. (Pepìn Bulàca era il soprannome di un
poveraccio che campava raccogliendo i bulàk per venderle come concime).
Ma per i nostalgici del buon tempo antico per sentito dire - riflette oggi
Gian Giovanni, che non li sopporta - l’inquinamento idrico, atmosferico e
acustico sono fenomeni tipici dei giorni nostri; per loro, in passato tutto
era bello, pulito, profumato, silenzioso.
L’ammasso di case del quartiere, non antico ma soltanto vecchio,
denominato ufficialmente Centro Storico, era più conosciuto come
quartiere cinese, per la presenza di una colonia di cinesi venditori di
«clavatte», ospiti della pensione Zoraide.
Nelle vicinanze della via Marchetti scorreva la roggia Miseria, un
flusso di repellenti liquami e oscene immondizie. A regime normale, la
roggia spandeva un lezzo insopportabile, tale da coprire l’intenso profumo
del pane appena sfornato dal panettiere Trincherozzi e modificare persino il
sapore dei cibi sulla tavola degli abitanti del quartiere. Spesso, le sue acque
assumevano vivaci colori dovuti ai coloranti scaricati da una tintoria a
monte; il fetore aumentava ma l’occhio era appagato.
L’arrivo dell’onda colorata era segnalato dalla fuga dei topi, padroni
assoluti del canale. Quando la roggia era in secca si potevano ammirare, nel
suo letto, cocci di vetro e ceramica, scatole di conserva arrugginite, carogne
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di gatti, stracci, piume di gallina, pelli di coniglio e altri rifiuti. Quasi tutto
biodegradabile, però, e quindi buono secondo la classificazione del
professor Indolo del collettivo «Laudatores temporis acti», di cui si dirà più
avanti.
Il brusco risveglio diede il colpo di grazia al morale, già piuttosto
basso, di Gian Giovanni; dopo una notte di incubi, era giunto il momento in
cui avrebbe dovuto sostenere un esame presso il locale Istituto Tecnico
Industriale.
2.
Roraro è un paesone del profondo Nord, attualmente sconosciuto ai
più ma nell’Ottocento vivace cittadina industriale in cui, per l’abbondanza
e la qualità dell’acqua, erano sorte numerose industrie, ora scomparse. Ciò
spiega due numeri di CAP, l’esistenza di un Istituto Industriale, di una
sezione staccata del manicomio provinciale, di un delegato residente della
CIA ed il titolo di arciprevosto spettante al parroco. Chiarisce anche la
presenza di cromosomi veneti, calabresi, lucani, pugliesi e marchigiani
nelle cellule degli attuali rorarotti.
Per usare un frusto luogo comune, Roraro è un paese a misura
d’uomo, nel senso che tutti si conoscono e possono così spettegolare sulle
vicende anche più intime dei compaesani.
A Roraro esistono studiosi di storia locale, anche se non si sono mai
verificati nei secoli fatti degni di studio; per la scarsità di materia prima
dissertano da anni sul nome del paese. Per alcuni deriva da oro raro, data la
povertà dei luoghi; altri, dopo un accurato esame dei ritratti delle antenate,
hanno concluso trattarsi di una contrazione di orroraro.
Gian Giovanni era per la seconda ipotesi: le numerose cugine di sua
madre costituivano una testimonianza inconfutabile. Il ragazzo era infatti
afflitto da un nugolo di lontane parenti e costretto, da piccolo, ad
accompagnare la madre nelle visite di cortesia a casa loro. Le detestava
cordialmente e comparivano anche nei suoi incubi notturni. Una notte
sognò di trovarsi in un luogo desolato, fuori dallo spazio e dal tempo e si
rese conto di essere in Purgatorio a scontare i suoi poveri peccati
coabitando con la vecchia Amleta, vedova del biscugino Astolfo, la baffuta
tercugina Sostene con la figlia Pandolfa e tante altre.
Nel recarsi a scuola, Gian Giovanni passava ogni giorno davanti ad
un monumentino seminascosto da cespugli polverosi, un capolavoro del
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cattivo gusto di fine Ottocento, ricoperto di un incredibile numero di
medaglioni, corone, palme, fronde, teste leonine ed altri orpelli, aggiunti
per «abbellirlo». Il ragazzo rileggeva ogni volta la stupefacente dedica:
ALDO CHETOSI
Filosofo rorarotto
Dissociò e ricompose tutto lo scibile umano
Gli abitanti dei paesi vicini considerano infatti i rorarotti un po’
megalomani, anche a causa della vistosa segnaletica:
RORARO
CITTÀ A MISURA D’UOMO DENUCLEARIZZATA
Gemellata con Chernobyl (URSS)
Gli amministratori locali, ritenendo restrittivo gemellare il paese con banali
Cherchezlafemme sur Savon (F) o con Hoe on the Feet (UK) proposte da
qualcuno, erano riusciti faticosamente a stabilire rapporti con l’Est, allora
difficilissimi, puntando al gemellaggio con Mosca o, in subordine,
Stalingrado. Dopo estenuanti trattative con i burocrati sovietici fu loro
imposta - prendere o lasciare - la ridente cittadina ucraina.
In via Marchetti si trovavano gli uffici di una delle due industrie
sopravvissute, la Roraro Pompe sas. Non era una fabbrica di pompe e
compressori bensì una impresa di pompe funebri.
3.
Gian Giovanni Giovannini, nel 1950, era un ragazzo scheletrico
dotato di un gran naso sulla testa piccola, il viso attraversato da una striscia
di lentiggini resistenti anche alla famosa pomata del dottor Bianciardi,
decisamente brutto e tale da suscitare antipatia o, nel caso più favorevole,
indifferenza. Le ragazze della via Marchetti lo guardavano dall’alto in
basso oppure lo ignoravano.
Il ragazzo aveva vissuto una povera adolescenza negli anni di guerra
in cui, per acquistare ad un prezzo accessibile i generi di prima necessità,
occorreva possedere la «carta annonaria». Ma le razioni della «tessera»
erano insufficienti, 200 grammi di pane al giorno. Malgrado ciò sua nonna,
mentre mangiava, continuava a ripetergli, per inerzia, «fa cumpisìna!»,
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termine dialettale intraducibile che significa alternare pochi bocconi di
companatico con molti di pane.
Consapevole del suo sgradevole aspetto e di essere una nullità, il
ragazzo era spietatamente sincero con sè stesso fino all’autolesionismo, in
ciò aiutato dalla ricorrente risposta della madre alle sue più che modeste
richieste: «Non è cosa per te».
Lo strano nome del ragazzo era dovuto ad un compromesso,
raggiunto in famiglia, quando si usava imporre, ai neonati indifesi, il nome
di un nonno o di una nonna. I nonni del ragazzo, morti da tempo, si
chiamavano entrambi Giovanni e battezzare il piccolo semplicemente
Giovanni avrebbe prodotto interminabili discussioni tra le due nonne, vive
e vegete. Marchiato alla nascita, il giovane era cresciuto timido,
impacciato, ipersensibile alle critiche, terrorizzato di trovarsi al centro
dell’attenzione altrui o di essere sottoposto ad esperienze umilianti. Non
sapeva pronunciare la erre ed era affetto da eritrofobia; quando in classe
era costretto a declinare nome, cognome e indirizzo, per la paura di
arrossire arrossiva vistosamente.
I labirinti delle orecchie di Gian Giovanni erano particolarmente
sensibili ad ogni variazione di velocità; soffriva quindi il mal di treno e il
mal d’auto ma non conosceva il mal di mare e il mal d’aereo non essendo
mai salito su una imbarcazione e su un aereo. Dotato di autoironia,
sosteneva: «Non posso nemmeno divertirmi sulle automobiline
dell’autoscontro e tanto meno su una giostra; persino quando leggo
qualcosa sulla rotazione terrestre sono assalito dalla nausea».
Il sonno del ragazzo era spesso popolato da incubi. Il due novembre
di ogni anno la madre lo costringeva ad accompagnarla a «visitare» i
«poveri» antenati defunti, mai conosciuti. Alcuni erano sepolti nei
colombari, in un interminabile corridoio sotterraneo, fiocamente illuminato,
costituente il perimetro rettangolare del cimitero. Alla notte il ragazzo
sognava di percorrere la funerea galleria, solo, in un silenzio - appunto sepolcrale, rotto soltanto dallo sfrigolio degli stoppini dei ceri. Il terrore
saliva a ondate mentre si avvicinava ad uno degli angoli retti. « Sentiva »
che lo attendevano, dietro l’angolo, teschi e tibie danzanti. Urla disumane
uscivano dai teschi, come quello emesso dal ragazzo svegliandosi con il
cuore in gola. Nel sonno era spesso uno scrittore giallista; il suo capolavoro
era «L’aquilotto delle due tenebre». Possedeva la cattiva abitudine di
riferire ai familiari le sue allucinazioni, pur sapendo quanto sia deprimente
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ascoltare il racconto dei sogni altrui mentre i nostri sembrano tanto
interessanti.
Suo zio Pierino, conoscendo l’interesse del ragazzo per la musica
classica, in occasione di un discreto risultato scolastico gli regalò una
biografia di Mozart con l’incoraggiante dedica: «Ammira il talento di un
Grande, anche se non lo diventerai mai».
A scuola, Gian Giovanni era un disastro. In un giorno di pioggia il
professore di disegno, schifato, aveva gettato dalla finestra il suo album, tra
le risate dei compagni.
Scrisse Galileo: «Prima furon le cose, poi le parole». Gian Giovanni
attribuiva invece grande importanza al suono e al carattere tipografico di
una parola. «Ursula, in italiano, è Orsola» - diceva ai compagni - «eppure
quale abisso si schiude cambiando la prima vocale! Il nome con la u evoca
bionde, fascinose hostess nordiche, sesso e avventure; con la o mi ricorda le
suore orsoline...» . Un’ altra fisima del ragazzo era l’antipatia per le targhe
delle automobili francesi, per lo sgradevole rapporto tra l’altezza e la
larghezza dei caratteri.
4.
Un giorno, la madre di Gian Giovanni lesse, sulla «Domenica del
Corriere», un servizio sulla psicanalisi. L’autore, illustrando il complesso di
inferiorità, sembrava si fosse ispirato a suo figlio, a cui mancavano tante
cose ma non certo complessi e fobie. Decise di farlo analizzare da un
esperto di Torino, un geometra del catasto psicologo dilettante, marito della
pentacugina Traviata, un’ altra disgraziata nel nome per colpa del padre
fanatico verdiano (i fratelli si chiamavano Rigoletto e Trovatore; la sorella,
Luisamiller).
Gian Giovanni fu trascinato con la forza nella città piemontese. La
trovò fredda e triste come Roraro. I deprimenti palazzoni ottocenteschi, con
il loro esercito di camini e abbaini, sovrastati dalla cupa Mole Antonelliana,
gli sembrarono l’ambiente ideale per un candidato al suicidio. Soltanto
negli anni del tramonto, circondato dai toni caldi del mattone, degli
intonaci rossi e del legno di antichi palazzi e semplici case bolognesi,
avrebbe compreso il motivo di tanta avversione per il Piemonte e Torino in
particolare.
Il colloquio sul divano fu penoso tanto per il paziente quanto per
l’analista.
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«Ti piacciono le ragazze?».
«Urca! Ma la mia vista le fa star male».
«Sai ballare?».
«No».
«Ma ti piace la musica, mi è stato riferito».
«Sì, adoro i classici ma detesto la musica leggera, l’operetta e la
musica folk».
«Sai disegnare, nuotare, sciare, suonare uno strumento, giocare a
scacchi, al biliardo, al pallone?».
«No, no, no, no, no, no, no».
«Assisterai almeno a qualche partita di calcio; per quale squadra
tifi?».
«L’unica volta che mi hanno trascinato al campo sportivo mi sono
annoiato a morte. Dopo aver letto più volte la pubblicità della Roraro
Pompe, del Credito Rorarotto e della mortadella Sogni d’oro me ne sono
andato. Non tifo per nessuna squadra, o meglio, faccio il tifo “contro” la
Juventus perchè torinese. Mi piace l’Atalanta perchè Bergamo è una
bellissima città».
«Caro ragazzo, cosa posso chiederti ancora? Proprio non ti interessa
nulla? Ti piace almeno andare nei boschi in cerca di funghi?».
«Sì, ma non ne trovo mai. Soltanto una volta ...».
«Basta così».
Dopo altre domande futili e risposte scoraggianti il professore
congedò il ragazzo, chiamò la madre e le comunicò brutalmente la sua
diagnosi.
5.
In casa Giovannini si parlava soltanto in dialetto per cui Gian
Giovanni, con i professori e i compagni «bene» si trovava in imbarazzo,
dovendo tradurre in italiano ciò che pensava in dialetto. I risultati erano
evidentemente cattivi. Se la cavava un po’ meglio nello scrivere, potendo
fare prima una brutta copia; la compilava persino quando scriveva un
semplice biglietto di auguri.
Nel dialetto rorarotto non esiste il termine corrispondente a
ricco: sciùr (pl. sciùri) significa tanto «signore» quanto «ricco». Per Gian
Giovanni erano perciò signori il macellaio, la panettiera, il tabaccaio e altri
villani maleducati ma facoltosi, Suspiria Crudeltà compresa. Era così
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soprannominata la proprietaria del Bar Centrale poichè reagiva a qualsiasi
notizia, anche insignificante, con un profondo sospiro seguito
dall’esclamazione «Ah crudeltà dei Giudei!». Per avidità di denaro,
Suspiria faceva raschiare ogni sera i tavolacci del laboratorio di pasticceria
e confezionava le briciole in sacchetti di peso e prezzo scalare, molto
richiesti dai ragazzi di allora, privi anche dei pochi soldi necessari per
comperare un pasticcino. Anche Gian Giovanni acquistava talvolta un
sacchetto di frégài del formato più piccolo, intimidito dal kitsch del locale,
in cui troneggiavano tavoloni di marmo da obitorio con le gambe di ghisa
terminanti in repellenti piedini, o manine, non si capiva bene se umane o
scimmiesche. Veniva servito in silenzio, con malagrazia; ciò si verificava
anche negli altri negozi in cui si recava ad acquistare qualcosa. E lui,
sempre gentile e sottomesso, come gli era stato inculcato, a sprecare «scusi,
permette, per favore, grazie, buon giorno, buona sera» con persone che non
meritavano (l’avrebbe capito molti anni più tardi) tanta cortesia. Era
convinto di trattare con signori i quali, noblesse oblige, non potevano
abbassarsi al suo livello.
Un’altra signora di Roraro era la Salumiera, piccola, grassa e
sputasentenze. Raccomandava, per esempio, l’olio Sasso perchè «come
dice il nome, è un olio minerale, quindi non ingrassa».
Nella memoria di Gian Giovanni la Salumiera è associata ad un
evento memorabile: l’arrivo in paese del Carro di Tespi Lirico. Per tutto il
pomeriggio, mentre nel campo sportivo stavano montando i fondali per
l’Aida, la Salumiera percorse le vie di Roraro a piccoli passi, inciampando
nell’abito lungo che la fasciava, soffocandola, seguita da un codazzo di
monelli sghignazzanti. Aveva centrato l’obiettivo: mostrare a tutte di
possedere un abito da sera e far schiattare d’invidia le clienti che non
potevano permetterselo.
L’unica persona gentile conosciuta da Gian Giovanni era il
farmacista dottor Piero Cassia, un uomo anziano, magro, dal portamento
signorile, sempre elegantissimo. Gli sorrideva quando entrava nell’antica
farmacia, una delle poche cose belle di Roraro: i muri erano rivestiti di
scaffali di legno su cui appoggiavano vasi di varie forme e dimensioni,
decorati e con le scritte in latino.
Conscio della sua pochezza, Gian Giovanni era privo di ambizioni,
desiderando soltanto poter vivere in pace lontano dalle radio e dalle
fisarmoniche - strumento allora molto diffuso - della via Marchetti. Aveva
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infatti contratto una brutta nevrosi da inquinamento acustico, di cui si
sarebbe liberato soltanto in tarda età.
L’elettronica, a sua insaputa, compiva intanto passi da gigante e
avrebbe regalato all’umanità televisori, dischi, nastri, telefoni cellulari,
come previsto dai burocrati del Ministero delle Poste quando dissero a
Guglielmo Marconi: «La vostra invenzione non riveste alcun interesse
perchè non avrà futuro».
La marea sonora - riflette ora Gian Giovanni - non risparmia
nessuno. I diabolici apparecchi funzionano dovunque, sulle strade, sui treni,
su un canotto in mezzo all’oceano, nelle banche, nei supermercati, negli
ospedali, sulla cresta di un Quattromila. Alcuni ricercatori hanno constatato
che, sul piazzale di una funivia a Madonna di Campiglio, il rumore
oltrepassa i novanta decibel, valore superiore a quello misurato nelle ore di
punta nel centro di una grande città.
Dappertutto l’umanità è costretta ad ascoltare le sirene degli antifurto
difettosi, i trilli dei telefonini, lo sbraitare dei loro utenti e, anche se
nessuno ascolta la cosiddetta musica di fondo, c’ è sempre qualcuno che
provvede a girare una manopola o a premere un pulsante, così,
meccanicamente.
Un giorno Gian Giovanni chiese ad una cassiera del supermercato
come facesse a non sbagliare le registrazioni mentre veniva investita dalle
scemenze, vomitate dall’altoparlante posto sopra la sua testa, del DJ della
radio locale. Risposta: «Ma io non sento nulla!». Immunizzata.
Ha scritto Ermanno Cavazzoni: «Se ci fosse un po’ di silenzio, se
tutti facessimo silenzio, forse qualcosa potremmo capire».
In una frazione di Roraro esiste una chiesetta dedicata al Cuore di
Maria, chiamata dai rorarotti Santa Maria della Corda perchè sulla cornice
del frontone si legge a malapena CORD ARIÆ. Il tetto minaccia di
crollare, i muri ricoperti di salnitro sono sorretti da precarie impalcature.
Ma il modernissimo impianto di amplificazione, superfluo in quei pochi
metri cubi, funziona alla perfezione. Una volta all’anno, la chiesa viene
aperta e le poche beghine sono costrette ad ascoltare la voce assurdamente
amplificata del giovane vice-arciprevosto. Egli si destreggia felice tra più
microfoni, convinto di applicare le direttive del Concilio Vaticano II in
materia di aggiornamento del clero.
Per un modesto canone mensile, la Roraro Pompe sas provvede ad
inserire nelle tombe, invece di armi e suppellettili come usavano gli antichi,
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stereo sintonizzati su Radiororaro 2001, in onda ventiquattrore su
ventiquattro.
6.
Don Pietro Ammonio, soprannominato don Furbetto, arciprevosto di
Roraro, era un uomo di mezza età, alto e magro, con le guance infossate e
gli occhi sporgenti, sempre in elegante clergyman stile Banco Ambrosiano.
La maggioranza dei fedeli, per la sua triste figura, lo riteneva dedito ai
digiuni e alle mortificazioni della carne. In realtà, il sacerdote era affetto da
una forma di ipertiroidismo che lo costringeva, per sopravvivere, ad
abbuffarsi come una capra.
Don Furbetto insegnava nel locale Istituto Tecnico ed aveva
compilato un manuale di religione dal titolo blasfemo: Tecnica di Dio.
Il suo soprannome era dovuto alla eccezionale capacità di precorrere
i tempi, trovandosi sempre dalla parte dei potenti di turno. Il 29 ottobre
1922 diventò improvvisamente fascista, e lo rimase per tutto il Ventennio.
Gian Giovanni ricorda le messe solenni celebrate in presenza del picchetto
d’onore della Milizia, armato fino ai denti, sull’attenti di fianco all’ altare.
Il gagliardetto nero con il teschio gli ricordava i romanzi di Salgari e
quando, al Sanctus, venivano sguainati i pugnali, si aspettava l’urlo del
corsaro Nero spronante i suoi fidi all’arrembaggio. Nella chiesa risuonava
invece il casalingo «Eia eia alalà!» mentre i fedeli, immobili, pensavano ai
fatti loro.
L’ingenuo ragazzo non riusciva a comprendere come potessero
conciliarsi le omelie sul tema della pace e dell’amore fraterno con le
successive benedizioni di uomini e armi.
Tante cose non capiva, in quei tempi remoti.
Il sabato lo mettevano in divisa, gli ponevano in mano un moschetto
e lo addestravano ad odiare il nemico demo-pluto-giudaico-bolscevico.
Alla domenica lo obbligavano ad assistere alla messa, letta o cantata
in una lingua incomprensibile e, al catechismo, ad amare i nemici. Un
giorno, candidamente, aveva chiesto i motivi della contraddizione sia al
capocenturia che all’arciprevosto, ricevendo dal primo un «Tu non devi far
domande ma soltanto credere obbedire e combattere» e dall’altro risposte
evasive.
Il 26 aprile 1945, don Ammonio - come moltissimi italiani - si scoprì
improvvisamente antifascista.
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Il 19 aprile 1948 - quando la DC conquistò la maggioranza assoluta don Ammonio divenne persino bacchettone. I vecchi rorarotti ricordano
divertiti una sua predica contro la pornografia dilagante perchè una stupida
canzonetta recitava «Avantindré avantindré che bel divertimento /
Avantindré avantindré la vita è tutta qua».
Allo scoppio della rivoluzione blablale, di cui si parlerà più avanti,
don Furbetto divenne contestatore, licenziò l’organista e assoldò un
complessino per accompagnare i servizi religiosi, sostituendo Bach e il
gregoriano con le note delle più sceme canzonette allora in voga, cantate al
rallentatore. Ha scritto Gian Carlo Menotti: «Oggi si ascolta in chiesa una
musica così brutta [...] Non hanno saputo trovare niente di meglio delle
chitarre: un insulto al buon Dio. Se devo pregare, preferisco farlo a casa
mia». Anni dopo, il direttore di orchestra Myung Wun Chung, cristiano,
dichiarerà: «Non ho nulla contro le chitarre o la musica popolare, ma è un
grande peccato che la Chiesa, per adattarsi ai tempi, le promuova. Ha
invece bisogno di parlare al mondo con nuova musica sacra: soltanto questa
può portare più incisivamente il suo messaggio cristiano».
7.
Un tempo, le mamme romagnole, per tener buoni i bambini, falliti i
mezzi tradizionali minacciavano di mandarli in una delle colonie marine
dell’Adriatico gestite dalle suore.
Nei mesi estivi Gian Giovanni, insieme ad altri sventurati, il cranio
rasato a zero, veniva parcheggiato nella Colonia elioterapica rorarotta, al
cui confronto i casermoni di Milano Marittima sono alberghi a cinque
stelle. In paese era chiamata Colonia penale, essendo ubicata della Casa
del Balilla, un edificio in purissimo stile littorio, costituito quasi
esclusivamente da una enorme palestra circondata da piccoli locali, tra cui
un bugigattolo adibito a prigione come esigeva la retorica militaresca del
tempo.
Il sole non mancava, poichè i ragazzini trascorrevano la giornata nel
cortile polveroso privo di alberi, senza un filo d’erba, tra una esercitazione
paramilitare e canti patriottici di ineffabile stupidità.
Gian Giovanni ricorda ancor oggi «Dio ti manda all’Italia / Come
manda la luce / Duce! Duce! Duce!» e «Salve o re imperator / Vittorioso
il duce diè / Alla corona un nuovo imper». I capi insistevano su questa:
«Vincere vincere vincere / E vinceremo in cielo in terra e in mare / E’ la
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parola d’ordine / Di una suprema volontà» ( I ragazzi sostituivano vincere
con mingere ma il capocenturia non sentiva o fingeva di non sentire ).
I giovani del tempo cantavano anche canzonette «profane », come «Il
tamburo principal della banda d’Affori / Che comanda cinquecentocinqanta
pifferi». Si seppe più tardi che l’autore alludeva a Mussolini e ai 550
membri della Camera dei fasci e delle corporazioni, una parodia del
Parlamento. Le canzoncina era sfuggita agli ottusi censori.
Della dittatura fascista, Gian Giovanni non aveva conosciuto la
ferocia, come tanti di qualche anno più anziani di lui, ma soltanto l’aspetto
ridicolo: i canti patriottici, il culto della romanità, le parole d’ordine, le
uniformi centroamericane, il lei sostituito con il voi per ordine del
segretario del PNF, il tedesco passo dell’oca diventato passo romano, il
linguaggio da caserma, l’abolizione della stretta di mano («Si saluta
romanamente»). Però gli stessi Mussolini e Hitler, come si poteva vedere
nei cinegiornali, prima si stringevano la mano e poi si salutavano alzando il
braccio destro. Si nasceva in divisa di figlio della lupa; giunti all’età
scolare i maschietti subivano una prima metamorfosi diventando balilla
(camicia nera, pantaloni corti grigioverde e fez nero) e le bambine piccole
italiane (camicetta bianca, gonna e mantello neri). Al termine della scuola
elementare, si verificava una seconda mutazione: i balilla si trasformavano
in avanguardisti e le piccole italiane in giovani italiane. Come negli
eserciti sudamericani dei film comici, il numero dei graduati era superiore a
quello dei soldati semplici; l’Italia traboccava di capimanipolo,
capicenturia, capifalange, capifabbricato e così via.
La corrispondenza doveva essere datata indicando anche l’anno - in
numeri romani, ovviamente - dell’ «Era fascista» e terminare con «Saluti
fascisti». I più conformisti adottavano la convenzione anche nelle lettere
d’amore.
Sul muro di una casa di Roraro si può ancora leggere la frase di
Starace «Mussolini ha sempre ragione», seguita dalla firma «Mussolini».
L’imbianchino è un ignorante o un antifascista dotato di senso
dell’umorismo? - si chiedeva Gian Giovanni.
Il Regime, trovando poco marziali i nomi di alcune città, aveva
variato San Donnino in Fidenza, Girgenti in Agrigento, Castrogiovanni in
Enna, ecc. Roma era diventata l’Urbe e il suo Municipio Governatorato.
La targa automobilistica della provincia di Roma riportava il nome
intero della capitale anzichè l’acronimo; la dignità della città eterna era
salva ma la scritta diventava quasi illeggibile a pochi metri di distanza.
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In tutti i locali pubblici erano affissi cartelli con la scritta: La persona
civile non sputa in terra e non bestemmia. Molti gerarchi, e si dice lo stesso
Mussolini, usavano bestemmiare.
Gian Giovanni era cresciuto credendo di vivere in un Paese molto
civile perchè il duce promuoveva la costruzione di ponti, strade, ferrovie e
biciclette mentre oltre i «sacri confini della patria» gli stranieri - secondo
quanto gli inculcavano - erano ancora dediti alla pastorizia e attraversavano
i fiumi su chiatte trainate da schiavi.
Tutto doveva essere fascista. Il sanbernardo che aveva soccorso un
alpinista travolto da una valanga diventava, in cronaca, l’ eroico cane
fascista, come lesse Gian Giovanni sul foglio locale, espressione che
associò al cane infedele pronunciato dai musulmani dei fumetti.
Il ragazzo, sempre attento più alle parole che ai fatti, si divertì
moltissimo quando i capetti di Roraro applicarono, eccessivi come sempre,
le direttive di Achille Starace in materia di nomi stranieri. Per esempio, si
doveva scrivere teoria della relatività e non teoria di Einstein, onde radio e
non onde hertziane. Vennero imposte modifiche di nomi stranieri o di
pseudonimi terminanti con una consonante (i famosi tenniso, vatercloso,
filmo, sporto, Wanda Osiri, Renato Rascele). Gian Giovanni ricorda una
vignetta di Walter Molino sfuggita alla censura: «Io ti lovio, o mio
darlingo, ma non posso rimanere fuori dalla mia homa fino a tardi» - diceva
all’ amato una delle famose ragazze tutte curve. Risposta: «Al rigto, mia
littla, ci rivedremo domani sera alla primiera del filmo “Il mistero del
vatercloso”».
I gerarchi rorarotti, più realisti del re, italianizzarono persino i
cognomi e proibirono l’uso di marchi quali «brandy Stock» e «wafers
Saiwa». Johann Sebastian Bach divenne Giovanni Sebastiano Ruscello;
René Clair, Renato Chiaro; Albert Einstein, Alberto Unsasso; Benny
Goodman, Beniamino Bonomo; Jean-Philippe Rameau, Gianfilippo
Tralcio.
A Roraro esisteva un vecchio albergo di seconda categoria, l’Hotel
Eden. Ebbene, divenne Albergo Panorama perchè il ministro degli esteri
della «perfida Albione» era in quel tempo Anthony Eden.
Gian Giovanni ricorda anche titolo e sottotitoli del terzo volume
dell’antologia adottata nella sua scuola: «Il Novecento: Carducci, Pascoli,
D’Annunzio, Mussolini». Di quest’ultimo letterato era riportata una retorica
13
poesia che iniziava con: Amate il pane! / Profumo della mensa / Gioia del
focolare / Rispettate il pane / Orgoglio del lavoro ... .
Era un tempo in cui gli adulatori spargevano a piene mani il loro
incenso, soprattutto nei testi scolastici, anche scientifici e tecnici. In uno di
essi, per illustrare i concetti di variabile definita e indefinita, l’autore
(francese) ricorreva al classico esempio dell’albero in crescita. Nella
traduzione italiana l’albero spariva e veniva così sostituito:
Si può dire ad esempio che S.E. Benito Mussolini aveva:
y = 0 anni alla nascita a Predappio.
y = 31 anni quando fondò il Popolo d’Italia.
y = 36 anni quando entrò in Parlamento.
y = 42 anni quando divenne primo ministro.
Da quando frequentava le scuole elementari, indifferente verso ogni
sport o gioco, privo di amici, Gian Giovanni si era rifugiato nella lettura, un
caldo nido inaccessibile al mondo ostile. I suoi coetanei, bene o male,
vivevano, lui leggeva. Tutto quello che gli capitava sotto gli occhi. Non
soltanto libri, giornali umoristici (come il Bertoldo, il MarcAurelio, il 420
e il Travaso delle idee), riviste, fumetti ma anche segnali stradali, lapidi
commemorative, carte topografiche, scritte oscene sulle porte dei gabinetti,
ordinanze comunali che nessuno degnava di uno sguardo. Esclusi i numeri.
Quando comparivano in un testo, semplicemente li saltava, non vedendoli
nemmeno. Possedeva infatti una memoria a due scomparti, uno per i
vocaboli e l’altro per i numeri; nel secondo, per usare il linguaggio degli
informatici, era per lui faticosissimo «salvare il file»; quando riusciva, gli
risultava quasi impossibile, anche dopo pochi minuti, «caricarlo». Di sè
non conosceva taglia, peso, numero delle scarpe, grandezze fisiche secondo
lui inutili da ricordare e perciò rimosse dopo averle misurate. Essendone
privo, non aveva mai dato importanza al denaro.
In particolare, Gian Giovanni adorava i fumetti, ma soltanto quelli
comici, in cui i protagonisti cadono da un grattacielo senza subire danni e i
cannoni sparano proiettili enormi ma inoffensivi. Leggeva e rileggeva
soprattutto i fumetti di Carl Barks, uscendo dal mondo reale pieno di
insidie, di dolori e di nemici, dimenticando le piccole e grandi umiliazioni,
non sentendo più nemmeno il mal di denti che lo tormentava. Entrava
nell’universo disneyano insieme a Paperino, l’eterno perdente pieno di
14
difetti, in cui si identificava. Anni dopo, lesse con piacere questa
dichiarazione di Dino Buzzati: «Quando per caso vengono a sapere che
leggo volentieri le storie di Paperino, ridono di me, quasi fossi rimbambito.
Ridano pure. Sono convinto che si tratti di una delle più grandi invenzioni
narrative dei tempi moderni».
Il padre di Gian Giovanni acquistava da sempre il Corriere della Sera
ma il ragazzo si rifiutava di leggerlo sapendo che riportava soltanto notizie
e commenti scelti e imposti dal regime. Come è noto, sotto la dittatura
fascista i quotidiani ricevevano le notizie da pubblicare, dette «veline»,
direttamente dal Minculpop, come veniva chiamato il Ministero della
cultura popolare. La cronaca nera era proibita. Secondo i fascisti, non era
possibile si verificassero omicidi e suicidi in una Italia felice e ben
governata; secondo le barzellette (unica valvola di sicurezza per i sudditi
dei regimi dittatoriali), la cronaca nera era superflua perchè i criminali si
trovavano al timone della nazione.
Gian Giovanni frequentava assiduamente la Biblioteca comunale,
prelevando di tutto: letteratura antica e moderna, romanzi gialli, testi di
volgarizzazione scientifica, trattati di filosofia (di cui non capiva una
parola), di sessuologia, ecc. Sua madre aveva tentato invano di convincerlo
a leggere libri edificanti strappalacrime come Incompreso, La capanna
dello zio Tom, Senza famiglia, I ragazzi della via Pal, Quo vadis?, Il
piccolo lord, ora felicemente dimenticati.
In pochi anni il ragazzo, pur rimanendo incolto, divenne (direbbe
Fantozzi) mostruosamente erudito, non come il suo concittadino
dissociatore e ricompositore di tutto lo scibile umano ma almeno quanto il
direttore de La settimana enigmistica. Sapeva che Victor de Sabata, famoso
come direttore d’orchestra, aveva anche composto un poema sinfonico,
Juventus e lo citava pronunciandolo Giuventus, con gran divertimento degli
ascoltatori. Sapeva che Gastone, il cugino di Paperino, alla sua prima
apparizione in Italia, fu chiamato Bambo. Era anche aggiornato sul fatto
che Novi Ligure si trova in Piemonte e Massa Lombarda in provincia di
Ravenna.
Non ignorava la differenza tra disastro (X grado della scala Mercalli)
e catastrofe (XII grado), tra burrasca, tempesta e uragano; conosceva
persino i significati di scripofilia e oniomania.
Conosceva il significato di acronimi molto noti quali UPIM (Unico
prezzo italiano, Milano) STANDA (Società tutti articoli necessari
15
dell’abbigliamento e arredamento), Istituto LUCE (L’ unione
cinematografica educativa).
Tuttavia, come tutti gli autodidatti, commetteva errori di
interpretazione. Sales engineer era per lui un ingegnere diplomato dai
salesiani; coup de foudre, il colpo di fodero della sciabola adottato dai
nobili per colpire i plebei, riservando l’arma ai pari grado. Credeva anche
che i presidi sanitari fossero dirigenti ospedalieri.
8.
Superati faticosamente gli esami di licenza nella scuola di
avviamento professionale, Gian Giovanni inoltrò domanda di assunzione
come bidello presso l’Istituto Tecnico di Roraro, presentando i diciotto
documenti previsti dalla legge. Sua madre dovette però corrompere la
segretaria dell’ufficiale sanitario, una lontana parente, per ottenere il
certificato di sana e robusta costituzione.
L’Istituto Tecnico Industriale «Candido Geranioli» era, ed è ritornato
dopo la rivoluzione blablale, una scuola prestigiosa con insegnanti (pochi)
di valore, conosciuta anche all’estero ma scarsamente dai rorarotti.
Gian Giovanni fu esaminato personalmente dal signor preside cav.
uff. dott. ing. prof. Salvatore Stalagmone (SS per gli studenti), uomo
consapevole della sua superiorità sul resto del genere umano, essendo in
ruolo ordinario quale vincitore di concorso nazionale per titoli ed esami.
Erano tempi in cui, nella scuola, il personale era in maggioranza precario,
vagante dalle Alpi alla Sicilia e viceversa. «Ora tutti, bene o male» - dirà il
professor Palvezzi di cui si parlerà a lungo - «sono entrati in ruolo e i non
addetti ai lavori non capiranno mai le sottili differenze tra il settedecimista
e il ventuntrentesimista, tra un abilitato nei corsi abilitanti e un abilitato
nell’ esame di abilitazione, tra un supplente incaricato a tempo
indeterminato e un supplente incaricato part-time, tra un precario
stabilizzato e un precario precario, tra un comandato e un raccomandato».
Stalagmone, ex-gerarca, aveva un maniacale rispetto, appunto, per la
gerarchia, come dimostra un grottesco episodio. Al Geranioli si tenne un
corso di aggiornamento e, in una pausa dei lavori, la scuola offrì il caffè ai
partecipanti. I bidelli precettati come camerieri, secondo le disposizioni di
SS, domandarono a ciascuno quale titolo di studio possedesse, porgendo la
tazzina soltanto agli insegnanti laureati.
16
Per essere ricevuti dal preside era necessario presentare domanda in
carta legale con qualche mese di anticipo; il calendario degli appuntamenti
seguiva un rigido ordine: prima gli insegnanti laureati, poi gli insegnanti
diplomati, infine gli esterni. Gli studenti non erano ammessi in presidenza,
pur essendo i datori di lavoro del preside e di tutto il personale scolastico.
Per motivi che ancora gli sfuggono, Gian Giovanni superò il terribile
esame di cultura generale: gli furono chiesti, tra l’altro, i nomi della madre
del duce, della moglie di Dante e (qui il preside fece un po’ di confusione)
quello del ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno e ai naviganti
intenerisce il core. «Chi dichiarò Son piccin cornuto e bruno / Me ne sto tra
l’erbe e i fior?» - domandò alla fine il signor preside al ragazzo tremante.
«Ti voglio aiutare, non si tratta del nostro docente di agraria professor Lo
Brufolo». «Il grillo!» - rispose trionfalmente il ragazzo.
Fu assunto come bidello supplente (periodo di prova cinque anni) e
venne assegnato al laboratorio di analisi chimica qualitativa, un antro di
streghe in cui era usato l’acido solfidrico, gas tossico di odore
sgradevolissimo. Il reagente veniva allora preparato nei rudimentali
apparecchi di Kipp, quelle tre sfere di vetro sovrapposte immancabilmente
presenti sul bancone dello scienziato pazzo nei film di fantascienza.
Dall’ ingresso del nuovo bidello nei laboratori chimici, le ordinazioni
della vetreria scientifica subirono una brusca impennata; per la fretta di
esaudire le richieste degli studenti - comportamento del tutto anomalo per
un bidello - si lasciava sfuggire di mano matracci di vetro sottile, costose
capsule di porcellana di Berlino, intere scatole di tubi da saggio.
In una industria privata sarebbe stato licenziato per giusta causa. Un
insegnante gli consigliò di chiedere il trasferimento al BIPM (Ufficio
internazionale dei pesi e delle misure), ove avrebbe trovato il modo di
ammaccare anche il prototipo del chilogrammo. La proposta divertì gli
studenti; alcuni sostennero che, dopo una simile sciagura, sarebbe stata
convocata una conferenza internazionale per stabilire un nuovo campione
della massa. Per altri, il BIPM avrebbe conservato come standard il celebre
cilindro di platino-iridio, rovinato e di massa leggermente inferiore a quella
primitiva, imponendo la modifica delle scale di tutte le bilance sparse nel
mondo.
Eppure, malgrado gli incidenti sul lavoro, per la prima volta nella sua
vita Gian Giovanni stava assaporando qualcosa di simile alla felicità.
Preside fascista escluso - non lo vide più dopo l’esame perchè collocato a
riposo - incontrò per la prima volta persone cortesi. Gli sembrava di vivere
17
un bel sogno. Dottori, ingegneri, periti tecnici - da lui creduti (come
appaiono nei fumetti), costantemente immersi in profonde ricerche
scientifiche - si rivelarono esseri umani gentili e disponibili. Non lo
ignoravano e addirittura, con sua grande sorpresa, quando parlava lo
ascoltavano. Alcuni studenti di Roraro e dintorni trattavano il ragazzo come
fuori Istituto, cioè male, ma erano pochi, per fortuna sua e di tutto il
personale. In maggioranza, provenivano da regioni anche lontane. Alcuni
trovarono quel ragazzo imbranato persino simpatico, sempre disponibile a
rifornirli della vetreria e dei reagenti chimici necessari per le esercitazioni,
in un frenetico andirivieni tra i laboratori, situati al secondo piano, e il
magazzino, collocato strategicamente nel seminterrato.
Conosciuta la sua passione per la lettura, gli donavano riviste e
fumetti usati; davanti a tanta generosità Gian Giovanni, cresciuto ricevendo
ordini e calci dai capetti della GIL, scherzi pesanti da parte dei compagni di
scuola e minacce di terribili castighi divini dai preti, si commuoveva fino
alle lacrime.
Per la sua erre moscia gli studenti lo soprannominarono (R)auco
suon de la ta(r)ta(r)ea t(r)omba, poi abbreviato in Auco.
9.
Dopo qualche anno in Istituto, il Gian Giovanni della via Marchetti
acquistò una certa fiducia in sè stesso, consapevole di costituire un piccolo
ma necessario ingranaggio nella macchina scolastica. Era nato Auco del
Geranioli. Fu anche ammesso in Portineria, per un periodo di noviziato di
tre anni, senza diritto di parola.
Il termine Portineria può far pensare ad un luogo deputato alle
chiacchiere e ai pettegolezzi. Nulla di tutto ciò. Si trattava di un club
esclusivo in cui venivano ammessi pochi eletti, indipendentemente dalla
funzione esercitata nella scuola. Il nuovo preside, un vero gentiluomo, la
frequentava fin da quando era professore. Membri di diritto erano i bidelli,
allora pochissimi; membri associati pochi insegnanti, alcuni tecnici e
qualche ex-allievo.
La fama del club oltrepassava i confini dell’Istituto; in paese era
luogo comune distinguere il personale del Geranioli in due categorie:
«quelli dell’Istituto», aventi accesso alla Portineria, e gli altri.
Nume tutelare della Portineria era il custode Giuseppe Citronellale,
chiamato da tutti rispettosamente e affettuosamente signor Giuseppe;
18
mutilato della prima guerra mondiale, autodidatta, piacevole conversatore,
ricco di equilibrio e tolleranza, doti così rare nell’ambiente scolastico.
Nessuno, a memoria d’uomo, l’aveva mai sentito affermare «secondo me»
e «però io l’avevo detto». Era anche una miniera di aneddoti sulla storia
minore della Scuola.
Alla sua morte scriveranno, sul bollettino dell’Istituto: «Era un
saggio ma non sapeva di esserlo, altrimenti sarebbe diventato superbo
perdendo la saggezza».
L’autorità e l’autorevolezza del signor Giuseppe erano indiscusse
anche se, formalmente, il capo del personale subalterno era Joseph
Dernibelungenring, ex-sergente delle SS, pelle scura, capelli e occhi
nerissimi, forte accento partenopeo. Calzava stivali di cuoio in tutte le
stagioni, incedendo come Eric von Stroheim ispezionando officine,
laboratori, corridoi e latrine.
Battendo il frustino sugli stivali, emetteva un suono inconfondibile
cosicchè nessuno veniva mai colto il fallo a oziare. Joseph era stato assunto
come braccio secolare dal preside Stalagmone nel 1945 ma soltanto dopo
molti anni si scoprì che non era di origine tedesca: si chiamava Aniello
Peppino fu Gennaro e non aveva nemmeno prestato il servizio militare.
Quando venne smascherato, presentò le sue scuse al personale sfoderando
l’immancabile «tengo famiglia» e fu perdonato.
Nella nobile corporazione dei bidelli erano rappresentate molte
regioni italiane. Auco conobbe Giacomo Cerasuolo detto Ghes, un timido e
taciturno pugliese; addetto ai laboratori chimici, si imboscava in segreti
ripostigli per tutta la giornata ed appariva dal nulla verso sera, camminando
tra i banconi cantilenando «chiodete il ghes, chiodete il ghes», unico suo
contributo al buon svolgimento delle esercitazioni.
Alvise Ciapacan detto Comandi era un ingenuo padovano
benpensante, credente e credulone; credeva persino nei politici della sua
regione (la famosa triade PiRuBi, Piccoli, Rumor, Bisaglia) quando
dichiaravano di poter risolvere in pochi mesi il problema del Mezzogiorno.
Era sopravvissuto alla prigionia in un campo di concentramento nazista e
definiva il comandante, un colonnello delle SS, «una brava persona, un
buon padre di famiglia».
Ciapacan era considerato un piccolo borghese conformista. Anche
Auco lo ritenne tale fino al giorno in cui lo vide, in piena rivoluzione
blablale, percorrere i corridoi della scuola con il «Giornale» di Montanelli
nella tasca del camice.
19
Auro rincontrò, in Portineria, due suoi insegnanti della scuola di
avviamento: il professore di Legno e il professore di Ferro. Erano così
chiamati i due istruttori addetti alle officine di falegnameria e di
aggiustaggio, rispettati dagli studenti per le loro capacità tecniche, anche se
possedevano soltanto la licenza elementare. Il primo era un valente ebanista
e il secondo un provetto tornitore; per gli studenti, tutti gli insegnanti erano
professori, da cui i curiosi appellativi.
10.
Il personaggio più famoso della Portineria era Teofilo Ghisetti, un
vecchietto di piccola statura, forte e agile come un torello. Era un bidello
sui generis occupandosi, con risultati disastrosi, della centrale termica a
carbone, degli impianti idraulici e di piccoli lavori di manutenzione.
Falciava l’erba del prato interno e curava l’orto e il pollaio del signor
Giuseppe. Aveva lavorato per breve tempo nei laboratori chimici e
raccontava i suoi interventi decisivi durante lo svolgimento di delicate
ricerche, storpiando i nomi dei prodotti chimici, offuscando il «cloruro
demonio» e la «tintura d’odio» citate da Primo Levi ne «Il sistema
periodico».
La principale occupazione di Teofilo era però quella di raccontare
storie mirabolanti di cui era stato protagonista assoluto, alla maniera del
barone di Munchhausen con la spudoratezza di Bertoldo. Originario di
Montecchio, nel Reggiano, affermava essere nato a Montecchio Maggiore e
discendente dei Signori del luogo; di scarsa memoria, confondeva spesso
Montecchi con Capuleti per cui un giorno era pronipote di Giulietta, un
altro di Romeo. Una volta, messo alle strette da chi lo contestava, giunse
persino a rivendicare come antenato un figlio segreto degli sventurati
amanti, sconosciuto anche a Luigi da Porto e a Shakespeare.
La fantasia di Teofilo si scatenava quando l’uditorio era numeroso ed
in particolare quando qualcuno cercava di sbugiardarlo rimarcando le
vistose contraddizioni. A suo dire, aveva esercitato le funzioni più disparate
in ogni parte del mondo. In Portineria si parlava della Resistenza? Ebbene,
si intrometteva dichiarando di aver combattuto come partigiano ma nella
prima guerra mondiale. Un elenco incompleto delle sue attività: «primo
acrobata» nel circo Orfei, tecnico del laboratorio di Igiene e Profilattici,
barbiere da donna, cavallerizzo (mozzo di stalla, ndr) nelle «smisurate
20
scuderie» dei principi Borromeo, sull’isola Virginia (uno scoglio di pochi
metri quadrati nel lago di Varese, ndr).
Il signor Giuseppe, quando Teofilo partiva lancia i resta con i suoi
racconti, assumeva la parte di avvocato del diavolo pungolandolo,
contraddicendolo, sollecitandolo ad escogitare nuove menzogne per
giustificare le precedenti. Teofilo, messo alle strette, elencava i testimoni a
difesa, in genere defunti da anni o emigrati in terre lontane. Soltanto una
volta potè cantare vittoria poichè molti assistettero ad una sua performance.
In portineria si parlava di un prossimo comizio dell’onorevole Greppi,
sindaco di Milano nell’immediato dopoguerra. Ovviamente Teofilo
dichiarò subito di essere stato per anni uomo di fiducia dei nobili Greppi e
di aver cullato sulle ginocchia l’onorevole quando era ancora tenero
infante, come del resto sosteneva di aver fatto con altre persone importanti.
Al comizio, stupiti, lo si vide apparire sul balcone del Municipio, con aria
compiaciuta, alla destra dell’oratore. Aveva incastrato i colleghi e lo
dimostrava con smorfie e strizzatine d’occhio. Prima del comizio - si è
saputo in seguito - lo sfrontato si era presentato a Greppi professandosi
socialista e informandolo di essere stato devoto giardiniere nella sua casa di
campagna. L’onorevole, anche se non l’aveva mai visto, si suppone per
gentilezza e con un pizzico di demagogia, l’aveva voluto accanto a sè per
tutta la durata del comizio. Da quel giorno, il repertorio di Teofilo si
arricchì di un nuovo episodio, la cui autenticità non poteva essere messa in
dubbio, considerati il numero e l’attendibilità dei testimoni.
Nei suoi racconti tutto era eccessivo: le persone erano sempre
personalità, gli animali iperbolici, come un gallo di oltre venti chilogrammi
che aveva assalito la figlia tentando di spogliarla, successivamente fuggito
per il rimorso lacerando la rete del pollaio con gli speroni.
In pace e in guerra Teofilo aveva compiuto imprese memorabili,
sempre in contatto diretto con importanti personaggi, dal ministro della real
casa Falcone Lucifero al brigante Antonio Gasparoni, con cui aveva
attraversato la Foresta Nera inseguito dai gendarmi borbonici. Aveva svolto
mansioni di intendente nella villa di Guglielmo Marconi, a Pontecchio,
sparando il famoso colpo di fucile nell’esperienza risolutiva; raccontava
spesso lo storico avvenimento, infiorandolo di nuovi particolari ad ogni
edizione e imprecando contro i biografi dello scienziato, rei di non aver mai
citato il suo nome.
Soldato semplice ma ovviamente in corpi speciali, aveva combattuto
tanto nella prima quanto nella seconda guerra mondiale, rifiutando per
21
modestia le promozioni sul campo. Altre volte raccontava di aver disertato
per motivi politici. A questo punto compariva, nel racconto, un certo
barone Visconti Sforza, ministro della guerra. L’importante personaggio, in
marsina, cilindro e monocolo, incrociando Teofilo l’aveva «bonariamente
ma con fermezza» redarguito con queste parole: «Affè mia, di te
meravigliomi assai, o Teofilo. Orsù, che fai a Roraro quando dovresti
essere giocoforza sul Carso a compier il tuo dover di patriotto? Ordunque,
rispondi! Verbigrazia, comportandoti in codesto modo fai piangere la
regina Margherita! Appropinquati, suvvia, mi punge vaghezza di inviarti
all’impiccagione!». «Colpito al cuore da sì nobili parole», Teofilo era
partito a piedi raggiungendo, dopo tre giorni di marcia forzata, la prima
linea sul Piave.
Tra i racconti di guerra il più noto agli studenti era quello del mulo
(a volte asino, a volte cavallo) trainato da Teofilo carico di rifornimenti per
una postazione isolata sul monte Grappa. Incurante del pericolo il nostro
eroe, offertosi volontario per la rischiosa missione, sotto il martellare
dell’artiglieria nemica era riuscito, sempre con lo sguardo in avanti, a
raggiungere i commilitoni affamati, allibiti vedendolo impugnare la
cavezza legata a ciò che rimaneva della testa dell’animale dilaniata da un
missile. Troppo impegnato nella scalata, Teofilo non si era accorto di nulla.
E se qualche ingenuo ascoltatore faceva notare che nella prima guerra
mondiale i missili non esistevano, rispondeva che gli austriaci non soltanto
erano armati di missili ma possedevano anche la bomba a dueterroni
(deuteroni, ndr). Compiuta felicemente la missione, inforcati gli sci,
Amedeo scese a valle ma, avvistato da una pattuglia di alpini austriaci,
dovette seppellirsi nella neve, ove rimase tre giorni e tre notti respirando
attraverso la canna del moschetto 91, cullato dal fruscio degli sci nemici frush, frush - che gli passavano sopra la testa, Cessato il pericolo, il corpo
ricoperto di ghiaccio, riprese la discesa ma, arrivato al campo, le sentinelle
inorridite fuggirono urlando: «Il fantasma di Teofilo!». Un capitano dai
nervi saldi, fortunatamente, lo riconobbe, lo abbracciò commosso e corse
subito in tenda a stendere il rapporto, indirizzandolo direttamente al
generale Diaz il quale, dopo qualche giorno, venne personalmente a
congratularsi, accompagnato da un nugolo di alti ufficiali dello stato
maggiore.
Nel secondo conflitto mondiale Teofilo era stato internato in un
campo di concentramento nazista; per le sue vaste conoscenze tecniche
aveva potuto lavorare, e quindi mangiare, in una fabbrica dove si
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produceva una delle famose armi segrete. Himmler lo aveva sottoposto
personalmente a spaventose torture, non riuscendo però a strappargli ove
fosse il rifugio segreto del generale Badoglio, di cui manco a dirlo era stato
l’attendente.
Dopo tre anni di noviziato, ad Auco furono concessi la parola nelle
conversazioni della Portineria e il diritto di partecipare all’annuale pranzo
dei bidelli. Le inaspettate prove di fiducia lo rallegrarono, infondendogli un
senso di sicurezza mai provato fino a quei giorni. Fuori scuola, finchè visse
a Roraro, rimase il timido e complessato Gian Giovanni di sempre; entro le
mura del Geranioli era nato Auco, rispettabile e rispettato bidello.
Era questa l’atmosfera idilliaca dell’Istituto Geranioli prima dello
scoppio della rivoluzione blablale.
23
11.
Trascorse qualche anno ed Auco dovette correggere alcuni suoi
giudizi sul mondo della scuola.
Rimase esterrefatto sentendo alcuni professori, dichiaratamente atei,
dissertare serissimi su ariete e sagittario, pietre miliari di quell’ aberrazione
del pensiero umano che fu l’astrologia. Alle soglie del Duemila rimuginava - probabilmente la macchina del tempo di Wells è stata rimessa
in funzione, direzione Medioevo.
Scoprì in seguito che alcuni di loro, nello sciagurato Ventennio,
scrivevano dio con la lettera minuscola ma, prudentemente, Duce con la
maiuscola. Alcune professoresse, poi, dichiaravano apertamente di portare
amuleti e di non prendere decisioni senza consultare la chiromante.
Definivano la religiosità una forma di superstizione, accusando di
idolatria le loro nonne oranti davanti alla statua della Madonna. Ma
credevano negli oroscopi e nelle fatture, toccavano ferro o facevano le
corna al passaggio di un funerale. Erano convinti dell’influenza nefasta
degli ombrelli aperti in casa, delle scale a pioli e dei gatti neri. La fobia per
questi ultimi ricordava ad Auco una vignetta di Jacovitti in cui, in un
imprecisato Stato sudamericano, era in corso una fucilazione. Davanti ai
condannati passa un gatto nero ed uno dei morituri, in spagnolo
maccheronico, grida: «Un gato nigro! Ce porterà esfortuna!».
Ma come biasimarli, riflettè Auco anni dopo, quando il primo TG2,
che avrebbe dovuto calamitare l’attenzione di un pubblico non
confessionale, stanco del clericalismo del TG1, terminava con l’oroscopo?
Maturando sensibilmente, Auco divenne una specie di fratello
maggiore degli studenti, meritevole di ascoltare i loro giudizi spietati sulla
scuola e gli insegnanti. Molti di questi, non meno del 5 %, erano ritenuti
aperti e preparati, impegnati a mandare avanti la baracca con tutte le loro
forze, malvisti dal burocrati, per le continue richieste di macchine e
apparecchi scientifici, e dai colleghi inetti. A differenza di questi ultimi,
non pronunciavano mai la fatidica frase: «Per quello che mi passa lo Stato
lavoro fin troppo».
Auco ammirava molto la professoressa di Lettere Donata Eugenoli,
valente scrittrice e traduttrice di romanzi. Era modesta e schiva e soltanto
con pochi colleghi parlava di questa sua attività che la portava a frequentare
grandi scrittori come Dino Buzzati e Guido Piovene. L’avere per collega
24
una romanziera lasciava però del tutto indifferenti alcune saccenti prof che,
per seguire la moda del tempo, leggevano faticosamente soltanto
noiosissime opere di saggistica, senza capire un granchè.
Insegnava chimica analitica una giovane signora siciliana, la prof.
Giovanna Eliotropina, una delle poche amate e stimate dagli studenti. Era
piccola di statura, graziosa e sempre elegante, di poche parole. Chi la
conosceva soltanto superficialmente era portato a scambiare per superbia il
suo atteggiamento riservato; era però obbligato a ricredersi quando aveva
modo di apprezzare le sue doti di vera signora. Non era autoritaria ma
autorevole. Il suo viso poco incline al sorriso incuteva negli studenti un
certo timore. Tuttavia, molte studentesse le confidavano i loro problemi
personali, trovandola sempre disponibile ad ascoltare e consigliare. Per la
serietà e il rigore con cui svolgeva il suo compito, non fu mai contestata
anche in piena rivoluzione blablale, a differenza di quanto accadde a certe
sue colleghe soltanto in apparenza aperte ai problemi giovanili.
L’insegnante più ammirato da Auco era il dott. Irnerio Palvezzi Tovi
Manpeggi, ultimo discendente dell’ illustre casato bolognese, ordinario di
chimica industriale e appassionato di letteratura spagnola. Comandante
partigiano sull’Appennino, era scampato alla cattura, durante un
rastrellamento, aiutato da una famiglia contadina: alcuni nomi dei
componenti si possono leggere su una lapide del sacrario di Marzabotto.
Insegnante per scelta, avendo rifiutato offerte di impiego
remunerative, Palvezzi riusciva a trasmettere agli studenti il suo entusiasmo
per la chimica, cercando di inculcare in loro il rispetto per la natura, senza
per questo rinnegare le conquiste della scienza e della tecnica, come
avrebbero fatto anni dopo gli ecoestremisti blablali. Agli studenti
raccomandava chiarezza e concisione, citando spesso quanto scrisse il
grande Mendeleev alla Società fisico-chimica russa comunicando la
scoperta della legge periodica: «... disponendo gli elementi in ordine
crescente di peso atomico, e andando a capo nello scriverli, si vengono a
trovare in colonna gli elementi simili».
«Ecco» - commentava - «Non è meraviglioso quel semplice, umile
andando a capo nello scriverli usato per descrivere una scoperta
costituente una pietra miliare nella storia della scienza? Ora, viceversa,
quanto più una ricerca è futile, tanto più contorto e prolisso è il linguaggio
usato nella relazione ... ».
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Palvezzi citava frequentemente - spesso poco compreso dagli allievi
e ancor meno dai colleghi seriosi - alcune «leggi» attribuite ad un
professore dell’università di Heidelberg di nome Edsel Murphy. Una di
queste recita: «Se spiegate qualche cosa tanto chiaramente che nessuno
possa fraintendervi, qualcuno fraintenderà».
Il professore era una persona calma e tranquilla, non alzava mai la
voce. Una sola volta Auco lo vide perdere le staffe. Fu quando un ricco
imprenditore edile rorarotto, dopo avergli commissionato l’analisi
dell’acqua del pozzo di un suo podere, rifiutò di pagare l’onorario essendo
risultata non potabile.
«Ma come» - sosteneva facendo il finto tonto - «subisco un danno
perchè la mia acqua è imbevibile e mi tocca anche pagare, per giunta?».
Palvezzi lo mandò al diavolo usando le più forti espressioni del
Gamberini-Magli (Dizionario scatologico felsineo), con traduzione
simultanea, come è costume di molti bolognesi. Tutto finì in Pretura ove
Palvezzi - tra gli applausi del personale scolastico accorso in massa al
processo - fu assolto per legittima difesa ed il querelante condannato a
pagare le prestazioni fornitegli e le spese processuali.
Un giorno arrivò al Geranioli una troupe televisiva per riprendere il
laboratorio di un corso di specializzazione e Palvezzi riuscì a mantenere la
calma anche in quella occasione.
Il regista era un cretino e gli studenti si divertirono a sfottere il
numeroso personale della RAI, una massa di incompetenti (sicuramente
occupanti quel «posto» dietro raccomandazione del loro partito) che
confondeva i cavi e sbagliava le luci. Si muovevano tra i delicati strumenti
dei laboratori come elefanti in una cristalleria. Per le riprese sarebbe bastato
un solo cameraman mentre erano otto, in trasferta da Torino ma parlavano
in romanesco, il che faceva pensare a spese di trasferta ben maggiori (a
carico del contribuente, naturalmente).
Auco trovò in Palvezzi un padre spirituale laico e gli aprì il cuore,
confidandogli le sue più che modeste aspirazioni: essere rispettato pur
essendo una nullità, lavorare producendo qualcosa di utile, abitare in un
luogo il più lontano possibile dalla via Marchetti con le sue radio a tutto
volume.
«Sì, apprezzo la sua onestà quando dichiara di valere poco o niente,
ma non esageriamo!» - esclamò il professore - «Se tutti avessero una
chiara consapevolezza dei propri limiti il mondo si fermerebbe. Gli
26
insegnanti, a cominciare dal sottoscritto, smetterebbero di insegnare, i
medici di curare i malati, gli ingegneri rinuncerebbero a progettare, gli
artisti a creare, i politici di Roraro ... no, quelli continuerebbero a discutere
di cose che non conoscono, spaziando dall’economia politica al sistema
carcerario americano, dalla biologia molecolare alla telematica. Sa cosa
scrisse Rossini? So di non essere Bach ma nemmeno Offenbach».
Palvezzi raccontò ad Auco, tra altre cose, come svolse, in un
laboratorio chimico dell’università di Roma, la prova pratica dell’esame di
concorso per entrare in ruolo. I posti disponibili, in tutto il territorio
nazionale, erano due. I sopravvissuti alla prova scritta dovevano
individuare, in una miscela di sali, i cationi e gli anioni presenti. Nel corso
delle analisi si scoprì che in tutti i campioni, diversi per ogni candidato,
era presente il magnesio. Colto da un sospetto, memore dei film di
ambiente romanesco, Palvezzi fece un rapido controllo dell’acqua distillata
trovandola ricca di calcio e magnesio. Si trattava di comunissima acqua di
rubinetto. I commissari controllarono ed accolsero le proteste degli
esaminandi.
Alla sera, passeggiando in centro, per scaricare la tensione Palvezzi e
un collega si divertirono a simulare, usando un romanesco approssimato, un
colloquio tra due bidelli incaricati di provvedere al rifornimento di acqua
distillata. Giggi (dalla mascella cascante perchè tenere la bocca chiusa
richiede un certo sforzo): «A Na’, chettedevodì?». Nando:
«Chemmedevidì?» Giggi: «Nun me la sento, so’ tuto fracicato, sti botijoni
so’ tropo pesanti!». Nando (con le mani a megafono): «Gige’, ciavemo una
stancheza ... . Sai che famo?». Giggi: «Che famo?». Nando: «Con un tubo
de goma colleghiamo i botijoni col rubineto de l’acqua e così non li
dovemo solevare. So’ burini, nun se acorgerano de gnente ... ».
La frequentazione dei laboratori chimici avvicinò Auco all’
affascinante regno della chimica, scoprendo un mondo straordinario in cui
le sue certezze sul valore delle parole vennero sistematicamente frantumate.
«Atomo significa indivisibile» - lesse; qualche pagina dopo si
affermava che gli atomi sono costituti da particelle ancora più piccole.
Incontrò gli acidi e le basi, ma nel momento in cui gli sembrò di capire la
differenza tra le due categorie di sostanze, imparò che «un acido può
comportarsi come una base, e viceversa, secondo le circostanze». Trovò
anche una frase sibillina: «Si verifica una autoossidoriduzione quando
alcune particelle di una sostanza agiscono come riducenti e si ossidano ed
27
altre particelle della medesima sostanza agiscono da ossidanti e si
riducono». Quindi, filosofeggiava tra sè, se tali contraddizioni esistono a
livello degli atomi e delle molecole, perchè stupirsi di quelle di un
organismo enormemente più complesso, la macchina umana, capace di
commettere i più turpi delitti e nel contempo disposta a sacrificare la vita
per amore, o in nome di una fede o di una ideologia?
Anima candida, leggendo un capitolo dedicato ai carboidrati, fu
colpito dal linguaggio scurrile usato nell’industria saccarifera, incontrando
termini quali bagassa, scolo bianco, zucchero invertito, defecazione a
secco.
Con l’aiuto di Palvezzi, sia pure con una decina d’anni di ritardo
rispetto ai coetanei, Auco maturò sensibilmente. All’Istituto Geranioli
trovò nel lavoro l’unica ragione di vita, lontano dal mondo esterno e dai
suoi orribili suoni. Nei giorni feriali viveva praticamente a scuola,
nutrendosi di panini; alla domenica il signor Giuseppe gli apriva il cancello
permettendogli di rifugiarsi in biblioteca. Chi non conosceva il motivo di
tanta assiduità elogiava Auco per la sua dedizione alla scuola.
Quando Palvezzi seppe che il ragazzo trascorreva anche le
domeniche in Istituto, solo, senza amici, cercò di aiutarlo ad uscire dal
bozzolo iscrivendolo al Club Alpino. Una domenica di primavera Auco
fece la prima e ultima uscita. Al ritorno, i gitanti si adagiarono esausti nel
cassone dell’autocarro, non esistendo ancora i pullman superluxe. Un certo
Liduino, tenore del coro parrocchiale, iniziò a cantare, con una
sgradevolissima voce da soprano, gioiose canzoni alpine, ripetendo più
volte quella del soldato che elenca i destinatari dei pezzi del suo cadavere:
la mia mamma, la mia bella mora, il mio capitano, ecc. Non resistendo allo
strazio, quando Auco apprese che la sceneggiata si ripeteva puntualmente
ad ogni gita e che nessuno, stremato per la fatica, aveva mai trovato la
forza di uccidere Liduino, accantonò ogni velleità sportiva e tornò alle sue
letture.
L’acquisizione delle prime rudimentali nozioni sulle particelle
elementari portò Auco ad elaborare, nientedimeno, una teoria per
dimostrare l’esistenza di Dio. Cercò di esporla a don Ammonio ma non fu
ascoltato, trattandosi di un argomento di nessun interesse per il sacerdote.
Troppo fiero delle sue elucubrazioni per rassegnarsi a tenerle per sè,
ne parlò con gli studenti della terza chimici C. Lo ascoltarono
pazientemente.
28
«Osservate» - pontificò - «la disordinata crescita di un albero.
Sembra dovuta puramente al caso, come tanti altri fenomeni naturali. Ma
passiamo al microcosmo. L’ albero, il terreno in cui sorge, i nostri corpi, i
pianeti, le stelle, sono insiemi di atomi, a loro volta insiemi di protoni,
neutroni ed elettroni. Consideriamo, per esempio, una delle tante particelle
subatomiche, il protone. Ebbene, non esiste in tutto l’universo un protone
diverso da un altro, sono assolutamente indistinguibili, hanno tutti, come
sapete, la stessa massa (1,7·10-24 g) e la stessa carica elettrica (1,6·10-19 C).
Tutto ciò può essere casuale? Trovo la prova dell’esistenza di Dio non
nella varietà delle cose, ma nella perfetta eguaglianza delle particelle che le
compongono».
Ridacchiarono.
12.
Il QBP (Quisquilie bazzecole pinzillacchere, omaggio al grande
Totò) era il bimensile degli studenti dell’Istituto Geranioli, un vero giornale
a stampa tipografica con fotografie, disegni e inserzioni pubblicitarie, in cui
si rispecchiava il modo di sentire la scuola da parte degli studenti degli anni
Sessanta. Vi si leggevano pettegolezzi, allusioni alle grazie e alle conquiste
delle studentesse più carine, annunci economici tipo «Cercasi magazziniere
disposto a rimanere per dieci minuti consecutivi in magazzino», satire
degli insegnanti (lusingati di comparire sul giornale anche se beffeggiati). I
redattori, pochi ma entusiasti, si occupavano anche di cose serie, come le
interviste al preside e agli insegnanti (onore riservato a pochi eletti),
rubriche fisse di critica teatrale, musicale e cinematografica, a
dimostrazione di quanto sia falsa l’immagine, dipinta in anni successivi,
dello studente dell’epoca.
I redattori si occupavano accuratamente dell’ impaginazione; il
risultato non aveva niente in comune con i futuri, sciatti «Ciclostilato in
proprio, via del Carmine», interlinea 1 e 75 battute per riga, illeggibili tanto
per la forma quanto per il contenuto, in cui la monotonia dello scritto era
rotta soltanto dai buchi neri prodotti dalle lettere cave della portatile di don
Furbetto, mai pulite a memoria d’uomo.
Sul QBP, la rubrica più seguita era «La rassegna dei quintini». Ogni
candidato all’esame veniva presentato in poche righe. I commissari
d’esame, si favoleggiava, trovavano questi profili più attendibili di quelli
ufficiali, ricchi di nebulose perifrasi, non potendo gli insegnanti dell’ultimo
29
anno concluderli con Ammesso ma non capisce un. Qualche esempio:
«G.S. Lo scorso anno ha chiesto alla commissione esaminatrice di
concedergli un altro anno di esperienza e lo hanno accontentato». «G.B.
Dopo l’insuccesso della fiamma d’amore è passato alla fiamma tricolore».
«P.T. E’ ritenuto il disonore della classe data la sua appartenenza ai boyscouts». «P.R.T. Svolge parecchie attività che completa con quella
scolastica». «M.F. Ha il sorriso disarmante di colui che non sa quello che
vuole».
Spesso, i profili erano ripetitivi ma talvolta qualche caratteristica
della vittima costituiva lo spunto per fare dell’umorismo alla Campanile.
Bianca C. era una ragazza con un fisico da indossatrice mentre la sua
compagna di classe Franca S. era stata svezzata con lasagne e zampone.
Ebbene, il diabolico redattore del profilo aveva sentenziato:
Sopra la Franca la Bianca campa.
Sotto la Franca la Bianca crepa.
Inaspettatamente, nel 1970, il lettori del QBP, abituati alle innocenti
facezie sul tipo di quella citata, aprendo il giornale lessero esterrefatti:
Cioè al limite vogliamo aprire un discorso configurandolo quale
schema strutturale di una nuova soggettività proletaria per assumere la
tematica dello sfruttamento e quella della circolazione gestendo nel
contesto le contraddizioni interne a livello delle strutture coinvolgendo le
masse popolari in una svolta concreta dialetticando con un lavoro di
gruppo la ristrutturazione fuori e contro il sistema portando avanti
conflittualmente un certo tipo di discorso a monte e a valle e anche tra il
monte e la valle refertato alle attività prestazionali metascolastiche,
parascolastiche,
subscolastiche,
anfiscolastiche,
periscolastiche,
extrascolastiche.
«Nessun accenno alle attività scolastiche» - commentò Palvezzi.
Seguiva un invito a partecipare ad una assemblea studentesca aperta
anche a docenti e non docenti.
La dichiarazione di intenti era partorita da un gruppo di Blablali,
astutamente infiltrati nella redazione del QBP.
30
I termini rivoluzione blablale e movimento blablale, coniati dal
geom. Caseina, uno degli storici locali, sintetizzano il modo in cui a Roraro
imperversò la contestazione globale.
13.
Il movimento blablale degli studenti rorarotti era sorto per iniziativa
di un gruppetto di insegnanti, essendo i ragazzi del tempo refrattari alla
politica. In una riunione segreta furono indottrinati alcuni giovani vanitosi,
con poche idee ma confuse, non molto portati allo studio delle materie
scientifiche. Sarebbero diventati i capi del movimento.
Uno di loro, a cui Palvezzi aveva chiesto la definizione di numero
atomico [numero dei protoni presenti nel nucleo di un atomo, ndr], rispose
«Cioè, secondo me, per numero atomico si intende quel numero che,
rappresenta, cioè, nella misura in cui un atomo, per esempio quello del
potassio, appartenendo questo elemento al primo gruppo della tavola
periodica ... ».
Fu interrotto da un gelido «Si accomodi» e ritornò stupito al proprio
posto.
L’insegnante più attivo nell’inculcare nei giovani il verbo
rivoluzionario blablale, rendendoli consapevoli di vivere nella peggiore
scuola e nella peggiore società del mondo, era approdato al Geranioli dopo
aver chiesto invano di essere inviato come missionario nell’Africa
Centrale: un vescovo, conoscendolo personalmente, aveva insabbiato la
pratica. Per inciso, quel vescovo era di origine rorarotta. Privo del senso
della misura come molti suoi concittadini, quando seppe che a Salisburgo
esiste una Herbert von Karajan Strasse, omaggio della città al Maestro
ancora vivente, si fece ritrarre in bronzo scala 2:1 e ordinò di collocare la
statua nel cortile del seminario diocesano. Una notte, un ignoto seminarista,
armato di vernice e pennello, scrisse HUMILITAS sul basamento.
Il mancato missionario si chiamava Giorgio Indolo. Pur essendo
intelligente e preparato, apparteneva a quella categoria di cattolici con la
frenesia di soccorrere il prossimo, anche se questo non manifesta nessuna
intenzione di essere aiutato. Ma lo faceva a modo suo, rabbioso contro tutto
e contro tutti, auspicando ad esempio lo smantellamento dell’intero
apparato industriale e, contemporaneamente, manifestando affinchè
venissero aumentati di stanziamenti per gli aiuti al Terzo Mondo.
31
Sembravano scritti per lui i versi di Roberto Mussapi: «Non c’è peggior /
nemico dell’uomo / dell’animalista. / Dopo il filantropo, / naturalmente.»
In un certo senso era in buona fede, animato dalle migliori intenzioni
ma diventava pericoloso quando si agitava non tanto per i vecchi, i malati,
gli immigrati, gli emarginati (di cui non gli importava nulla come persone)
bensì per esaltarsi denunciando, discutendo, stigmatizzando e condannando
la società colpevole di tante nequizie.
Durante un’assemblea, Indolo sentenziò: «Questa scuola è da
distruggere essendo il luogo dove i padroni vi indirizzano verso gli studi
tecnici affinchè diventiate i loro servi».
Commentò Palvezzi: «La République n’a pas besoin des savants,
come disse il giudice condannando Lavoisier alla ghigliottina».
Indolo aveva trasformato le sue lezioni in comizi contro il
consumismo, l’inquinamento ed altri malanni che affliggono l’umanità, ma
nel modo esasperato tipico dei fanatici. Gli studenti lo avevano
soprannominato professore di Inquinatica.
Gli scienziati, come è noto, sono divisi sul futuro del Pianeta: c’è chi
sostiene l’avvento di una nuova glaciazione e chi il contrario, un
surriscaldamento dovuto all’effetto serra. Il professor Indolo abbracciava
alternativamente entrambe le teorie, pur di terrorizzare gli studenti con
l’annuncio di imminenti catastrofi dovute - non aveva importanza all’abbassamento o all’innalzamento della temperatura della Terra causati
dal progresso tecnologico.
«C’è del vero in queste prediche» - pensava Auco a proposito del
consumismo - «persino i gatti della via Marchetti ora cacciano i passeri per
puro divertimento, abbandonandoli una volta uccisi». Ma tornava con la
memoria ai giorni di rigoroso digiuno impostogli, nell’infanzia, quando si
ammalava. Cessata la febbre, tornava l’appetito ma la nonna a cui era
affidato gli diceva «E’ una falsa fame. E’ la febbre mangina, sei ancora
ammalato». E il digiuno proseguiva. Concludeva tra sè: «E’ vero, il
consumismo è deleterio ma Indolo e i suoi seguaci non per questo devono
descrivere gli anni della miseria come un paradiso perduto».
Docente di chimica, Indolo classificava buoni i materiali e le
sostanze naturali e cattivi i prodotti artificiali della grande industria. In
questa ottica, inseriva nella prima categoria, oltre al nonadienale (a cui si
deve il profumo delle viole mammole) anche il propantiolo (prodotto dalle
puzzole) e persino i veleni dei funghi, l’acido formico delle formiche,
l’oppio e la marijuana. Cattivi non erano soltanto l’acido formico della
32
Montedison e i farmaci di sintesi e soprattutto i plastomeri e le tecnofibre.
Indolo accusava persino la madre di Mosè di aver contribuito
all’inquinamento del Nilo, poichè aveva deposto il figlio in un cesto di
vimini spalmato con bitume e pece, materiali non biodegradabili.
Palvezzi si permise di ricordargli pacatamente come siano poche le
sostanze usate dall’uomo così come si trovano in natura; anche prodotti
naturali come il latte, l’olio, la lana, la seta, il cotone, il legno sono
utilizzabili soltanto dopo indispensabili trattamenti fisico-chimici. Tutto il
resto è frutto di reazioni chimiche: sono artificiali, nel senso di prodotti
frutto dell’opera umana, il pane, il vino, la birra, i farmaci, i laterizi, il
cemento, le leghe metalliche ... .
«Non accetto lezioni da un collega» - lo interruppe Indolo, gelido.
Auco, quando sentiva criminalizzare la plastica, e non coloro che la
gettano dappertutto insieme ad altri rifiuti, ricordava la sua infanzia e i
poveri giocattoli di latta arrugginita e tagliente, veicolo ideale per il tetano,
o di legno scheggiato, colorato con vernici contenenti solfuri di arsenico,
impiegati da fabbricanti senza scrupoli per il loro basso costo.
Indolo odiava la plastica anche perchè con essa si producono oggetti
kitsch; in compenso, aveva «abbellito» il giardinetto con le statuine di
gesso di Biancaneve e i Sette Nani e nel suo studio troneggiava una orribile
riproduzione di una gondola, costruita incollando conchiglie. Ma il gesso e
le conchiglie sono materiali naturali e tanto bastava.
Coerente con le idee di una sinistra reazionaria cui apparteneva,
Indolo auspicava un impossibile ritorno ad una civiltà contadina. Troppo
occupato con il presente, sembrava non avesse mai sentito parlare delle
carestie e delle epidemie così frequenti nell’epoca preindustriale, della
sporcizia e del freddo in cui vivevano i poveri (oggi promossi al rango di
non abbienti), un tempo la stragrande maggioranza della popolazione
italiana.
Questa idealizzazione del passato contadino ricordava ad Auco la
retorica profusa nel libro di Stato di quinta elementare. Ai giovani lettori
non parlava delle fatiche e degli orari di lavoro inumani cui era sottoposta
la gente dei campi. I contadini comparivano, cantando liete canzoni,
soltanto al momento dei pingui raccolti. Vinta la battaglia del grano,
trebbiavano le messi dorate al punto giusto per volontà del duce. L’
illustrazione lo mostrava a torso nudo mentre gettava un covone nella
trebbiatrice, circondato da un nugolo di questurini travestiti da contadini
ma dalle facce inequivocabili. L’ uva cresceva e maturava spontaneamente
33
in grappoli pronti per essere recisi dalle massaie rurali in divisa, al canto di
«Quando scendi dai tuoi monti, paesanella / Ti sorridono le fonti [?] perchè
sei bella», mentre le api frugano negli acini sparsi e ne escono sazie
ronzando.
In un consiglio dei professori, Indolo e altri blablali chiesero
l’eliminazione dei libri di testo, da sostituire con appunti dettati
dall’insegnante. Palvezzi li invitò pacatamente a leggere Fahrenheit 451 di
Ray Bradbury. Quelli che l’avevano letto capirono che la proposta
costituiva uno schiaffo morale.
Un giorno, il signor Giuseppe raccontava ad Auco come, negli anni
bui della guerra, in cui mancava tutto, nel laboratori chimici del Geranioli
si preparasse il sale da cucina per reazione tra acido cloridrico e sodio
carbonato, un’ assurdità dal punto di vista tecnico ed economico. Veniva
poi distribuito al personale che lo barattava con pane e altri generi di prima
necessità. La fase finale della storia venne udita per caso dal prof. Indolo;
l’incauto, sentendo parlare di economia curtense, intervenne intonando
laudi al buon tempo antico. Fu raggelato da un «Caro professore, lei è tanto
giovane e inesperto ... . E’ convinto di vivere nel peggiore dei mondi al
punto di osannare gli anni di guerra che non ha conosciuto, per sua fortuna!
Vuol sapere cosa si cantava, a bassa voce, naturalmente, sull’aria di una
canzonaccia squadrista? Quando Bandiera rossa cantavamo / Ben cento
lire al giorno prendevamo / Adesso che si canta Giovinezza / Si va a
dormire con la debolezza / Senza patate, senza fagioli / ... .
Ha ascoltato le ultime parole? Non cantavamo «Senza salmone, nè
fiorentine», ha capito? Al culmine delle nostre aspirazioni vi erano patate e
fagioli! ».
Indolo se ne andò offeso, senza controbattere.
14.
Ebbe luogo la prima assemblea studentesca, novità assoluta al
Geranioli. Non mancava nessuno. La maggioranza dei non iniziati credeva
ingenuamente venissero discussi argomenti riguardanti la scuola.
Ovviamente non fu così.
Aprì la seduta lo studente Scatolo Sergio della IV Meccanici - altezza
1,85 m, torace in proporzione, nove in educazione fisica ma scarsino nelle
materie tecniche - mandato allo sbaraglio dai congiurati. D’ora in poi, le
34
parole volgari del linguaggio blablale saranno sostituite con i termini
anatomici e fisiologici corretti.
«Pene!» - esordì Scatolo - «Sia kiaro ke ci siamo riuniti, prostituta
Eva, in questa skuola di feci molli, per dialoghizzare del falli nostri, no?
Siamo impenati ma non feci dure, verga, e sappiamo ke tutti hanno il diritto
di dire penate in pubblico! Esclusi i fascisti del fallo, no? E sia kiaro che
per noi sono fascisti missini, liberali, demokristiani, socialdemokratici,
repubblikani, socialisti, komunisti ed altri partiti del pene che ci dissociano
le ghiandole seminali!»
Per un fenomeno otticacustico mai chiarito, si leggevano le kappa
nella sua voce.
Scatolo continuò su questo tono per un quarto d’ora e concluse:
«Chi fa da sè fa per tre ma l’unione fa la forza! Quando kala la notte
i nottambuli si aggiornano!»
[Il secondo slogan non l’ aveva ben compreso nemmeno il suo
ideatore, ndr].
Non ancora vaccinati, come oggi, contro un simile linguaggio, i
presenti in un primo tempo ammutolirono, mentre tra i fondatori del
movimento si profilava la prima di una lunga serie di scissioni. Poi, alcuni
chiesero e ottennero la parola.
Il primo oratore fu don Ammonio. Coerente con il suo soprannome,
avendo annusato il vento e capito prima degli altri da che parte stesse
soffiando, elogiò la magistrale introduzione di Scatolo auspicando,
sottolineando, coinvolgendo, ribadendo e stigmatizzando. Parlò
ininterrottamente per mezz’ora, senza dire praticamente nulla, ma in modo
eccellente.
Da quel giorno, per tutta la durata della rivoluzione blablale, la via
del Carmine, da cui si accedeva alla sagrestia della chiesa arciprepositurale,
fu percorsa notte e dì dai galoppini dei più stravaganti movimenti. Si
ridussero le spese sostenute da don Ammonio per riscaldare il locale: il
ciclostile a disposizione dei blablali grafomani, ruotando ininterrottamente,
sostituì egregiamente la stufa a cherosene.
Dopo il sacerdote prese la parola uno studente, il cui cognome non
risulta dai verbali dell’assemblea. Molti rivoluzionali erano infatti
scognomati, come diceva Totò. Qualificatosi Luca, il ragazzo si autodefinì
democratico periferico, cioè contrario al centralismo democratico,
35
proponendo l’abbattimento delle centrali
idroelettriche, geotermiche e del latte.
nucleari,
termoelettriche,
Poli Ester, una ragazza della V chimici B, in preda ad una crisi
isterica, si scagliò contro i produttori di fibre sintetiche, auspicando un
ritorno all’uso esclusivo di quelle naturali. Proclamò nel contempo la sua
solidarietà con gli operai in sciopero della «Poliammidine SpA», che
sorgeva in un paese vicino a Roraro.
Ascoltandola, Auco rivolse un pensiero di gratitudine all’ing.
Wallace H. Carothers, l’inventore del nylon, a cui doveva i suoi calzini
praticamente indistruttibili. Ricordò gli anni di scuola, quando allentava la
cintura dei pantaloni affinchè scendessero fino a nascondere i buchi nelle
calze di cotone. Ricordò anche sua madre quando esclamava con
ammirazione, alludendo ad una sua ricca amica: «Porta le calze di seta!».
Infatti, prima dell’avvento delle tecnofibre, soltanto le signore (leggi
«ricche» e spesso poco «signore») indossavano le calze di seta mentre le
«donne» (così venivano chiamate le non abbienti) non usavano calze
lunghe e al massimo, nella stagione fredda, indossavano calze di lana
infeltrita dai ripetuti lavaggi con sapone, un altro prodotto rimpianto dai
blablali. Ora, - rifletteva - le calze di nailon sono alla portata di tutte le
borse e molto più resistenti di quelle di seta, ormai indossate soltanto da
qualche snob.
Alla Poli Ester, tra urla e fischi, rispose il prof. Palvezzi: «Se
volessimo vestirci di sola lana, tutta la superficie dell’Europa dovrebbe
essere destinata a pascolo; se volessimo indossare soltanto indumenti di
cotone, enormi superfici di terra verrebbero sottratte alla coltura dei
cereali!».
Un insegnante tecnico, sostenendo che rosso è progresso, propose di
invertire il significato dei colori dei semafori: avanti con il rosso e alt al
verde. Fu contestato da Indolo, il quale sostenne che il colore del progresso
è il verde. Aggiunse una proposta dirompente: trasformare i funerali in
festeggiamenti poichè «quando muore qualcuno, si verifica una leggera
flessione sulla curva discendente delle risorse alimentari ed energetiche del
Pianeta».
36
Un allievo dei corsi professionali per infermieri urlò: «Dicono che
questa è una scuola di feci e che deve essere distrutta: con una dieta
appropriata cerchiamo intanto di migliorare le feci!».
Fu accolto con una bordata di fischi e bollato come riformista,
termine infamante, in quel tempo felice.
Seguirono caotiche votazioni per alzata di mano sulle mozioni più
strampalate e si costituì lo «Scuotimento dei Discenti», sembrando ai
promotori troppo chiaro, e perciò banale, denominarlo «Movimento
Studentesco». Ma suonò la campanella e la maggioranza dei convenuti se
se andò. Rimasero soltanto i capi e qualche attivista a votare la seguente
mozione, poi risultata approvata all’unanimità da tutta l’assemblea:
L’assemblea dello Scuotimento dei Discenti
PRESO ATTO
della necessità di portare avanti un discorso a livello
AUSPICA
al limite il coinvolgimento della comunità per realizzare sè stessa in misura
esperienziale
DENUNCIA
l’ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle vicende interne dell’ Istituto
Geranioli di Roraro
SI OPPONE
alla gestione verticistica di base delle strutture
RIBADISCE
la sua opposizione al sistema
Delegato plenipotenziario della CIA, sezione di Roraro:
GO HOME !
15.
La prima assemblea sembrò ai più essere anche l’ultima, considerata
la latitanza di argomenti seri su cui impostare un dibattito. Ne furono
invece convocate molte altre, in orario scolastico, ad un ritmo
impressionante, con gli ordini del giorno più strani e futili.
Sergio Scatolo fu defenestrato e i professori rivoluzionari
nominarono leader degli studenti un certo Arsenio Mercaptani della III
chimici B. Formalmente, risultava eletto dall’assemblea sovrana.
37
Mercaptani era un giovane brutto, miope, occhiali con la montatura
di sinistra, malrasato, capelli lunghi d’ordinanza. Era affetto da sigmacismo
(il cosiddetto pifello), particolare comune a molti estremisti del tempo. (Le
più bizzarre teorie, elaborate da alcuni sociologi per spiegare il fenomeno,
non hanno mai trovato credito presso gli studiosi).
Tra i partecipanti alle caotiche assemblee, Mercaptani era l’unico
capace di mettere insieme quattro parole comprensibili, con un numero di
cioè, di discorso, di a livello e di parolacce abbastanza contenuto. Pur
dichiarandosi proletario - come imponeva le retorica del tempo - era un
proletarista, un borghese nel senso più deteriore del termine, figlio unico
del proprietario della «Roraro Carri». Non era questa una fabbrica di carri e
carretti agricoli; la ragione sociale della ditta derivava dall’inglese car.
Per una certa educazione ricevuta in famiglia e discrete possibilità
economiche, Arsenio era inevitabilmente portato a sottomettere i compagni,
in maggioranza autentici proletari.
Non mancava di referenze. Qualche giorno prima dell’investitura,
insieme a pochi coraggiosi, aveva compiuto tre giri intorno all’autosalone
del padre, scandendo slogan rivoluzionari.
Per distruggere il sistema - altro slogan ricorrente in quei tempi
remoti - Mercaptani entrava a scuola sistematicamente in ritardo, con
supponenza. Indugiava per qualche minuto davanti alla portineria e si
poneva in capo - per dimostrare il suo disprezzo per le istituzioni - il
berretto a cupola alla Lucio Dalla, in voga a quel tempo.
Il signor Giuseppe, nauseato da queste manovre, un giorno lo aspettò
al varco declamando ad alta voce dei versi di Pasolini letti su l’ «Espresso»:
«Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. /
Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo ...».
Mercaptani finse di non sentire, non volendo abbassarsi a discutere
con il custode di un edificio di proprietà dello Stato repressore.
Nessuno aveva mai visto Arsenio ridere, o sorridere, ma soltanto
sghignazzare; ciò si verificava tutte le volte in cui era costretto ad ascoltare,
incapace di ribattere, le tesi degli avversari politici, cioè tutto l’arco
costituzionale e gli indifferenti. Camminava con passo strascicato e parlava
lentamente, pronunciando rabbia, furore, violenza ed altre dure parole con
una flemma più adeguata alla descrizione di un tramonto.
Arsenio passava la sua giornata nel Bunker. Era così chiamato un
seminterrato usato come ripostiglio, teoricamente messo a disposizione di
38
tutti gli studenti, ma accessibile soltanto ai pochi attivisti dello
Scuotimento.
Il leader si incontrava talvolta anche in classe, semisdraiato sul banco
ma, stranamente, soltanto quando veniva convocato dal Capo d’Istituto, per
consultazioni, attraverso gli altoparlanti. (Il buon preside subentrato all’ing.
Stalagmone aveva chiesto e ottenuto il trasferimento in altra sede. Il
successore era un giovane intelligente e scaltro). Senza rivolgere uno
sguardo ai compagni e all’insegnante, Mercaptani si alzava lentamente ed
usciva in silenzio, cosciente dei gravi compiti che lo attendevano. Non
sospettava, poveretto, di essere un burattino manovrato dall’astuto preside.
Arsenio appariva talvolta anche in laboratorio, ove i compagni
eseguivano con entusiasmo le ricerche dei componenti una miscela.
Riposava per qualche tempo appoggiato al suo - diciamo così - posto di
lavoro, sfinito per l’energia spesa nel comporre invettive in versi. (Non è
facile trovare parole, oltre le scontate fogne, che facciano rima con
carogne). Poi, tornava nel Bunker ritenendo disdicevole, per un futuro
perito chimico, sporcarsi le mani con i reagenti. Tanto, e comunque, una
volta terminato il lavoro, una delegazione di classe si sarebbe recata nel
Bunker con la relazione sull’opera svolta. Assertore del lavoro di gruppo,
uno dei cavalli di battaglia dei rivoluzionari blablali, Mercaptani apponeva
la sua firma accanto a quelle dei compagni.
Quando Auco seppe della nomina a leader di Mercaptani, anche se in
primo momento aveva dimostrato simpatia per lo Scuotimento, giudicando
oltremodo positivi l’anelito di libertà e la volontà di spazzare via gli
ammuffiti costumi borghesi ottocenteschi, prese le distanze da quel gruppo
di fanatici, diventando così automaticamente «nemico del popolo».
A colleghi e studenti diceva: «Brutto segno, hanno scelto come
condottiero un lavativo scansafatiche, abile nello sfruttare il lavoro dei
compagni». Non sapeva di parafrasare Leo Longanesi: «Non sono le idee
che mi spaventano ma le facce che rappresentano quelle idee».
Infatti, avrebbe poi raccontato il prof. Palvezzi ai suoi figli, «mai
come in quegli anni, a Roraro, tante cose giuste furono proclamate dalle
persone sbagliate e la malafede di alcuni rivoluzionari respinse anzichè
attrarre molti potenziali proseliti. Ancor oggi, per come sono stati allora
presentati, molta gente prova avversione per i problemi ecologici».
Arsenio Mercaptani si diplomerà perito chimico industriale
capotecnico svolgendo il tema di Italiano, preparato dai burocrati del
39
Ministero prontamente adeguatisi al nuovo corso, e presentando una tesi
sperimentale.
Tema. Il metodo partecipativo auspica il riorientamento delle linee
di tendenza in atto secondo un modulo di interdipendenza, ipotizzando e
perseguendo, in ambito omogeneo, ai diversi livelli, una congrua
flessibilità delle strutture.
Svolgimento. Coerente al tema, con ripetute citazioni di certi Kraxi,
Kossiga e Kossutta e di una non ben precisata area laika.
Tesi sperimentale. Analisi chimica di un film plastico usato per il
trasporto delle derrate alimentari dalla produzione al consumismo nei
Paesi ad economia mista.
Studenti: Collettivo Rivoluzionario Filoneista della classe V C, sez. chimici
industriali.
Leader: Riv. Fil. Mercaptani Arsenio.
Relatore: Chiar. Prof. Riv. Fil. Indolo Giorgio.
Nella sua monumentale opera sul protocapitalismo lo Hart(1) accenna
ad una deplorevole abitudine degli uomini dell’età del bronzo: il trasporto
delle banane, dall’albero alla caverna, avvolte in foglie di banano, forse il
primo esempio di contenitore a perdere. In tempi meno remoti, i sacerdoti
di Baal lanciano invano anatemi contro le schiave, colpevoli di trasportare
l’olio di sesamo apriti, acquistato al mercatino rionale di Sidone, non nella
cavità delle mani bensì in otri di materiale plastico ricavato dalla gobba dei
dromedari.
Anche un lavoro di Jacovitti(2) e un film di Cerchio(3) mostrano
quanto sia antico l’uso di anfore per il vino, canestri per la frutta, ampolle
per balsami ed altri prodotti delle antiche civiltà consumistiche. [Seguono
duecentosessantacinque pagine di cui ben tre dedicate alla parte
sperimentale, ndr].
(1)
Hart, Johnny - L’antichissimo mondo di B.C. - Milano, 1960.
Jacovitti, Benito - Pippo, Palla e Pertica e i gladiatori - Milano, 1961.
(3)
Cerchio, Fernando - Totò contro Maciste - Roma, 1962.
(2)
16.
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Negli anni Settanta, la popolazione scolastica dell’Istituto Genarioli
aumentò notevolmente, con un corrispondente aumento del personale. La
pace regnante da sempre in Istituto tra studenti, professori e bidelli, sotto la
spinta rivoluzionaria dei Blablali, divenne guerra aperta.
Auco potè osservare da vicino, nel bene e nel male, l’evolversi della
situazione. Ebbe modo di conoscere alcuni strani tipi sbarcati al Geranioli,
quasi tutti neolaureati e neodiplomati. Tra gli insegnanti, i nuovi venuti
erano in maggioranza demotivati, considerando l’insegnamento come un
impiego di serie C. «Tuttavia» - sosteneva il signor Giuseppe - «come
biasimarli quando il personale scolastico è premiato, a distanza di anni
dalla firma dei contratti di lavoro, dopo una serie di scioperi, con anticipi
sugli arretrati?».
«Alcuni dei nuovi insegnanti» - racconterà Palvezzi - «erano
abilissimi nel redigere i programmi preventivi, poi non svolti per incapacità
di organizzare il lavoro, a differenza dei docenti più anziani, i quali
consideravano ipocrita mettere per iscritto ciò che soltanto in parte
avrebbero potuto sviluppare nel corso dell’anno scolastico».
Gli anziani meno furbi furono sconvolti sentendo parlare di
«adeguata sistematizzazione, in blocchi tematici, dei contenuti di carattere
fenomenologico operativo e delle correlazioni e/o interdipendenze
metodologiche». Per qualche tempo si sentirono dei sopravvissuti, incapaci
di adeguarsi al presente. Ma quando si accorsero che il linguaggio dei
nuovi arrivati era soltanto una cortina fumogena, ripresero fiducia. Scriverà
Giulio Nascimbeni: «... evitano la semplicità come se fosse un vizio
disonorevole e lo fanno con autorevole sprezzo del ridicolo».
Stanco di essere trattato con sufficienza dalle nuove leve, Palvezzi
chiese di leggere, durante una riunione dei docenti, un «blocco tematico»
dedicato ai tre stati di aggregazione dell’acqua. Tra lo stupore dei presenti,
esordì, serissimo:
«Finalità generali. Il curricolo interdisciplinare specifico, la
propedeuticità e la complementarietà intercorrenti tra il ghiaccio, l’acqua
liquida e il vapor d’acqua, tenendo conto dei prerequisiti dei discenti, della
esigenza di raccordo tra le acquisizioni già in loro possesso e quelle nuove,
che riflettono spesso la logica interdisciplinare specifica, devono conferire
un taglio che consenta una apertura in varie direzioni, con possibilità di
approfondimento in senso ecologico-ambientale, igienico-sanitario,
agroalimentare, chimico-biologico, energetico alternativo.
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Obiettivi generali. La presentazione organica ed armonica delle
correlazioni e delle interdipendenze tra i tre stati fisici dell’acqua sono
volte alla formazione della personalità dei giovani per le potenzialità
formative e culturali da essi intrinsecamente possedute; inoltre, attraverso
lo studio e l’osservazione dei fenomeni di fusione e vaporizzazione, i
discenti potranno acquisire una realistica immagine della natura della
scienza, pur nel mantenimento di una corretta articolazione di ciascuna
delle tra fasi (solida, liquida e gassosa) e in stretto raccordo ... ».
Non potè continuare, subissato dagli applausi.
Da quel giorno, molti giovani colleghi chiesero umilmente il suo
parere prima di depositare in presidenza il programma preventivo, ed egli si
divertì a suggerire piani di studio ancora più balordi e insensati di quello
proposto.
Uno degli ultimi acquisti del Geranioli era il professor Michelangiolo
Proteano (Disegno tecnico). Rorarotto narcisista, godeva visibilmente
quando apponeva la sua firma su registri di classe, verbali, petizioni ed altre
scartoffie. Imperversava ovunque anche con il pennarello ed il suo nome
era tristemente noto ai sovrintendenti alle Belle Arti. Colpiva ovunque. Chi
avesse tempo da perdere può trovare la sua firma, accanto a quelle delle
solite coppiette, sopra un piedone del Mosè di Michelangelo, su un
sarcofago in S. Apollinare in Classe, sugli affreschi di Masolino a
Castiglione Olona, sulla tomba di Ilaria del Carretto nel duomo di Lucca.
Michelangiolo aveva vinto il terzo premio in un concorso di pittura,
indetto dalla Pro loco di Roraro, «... per l’originale contributo neomoderno,
senza ripiegamenti e ineleganze decadenti di sfocati pittoricismi, tracciato
come punto di cronaca in larga misura privo di pesantezze metalliche, in
splendida ambiguità tra la bidimensionalità dell’affresco e la
tridimensionalità del duroplasto. Pur risentendo di una certa accademicità
formale, le sue esangui figure costituiscono una somma di concrezioni che
evidenziano una coagulazione del caos cromatico fortemente incisiva; i
segni si affollano intorno ad un sentimento come il baluginìo di una
umanità perduta».
Come scrisse Ennio Flaiano, l’Italia è il paese dei geni compresi.
Non disponendo di altri mezzi per accattivarsi la simpatia dei
giovani, Proteano ricorreva alla demagogia. Quando entrava in classe
faceva togliere la pedana sotto la cattedra, a suo parere simbolo del potere e
non semplice accorgimento tecnico. Essendo piuttosto piccolo di statura era
42
quindi costretto, tra le risate degli allievi, a salire su uno sgabello quando
doveva usare la lavagna, inchiodata al muro dietro la cattedra.
Un altro tipo strano era il professor Aldo Pentosi; insegnava
matematica aprendo stancamente le pagine del libro di testo ed indicando ai
ragazzi i numeri degli esercizi da svolgere. La sua vera passione era la
dietrologia. Anche il più stupido avvenimento era, secondo lui, frutto di
intrighi e ricatti «caratteristico atteggiamento degli individui del suo
stampo» - commentò Palvezzi - «incapaci di ammettere il successo di un
collega dovuto alle doti personali anzichè all’intervento di un personaggio
influente». Era autore di un manuale di dietrologia, inedito, povero di
definizioni ma, come richiedeva la materia, ricco di allusioni. Sfogliando il
dattiloscritto, si incontravano velati accenni a rapporti omosessuali tra il
sindaco di Roraro e quello di New York, a cui si doveva un piano di aiuti
economici all’Italia. Più avanti si parlava di cospicui finanziamenti, da
parte delle Cartiere Artigiane Riunite, ad un movimento ecologista,
affinchè impostasse una campagna di stampa contro il polietilene usato per
i sacchetti della spesa.
Grandi e piccoli editori avevano rifiutato di pubblicare il lavoro
sospettando si celasse, in quell’ammasso di idiozie, il messaggio di qualche
potente, interessato alla pubblicazione del manuale per oscuri e
inconfessabili motivi.
Il professor Giorgio Indolo aveva invece stampato un saggio, a sue
spese, prima in ciclostile e poi con la pedalina della Stamperia Artigiana
Rorarotta. Per l’occasione, la piccola tipografia cambiò ragione sociale
divetando Editrice Tipografica Rorarotta. Titolo del libro: «Discorso sul
lied attribuito al cosiddetto Maestro di Mahler: E la Mariana la va in
campagna / Fin ch’el sol tramonterà tramonterà tramonterà / Chissà
quando chissà quando ritornerà».
L’opera, di cui esiste ancora qualche copia nel bunker del Geranioli,
fu così segnalata sull’Eco di Roraro da un avversario politico: «L’A.
ribadisce e sviluppa la sua ideologia di retroguardia, confrontando
spudoratamente la protagonista della popolare filastrocca con la donzelletta
leopardiana. La Marianna, sottolinea l’A., non vien dalla campagna in sul
calar del sole, ma va in campagna e si trova così bene che non si sa quando
ritornerà. In oltre ottocento pagine viene tessuto l’elogio del tempo che fu,
quando la Marianna si alzava ogni giorno prima dell’alba e faceva un po’ di
footing, percorrendo gioiosa con la vanga in spalla i cinque kilometri che
43
separavano il campo dal suo tugurio. Poi iniziava a zappare, continuando
fino al tramonto, in una campagna non contaminata dai trattori e altre
macchine inquinanti. In realtà, come testimoniò un pronipote, la Marianna è
vissuta maledicendo con parole irriferibili l’essere nata contadina; a
trent’anni ne dimostrava sessanta, sdentata, il viso solcato da profonde
rughe scavate dai benefici raggi UV dei campi, il corpo deformato dai parti,
il rachide ridotto a S dal peso del gerlo».
17.
I pochi bidelli del decennio precedente la rivoluzione blablale erano
maestri nell’arte di defilarsi quando si profilava un lavoro, ma con un certo
stile, consapevoli di sbagliare. Inoltre, non avrebbero mai denunciato un
collega al capo del personale.
Per effetto della rivoluzione, vecchi e nuovi bidelli incattivirono,
mettendo tutto in discussione. Si scannarono a vicenda, imprecando contro
gli studenti imbrattatori, i professori che tolleravano lo scempio o
addirittura collaboravano, il preside che non sapeva far rispettare i
regolamenti (agli altri). Perso ogni pudore, oziavano tutto il giorno riuniti
in gruppi, discutendo ad alto volume sui diritti dei lavoratori e sui ritardi
nella corresponsione del «compenso per lavoro straordinario» , una sorta
di fringe benefit per i poveri, ma uguale per tutti.
Un’altra occupazione dei bidelli era quella di radunarsi davanti ad
una finestra, commentando e criticando ad alta voce i metodi di lavoro di
alcuni muratori intenti ad erigere una nuova ala dell’Istituto. Gli edili,
quattro omaccioni che lavoravano per otto, furibondi rispondevano con
insulti feroci agli otto bidelli che occupavano due posti previsti dalla pianta
organica del Geranioli.
Il portavoce della categoria dei non docenti era ovviamente l’ultimo
arrivato, Capranica Nando, romano de Roma, viso rotondo, barba nera,
occhiacci cattivi; ricordava vagamente un noto leader del Movimento
Studentesco del tempo.
Un corridoio dell’Istituto, dopo alcuni lavori di ampliamento, risultò
lungo esattamente cento metri. Tre bidelli provvedevano alla sua pulizia e
tutto andò liscio fino a che prese servizio Porfi Rina, una fanatica della
pulizia. Ex-secondina in un carcere femminile, per deformazione
professionale non sapeva parlare ma soltanto urlare a squarciagola. Auco la
sentì da lontano confidare ad una collega un sospetto ritardo delle
44
mestruazioni della figlia. La Porfi, più portata alla prevenzione che alla
cura, divenne il terrore di studenti e professori, lanciando urla terribili
quando gettavano dappertutto mozziconi di sigarette, cartacce ed altri
rifiuti. Nessun professore filoneista avrebbe mai osato dichiararsi contro la
libertà di imbrattamento.
«Misteri delle ideologie» - notò Palvezzi - «i più assidui nell’ usare
aule, corridoi e scale come pattumiere sono proprio gli studenti più vicini a
Indolo, il mio collega ecologista».
La Porfi, incaricata di sostituire uno dei tre bidelli addetti al lungo
corridoio, pretese che il suo terzo venisse esattamente delimitato, non un
centimetro di più, non un centimetro di meno. Dopo una interminabile
assemblea in cui si parlò anche dei servizi segreti americani, i bidelli
pretesero dalla presidenza l’inserimento, nel pavimento, di due lamine di
ottone a 33,33 m di distanza. Da quel giorno, due terzi del lungo corridoio
apparvero più sudici di quanto non fossero, per contrasto con il terzo della
Porfi, tirato a specchio. Dopo qualche giorno dall’installazione dei confini,
tuttavia, le discussioni ripresero: le lamine di ottone erano troppo larghe
(circa mezzo centimetro) cosicchè non appariva chiaro chi dovesse pulirle.
In una seconda assemblea fu deciso di praticare, dopo misurazioni più
accurate, una sottile incisione sulle lastrine. L’incidente di confine fu poi
dimenticato ma le urla ripresero più forti di prima, per motivi ancora più
futili.
Al Geranioli, per effetto della rivoluzione blablale, gli alti e i bassi, i
grassi e magri, i colti e gli ignoranti, insomma ogni persona, animale e
oggetto vennero classificati in due categorie: filoneisti e foboneisti.
Erano filoneisti, per autodefinizione, i rivoluzionari blablali ma
anche il pastore tedesco, i capelli lunghi, i maglioni e le sciarpone di lana,
la chitarra, lo zucchero di canna, la Citroën Dyane, la grappa, il pandoro,
l’eroina, gli zoccoli.
Furono definiti foboneisti tutti i partiti politici, la cravatta, la riga dei
pantaloni, le lenti a contatto, il panettone, lo zucchero di bietola, la cocaina,
le scarpe con le stringhe.
Venne targato foboneista anche il professor Palvezzi, un uomo che
aveva combattuto in montagna per liberare il Paese da una dittatura
cialtrona e preparare un mondo migliore per chi, allora non ancora nato, ora
lo contestava. Le definirono retrogrado perchè detestava le chiacchiere,
amava la sua professione e non tollerava comizi nei laboratori chimici.
45
Auco, sfidando le ire di Mercaptani, diceva agli studenti dello Scuotimento
con i quali era possibile dialogare, ma soltanto in privato: «Non potete
dividere il mondo in buoni (voi e la classe operaia che non conoscete) e
cattivi. Non esistono due persone sulla Terra aventi le stesse impronte
digitali, lo sanno tutti». Incalzava: «Lo avrete studiato. Quando una
persona mangia una bistecca, scinde le proteine della carne negli
amminoacidi che le compongono, ricostruendo nel proprio organismo
nuove proteine per così dire personali, diverse da quelle prodotte da
chiunque altro mangi la stessa bistecca» .
«Pregiudizi borghesi» - rispondevano.
Auco tornava alla carica citando loro persino il principio di
indeterminazione di Heisenberg: «Se sappiamo dove si trova una
particella non sappiamo quello che sta facendo e se sappiamo cosa sta
facendo non sappiamo dove si trova».
Malgrado la ripugnanza per le tesi manichee dei rivoluzionari, Auco
tentò una classificazione del personale del «Geranioli » dividendolo in
categorie e sottocategorie:
1. Sinistra storica.
2. Cattolici.
2.1. Credenti e praticanti.
2.2. Credenti non praticanti.
2.3. Praticanti non credenti.
3. Destre.
3.1. Conservatori.
3.2. Nostalgici del regime fascista.
3.3. Contrari per reazione allo strapotere della categoria 4.
4. Rivoluzionari blablali.
Nota. Molti docenti e non docenti appartenenti, negli anni del predominio
DC, alla sottoclasse 2.3, ora appartengono alla classe 4.
Apparteneva alla classe 3.3. la professoressa Rosalba Terpineolo, una
bravissima insegnante di Lettere del corso B chimici, scrittrice di romanzi e
commedie, amata dai ragazzi e dalle ragazze anche per i modi soltanto
apparentemente bruschi con cui trattava studenti e colleghi, una corazza per
nascondere un gran desiderio di dare e ricevere affetto. Era tuttavia poco
conosciuta dalla maggioranza degli studenti del Geranioli, costituendo ogni
46
sezione una repubblica indipendente. Spirito libero, anticonformista, allo
scoppio della rivoluzione blablale si era dichiarata apertamente su posizioni
di destra, quando molti colleghi delle classi 2. e 3., tra cui don Ammonio, si
erano abilmente mimetizzati. Auco l’ammirava moltissimo e avrebbe
raccontato spesso, agli studenti del dopo rivoluzione, il primo e ultimo
intervento in assemblea della professoressa Terpineolo. Intrepida, aveva
demolito con poche graffianti argomentazioni alcune fumose teorie blablali
enunciate quel giorno. Subissata dai fischi, si era abilmente rimpossessata
del microfono scandendo: «Signori, in America si fischia per applaudire:
commossa, vi ringrazio e vi saluto». E se ne andò. In seguito, anche se non
perdeva occasione per criticare ferocemente colleghi e allievi, gli studenti
filoneisti riconobbero sempre la sua buona fede e la apprezzarono più di
prima, disprezzando invece quei professori e bidelli schierati sulle loro
posizioni soltanto per bassi interessi personali.
In un mondo dove tutto veniva messo in discussione, alla ricerca di
qualcosa di solido a cui appoggiarsi, Auco trovò conforto nelle definizioni
del Sistema internazionale delle unità di misura. Sono dogmatiche ma
democratiche - rimuginava - essendo il frutto di lunghi studi e di accordi
internazionali; purtroppo nomi e simboli sono stravolti e non soltanto dalla
stampa non specializzata.
In un grande quotidiano Auco trovò alcune perle che ricopiò e
commentò in un suo libriccino. Un uomo può sopportare senza rischi fino a
100 milligrammi di alcool al giorno (poca cosa, nemmeno 1 cm3 di vino,
probabilmente l’autore intendeva millilitri). La dose giornaliera di alcool
deve essere limitata a 400 millilitri (ora sono veramente troppi,
corrispondenti a circa 3,5 l di vino). E’ una materia plastica che brucia con
la stessa facilità di un comune oggetto di plastica (sic). Nel favoloso
Antartide vi è carbone coke sui monti di Ellswohrt (veramente il coke è un
carbone artificiale...). Il kilowatt è la forma più costosa di energia (l’autore
voleva riferirsi probabilmente all’energia elettrica; per inciso il watt non è
una unità di misura dell’energia ma della potenza). Sono state trafugate
preziose filiere di platino-radio (è chiaramente un refuso, radio per rodio,
ma i rivoluzionari blablali potranno sostenere che i lavoratori tessili
operano in un ambiente radioattivo...). Nel fumo delle sigarette si trova il
polonio 210, radioattivo (dopo questo gratuito terrorismo verbale, i
fumatori continueranno imperterriti a fumare, magari durante una marcia
contro le centrali nucleari...).
47
18.
Auco, anima semplice, assistette allibito all’irruzione delle parolacce.
Gli adolescenti, si dice, da sempre praticano il turpiloquio per sentirsi
adulti e vincere l’insicurezza propria della loro età. Al Geranioli nessuno
studente, prima della rivoluzione blablale, avrebbe usato un linguaggio
poco corretto in presenza di un professore.
Ora, viceversa, erano alcuni professori e professoresse filoneisti ad
infiorare i loro discorsi con i più crudi termini anatomici popolareschi.
Appena tollerati dagli studenti per la loro insipienza, credevano in tal modo
di dimostrarsi aperti e disponibili verso i problemi giovanili. Viceversa, il
loro giovanilismo era patetico, insopportabile per i ragazzi.
La docente di Spagnolo, Inmaculada Purisima Dolorida Elocuencia y
Estafilococo in Scaramaglini, fondatrice e leader del collettivo Virulencia,
durante un consiglio di classe aveva definito estronza la collega di Inglese
Lina Morfo, anch’essa filoneista ma considerata più a destra perchè, nelle
sue battaglie per la difesa della natura, si arrestava ai batteri, non blablando
per la protezione dei virus.
La Scaramaglini tormentava colleghi e studenti pretendendo di
imporre a tutti le sue idee.
Palvezzi era un uomo pacifico, ma alla fine non seppe più contenersi.
«Cara collega» - le disse - «vorrei ricordarle un passo de La
Fundación di Antonio Buero Vallejo, da lei sicuramente conosciuto...».
«Sí, sí, cierto» - rispose l’incauta, pur sentendo parlare per la prima
volta della tragedia antifascista e del suo autore.
«Saprà anche che, durante la guerra civile, Vallejo fu condannato a
morte dai franchisti».
«Cierto, cierto».
«Ebbene, ecco cosa scrisse: Te ahorcan porque no sonríes a quien
ordena sonrisas, o porque tu Dios no es el suyo, o porque tu ateísmo no es
el suyo».
Infuriata, Inmaculada gli voltò le spalle e se andò.
Contemporaneamente alle parolacce, si diffuse l’uso di eufemismi
per indicare malattie, gravi difetti e umili mestieri, considerando offensivi i
termini riportati su tutti i vocabolari. Nella legge 194 del 1978 si incontra:
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«E’ fatto divieto di usare il termine lebbra, lebbroso, lebbrosario e qualsiasi
altra parola che dalla lebbra derivi».
Oltre ai noti passaggi spazzino → netturbino → operatore ecologico,
a Roraro il ciabattino diventò sutore, lo straccivendolo operatore tessile, il
rottamaio metallurgicista, lo stalliere artiere ippico, il contadino operatore
agricolo, l' apprendistato formazione professionale,
Anche i bottegai di Roraro di adeguarono.
La macelleria divenne sarcoteca, la calzoleria calceamentoteca, il
carrettino del venditore ambulante di acciughe in salamoia ittioteca e così
via.
Le sorelle Tereftalici gestivano un polveroso negozietto di
cianfrusaglie ed erano proprietarie di locali fatiscenti, affittati a famiglie
poverissime. Vecchie bacucche tutte chiesa e bottega, nella ricorrenza di
san Ribosio commissionavano una messa a don Ammonio per implorare
dal santo, protettore dei locatori, la grazia di un aumento dei canoni di
affitto.
Travolte dall’ondata modernista, rimossero la brutta insegna
sostituendola con tubi fluorescenti ancor più brutti. «Merceria Tereftalici»
divente Boutique Terry. In omaggio al franco-inglese della nuova ragione
sociale, accanto alle mutandine esposte in vetrina un cartello informava:
«Anche a puà».
Il figlio del cavalier Tiocumaroni (Roraro Pompe) consigliò al padre
di cambiare l’insegna dell’impresa di pompe funebri in Tanatoteca, oppure
Necroteca. La proposta non fu accolta.
Vennero anche stravolti, una volta innescata la reazione a catena,
catalizzata dal conformismo dei rorarotti, antichi modi di dire. Si diffusero
strane espressioni quali non audiente come una campana; non fonante
come un pesce; non videante come una talpa; chi va con il non
sgambettante impara a non sgambettare; non ricciuto come una palla da
biliardo e simili.
L’ANMI di Roraro divenne ANNINA (Associazione Nazionale Non
Integri Non Adeguati). I pacifisti divennero forze non armate e la caccia
prelievo venatorio. L’atletica leggera attività motoria in senso espressivo,
tanto per confondere le idee, mentre un capolavoro di chiarezza fu il
cartello: «Circolazione trasportistico-autobussistica senza emissione del
titolo di viaggio sul mobile, approciabile presso le ticketterie autorizzate,
da obliterare in loco».
49
19.
La costituzione dello Scuotimento dei Discenti fu soltanto l’innesco
della esplosione rivoluzionaria blablale. Dalle sue periodiche scissioni
nacquero le più strane congreghe i cui membri, divisi su tutto, avevano in
comune l’obiettivo: distruggere il sistema.
«Ma quale sistema?» - chiedeva loro l’ingenuo Auco - «Il sistema
metrico decimale? Il sistema periodico degli elementi? Il sistema del
totocalcio?».
«Il sistema e basta» - rispondevano, non sapendo nemmeno loro cosa
fosse. Ma tant’è, lo slogan suonava bene e veniva scandito in ogni
occasione.
Auco chiese lumi a Palvezzi, che tradusse: «Distruggere il sistema
significa scardinare l’istituto della delega, operazione che prelude l’avvento
delle dittature. Non a caso Mussolini definì “ludi cartacei” le procedure
elettorali e “sorda e grigia, di cui farò un bivacco per le mie camicie nere”
l’aula di Montecitorio».
In maggioranza, le associazioni si dichiararono collettivi, ma erano
spesso costituite da pochissime persone, o addirittura da una sola, come il
collettivo Virulencia già citato. A questo, si opponeva la confraternita dei
Democratici Bonari, il cui ciclostilato di presentazione iniziava con «Siamo
contrari ad ogni forma di violenza, sia essa esercitata dal singolo, dallo
stato, dal clero o dal grande capitale». Dopo una ventina di pagine
interlinea 1, una graforrea di 75 battute/riga, concludeva con «A morte
polizia e carabinieri, a morte i preti, a morte i capitalisti».
Un altro clclostilato, a cura del Collettivo Agnosticistico, terminava
invece con l’invocazione: «Dio stramaledica gli amerikani».
Alcune ragazzotte fondarono il collettivo femminista Fragilità il tuo
nome è donna Amleto atto primo scena seconda. Erano pure loro contro il
sistema parlamentare, dichiarandolo con un incisivo slogan:
- ELEZIONI + EREZIONI.
Presiedeva la sottocommissione «Sex without love» una diciottenne
della V B chimici. Si chiamava Paola Romantrene ed era piuttosto brutta e
scostante, scoraggiando qualsiasi approccio anche da parte dei coetanei con
il chiodo fisso del sesso. Non era mai stata sfiorata da mano maschile e
tuttavia, catturata dal linguaggio blablale, dissertava con saccenteria di
orgasmi multipli, clitoridei, vaginali, e sapeva tutto attorno ai sei gradi della
50
scala Penrig per la misurazione della rigidità del pene. Per lei tutti
argomenti squisitamente teorici. Le compagne più smaliziate l’ascoltavano
con gran divertimento mentre sui ragazzi i suoi sproloqui infarciti di
termini anatomici e fisiologici esercitavano un effetto anafrodisiaco.
Assistere ad un intervento chirurgico in una clinica ostetrico-ginecologica
sarebbe stato più eccitante.
Era però sufficiente vedere la Silvana, la più sexy della sezione,
mentre si sfilava il maglione e indossava il camice di laboratorio, per
rimettere le cose a posto. Gi androsteroidi riprendevano il loro moto
vorticoso e i neuroni a scambiarsi frenetici i consueti messaggi.
Paola, valente centometrista, era famosa in Istituto per un curioso
episodio. Durante un campionato studentesco provinciale, partita male,
aveva poi ricuperato terreno, tra le urla dei suoi tifosi, superando le
compagne di qualche lunghezza. Quando la vittoria era ormai sicura, il
colpo di scena. Paola rallentò deliberatamente, lasciandosi sorpassare.
Aveva interpretato a modo suo, con una certa coerenza, gli
insegnamenti dei compagni filoneisti. Giustificò infatti il suo
comportamento con le parole: «Siamo tutte uguali e non è giusto che una di
noi predomini sulle altre».
Un altro collettivo era quello dei Filofoboneisti, così chiamato non
riuscendo i membri ad accordarsi se blablare per qualcosa o contro
qualcosa. Blablavano inoltre: L’arroganza al potere, i Falsoipocriticisti [I
sinceri, ndr], i Mediomalisti (alla ricerca di una terza via tra il
massimalismo e il minimalismo), La letteratura del rifiuto [rifiuto della
letteratura, ndr] e altri dai nomi e dai programmi altrettanto strani.
Il collettivo Riuniamoci e Discutiamone, aperto a chiunque, era
frequentato da mediocri mitomani, esultanti per la possibilità di prendere la
parola su argomenti di cui conoscevano poco o niente, esordendo con quel
secondo me che ancor oggi mette Auco sulla difensiva quando lo sente
pronunciare da qualcuno.
Il gruppuscolo degli Scientisti era nato per combattere gli effetti
negativi degli ioni positivi dell’atmosfera sull’equilibrio psicofisico dei
giovani. Propugnava anche il parto in acqua quale preteso ritorno alla
natura, anche se nessuna nostra remota antenata e nessuna femmina di
animale terricolo lo ha mai praticato.
51
Era nata in questo ambiente la leggenda metropolitana relativa al
formaggio fabbricato con i bottoni. L’assurda diceria era dovuta al fatto
che la galalite, un plastomero avente oggi soltanto interesse storico, venne
ottenuta partendo dalla caseina del latte e usata tra l’altro per stampare
bottoni. L’odio per l’industria era sfociato nel ridicolo.
Poi, anche a Roraro, comparvero i primi animalisti. Inizialmente in
pochi, aumentarono rapidamente dopo aver assistito ad una trasmissione
televisiva in cui una distinta signora di mezza età, sentendosi richiedere
quale fosse la sua massima aspirazione, aveva risposto: «Aiutare gli animali
[pausa imbarazzata], i bambini...».
Ebbe breve durata il Fronte vegetalista non vegetariano, più a
sinistra degli Animalisti poichè gli accoliti decisero di rinunciare, per
solidarietà con ogni essere vivente, anche agli alimenti di origine vegetale.
Si ridussero a cibarsi di salgemma, unica sostanza minerale commestibile.
Dopo qualche giorno il collettivo si sciolse tragicamente.
Proliferarono sette pseudoreligiose, comunità di fanatici che si
autodefinivano immuni da ogni imperfezione mentre il vero saggio,
secondo Palvezzi, è colui che possiede il necessario senso autocritico e
cerca, senza prevaricare sugli altri, di fare qualcosa per ridurre i danni
provocati dall’ umana fragilità. Tra queste congreghe primeggiava la setta
dei Bimillenaristi, spaventati dalla lettura dell’Apocalisse. Dopo aver
eseguito strani e complessi calcoli - come i loro antenati dell’anno Mille avevano dedotto che la fine del mondo sarebbe sopravvenuta allo scoccare
della mezzanotte del 31 dicembre 1999, preceduta da carestie, inondazioni,
epidemie.
«Vorrei sapere» - disse loro Palvezzi «come siete riusciti a calcolare
questa data se non si conosce nemmeno l’anno di nascita di Gesù Cristo?
Calmi, io sarò già morto ma quando voi arriverete al Duemila gli elettroni
dell’universo seguiteranno a sciamare intorno al nucleo dei loro atomi, le
molecole a vibrare incessanti, la terra continuerà a ruotare intorno al sole, il
sistema solare a muoversi verso la costellazione di Ercole e le galassie ad
allontanarsi l’una dall’altra, in cammino verso i sovrumani silenzi».
Alcuni dei frequentatori delle varie assemblee erano convinti, con i
loro interventi verbali, di cambiare il corso della storia; altri, più
52
modestamente, di cambiare qualcosa a Roraro o almeno all’interno del
Geranioli. Gli uni e gli altri peccavano di ingenuità perchè, come spiegò
Palvezzi ad Auco, non sapevano che ogni decisione veniva presa, dai
sostenitori della democrazia assembleare, in riunioni ristrette a pochi,
tenute in luoghi segreti ma non troppo, quasi sempre nella sagrestia di don
Ammonio.
In genere, molti frequentavano le assemblee per puro presenzialismo;
a loro si applicava a pennello il proverbio spagnolo divulgato al Geranioli
dal prof. Palvezzi: Que quieren ser el niño al bautismo, la novia en la boda
y el difunto el entierro [Coloro che vogliono essere il bimbo al battesimo, la
sposa al matrimonio e il morto al funerale, ndr].
Scrisse il geom. Caseina nella sua Storia di Roraro: «I presenzialisti
rorarotti costituiscono una specie umana difficilmente classificabile.
Quando non presenziano sono persone del tutto normali e si dichiarano
apolitici. Posseggono però la capacità di adeguarsi alle ideologie, al
comportamento, al linguaggio, all’abbigliamento dei potenti di turno. I più
ambiziosi sono disposti ad ogni bassezza pur di apparire in pubblico,
compiendo acrobazie al fine di essere fotografati, filmati o ripresi in TV
vicini al personaggio importante del momento, sia esso un politico, un
canzonettista o un pugile.
Nel ventennio fascista, pur non avendo combattuto in nessuna guerra,
molti di loro partecipavano regolarmente ai ranci camerateschi degli excombattenti; in divisa nera, con l’aquilone sul berretto, si pavoneggiavano
durante le ripetute, interminabili cerimonie. Dopo la Liberazione, si
facevano largo a spintoni per essere fotografati vicino all’oratore, durante i
comizi della Sinistra, esaltando i valori della Resistenza e vantando
inesistenti benemerenze. Altri presenzialisti, in abito da sera, reggevano il
baldacchino durante la processione nel giorno della festa patronale, tenuta
al pomeriggio.
Il collettivo «Democrazia capillare», ove non erano ammessi
individui con i capelli corti, era sorto per contestare l’art. 380 del DPR
27.4.1955 che imponeva l’uso di cuffie di protezione in prossimità di
organi rotanti e fiamme. In effetti, i muscolosi capelloni in cuffietta a rete,
nelle officine e nei laboratori dell’Istituto, ricordavano i bravi dell’edizione
dei Promessi Sposi illustrata dal Gonin.
Ma la sicurezza innanzitutto. Auco ricordava il giorno il cui, in un
laboratorio, i lunghi capelli di Arsenio Mercaptani presero fuoco, avendo il
53
leader incautamente abbassata la testa sopra la fiamma di una bunsen. Per
sua fortuna, due compagni lo coprirono prontamente con uno straccio
bagnato; quattro sberle date per un nobile scopo ma con malcelata
soddisfazione, completarono l’opera di spegnimento.
Si perse ogni senso della misura. Auco sentì un ragioniere filoneista
affermare serissimo, rivolto ad una collega: «No, questa sera non posso
venire, devo partecipare ad un briefing a livello di capi scout».
Ad una domanda del prof. Palvezzi, un allievo rispose «Secondo me,
l’energia è il prodotto della massa per il quadrato della velocità». «Vorrà
dire secondo Einstein» - rispose il professore, ma gli allievi non capirono
l’ironia.
Anche alla messa domenicale delle dieci, quella della Roraro-bene
(alla quale spesso assistevano i blablali che in assemblea si proclamavano
atei) divenne palestra blablale.
Al momento dell’omelia, infatti, il sacerdote si sedeva compunto in
un angolo. Dopo alcuni minuti di finto imbarazzato silenzio, e un finto
incrociarsi di sguardi interrogativi, una ragazza si alzava ed iniziava a
declamare con aria ispirata, come folgorata dall’accavallarsi di pensieri
profondi: «Secondo me, quello che, cioè, oggi abbiamo sentito dire da Elia
non mi trova del tutto d’accordo. Devo però ammettere che il discorso di
Elia, cioè, formula un segno con una prevalenza del nuovo sul fondo
usando un linguaggio cioè direi privo di significato ma appunto per questo
significante...».
(Dal tono confidenziale con cui la ragazza si riferiva al profeta
sembrò, ai profani, l’allusione ad un compagno di assemblea che aveva
appena espresso un parere).
La ragazza si sedeva e - come da copione - si alzava un giovane,
recitando frasi di questo genere: «Secondo me, siamo presenti in questa
assemblea ecclesiale per portare avanti, cioè, un discorso di ricerca
comportamentale, non per trovare delle risposte che non esistono. Precipuo
della condizione umana, involucrata nella insostenibile pesantezza
dell’essere, è trovare della forma di un numero considerevole di
informazioni introiettate, viste cioè nella vastissima angolatura
dell’interpretazione, nella misura in cui quanto ha detto Ezechiele [un altro
compagno di scuola, ndr] sulla televisione quale concentrazione
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dell’esasperazione tecnica a monte e la madornale idiozia degli sprovveduti
utenti a valle...».
A molti genitori degli studenti del «Geranioli» non sembrò vero
poter tornare a scuola per concionare sulla selezione e la meritocrazia
appoggiando - a loro interessava unicamente la promozione del figlio o
della figlia - le più strampalate teorie blablali, come quella del «sei»
politico. Un volantino dello Scuotimento recitava infatti: «La selezione è
un momento ben preciso della scuola borghese e si è visto che l’unico
modo di risolvere queste cose è il sei generalizzato».
Sotto la dittatura fascista questi genitori cantarono «Faccetta nera
bell’abissina» sostituendola con «Camerata Richard benvenuto» durante la
successiva campagna per la difesa della razza ariana. Educarono i figli a
non pensare ma soltanto a credere, obbedire e combattere. Ora,
spostandosi disinvoltamente da un estremo all’altro, come è costume dei
rorarotti, gioirono invece di piangere sentendo un moccioso affermare
serissimo in televisione: «Ho perso, ma è un gioco; del resto, secondo me,
anche la vita è un gioco».
Proliferarono i più bizzarri periodici ciclostilati; i titoli erano quelli
di noti giornali e riviste, preceduti dai prefissi anti, o contro, oppure seguiti
dagli aggettivi democratico o alternativo.
Circolarono a Roraro Motociclismo democratico e Il mobilio
alternativo. «Controinformazione culinaria» arrivò al quinto numero (si
mormorava segretamente sponsorizzata dall’Ente Risi) lanciando una
violenta campagna contro gli spaghetti al pomodoro, dichiarati
cancerogeni. Lo stesso giornale, risorto sotto altro nome dopo la
rivoluzione blablale, apparirà ricco di inserzioni dei più rinomati pastifici e
sosterrà a spada tratta la dieta mediterranea.
Alcuni insegnanti del Geranioli appartenevano a più di un collettivo
e ciò comportava spostamenti frenetici da una riunione all’altra, sempre in
ritardo sulla tabella di marcia. La prof. Lina Morfo a cui si è accennato, alta
e magra, di aspetto sgradevole, portava occhialoni da intellettuale
impegnata e indossava soltanto abiti firmati. Il look era completato
dall’immancabile Citroën 2 CV - allora status symbol per la sua bruttezza sporca e ammaccata. L ’interno era un’accozzaglia di rifiuti e compiti in
classe mai corretti ed il vetro posteriore era tappezzato di patacche
55
inneggianti alle fonti di energia pulita. In compenso, motore e marmitta
difettosi emettevano dosi massicce di gas nocivi.
La Morfo avrebbe dovuto insegnare Inglese ma, appartenendo a ben
otto collettivi filoneisti, passava con disinvoltura dall’uno all’altro portando
con sè il bambino appeso sulle spalle in un finto zainetto peruviano.
Sempre occupata a discutere, in tutte le sedi, di sociozoologia,
sociobotanica e sociomineralogia, non parlava che di classe operaia, non
riuscendo tuttavia a dissimulare il suo disprezzo per la medesima, tipico di
molti pseudointellettuali rorarotti del tempo. La maggior parte di essi non
aveva mai visitato uno stabilimento industriale. In privato, chiamavano le
operaie fabbrichine, termine dialettale dispregiativo.
La Morfo era malmaritata con un vero operaio, un trevigiano
fresatore alla ComCaRo, sua vittima privilegiata.
Una sera, dopo l’ennesima discussione, giunto al limite della
sopportazione, l’uomo uscì di casa sbattendo la porta. Se ne andò per
sempre, declamando ad alta voce, come testimoniarono i vicini di casa, una
specie di giaculatoria: Represiòn valamalòra, ristruturasiòn valamalòra,
profesionalisasiòn valamalòra, programasiòn valamalòra.
Il non più coniuge della Morfo Lina emigrò in Brasile, dove convive
felicemente con una giovanissima meticcia analfabeta.
Tornando a notte fonda da una riunione del comitato RoraroTanzania, la Morfo nemmeno si accorse della scomparsa del marito, troppo
occupata ad elucubrare un documento da presentare al presidente degli Stati
Uniti e al segretario generale del PCUS. Quella sera, infatti, era stata votata
una mozione dal titolo: «Elezione dei membri delle delegazioni rorarotte da
inviare a Washington e a Mosca onde portare avanti un certo tipo di
discorso sulle nostre proposte per la pace nel mondo a livello di alto
livello».
In perenne crisi di identità, la prof, anzichè insegnare l’inglese,
asfissiava gli studenti con domande tipo «Ma cosa devo insegnare? E in che
modo imposto il discorso? E perchè dovrei portare avanti il discorso
dell’inglese se per voi si profila i discorso della disoccupazione?».
Ripeteva la stessa solfa durante gli scrutini, rifiutandosi di assegnare
un voto agli allievi, fanatica ma in fondo in fondo coerente con le ideologie
professate.
Non così si poteva definire la sua collega di Fisica, professoressa
Artemia Guanidinio. Aveva abbracciato la causa dei filoneisti quale
copertura ideologica della sua scarsa voglia di lavorare. Era nota anche
56
fuori Istituto per la fantasia nell’inventare le giustificazioni per le ripetute
assenze e i sistematici ritardi.
Un giorno il figlio aveva ingoiato un franco svizzero, un altro giorno
era stata coinvolta in un tamponamento a catena causato della nebbia
(sconosciuta a Roraro) e così via inventando.
La Guanidinio era nota anche per aver giudicato un allievo per
telefono, essendo giunta ad uno scrutinio finale senza possedere elementi di
giudizio per assegnargli il voto. Anzichè limitarsi ad inventarlo al
momento, come usavano altre sue colleghe, colta da raptus burocratico, con
una scusa si era allontanata dalla sala del consiglio e, da un apparecchio
installato nel locale pausa-caffè, in presenza di un gruppo di bidelli, aveva
chiamato lo studente, ponendogli qualche domanda sul programma non
svolto.
Nessuno saprà mai quali furono le risposte. La prof riprese
tranquillamente il suo posto, formulando un giudizio dettagliato sulle
capacità, l’impegno, la buona volontà e la spiccata attitudine per lo studio
della materie scientifiche del ragazzo, condensato alla fine con un sei
buono per tutte le stagioni.
20.
Dopo qualche mese dagli avvenimenti narrati, i filoneisti del
Geranioli, stanchi di parlarsi tra loro, ritennero giunto il momento di
esportare le ideologie blablali fuori Istituto.
Si rivolsero in un primo tempo alle menti fragili, secondo loro più
ricettive, dei ricoverati nella sezione staccata dell’ospedale psichiatrico
provinciale, avente sede in un vecchio edificio alla periferia di Roraro.
Sulla facciata, è ancora possibile leggere: DUCE ! TU SEI TUTTI NOI !
(Sulla incredibile sopravvivenza delle scritte murali fasciste, gli
storici rorarotti sono divisi in due correnti. La prima, detta dei Tecnicisti,
attribuisce il fatto alla eccezionale solidità dei pigmenti usati. La giunta
comunale in carica ai tempi del tentato golpe Borghese - sostiene invece la
categoria dei Dietrologisti - ha fatto dare una ripassata alle scritte per non
farsi cogliere impreparata in caso di una possibile restaurazione nera).
Nell’ospedale erano ricoverati, insieme agli psicopatici per così dire
normali, alcune persone afflitte dalle più strane fobie: la destrofobia e la
levofobia (non relative a posizioni politiche ma paura degli oggetti a destra
o a sinistra del soggetto), la coprofobia e dulcis in fundo, la fobofobia,
57
paura morbosa di diventare fobico. La struttura ospedaliera non era in
grado di accogliere i tridecafobici e gli eptadecafobici (credenti
nell’influsso negativo dei numeri 13 e 17), troppo numerosi.
Si mandarono in avanscoperta Sergio Scatolo e alcuni Blablali fidati;
prima di entrare, coprirono il «saluto al duce» con un cartello portante la
scritta AUTOGESTIONE.
I ricoverati furono adunati nel teatrino - la filodrammatica interna
stava provando la commedia di Gino Rocca Xe no i xe mati no li volemo - e
Scatolo iniziò ad arringarli alla sua maniera becera, convinto di infiammare
i cuori e raccogliere nuovi adepti.
Viceversa, gli appelli a ribellarsi contro una generica società, per
colpa della quale si trovavano in quel triste luogo, espressi con il consueto
linguaggio contorto, caddero nel vuoto.
I ricoverati capirono soltanto le parolacce; il linguaggio scatologico,
buono per studenti e professori, li offese. L’accoglienza fu gelida, non si
levò nessun applauso e nessun urlo di protesta. Scatolo e i suoi, abituati al
caos delle assemblee rorarotte, se ne andarono, mentre gli attori ripresero
pacatamete le prove interrotte.
Fallita questa missione, pur dichiarandosi come in passato contro il
sistema rappresentativo, i rivoluzionari blablali ritennero opportuno
presentare una lista civica alle imminenti elezioni comunali.
21.
Le due industrie sopravvissute a Roraro erano la Roraro Pompe, cui
si è accennato, e una fabbrica di strumenti musicali che produceva
esclusivamente triangoli per orchestra e relative bacchettine, la ComCaRo
(Commendator Cacodile, Roraro), già CavCaRo e CavUffCaRo.
La ditta esportava i suoi manufatti in tutto il mondo e la concorrenza
non era mai riuscita a stabilire la composizione della lega usata per i
triangoli, priva di argento ma dall’inconfondibile suono argentino. Si
vociferava di misteriosi metalli scandinavi quali il samario, il terbio e il
disprosio.
Alcuni studenti, durante una visita alla fabbrica, nel reparto
sgrassatura in cui si percepiva un forte odore di acetone, videro un operaio
intento a saldare un tubo con la fiamma ossidrica. «Ma vi è pericolo di
esplosione!» - fecero notare. Risposta: «Pensate ai fatti vostri, conosco i
miei diritti: sui cartelli c’è scritto vietato fumare ma io non fumo, lavoro!».
58
Nell’ufficio del titolare si potevano ammirare la partitura originale,
dono dell’autore, di Dafni et Cloe di Maurice Ravel, in cui il triangolo è
largamente impiegato, e foto con dedica di celebri compositori e direttori
d’orchestra. Vanto della collezione era una fotografia di Beethoven con
dedica in italiano: «Dopo aver udito [sic] il meraviglioso suono dei vostri
triangoli, ho inserito una marcia turca nella mia Nona Sinfonia, anche se
ciò farà impazzire i critici musicali del futuro».
L’unico figlio del commendatore, Giuseppe detto Pinuccio, era un
giovane piccolo di statura e di cervello, grasso e repellente. Il suo viso,
costantemente lucido di sudore, esprimeva disprezzo per tutto ciò che
incontrava sul cammino. In confronto, il «Bacco adolescente» del
Caravaggio, cui assomigliava, ha una espressione cordiale e intelligente.
Pinuccio trascorreva il suo tempo bighellonando da un bar all’altro
insieme ad un gruppetto di parassiti e puttanelle. Si spostava su una
Cadillac decappottabile, dotata di trombe bitonali, ora proibite, spingendo
al massimo l’acceleratore con il cambio in seconda affinchè tutti notassero
il suo passaggio. In quel tempo, non erano ancora giunti in Italia i
mostruosi fuoristrada giapponesi, oggi esibiti in città quando ci si reca al
bar: sarebbe stato il primo acquirente.
Pinuccio era odiato dalla popolazione ed aveva persino rischiato il
linciaggio, quando aveva travolto un’ anziana signora sulle strisce pedonali.
In quella occasione commentò con voce annoiata: «Quante storie per una
vecchietta con il solo reddito di pensione! E poi, non sono forse
assicurato?».
Quel giorno si consolò offrendo un pranzo ai suoi accoliti a «Il fuoco
di paglia - Limaxiatria & ranulcolusiatria», recente insegna per indicare la
specialità in lumache e rane. Terminata l’abbuffata, emise un rutto
spaventoso - gioco di società in cui era maestro - tra le ovazioni dei
convitati. Volle anche strafare, proponendo un brindisi alle popolazioni del
Bangladesh.
Il soffitto del locale minacciò di crollare per gli applausi.
La ComCaRo, allo scoppio della rivoluzione blablale, era in crisi; il
mercato dei triangoli risultava saturo. Il titolare divenne ansioliticodipendente, meditando giorno e notte su una possibile produzione
alternativa.
Un nipotino del commendatore aveva il cranio bitorzoluto per
reiterate cadute dal seggiolone. Un giorno, gli operai udirono il padrone
59
urlare «Casco, casco !». Accorsero in direzione, esultando in cuor loro, ma
trovarono l’imprenditore allegro come se avesse comperato ad un prezzo
moderato un’altra onorificenza.
Espose loro il suo progetto: produrre caschi di protezione per infanti,
usando la lega dei triangoli per la calotta; avrebbe assicurato una
eccezionale protezione agendo anche come segnale acustico della
capocciata.
La riconversione fallì.
Una notte, l’intero paese fu svegliato da un forte rintocco di
campana: era il suono di un casco ComCaRo indossato dal commenda
prima di gettarsi nel vuoto dalla sommità della torre Littoria, l’edificio più
alto di Roraro.
22.
Vennero indette le elezioni amministrative. Per la prima volta, dopo
la decisione di presentare una lista, i Blablali si trovarono davanti ad un
vero problema da risolvere: il finanziamento. Pur non disponendo di fondi,
promossero interminabili assemblee dedicate alla ricerca del nome e del
simbolo di lista, senza trovare un accordo. Quanto ai candidati, nessun
problema: sarebbero stati imposti, come sempre, dal direttorio-ombra.
Quando le fratture tra le varie anime del Movimento sembravano
insanabili, un colpo di scena. Pinuccio Cacodile si offriva come sponsor,
chiedendo in cambio un aiuto nella propaganda dei triangoli e dei caschi.
Questa era la motivazione ufficiale.
La posta in gioco, in realtà, era più grossa. Pinuccio era da tempo in
trattative per la vendita di un terreno acquitrinoso - in località Squallore ad un palazzinaro romano piduista. Era però necessaria la licenza di
edificabilità, negata dall’Amministrazione comunale per ovvi motivi ma
che i Blablali avrebbero potuto concedere una volta al potere.
Un un primo tempo, la proposta fu respinta come una provocazione
ma alla fine prevalse il collettivo dei Pragmaticisti e vennero siglati due
accordi tra Pinuccio e i Blablali, uno pubblico relativo alla propaganda di
caschi e triangoli ed un altro segreto concernente l’area edificabile.
La lista fu chiamata Controalternativa Democratica ed ebbe come
simbolo un casco inscritto in un triangolo.
60
Comparve sui muri di Roraro il primo manifesto elettorale del
Movimento, in cui si parlava di schiavitù del lavoro, tempo libero a tempo
pieno, equilibri sempre più avanzati dei prezzi al minuto, tavole rotonde
imbandite per discutere sul consumismo, scioperi antisciopero della fame, e
tante altre cose interessanti ma espresse con il solito gergo incomprensibile.
Terminava con un formidabile: «Se tutti non sono liberi nessuno sarà
libero!».
Pur di catturare voti, i blablali si rivolsero spudoratamente a tutte le
categorie sociali, comprese quelle demonizzate fino al giorno prima, non
rinunciando all’abitudine di comporre slogan in versi. Per commercianti e
artigiani, furibondi per la crescente avidità del fisco (lo Stato, in quegli
anni, aveva iniziato a pretendere la denuncia dei loro ricavi) coniarono
Intendenza di Finanza:
prepotenza e tracotanza.
Non fu compreso. Anche con i pensionati - di cui i partiti scoprono
l’esistenza soltanto in campagna elettorale - fu un fiasco, poichè non
apprezzarono i versi di Sergio Scatolo
Siam ridotti pelle e ossa.
Con un piede nella fossa.
Votiam Controalternativa.
E’ la sola prospettiva.
I Blablali si rivolsero persino ai nostalgici. Un volantino recitava:
«Si esistezializzava miglioristicamente quando il discorso del
sostentamento era peggioristico e i sistemi trasportistici ferroautobussistici
mobilavano in sintonizzazione con i tazebao degli stazionamenti»
(Traduzione: Si stava meglio quando si stava peggio e i treni arrivavano in
orario).
Ovviamente, la popolazione con capì nulla. Dietro suggerimento di
Pinuccio Cacodile si ricorse ad un suo amico, don Calogero Li Vispi, un
esperto in psicologia delle masse, da tempo a Roraro in soggiorno
obbligato.
Forte di una secolare esperienza, don Calogero suggerì di non
promettere bensì intimidire. Mercenari avrebbero avvicinato i cittadini con
61
discrezione, comunicando con voce soave ciò che sarebbe accaduto a loro,
e alle loro famiglie, se avessero votato i partiti tradizionali.
Ma gli elettori, nel segreto delle cabine, avrebbero tenuto conto delle
minacce? Era necessario ricorrere ad argomenti più efficaci. La gente si era
smaliziata; molto tempo era trascorso da quando i democristiani avevano
coniato lo slogan «Quando voti Dio di vede, Stalin no».
Al Geranioli insegnava elettronica uno strano tipo, il prof. Karl
Fadeohm, noto anche alla popolazione di Roraro per i suoi brevetti, tra cui
uno stetoscopio elettronico capace di captare le grida di dolore degli alberi
che costeggiano le strade, quando in essi vengono infissi i catarifrangenti.
Aveva pure formulato un collirio antigelo per esquimesi e ideato un metodo
per la produzione di lana colorata direttamente dalla pecora, mai applicato
perchè i coloranti, somministrati alle cavie per via endovenosa, si
concentravano nelle corna.
Fadeohm viveva rintanato nel suo laboratorio, non parlava con
nessuno e incuteva un timore reverenziale a studenti e colleghi.
Antifascista, non si era mai iscritto al PNF; era quindi costretto a vagare da
una Scuola all’altra, non potendo partecipare ai concorsi. Il giorno della
Liberazione, trovato un distintivo fascista gettato da una finestra, lo mise
all’occhiello e uscì per le strade di Roraro, così, per puro spirito di
contraddizione. Prognosi: venti giorni salvo complicazioni. Questo era
l’uomo.
I rorarotti ricordano una memorabile conferenza del professore
nell’aula magna del Geranioli. Il tema annunciato sui manifesti era
affascinante: «Esistono forme di vita extraterrestre?».
Nel giorno e nell’ora stabiliti l’aula era gremita all’inverosimile e
l’attesa spasmodica. Alla comparsa del professore cadde il silenzio. Non si
sentirono nemmeno i colpi di tosse emessi dal pubblico dei concerti e,
malgrado il caldo soffocante, le signore rinunciarono alla fastidiosa
abitudine di usare il programma come ventaglio.
Fadeohm salì in cattedra, ripetè la domanda «Esistono forme di vita
extraterreste?» indi rispose: «Non lo sappiamo e forse non lo sapremo
mai».
La conferenza era terminata e Fadeohm se ne andò senza attendere
gli applausi.
62
A pochi giorni delle elezioni circolarono in paese, all’insaputa di
Fadeohm, strane voci relative alla sua ultima creazione, un tele-lettore di
schede. Si diceva basato sulla oscillazione del numero quantico di spin
dell’atomo di carbonio 13 (presente nella grafite delle matite in dotazione
ai seggi) legata all’attrito tra mina e carta. Cuore dell’apparecchiatura, un
semiconduttore a cristallacci liquidoni, dotato di eccezionale
superconduttività alla temperatura di duecentonovanta gradi sotto zero. Il
diabolico apparecchio sarebbe stato in grado di individuare, nel raggio di
20 km, il simbolo di lista contrassegnato dall’elettore, e non soltanto ciò.
Fasci di neutrazzi, per i quali non esistono ostacoli, avrebbero consentito
una precisa identificazione del votante.
La popolazione, conoscendo il professore, credette ciecamente a
queste fandonie.
Poi, il tocco finale.
Il mattino delle elezioni arrivarono a Roraro alcuni brutti ceffi
assoldati dai Blablali nei paesi vicini. Si disposero immobili, in silenzio,
nelle vicinanze dei seggi, fissando con sguardo torvo - senza alcuno sforzo,
era la loro espressione naturale - chi si recava a votare, giocherellando con i
comandi di misteriosi strumenti muniti di antenna. Il metodo, più
sofisticato di quello usato dagli antenati dei Blablali armati di manganello e
olio di ricino, funzionò.
I rorarotti votarono in massa la lista del Casco.
23.
DAL NOSTRO INVIATO
Grazie alla nostra esperienza di corrispondenti di guerra, siamo
riusciti a raggiungere l’unico comune italiano amministrato dai cosiddetti
rivoluzionari blablali la cui lista (Controalternativa democratica) ha
ottenuto la maggioranza assoluta nelle ultime elezioni amministrative.
Il territorio comunale appare circondato da una fitta cortina di
cespugli spinosi; chiunque provenga dal resto del mondo dovrà
attraversarla nudo, quale rito purificatorio.
All’ incrocio principale troviamo il semaforo costantemente verde
sui quattro lati; non si notano conseguenze, ad eccezione di qualche
tamponamento ciclopedonale, risultando assente qualsiasi mezzo di
locomozione azionato da un motore. Per anziani, bambini e inabili
63
funziona un servizio pubblico di risciò. Le carrozzelle sono trainate da
pensionati ancora validi della locale Opera Pia dei Poveri.
I muri sono tappezzati da ordinanze in cui si proibisce quasi tutto.
Ci colpisce, in particolare, quella che istituisce il coprifuoco dalle 22 alle
6. La traduzione dal dialetto rorarotto di una grida è riportato in una
finestrella a parte.
Nel cinema Impero si proietta Come era verde la mia valle, da un
romanzo di Julien Green, interpretato da Carlo Verdone, ed è annunciato
un film americano doppiato in rorarotto: L’erba del visìn l’è sèmpar püsée
verda.
Al Teatro Chetosi è in cartellone I lumbàrd a la prima crusàda, prima
assoluta in dialetto rorarotto del dramma lirico in quattro atti di un certo
Pepìn Vèrt.
Le osterie del paese offrono soltanto filetto di squalo verdesca con
insalata verde, pere verdacchie, verdicchio di Matelica, verdiso di
Conegliano e un verduzzo di incerta origine; per gli astemi, sciroppo alla
menta.
Nell’aula magna dell’Istituto Industriale parlerà il prof. Armando
Verdiglione. Si dice abbia incantato i Blablali per la chiarezza del suo
linguaggio (« Come procedono le cose? Come si dicono, come si fanno,
come si scrivono, come si cifrano? Sta qui la cifrematica come esperienza
originaria»).
Ci avviciniamo guardinghi al palazzo municipale; al balcone
sventolano un ex-tricolore ridotto alla sola striscia verde e il nuovo
gonfalone del comune, copiato dal Manuale delle Giovani Marmotte.
Vorremmo intervistare il sindaco. I pretoriani di guardia, dopo
un’assemblea di due giorni e, per riposarsi, un sit-in di tre sui gradini
della chiesa arciprepositurale, ci comunicano che potremo «ingressare»
dal sindaco soltanto indossando abiti e biancheria intima privi di fibre
sintetiche. Potremmo inoltre prendere appunti non con le solite biro di
polistirene ma con matite di legno e pura grafite della val Chisone.
Nell’anticamera del primo cittadino ci fanno sostare tra i poli di un
grosso magnete naturale. Non cercano armi ma soltanto se abbiamo in
tasca chiavi o altri oggetti di acciaio, da depositare nell’apposito
contenitore di legno. Ci spiegano che il sindaco è ideologicamente
allergico non soltanto alle fibre chimiche e alle sostanze plastiche
sintetiche ma anche ai metalli ferrosi, essendo l’industria siderurgica
altamente inquinante.
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Il sindaco si chiama Giorgio Indolo e lo intervistiamo mentre redige
un’ordinanza, scrivendola su carta di cellulosa pura non additivata, quindi
assorbente, usando una penna d’oca intinta in succo di mirtillo addensato
con gomma di ciliegio. Indossa shorts e camicia di lino ingualcibile
fortemente spiegazzati; al collo, un vistoso foulard verde; sul petto, un
gigantesco medaglione di puro frassino con le iniziali IG incise a fuoco,
sorretto da una collana di stringhe di vero cuoio.
Signor sindaco, vorrebbe brevemente illustrarci il programma della
nuova amministrazione?
Voi giornalisti della stampa scritta e della stampa parlata siete
insaziabili! A livello di popolazione residentistica e domiciliantistica,
vogliamo aprire un dialogo costruttivo per gestire, nel contesto, le
contraddizioni del sistema, realizzando una svolta nella ristrutturazione
dell’habitat biosferico a monte e a valle del discorso ... .
Perdoni, signor sindaco, temiamo di non aver compreso bene ... .
Eppure sono stato chiarissimo. Al limite, a livello cittadino, ora che
per merito nostro il limite della incidentistica stradale tende a zero nella
misura in cui, progettisticando l’abolizione della moneta e il ritorno al
baratto, stiamo portando avanti un discorso reazionario ... .
Mi permetto di interromperla nuovamente, nessuno ha capito se siete
progressisti o reazionari.
Cercherò di usare un linguaggio più semplicistico, anche se non è
facile quando si hanno le idee confuse. Siamo reazionari perchè reagiamo
opponendoci conflittualmente alle degenerazioni progressiste; siamo
progressisti portando avanti, cioè facendo progredire, un discorso
reazionario. Ma ora sono stanco. L’intervista è terminata.
24.
Conquistato il Palazzo, i Blablali si scatenarono mettendo in pratica
le più strampalate teorie elaborate nelle assemblee e nei collettivi. Erano
però terrorizzati dai vertiginosi progressi della scienza e della tecnica,
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incapaci di adeguarsi ad una realtà non inquadrabile nei loro schemi
semplicistici.
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Dal Palazzo di Città
Ordinanza municipale n. 2069/05
IL SINDACO
presa visione delle mozioni dell’Assemblea dello Scuotimento dei Discenti
tenuta il 14 ottobre c.a.
DELIBERA
Art. 1.
La lingua dei nostri avi sarà liberata dai toscanismi che l’hanno imbastardita
per cui, dal primo dicembre p.v. sarà reso obbligatorio l’uso del dialetto
rorarotto, come nel buon tempo antico.
Art. 2.
Il manto stradale bituminoso, cancerogeno, verrà rimosso, onde possa
ricrescere l’erba verde e gli animali da cortile possano riappropriarsi del
suolo loro sottratto, come nel buon tempo antico.
Art. 3.
Le antenne TV dovranno essere abbattute. I membri di ogni unità familiare,
finora prede della incomunicabilità da televisione, potranno finalmente
dialoghizzare. Diverrà infatti obbligatoria la recita serale del rosario, come
nel buon tempo antico.
La TV non potrà essere sostituita con la lettura di libri e giornali, causa
della totale distruzione delle foreste del pianeta. Tra breve verrà proibita la
vendita di carta stampata a base cellulosica o sintetica.
Art. 4.
E’ proibito l’uso dei detergenti sintetici mentre è concesso quello del
sapone, purchè preparato nel paiolo casalingo partendo da ossa, anche
umane, e ceneri di vegetali. E’ consentito, fino all’esaurimento delle scorte,
l’uso del detergente denominato “Last”, al puro succo di limone verde.
Art. 5.
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I blu-jeans dovranno essere sostituiti con green-jeans, in attesa delle divise
filoneiste in allestimento.
Art. 6.
I motivi musicali made in USA dovranno essere sostituiti con le
composizioni dialettali rorarotte del buon tenpo antico, quali Non dritt el
pader (Gobbo il padre, ndr), Vin DOC al bancun del numer sett ( L’osteria
del nunero sette, ndr) e Crapa minga folta la fàà i turtei (Testa pelata ha
cucinato le frittelle, ndr ).
Art. 7.
Ogni unità abitativa dovrà consegnare, presso gli appositi centri di raccolta
di quartiere, il pentolame in acciaio inox (contenente cromo e nichelio,
sospetti di attività cancerogena) sostituendoli con analoghi strumenti in
rame (tossico ma non cancerogeno), come nel buon tempo antico.
Art. 8.
Dal primo gennaio p.v., in tutto il territorio comunale non sarà più in vigore
l’ora legale, causa di modificazioni dei bioritmo dei giovani in senso
destrogiro.
Art. 9.
E’ abolito il sistema internazionale di unità di misura e sono ripristinate le
unità di misura rorarotte dei nostri avi. L’unità fondamentale della lunghezz
è il piede rorarotto, con i sottomultipli dito rorarotto e unghia rorarotta.
Art.10.
E’ proibito salutarsi con un ciao, poichè significa vostro schiavo. Dovrà
essere sostituito con il termine rorarotto dei nostri avi: at’ salüt.
Per ripristinare l’economia curtense, date le relativamente grandi
dimensioni del territorio comunale, il paese venne suddiviso in diciassette
quartieri autonomi e furono installate barriere daziarie tra l’uno e l’altro. La
milizia ispezionava i sacchetti della spesa, controllando se la merce portava
il contrassegno della contrada.
I Blablali nominarono diciassette fabbri, diciassette falegnami,
diciassette sarti di quartiere. Persino il supermercato Ipercoop fu
smembrato in diciassette Minicoop, mentre l’Athletic Roraro Calcio fu
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suddivisa in diciassette squadrette di tre elementi ciascuna, data la scarsità
di calciatori seri. In compenso, cinquantuno presenzialisti diventarono
presidenti, vicepresidenti e tesorieri di società sportiva e lo stadio divenne
sede di appassionanti derby per tutta la durata della stagione sportiva. Sul
giornale locale, a proposito di un goal contestato, scrissero: «La squalifica,
fondata sulla refertazione del quarto ufficiale di gara, deve essere revocata
in quanto non rientra nei compiti di quest’ultimo refertare fatti anche gravi
da addebitare agli ammessi nel recinto di gioco».
Furono importati calessi e cavalli dal Terzo Mondo, risultando
inefficiente la rete dei trasporti con risciò. Le autorimesse vennero
riconvertite in stalle ma il Comune dovette organizzare in tutta fretta corsi
di riqualificazione professionale, raccattando gli istruttori nell’Ospizio dei
Poveri. I tassisti vennero riconvertiti in cocchieri, gli elettrauto in
maniscalchi, i benzinai in distributori di fieno e avena.
Nella soffitta dell’albergo Eden fu ritrovata, indi riappesa, la vecchia
insegna «Alloggio e stallazzo».
Ai ragionieri fu imposta la frequenza ad un corso di aritmetica, per
essere in grado di eseguire le quattro operazioni senza calcolatrici; fu
tuttavia concesso l’uso del regolo calcolatore, purchè di legno. Gli
informatici dovettero anche frequentare un corso di calligrafia, dove
impararono il gotico e il corsivo inglese, indispensabili per la compilazione
del tabulati con penna e calamaio.
Il capolavoro dei Blablali fu la rescissione dei contratti con l’ENEL
per la fornitura dell’energia elettrica. Ciò avvenne quando scoprirono per
caso che lo 0,4 % era di origine nucleare.
Sarebbe troppo lungo elencare i disagi e le privazioni cui furono
sottoposti i poveri rorarotti.
Si fermarono le idrovore della località Squallore e l’acqua tornò a
rallegrare i terreni bonificati. Ristabilito il turbato equilibrio ecologico,
essendo proibito l’uso dei pesticidi (verderame escluso), la zona fu
ripopolata dalla zanzara anofele. Il Comune si affrettò ad importare e
mettere a dimora un centinaio di rubiacee del genere cinchona, onde
poterne ricavare la chinina. Ignorava però che l’albero produce
l’antimalarico soltanto dopo trent’anni di vita.
Per il funzionamento degli ascensori nelle case di oltre cinque piani il
Comune precettò cassintegrati di robusta costituzione.
Con l’avvento della stagione invernale, si tornò alle stufe a legna. Al
Geranioli ogni aula fu dotata di stufa; esistendo soltanto la canna fumaria
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della centrale termica, si dovettero aprire fori nelle finestre, come in tempo
di guerra. Qualche blablale nostalgico pianse di commozione osservando la
selva di tubi da stufa arrugginiti e i relativi «baffi» sui muri. Uno dopo
l’altro, suprema contraddizione, gli alberi del parco pubblico e dei pochi
boschi dei dintorni furono abbattuti nottetempo per ricavarne legna da
ardere.
E’ noto che un bovino emette intorno a quattrocento litri di metano al
giorno, corresponsabile, secondo alcuni, della distruzione della fascia di
ozono. Per salvare il Pianeta e nel contempo utilizzare una fonte di energia
alternativa, il prof. Indolo ideò una specie di maschera da applicare alle
vacche, convinto di ottenere grandi quantità di combustibile ecologico.
Dopo la morte degli animali dell’ impianto pilota, il progetto fu
accantonato.
Alcuni cittadini tentarono di ribellarsi alle folli delibere municipali.
Furono però messi a tacere dall’onnipresente Milizia, ideata da Pinuccio
Cacodile per garantire l’ordine pubblico e «sistemare» i blablali
disoccupati, in crisi di identità non avendo più nulla da contestare.
Qualche ostinato blablale tentò di organizzare manifestazioni di
autoprotesta ma non trovò seguaci; nelle ore notturne, tuttavia, malgrado il
coprifuoco, gruppetti di irriducibili continuarono ad imbrattare i muri con
invettive e scritte incomprensibili.
I pretoriani della Milizia furono inquadrati in dictalegioni, suddivise
in triconacontacoorti, tetracosamanipoli ed esadecurie. Si dovette
richiamare in servizio, come istruttore, un vegliardo, il sergente Embolio
Fosfano della milizia fascista. Sapeva soltanto urlare, come ai suoi tempi,
«Rammolliti, farò di voi dei veri uomini!» e «Spezzeremo le reni alla
Grecia!», il che era più che sufficiente per il compito affidatogli. Come
sede della Milizia fu scelta l’ex-caserna dei Bersaglieri, abbandonata
quando gli psicologi dello Stato Maggiore compresero che il clima e i
negozianti di Roraro esercitavano un effetto depressivo sulle giovani
reclute.
Intorno alle dieci antimeridiane di ogni giorno feriale (dal martedì al
giovedì) il trombettiere suonava la sveglia. Verso mezzogiorno, quasi tutti i
miliziani confluivano con passo strascicato nel cortile della caserma. Si
celebrava il rito della Scavalcamentazione Levogira: il blablale D, a destra
di ogni fila ABCD, innescava una reazione a catena spostandosi a sinistra
del blablale A; C si inseriva tra D e A, poi B si incuneava tra C a A
70
cosicchè, alla fine dei complessi movimenti, il miliziano che prima si
trovava all’estrema destra occupava ora il posto all’estrema sinistra.
A completare il caos scesero in campo anche le suore. Alla periferia
di Roraro esiste l’antico convento delle Magline, religiose di stretta
clausura. In paese si credeva che le monache alternassero la preghiera con il
lavoro, confezionando maglie di lana per i bimbi dei tropici. Il nome
dell’ordine deriva invece da quello della fondatrice, Amalia di Rochefort.
Durante la rivoluzione blablale una certa suor Gertrude fu punita con
il trasferimento da un convento di Monza a quello di Roraro. Secondo lo
storico geom. Caseina, «... era ella l’ultima figlia di un industriale tessile
gallaratese, che poteva contarsi tra i più doviziosi ... Aveva destinati al
chiostro i cadetti dell’uno e dell’altro sesso per lasciare gli stabilimenti al
primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figlioli,
per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera».
Nella sua monumentale Storia di Roraro il Caseina così prosegue:
«Un lato del monastero delle Magline era contiguo ad una casa abitata da
un giovane, scellerato di professione, uno de’ tanti che in que’ tempi, e co’
i loro sgherri, potevano, fino ad un certo segno, ridersi della forza pubblica
e delle leggi ...».
Lo scellerato citato dal Caseina era Pinuccio Cacodile, divenuto
l’amante di suor Gertrude.
Anche nel convento, un autoclave di istinti repressi, si fecero sentire
gli effetti della presa del potere da parte dei Blablali. Dai secolari mugugni
contro le autorità ecclesiastiche maschiliste, le suore passarono alla
contestazione globale. Anzitutto, cambiarono nome una seconda volta.
Suor Gertrude divenne suor Diabolika; suor Prudenziana, un donnone di
centoventi chilogrammi, facendo un po' di confusione tra l’eroe dei fumetti
e reminiscenze bibliche, volle chiamarsi suor Supermanna. Altre divennero
suor Soraya, suor Greischelli, suor Ledidaiana, suor Dixanna, suor
Alendelonna e persino suor Nikilauda.
Poi, si diedero alle orge più sfrenate insieme ai blablali.
Trascorso qualche tempo, comprendendo di essere considerate
soltanto suore-oggetto, le monache gettarono la tonaca alle ortiche e si
dispersero.
25.
71
I poveri rorarotti, incapaci di insorgere, si rivolsero al governo e alla
curia. Come è costume in provincia, gli uffici postali del capoluogo furono
inondati di lettere anonime indirizzate al prefetto e al vescovo.
Il primo risultato fu il trasferimento di don Ammonio in una sperduta
parrocchia della Val Polimera; poi, il prefetto inviò un ispettore scortato da
un battaglione di teste di cuoio. Parte della popolazione si rintanò in casa e
parte fuggì in montagna, temendo il peggio.
Inaspettatamente, i Blablali non si mossero, non eressero barricate
per difendere la rivoluzione. Non accadde nulla perchè i leaders fuggirono
abbandonando la truppa al suo destino.
«Quando i blablali si opponevano al sistema», racconterà Palvezzi ai
suoi figli - «tutto risultava facile e divertente, assemblee e manifestazioni
più o meno spontanee erano un alibi per non lavorare, e l’operazione più
faticosa era imparare a memoria slogan in versi. Nessuno era responsabile
delle proprie azioni e, quando qualcosa funzionava male, era sempre per
colpa di una generica società».
Ora, viceversa, i rivoluzionari di un tempo erano stremati dalle
fatiche del potere.
Rapidamente come era nato, il movimento si dissolse e a Roraro tutto
tornò come prima.
Il geom. Caseina così concluse il capitolo della sua Storia di Roraro
dedicato ai Blablali: «Anche se il fine di alcuni utopisti era quello di
cambiare l’uomo, i rorarotti non migliorarono nè peggiorarono: divennero
soltanto meno ipocriti poichè gli interessi materiali non ebbero più la
necessità di nascondersi dietro la maschera di fumose ideologie».
Vennero indette nuove elezioni e vinse la sinistra storica, considerata
dai Blablali il nemico numero uno.
26.
Nelle vacanze natalizie il prof. Palvezzi si recava a Marzabotto,
carico di doni per i pronipoti dei contadini i quali, dopo averlo nascosto e
sfamato durante un rastrellamento, finirono trucidati dalle SS di Kappler.
Una volta decise di portare con sè Auco che potè così visitare Bologna,
rimanendo affascinato non tanto dai celebri monumenti, quanto dalle
antiche vie del centro storico, e dai loro nomi: via delle Dame, via delle
Donzelle, via dell’Inferno, via de’ Poeti, via Senzanome (è strettissima; i
72
bolognesi, guide ufficiali escluse, raccontano si chiamasse anticamente,
prima di una visita papale, via Sfregatette).
(Le guide della città tacciono anche, magnificando la statua del
Nettuno del Giambologna, un particolare imbarazzante. Per conoscerlo,
partendo dall’angolo tra via Ugo Bassi e la piazza del Nettuno, il visitatore
cammini lentamente costeggiando il Palazzo d’Accursio e fissando la
statua. Ad un certo punto apparirà la risposta del beffardo scultore del
Cinquecento al legato pontificio che gli ordinò di coprire i genitali di
Poseidone con la foglia di fico).
Un altro particolare della città colpì Auco: il caldo colore rosso delle
case e dei palazzi, simbolo della gioia di vivere dei bolognesi; per un
occhio rorarotto circondato dalla pietra grigia, dal calcestruzzo grigio, dagli
intonachi grigi, dai tetti in beola grigia, l’esperienza fu quasi traumatica.
Auco percorse la città in lungo e in largo, leggendo avidamente
targhe e lapidi poste in ricordo di celebrità bolognesi quali Guido
Guinizelli, Guglielmo Marconi, Augusto Righi, Luigi Galvani, padre G.B.
Martini, Marcello Malpighi, Ottorino Respighi, Giorgio Morandi, il
cardinal Lambertini, poi Benedetto XIV (l’arguto bolognese famoso per
aver detto, ad una dama molto scollata: «Il crocifisso d’oro che porta è
molto bello ma ancora più bello è il calvario!»), Riccardo Bacchelli,
Scipione dal Ferro «primo solutore delle equazioni cubiche», Gino Cervi,
o vissute a Bologna: Mozart ospite dell’Accademia dei Filarmonici, San
Domenico, Dante, Leopardi, Boccaccio, Erasmo, Casanova, il Bibbiena,
Copernico, Donizetti, Rossini, Corelli, don Olinto Marella («padre dei
poveri»), Carducci, il frate G.C. Croce autore del Bertoldo, Augusto Murri,
Nicola Zanichelli e tanti, tanti altri.
Su una piccola lapide posta sulla torre della Garisenda Auco lesse,
emozionato, un passo dell’Inferno: Qual pare a riguardar la Carisenda /
Sotto ‘ l chinato, quand’ un nuvol vada / Sovr’essa sì, ched ella incontro
penda; / Tal parve Antéo a me che stava a bada / Di vederlo chinare... .
In piazza del Nettuno trovò una lapide dedicata ad un certo Anteo
Zamboni. Non avendo mai sentito questo nome, Auco chiese lumi a
Palvezzi. Si tratta di un sedicenne che, nel 1926, sparò a Mussolini,
colpendolo al naso di striscio, subito dopo linciato dai fascisti. Come per
Cleopatra - riflettè Auco - se il povero Anteo Zamboni avesse mirato
meglio, forse l’Italia non avrebbe conosciuto gli orrori della seconda guerra
mondiale.
73
E le ragazze. Così belle non ne aveva mai viste. Checchè ne pensi il
professor Indolo sulla qualità della vita di fine secolo, a Bologna non
esistono ragazze brutte. Auco incrociò ragazze in fiore che camminavano
consapevoli di attirare gli sguardi maschili e le osservava, forse con troppa
insistenza, bisbigliando spesso: «Splendida! Una meraviglia della natura!».
Attendeva una rispostaccia ma, in genere, l’oggetto di tanta ammirazione
accettava in silenzio il complimento dell’anziano bidello.
Una sera, Palvezzi lo volle con sè ad ascoltare Il Messia di Haendel.
Al momento il cui il coro intonò l’ Alleluja ed il pubblico, secondo la
tradizione, si alzò in piedi come fece Giorgio I di Inghilterra alla prima
esecuzione, forti singhiozzi disturbarono il concerto; il colpevole era Auco,
incapace di dominare l’emozione.
Tornato a Roraro, nel rivedere le umide pietre grigie di cui è
permeato, Auco ebbe una crisi di malinconia che lo portò quasi alla
disperazione, anche perchè mancavano ormai pochi mesi al pensionamento,
e quindi all’ abbandono dell’ amato Geranioli, unica sua ragione di vita.
Palvezzi gli venne incontro nuovamente, suggerendogli di andare a vivere a
Bologna, non avendo legami familiari che lo trattenessero a Roraro. Il
professore l’ avrebbe sistemato in una sua mansarda.
Scaduti quaranta anni di servizio, Auco fu collocato a riposo. Con i
soldi della «buonuscita» acquistò un ciclomotore e si trasferì, con le sue
poche, povere suppellettili e i suoi tanti libri, nel capoluogo dell’EmiliaRomagna. A Roraro non tornò più. Negli amarcord, i luoghi di origine
sono sempre idealizzati e ricordati con nostalgia; una infanzia e una
giovinezza poco gioiose portarono Auco a ricordare soltanto i lati negativi
del suo paese.
27.
Sono trascorsi vent’anni dall’inizio della rivoluzione blablale e molte
cose sono cambiate. Ma Roraro è sempre Roraro. Davanti ai cancelli del
Geranioli, prima dell’inizio delle lezioni, studenti ciellini esibizionisti si
radunano in cerchio, il collo torto, recitando una preghiera. Per il terzo
principio di Newton, dalle bocche dei bidelli presenti allo show escono
orribili bestemmie.
Palvezzi, un laico che conosce il Vangelo meglio di loro, cita S.
Matteo: «Non fate come gli ipocriti, i quali amano pregare agli angoli delle
piazze per essere visti dagli uomini».
74
Gli oranti sono i nuovi presenzialisti, hanno riempito il vuoto
creatosi con la scomparsa dei Blablali. «Come loro» - rileva Palvezzi «sono arroganti, intolleranti e presuntuosi». Lo prova un loro manifesto
blsfemo: Pronto? Sei in linea con Dio. Proprio così, possedendo in
esclusiva numero e prefisso, comunicano con Dio in teleselezione e,
secondo le malelingue, gestiscono in appalto, oltre ad alcune mense
universitarie, anche il centralino per i messaggi degli infedeli.
Don Ammonio, scontata la pena dell’esilio e tornato arciprevosto di
Roraro, è il loro consigliere spirituale avendo conservate intatte, pur
essendo in età avanzata, le sue doti di trasformista.
Sui muri di Roraro, e di altre città, non compaiono più invettive
spray ma si moltiplicano gli sgorbi incomprensibili tracciati dai cosiddetti
graffitari. A questo proposito, Auco ha inviato la seguente lettera al
direttore di un grande quotidiano e con sua sorpresa è stata pubblicata. La
sua grafomania troverà sfogo in altre lettere, anch’esse regolarmente
pubblicate:
Un pretore di Genova ha condannato un tizio, reo di aver incendiato
un cassonetto dei rifiuti, ad affiancare il lavoro dei netturbini. Benissimo.
Tale pena potrebbe essere estesa anche agli imbrattatori di muri e
monumenti. Sembra prediligano gli antichi palazzi appena ristrutturati e
soltanto uno psichiatra potrebbe spiegare i motivi per cui faticano tanto e
spendono cifre non indifferenti in vernici per sgorbiare tutto quanto capita
sotto i loro occhi. Ci toccherà rimpiangere gli antichi viva e abbasso che
almeno avevano una motivazione, sia pure discutibile?
Tra Bologna e Roraro corrono (si fa per dire, impiegando in media
otto giorni) molte lettere. Palvezzi informa Auco sui cambiamenti avvenuti
al Geranioli e l’anziano bidello lo tempesta di domande non riuscendo a
capire, candido come sempre, il contraddittorio comportamento dei
presenzialisti ex-blablali.
Palvezzi risponde pazientemente. Ecco un brano della
corrispondenza.
«Come spiega, professore, l’improvviso amore per la natura
sbocciato nei cuori degli ex-blablali rorarotti, cultori della violenza contro
uomini e animali?».
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«Francamente, non sono in grado di rispondere. Lottavano, a parole,
per difendere gli emarginati, gli omosessuali, gli handicappati, gli zingari.
Ora si battono per la sopravvivenza del lupo rodigino e della vipera
eporediense. Curiosamente, non muovono un dito per salvare dal mattatoio
vitelli e polli, animali miti e inoffensivi. Non soltanto. La domenica
percorrono strade di campagna alla ricerca di polli ruspanti che pagano a
peso d’oro, ignorando che il contadino li acquista da una multinazionale di
un vicino allevamento in batteria. Difendono però a spada tratta i piccioni
che prolificano eccessivamente, sporcando e rovinando i monumenti.
Ovviamente, sono contro l’ingegneria genetica in agricoltura: temono
venga contaminato il sapore caratteristico di alcuni alimenti, dimenticando
che il problema della FAO è quello di sfamare i bambini del Terzo Mondo.
Lottavano contro il nucleare, si battevano per le fonti alternative di
energia e per il risparmio energetico. Adesso, laddove sono stati installati
sofisticati impianti per l’utilizzazione dell’energia eolica, protestano perchè
le grandi pale rotanti deturpano il paesaggio. Sono pure nemici dei bacini
artificiali che alimentano le centrali idroelettriche. Tuttavia, elevano vibrate
proteste quando, per un motivo qualsiasi, nelle loro case manca la corrente
per qualche minuto. Insomma, pretenderebbero energia elettrica in quantità
illimitata senza centrali per produrla.
In compenso, nelle città, ostentano la loro volgarità recandosi al bar a
bordo di enormi, neri carri funebri senza pennacchi chiamati fuoristrada,
consumando fiumi di benzina.
Inoltre, alcuni antichi ecoestremisti sono diventati ecofurbi,
riuscendo a produrre e vendere preparati e materiali aggiungendo ai marchi
di fabbrica, pour épater le bourgeois, i prefissi eco- , bio- e persino ecobio».
«Cosa pensa della proliferazione dei ciarlatani?»
«Tutto il male possibile. Alle soglie del Duemila riemergono
ideologie irrazionali, la superstizione dilaga, gli oroscopi aprono le
trasmissioni televisive e sono pubblicati anche dai giornali più autorevoli.
Astrologi, chiromanti, cartomanti, medium, guaritori, santone, cultori del
paranormale e imbroglioni assortiti imperversano ad ogni ora dal video,
sono molto ascoltati e fanno affari d’oro. Ho letto su un quotidiano che il
professor Massimo Polidoro, fondatore del CICAP (Comitato italiano per il
controllo delle affermazioni sul paranormale) ha inviato un appello al
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presidente della RAI perchè consideri l’opportunità di non trasmettere gli
oroscopi. Era ora! Padri nobili del CICAP sono i professori Rubbia, Levi
Montalcini, Hack, Regge, Dulbecco, Garlaschelli e Umberto Eco, Dario Fo,
Piero Angela e altri.
Purtroppo, sullo stesso quotidiano che riportava la notizia,
commentandola positivamente, in un altra pagina si incontrava una scheda
in cui si confrontavano due famose bellezze e cosa comparivano? Dopo le
date e i luoghi di nascita, i loro segni zodiacali!».
28.
Il prof. Palvezzi è stato « collocato a riposo per raggiunti limiti di
età», orribile espressione del burocratese che rende ancora più triste il
pensionamento, ricordando certi racconti di fantascienza in cui gli anziani
improduttivi vengono eliminati con mezzi drastici. Risiede sempre a Roraro
e, frequentando il Geranioli, si mantiene aggiornato. E’ così in grado di
comunicare ad Auco, imbibendo con qualche goccia di cianuro la cartuccia
della stampante, dove sono e cosa fanno gli ex-blablali più noti.
Caro Giovannini,
nelle sue lettere si scandalizza per l’incoerenza dei presenzialisti.
Ricorderà quanto diceva il signor Giuseppe: «Diffida da chi non cambia
mai idea». Sagge parole. Tuttavia, qui si esagera come sempre.
Durante la rivoluzione blablale, come ricorderà, in ossequio alle
teorie del dott. Benjamin Spock, la Morfo non aveva mai alzato le mani sul
figlio. Benissimo. Adesso, seguendo le nuove teorie dello stesso pedagogo,
affibbia al ragazzino tremendi schiaffoni se rincasa con un voto inferiore al
sette, essendo tornata in auge la meritocrazia. Infatti, ora gli ex-blablali
acquistano per i loro figli un manuale molto diffuso: Trenta agli esami
universitari si prende così.
Sergio Scatolo, laureato in psicologia, è diventato un creativo
pubblicitario ed è un esponente locale di Forza Italia. Lavora per una
famosa rete TV commerciale, usando un linguaggio castigato anche quando
reclamizza prodotti collegati alle funzioni fisiologiche così spesso
menzionate nei suoi discorsi in assemblea. Si devono alla sua fantasia,
infatti, i famosi dieci piani di morbidezza.
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In rare occasioni, Scatolo ritorna per breve tempo il rivoluzionario
antiamericano di un tempo. Sembra infatti sia stato l’ispiratore di un
manifesto listato a lutto apparso sul muri di Roraro quando, il 28 gennaio
1986, è esploso un traghetto spaziale con cinque astronauti a bordo. Vi si
poteva leggere, tra l’altro «Esultanti ci associamo alla sghignazzata
mondiale per l’esplosione in volo ...».
Come vede, l’odio per la tecnologia avanzata e per gli USA si
mantiene sempre vivo.
L’ ex-sindaco Indolo, deluso per la fine ingloriosa del movimento, ha
dichiarato pubblicamente di non voler più occuparsi del bene comune ed è
ripiegato sul privato. Si è convertito ad una misteriosa religione indiana e
trasferito in una città del Meridione. Il disastro di Chernobyl gli ha
suggerito di utilizzare la sua specializzazione in «inquinatica» per spillare
denaro ai gonzi, aprendo uno studio denominato Sapienza Orientale.
Definendosi Protoscienziato metafisico bergamasco, assiste persone
facoltose che temono di essere contaminate dalle radiazioni nucleari.
Sconsiglia la costruzione di rifugi e l’uso di complessi indumenti protettivi
ma insegna «un metodo nutrizionale che rende le cellule invulnerabili i
raggi gamma e ai neutroni, modificando il DNA del soggetto con una
particolare dieta a base di sostanze naturali (ti pareva) dotate di energia tale
da respingere quella delle radiazioni atomiche presenti e future».
Convinti i clienti con la dialettica usata un tempo contro il
consumismo, li induce ad acquistare a peso d’oro un disgustoso intruglio
da lui stesso prodotto.
Prosperano anche le grandi industrie statali e private da lui
combattute. Fiutato il business dell’ecologia, dopo aver inquinato il pianeta
con rifiuti di ogni genere, ora producono benzina pulita e costruiscono
impianti di depurazione e smaltimento dei rifiuti per le piccole aziende e
per i Comuni; non per il profitto, s’intende, ma per migliorare la qualità
della vita della popolazione, come affermano sui paginoni dei quotidiani.
Gli ex-discepoli di Indolo, troppo occupati a fare carriera, lottano tra
loro senza esclusione di colpi, ricordando le prediche del Maestro soltanto
in vacanza, quando capita loro di sedurre qualche svedese, preferendo al
letto una spiaggia o la frescura di un bosco.
Vale per loro quanto ha scritto Claudio Magris: «Anni fa la retorica
sessantottina - falsa come gli stracci firmati da stilisti di moda - pretendeva
di distruggere la meritocrazia e rischiava di distruggere semplicemente la
capacità di imparare e di fare un lavoro. La reazione, che ne è seguita, ha
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fatto proprio il suo stile arrogante e aggressivo capovolgendone il
significato ideologico e propone oggi modelli di successo, facce da yuppie
e l’assillante dovere di vincere».
Arsenio Mercaptani, laureato in scienze sociali, ora esponente della
Lega Nord, ha partecipato ad un concorso provinciale per ufficiali
giudiziari; la posizione di trentaquattresino in classifica gli ha permesso di
trovare un «posto» sicuro proprio a Roraro. Le sue energie, volte un tempo
a diffondere il verbo rivoluzionario, sono ora dedicate all’esecuzione di
pignoramenti e sfratti. Mai Roraro conobbe un funzionario tanto zelante e
senza pietà nell’applicare la legge. E’ capace di mettere sul lastrico,
spalleggiato dai poliziotti (un tempo da lui definiti nazisti ), debitori morosi
e intere famiglie sfrattate. Le sue vittime preferite sono gli immigrati di
colore. Nessun pianto di bimbo lo commuove; conserva intatto il ghigno
sprezzante che ne faceva l’idolo delle ragazze blablali.
Paola Romantrene, la teorica del sesso, laureatasi in matematica,
insegna al Geranioli ove - come da copione - sfoga le sue frustrazioni sugli
allievi. E’ tuttora sola, piena di invidia per le sue ex-compagne di scuola
che non parlano di sesso in pubblico ma ne apprezzano i piaceri in privato.
Paola tratta gli studenti, e ancor più le studentesse, con alterigia,
pretende da loro l’ impossibile, giustificandosi con la frase cretina, udita
più volte da Auco: «Quando studiavo, i professori mi hanno angariata,
umiliata, perseguitata; perchè dovrei essere comprensiva con voi?».
Le verifiche orali non sono semplici interrogazioni ma interrogatori,
da cui gli allievi escono distrutti dal suo sarcasmo; le ragazze più carine, in
particolare, dopo essere cadute in confusione cercando di risolvere i suoi
perfidi esercizi trabocchetto, devono ricorrere alla psicologa scolastica.
Durante gli scrutini, trovandosi gomito a gomito con i suoi exprofessori, un tempo criminalizzati perchè si rifiutavano di assegnare il sei
politico, la neo-prof spara le sue raffiche di due e di tre, accusando
sfacciatamente gli insegnanti di scuola elementare e della media inferiore di
permissività e incapacità di giudicare un allievo idoneo o meno a
frequentare le «superiori».
Molti cari saluti, le scriverò presto. Suo
I.P.
29.
79
Auco è diventato un vecchio curvo e afflitto da lievi acciacchi che
non gli impediscono, nelle domeniche d’estate, di viaggiare praticamente
tutto il giorno in ciclomotore, sotto il sole di quella terra felice dove il box
diventa boss e il boss si trasforma in bosh. Mete preferite Ravenna e i lidi
romagnoli.
A Ravenna, la prima volta che entrò in San Vitale, credette di
trovarsi in paradiso. Stavano celebrando una messa sull’altare di alabastro;
ai lati, i cortei di Giustiniano e di Teodora. Un piccolo coro, ad un certo
punto, intonò il mottetto Ave verum Corpus di Mozart. Un binomio
meraviglioso: la vista degli splendidi mosaici e una melodia sublime nella
sua apparente semplicità. Che desiderare di più dalla vita? - gli venne fatto
di pensare.
A Molinella, paese natale di Giuseppe Massarenti, trovò soltanto un
monumentino dedicato al santo laico, niente di speciale ma lo commossero
le parole incise sul basamento: E se ‘l mondo sapesse ‘l cuor ch’egli ebbe, /
Mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe.
(Par. Canto VI ). Ricordò di aver letto che Mussolini inviò al confino e poi
fece chiudere in manicomio il famoso sindaco di Molinella, definendolo come non pensare ai Blablali? - «vecchio rammollito riformista» .
A Marina di Ravenna aspira la brezza proveniente dal mare (lo
intravede dietro una selva di cabine e ombrelloni), mangia una piadina e
riprende la via del ritorno in città, attraversando paesi deserti e silenziosi.
Radio, televisori, stereo e motociclette hanno accompagnato i
proprietari nei luoghi di villeggiatura, particolarmente in quelli definiti
Località di cura & soggiorno, dove ci si reca per ritrovare, amplificati, i
rumori cittadini.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca, Auco scrisse questa lettera
al direttore di un grande quotidiano, non pubblicata.
Vorrei esprimere la mia comprensione al sig. E. A. di Lucca il quale,
svegliato nel cuore della notte, ha perso la pazienza esplodendo quattro
colpi di Smith & Wesson contro un gruppo di giovani che tenevano lo
stereo dell’automobile a tutto volume. Non siamo nel vecchio West dove
ciascuno si faceva giustizia da solo. Quei giovani, tuttavia, passata la paura,
continueranno impunemente ad aggredire in questa forma altri cittadini,
come accade dovunque. Non risulta che gli ecologisti, troppo occupati a
salvare alberi e animali, promuovano manifestazioni contro questa forma
dilagante di inquinamento acustico, non inevitabile come quello del traffico
urbano, ma evitabilissimo se con le buone o le cattive si convincessero i
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fracassoni che uno stereo a tutto volume è assimilabile ad un arma
impropria. Quindi, non stupiamoci se alcuni reagiscono violentemente alla
violenza, come ha fatto il sig. A. I suoi avvocati potranno chiedere le
attenuanti per legittima difesa?
Auco si è iscritto ad un corso di storia della musica presso la «Primo
Levi, università per la terza età» ed è entusiasta del professore, un valente
pianista.
L’inaugurazione dell’anno accademico si è tenuta nell’aula magna
dell’Università, la magnifica chiesa sconsacrata di S. Lucia in via
Castiglione. Ospite d’onore il premio Nobel Rita Levi Montalcini,
accompagnata da una interminabile ovazione al suo lento passaggio nella
navata fino a raggiungere la cattedra. Ha parlato a ruota libera spaziando
dalla descrizione del cervello umano a ricordi del suo amico Primo Levi (le
ha telefonato il giorno prima della morte), alle leggi razziali (è riuscita a
fuggire aiutata dal partito d’Azione), alla dichiarazione: «Sono laica, non
prego, non vado nella sinagoga ma rispetto tutte le religioni». Auco è stato
colpito dalla frase: «I turpi delitti sono di pochi, la viltà è di molti» . Alla
fine, gli allievi della Scuola di canto della Primo Levi hanno eseguito una
bellissima melodia ebraica in cui ricorreva di continuo la parola shalom.
Al ritorno da una gita in motorino si manifestarono i primi sintomi
della malattia che permise ad Auco di terminare il pace la sua vacua
esistenza. Avvertì dapprima strani brusii nelle orecchie ma non vi fece
caso. Con il tempo, i ronzii si trasformarono in sibili ma, pessimista come
sempre, credette fossero disturbi di poco conto. Con l’intensificarsi dei
segnali cominciò a nutrire una debole speranza, pregustando la bellezza del
creato in cui sarebbe vissuto se fosse accaduto il miracolo.
Si recò, emozionato, dall’otorino della mutua. Il medico comprese
subito la natura della malattia ma tergiversò. Ad una precisa domanda del
paziente dovette tuttavia emettere il verdetto: «E’ questione di qualche
mese, il fenomeno è purtroppo irreversibile, lei perderà totalmente l’udito
...».
«Ma che purtroppo e purtroppo», - esclamò Auco salticchiando
nell’ambulatorio per la gioia - «deve dire per fortuna! Si realizza il sogno
di una vita. Sordo! Sordo! Finalmente sordo! Suonate, clacson e stereo di
automobilisti cafoni; squillate, allarmi difettosi dei fuoristrada; strepitate,
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strombettate, ululate, schiamazzate: a questo punto, chi se ne frega? Scusi
dottore, che mi importa?».
Come previsto dallo specialista, Auco perse la capacità di udire e
l’universo sprofondò in un magico, incantevole silenzio.
30.
Al «San Procolo» vegeta uno strano vecchietto completamente sordo.
Si aggira sorridendo ai compagni di sventura e al personale mentre la
televisione trasmette un programma in cui si alternano cantanti dalle facce
volgari; indossano stravaganti costumi di scena, adottati in seguito nella
vita quotidiana dai più sprovveduti.
Il volume del televisore è altissimo. In un locale vicino, altri
assistono ad un film davanti ad un secondo televisore, aumentando la
confusione. Non per nulla il San Procolo, un ricovero per anziani, è
chiamato ufficialmente Casa di riposo.
Ma il vecchio Auco sorride; pochi mesi prima sarebbe fuggito
terrorizzato, alla ricerca affannosa di un luogo silenzioso, ormai inesistente,
ove poter connettere i suoi pensieri.
Vecchi tabaccosi sbuffano, scatarrano, ruttano e petano
rumorosamente, si lamentano, litigano tra loro e con il personale per futili
motivi. In mensa, si scatena un concerto di suggimenti e risucchi. Il cibo e
l’assistenza sono buoni ma la privacy inesistente. A poca distanza, ha sede
l’ufficio delle imposte, un poco più lontano la direzione provinciale della
DC, mentre in una strada laterale sorge l’Istituto di Medicina legale
dell’Università. A chiunque verrebbero i brividi trovandosi in un posto
simile ma Auco è ugualmente felice.
Non è più in grado di ascoltare il suo amato Brahms ma può vedere,
sul televisorino della sua cella, Leonard Bernstein saltellare sul podio. I
suoi gesti, buffi per chi osserva un direttore d’orchestra sul video ad audio
spento, gli appaiono invece pertinenti, conoscendo i motivi delle quattro
sinfonie, delle due ouvertures, dei concerti e di «Un requiem tedesco». Ad
intervalli, compare in primo piano il viso del Maestro; è pieno di rughe, in
contrasto con gli occhi limpidi, quasi infantili, gli occhi di una persona
buona e intelligente. Alla fine del concerto, Auco non sente lo scrosciare
degli applausi eppure si commuove quando Bernstein non si limita a
stingere la mano ai solisti ma, come era suo costume, li abbraccia, e con
loro i professori che incontra mentre esce di scena.
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Per sua fortuna, Auco non è costretto ad ascoltare, quale sigla di
apertura di una Tribuna elettorale, una cacofonica caricatura del finale della
«Prima» di Brahms. Eppure, la RAI disporrà sicuramente di uno o più
consulenti musicali per ogni partito dell’arco costituzionale.
Al San Procolo vi è molta libertà e il non più giovanissimo Auco
(come dicono adesso per indicare chi ha superato l’ottantina) esce spesso
non per sbevazzare come fanno i suoi compagni di sventura, ma per
soddisfare l’antica passione per la lettura.
Le scritte sui muri - non ne perde una, sgorbi a parte - gli rivelano
l’esistenza di un mondo giovanile totalmente diverso da quello dei Blablali
rorarotti. Si commuove perciò leggendo, al posto dei loro proclami, teneri
messaggi quali «Stefy, torna a stare con me», «Marco ti amo alla follia» o
sfide come «× Rubbi Odilia - Questa volta Luca sarà mio per sempre Cristina».
Come tutti gli anziani, Auco non ricorda ciò che è avvenuto o gli
hanno detto il giorno prima mentre affiorano continuamente nella memoria
fatti, persone, letture dell’ infanzia. Come la Chinina Migone, portentoso
ritrovato per la crescita dei capelli: tutti i giornali riportavano i disegni di
uomini che si pettinavano barba e capelli lunghissimi con un rastrello.
Ricorda (frequentava la quinta elementare) quando Mussolini aveva
dichiarato guerra all’Etiopia. In classe campeggiava una carta topografica
di questo infelice Paese, piena di segni convenzionali indicanti la presenza
di oro, argento, rame, carbone, petrolio, allevamenti di bestiame, ecc.
Ricorda il giorno della partenza per l’Africa degli Alpini, con le divise di
panno grigioverde, le fasce alle gambe e gli scarponi pesanti. Alla sera,
dopo la sfilata, vagavano nelle strade del paese, ubriachi, insieme alle
fidanzate o alle mogli piangenti.
Auco sente che la fine si avvicina, non ha paura di morire ma della
sofferenza fisica. Ammira la saggezza di un riminese che ha fatto incidere
sulla sua tomba: Am so cavè un bel pinsì (Mi sono tolto un bel pensiero).
Il vecchio bidello nevrotico è ora in pace con se stesso e il resto del
mondo, in serena attesa dell’altra, definitiva pace.
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