ORACOLI SCIAMANI DEI E SPIRITI di Gian Giuseppe Filippi

Transcript

ORACOLI SCIAMANI DEI E SPIRITI di Gian Giuseppe Filippi
ORACOLI, SCIAMANI, DEI E SPIRITI DELL’HIMALAYA ORIENTALE
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
In tibetano le persone che si fanno possedere da una divinità a scopo oracolare1 sono definite ku ten
(sku rten), termine che significa letteralmente supporto corporeo, fornendo in questo modo una
definizione assai precisa della passività dell’individuo che si presta a questa funzione rispetto alla
volontà della divinità.2 In mongolo lo stesso concetto è espresso dal termine gurtum.3 Durante la
seconda missione da me diretta durante l’ottobre-novembre 2002 nello stato indiano dell’Arunachal
Pradesh, situato nell’estremo arco orientale dell’Himalaya,4 è stato possibile identificare e studiare
un ku ten di una certa rilevanza, ancora sconosciuto agli ambienti scientifici occidentali.5 Si tratta di
Geleg Choi Jang, ventisettenne di etnia tawang monpa, residente nella località di Sapper, pochi
chilometri a nord del cospicuo villaggio di Dirang Dzong, nel distretto di Bomdila, West Khameng.
Ultimo rappresentante di un lignaggio di ku ten,6 ben noto ai monasteri nyingmapa (rnying ma pa)
del Khameng occidentale e del distretto di Tawang, fu istituito da un tulku (sprul sku)7 chiamato
Tijin Rinpoche alla fine del XVII secolo in ambito tawang8 monpa, e riconosciuto dal VI Dalai
Lama Tsangyang Gyamtso,9 che apparteneva alla stessa etnia.10 Questa trasmissione famigliare di
ku ten da allora non s’è mai interrotta, sebbene la sede dell’oracolo si sia trasferita in seguito a
1
“Mi sembra utile un riferimento ad una situazione esterna allo sciamanismo, ma senza dubbio contigua ed affine: gli oracoli
tibetani, di cui dà una descrizione precisa ed esauriente René de Nebesky-Wojkowitz. Uomini e donne vengono posseduti da una
particolare classe di divinità o rispondono in uno stato di transe a chi – in un contesto strettamente rituale – ponga loro domande.
Le manifestazioni esterne di questa transe sono molto più violente e vistose di quelle da me osservate in qualsiasi contesto… Ma –
nonostante la differenza essenziale costituita dall’autocontrollo, che è quasi costante nelle sedute sciamaniche e che qui sembra
mancare – le somiglianze sono notevoli e inclinano a pensare ad un inserimento di una tradizione sciamanica nel lamaismo. A
favore di questa ipotesi, sta anche la figura dell’assistente dello sciamano: un personaggio cui non ho potuto dedicare sufficiente
attenzione, ma il cui ruolo di moderatore della transe e di ripetitore, non può essere sottovalutato e in ogni caso ha una sua
corrispondenza nel ruolo degli assistenti dell’oracolo.” R. Mastromattei, “Introduzione”, Tremore e Potere, Romano Mastromattei
(cura di), Milano, Franco Angeli s.r.l., 1995, pp. 18-19.
2
“…il momento della trance annulla completamente la personalità dell’officiante, che lascia interamente il suo corpo e volontà alla
propria incarnazione.” M. Nicoletti, “Bon e sciamanismo: studio introduttivo di comparazione dei due fenomeni religiosi,”
Mastromattei 1995, p. 150. Nonostante qualche riserva sull’uso dei termini ‘officiante’ e ‘incarnazione’, questa sintetica
descrizione dell’oracolarità è particolarmente efficace.
3
René de Nebesky-Wojkowitz, Oracles and Demons of Tibet – The cult and Iconography of the Tibetan Protective Deities, 1st Indian
Ed., Delhi, Classic India Publications, 1998, p. 442.
4
La ricerca è stata organizzata dalla Venetian Academy of Indian Studies (VAIS) con la collaborazione scientifica e tecnologica del
Dipartimento di Studi sull’Asia orientale, Università Ca’ Foscari di Venezia.
5
Rossella Bartolucci, “Rapporto della prima missione scientifica della VAIS in Arunachal Pradesh – 2001”, Arte oltre le forma Indoasiatica 1, collana VAIS diretta da G. Torcinovich, Venezia, Cafoscarina, 2004, pp. 191-205.
6
In monpa questa funzione è chiamata lha jukhan, termine che significa eco del dio; è significativo che coloro che oracolano nel
confinante Assam siano chiamati deodhā, che significa ugualmente eco del dio. Ci è stato spiegato che jukhan corrisponde alla
funzione di jhākri nella lingua nepālī, sciamano. Perciò lha jukhan trasmette il senso di “sciamano degli dei.” K. Das Gupta, An
Introduction to Central Monpa, Shillong, North-East Frontier Agency, 1968, p. 79.
7
In sanscrito nirmāna kāya: manifestazione terrena di Buddha o di Bodhisattva non umani (amanusya), oppure di un dio, nella
forma di un bla ma umano. Fabian Sanders, “Tulku, the Guru by Birth”, Guru, A. Rigopoulos (ed. by), Indoasiatica n° 2, collana
VAIS diretta da G. Torcinovich, Venezia, Cafoscarina, 2004, pp. 409-417. In Nepal si usa il termine di avatārī lāmā. Camper J.
Miller, S. J., Faith-Healers in the Himalayas, Kathmandu, Sahayogi Press Pvt Ltd, 1987, p. 107.
8
È questa una definizione geografica, mentre la loro definizione culturale tradizionale è brahmi monpa.
9
Tsangyang Gyamtso (1683-1706), fine poeta tantrico, fu vittima delle rivalità tra i Dzungari e i Khoshot fomentate dall’Impero di
Mezzo, e finì per scomparire assai giovane, forse deportato. Anche in questo caso nacque una leggenda sul suo ritorno alla fine dei
tempi. Rolf A. Stein, La civiltà tibetana, I ed. italiana, Torino, Einaudi, 1988 (I ed. La civilisation tibétaine, Paris, Le Sycomore,
1962), p. 67.
10
Il VI Dalai Lama apparteneva dunque al sottogruppo dei tawang monpa, che sono autoctoni di queste aree. Sembra invece che i
dirang monpa provengano originariamente dal vicino Bhutan e precisamente dal distretto di Bumthang. N. S. Bisht and T. S.
Bankoti, Encyclopaedic Ethnography of the Himalayan Tribes, 5 vols, Delhi, Global Vision Publishing House, 2004, I vol. p. 393.
Geleg Choi Jang si richiama a una comune linea famigliare con il VI Dalai Lama, cosa non difficile, se intesa nel quadro della
struttura a clan delle popolazioni di questa area.
Sapper, in ambiente dirang monpa. 11 Nel 1997, alla morte di suo padre, l’attuale ku ten fu
dolorosamente posseduto per la prima volta in sogno da un’entità che per un certo periodo divenne
il suo spirito guida.12 Queste crisi inattese, dolorose e violente indussero Geleg Choi Jang a recarsi,
in cerca di una soluzione, presso il monastero nyingmapa di Sarong, nella valle di Tawang, che fin
dall’epoca di Tsangyang Gyamtso aveva ricevuto il compito di controllare e istruire i ku ten di
questa catena oracolare. Qui Geleg Choi Jang fu preparato alla sua funzione oracolare e terapeutica,
demandando ogni implicazione dottrinale ai monaci13 nyingmapa che da allora hanno esercitato su
di lui costante monitoraggio rituale. Certo è che le crisi spontanee decrebbero fino a scomparire e,
nel giro di un paio d’anni il giovane Geleg apprese a dipendere esclusivamente dai riti
d’invocazione dei monaci per essere indotto alla trance. Allo scadere del secondo anno di ritiro, il
Rinpoche del Sarong gon pa lo istituì ufficialmente ku ten, donandogli le vesti e i paraphernalia
oracolari. Da quanto precede, si evince che quest’investitura risale all’anno 2000.
Nel tempio oracolare situato al primo piano della casa sua, Geleg Choi Jang conserva i paramenti
usati nei riti di possessione. La sala dell’oracolo pare del tutto conforme al modello di un piccolo
tempio nyingma. Uniche variazioni sono il trono, khri, del ku ten sul lato sinistro guardando l’altare,
e sul fondo, dalla parte opposta all’altare, una piccola branda carica di coperte. Appoggiati su questi
pochi mobili o conservati un piccoli cofani si trovano i diversi paraphernalia rituali. Si tratta di un
abito in seta di color avorio; di un alto copricapo di seta rossa con tre occhi corrucciati ricamati in
fronte.14 Ciò corrisponde alle esigenze della possessione operata da Karma Thinle (Karma’phrin
las), ipostasi del dio Pehar.15 Un corto mantello multicolore serve a coprire le spalle e un grembiale
nero da stringere alla cintura è decorato con tre occhi infuocati e le fauci demoniche di Mahākāla.
Un grosso medaglione, d’argento e madreperla, che porta al centro la sillaba hūm, e un grosso
anello d’argento completano gli oggetti usati per la vestizione. Altri strumenti usati durante la
trance sono due spade di diversa lunghezza, d’acciaio e d’argento. Infine il testo tibetano chos
skyong dpon blon rnams kyi sku gsol spyan ‘dren skor che, cantato, ha il potere di far entrare Geleg
in trance. Trattasi di un sottile libro in cattive condizioni, le cui ultime due pagine, evidentemente
troppo logore, sono state trascritte su normale carta di quaderno.16
Il rito di possessione oracolari, a cui abbiamo assistito in seguito, s’allinea a buon diritto alla
tipologia dei ku ten più noti. Per argomentare quest’analisi si rimanda all’autorevole testimonianza
di René von Nebesky-Wojkowitz e di Glen Kelley.17 Da quest’analisi comparativa risulta anzitutto
che i ku ten sono posseduti da un dio o più dei della medesima categoria, tra i quali uno svolge la
funzione di guida principale e maestro della persona in trance; 18 non così gli sciamani,
curiosamente chiamati in queste valli dell’Arunachal Pradesh con il termine nepālī di jhākri, che
sono oggetto di possessione da parte di spiriti, but (sskr. bhūta).
11
Suo padre fu il primo ku ten di questo lignaggio ad abitare a Sapper. In precedenza egli stava nella valle di Tawang, ma a causa
dell’aggressione cinese del 1962, era fuggito verso sud e si era installato nei pressi di Dirang Dzong.
12
A proposito della chiamata e della conseguente malattia sciamanica, com’è definita la crisi che si manifesta come sua
conseguenza, e della relazione che intercorre tra queste due fasi iniziali della vita dello sciamano con le malattie epidemiche, v. G.
G. Filippi “Il movimento della Devī: un’epidemia di possessione collettiva”, in Annali di Ca’ Foscari, XLI, 3, SO 33, Editoriale
Programma, Venezia, 2002, pp. 191-210.
13
Propriamente parlando la scuola nyingmapa è priva di monachesimo nel senso compiuto, in quanto i religiosi non pronunciano
tutti i voti, soprattutto quello del celibato. Si tratta quindi, piuttosto che di ordine monastico, di una sorta di terz’ordine buddhista.
14
Il chas, l’abito rituale, s’ispira all’iconografia del dio che opera la possessione. Nebesky-Wojkowitz 1998, p. 413.
15
La categoria tsen (btsan) comprende alcune potenti divinità, generalmente identificate come genii loci di montagne impervie, che
appaiono come emanazioni mentali di quegli importanti dei definiti gyalpo (rgyal po). Essi consistono eminentemente nella
potenza psichica del gyalpo di riferimento, e corrispondono alla categoria di divinità atmosferiche conosciuta in sanscrito come
yaksa. Taluni, come per esempio lo stesso Karma Thinle, sono considerati preta, anime di grandi saggi del passato, costrette, a
causa di una morte violenta, a una lunga transizione verso l’aldilà. Sia gli tsen sia i gyalpo sono divinità di origine bön. Prof.
Federick W. Brune, An Encyclopaedia of Buddhist Deities, Demigods, Godlings, Saints & Demons, 2 vols., New Delhi, D. K.
Printworld (P) Ltd, 1994, II vol., pp. 1044, 1056.
16 Il testo è stato tradotto in italiano con il titolo “Sull’invocazione e invito del Signore Dharmapāla e della sua corte” dal nostro
collaboratore prof. Fabian Sanders, ed è in via di pubblicazione per Indoasiatica n. 4.
17
Nebesky-Wojkowitz 1998; Glen Kelley, Nechung, Tsang pa, Ghadong, Youdronma: Some Research on Four Tibetan Oracles and
their Deities, unpublished Indipendent Study Project, Brattleboro, 1993.
18
Glen Kelley, 1993, p. 55. Solamente coloro che sono stati storicamente nominati Oracoli di Stato dai vari Dalai Lama, sono dotati
di un’istruzione per essere posseduti da un solo dio. Ibid. p. 2.
2
Nel caso di Geleg Choi Jang rimangono, tuttavia, ancora diversi particolari che inducono a
pensare che, almeno in questo contesto, il rapporto con il mondo sciamanico non sia del tutto
troncato. Geleg ammise che nella valle di Dirang e, soprattutto nell’adiacente circondario di
Naphra, alcuni personaggi avevano caratteristiche molto simili alle sue, sebbene di minore dignità.19
Alcune di queste persone di Dirang Dzong, inoltre, erano dedite al male ed erano in grado di
nuocere agli esseri umani compiendo riti malefici. Geleg Choi Jang si dichiarò immune ai malefici
di questi maghi, alla malevolenza degli sciamani neri 20 e ai luoghi pericolosi. 21 Tuttavia egli
aggiungeva che nella zona di Dirang Dzong, grazie alla presenza della sua sede oracolare, non si
trovavano uomini-tigre o tigri mangiatrici d’uomini.22
Nei giorni immediatamente seguenti si ebbe modo di raccogliere numerosi dati atti a far chiarezza
sui rapporti tra sciamanismo e oracolarità. In particolare si erano identificate due persone che
svolgevano nei loro villaggi la funzione sciamanica, sebbene tra loro fosse evidente un notevole
distacco gerarchico.
Il primo, di nome Chekcha, appartiene al gruppo khoitam mompa e abita una misera frazione a
pochi chilometri dal villaggio di Sellary. Tramite il suo spirito tutelare, Chekcha è capace di entrare
in contatto con tutti i bhūt, gli spiriti e le larve dei morti presenti nelle valli del circondario di
Naphra, e da questi farsi possedere. Soprattutto per mediazione dei ventiquattro spiriti principali che
popolano la geografia psichica di Sellary, egli è in grado di curare, divinare e combattere la
malevolenza degli spiriti malvagi, come il crudele spirito dei crocicchi, Janku, e condurre all’aldilà
le anime dei defunti. Tutte queste caratteristiche eminentemente sciamaniche sono indicativamente
comuni anche a Geleg Choi Jang, il ku ten di Sapper.
Chekcha sosteneva anche di essere posseduto da un altro spirito a lui affezionato: si tratta di
Nanpaye, spirito femminile che lo stesso sciamano considera appartenente a una gerarchia più
elevata della media dei suoi contatti sottili, quasi una fata o una piccola divinità. Montando sulle
spalle di Nanpaye, Chekcha è in grado d’innalzarsi attraverso l’atmosfera fino al cielo,
sperimentando quella caratteristica estatica nota come volo sciamanico.23
La seconda tipologia sciamanica del circondario di Naphra corrisponde a un but mompa del
villaggio di Jerigaon, Chaphok Tsiring Dobdob. Discendente da una famiglia di jhākri,24 fu colto
dalla chiamata sciamanica ai sedici anni. Egli descrisse l’origine della sua funzione e le
caratteristiche della trance e della possessione in termini del tutto in linea con quanto affermato da
Chekcha.
Chaphok affermò di appartenere alla più elevata gerarchia sciamanica, giacché egli e i suoi pari
possedevano una tavoletta magica per mezzo della quale entravano in contatto con il loro principale
spirito tutelare. All’occasione Chaphok esibì la sua tavoletta. Si trattava di un’asse di legno delle
dimensioni approssimate di cm. 30 x 75, da portare a tracolla tramite una cinghia. La superficie
esterna della tavoletta era adorna di mascelle di felini, tigri, leopardi, gatti selvatici, becchi di
tucano, zoccoli di mithun, e artigli d’aquila, il tutto incrostato di sangue rappreso. Chaphok e i suoi
19
Geleg accomunò questi personaggi e se stesso nell’unica categoria degli yunmin.
Dalla descrizione di Geleg si evince che egli distingueva tra maghi che fanno fatture e malíe in modo rituale, e sciamani neri,
bonpo nag, che compiono i loro malefizi in trance.
21
Località infestate da spiriti, cimiteri, scenari di delitti.
22
Uomo-tigre e tigre mangiatrice d’uomini, ādmīkhānevālā, nel Subcontinente sono comunemente associati alla fenomenologia della
teriantropia. G. G. Filippi “Considerazioni generali per lo studio della teriantropia Indiana”, in Annali di Ca' Foscari, XLIV, 3 (SO
36), Venezia, 2005, pp. 165-178., p. 172.
23
C’è da precisare, tuttavia, che la cosmografia sciamanica considera generalmente due soli domini, come se il mondo fosse
composto di due emisferi separati orizzontalmente dal cerchio della terra. Nell’emisfero superiore vivono gli esseri terrestri, gli
spiriti e gli dei, nell’emisfero inferiore i defunti. La tripartizione del cosmo, a differenza di quanto sosteneva M. Eliade (1974, pp.
283-290), non è caratteristica dello sciamanismo, ma di tradizioni religiose complesse. Cfr. V. N. Basilov, “Cosmos as Everyday
Reality in Shamanism”, Shamanic Cosmos – From India to the North Pole Star, R. Mastromattei and A. Rigopoulos (ed. by),
VAIS Series directed by G. G. Filippi, New Delhi, D. K. Printworld (P) Ltd., 1999, pp. 30-31.
24
Nel circondario di Naphra il termine nepalese jhākri è usato come sinonimo di yunmin, in monpa e di bonpo o bonbo, in tibetano.
Quest’ultimo termine, pur avendone la medesima origine, non va confuso con bön po, ossia un appartenente all’antica religione del
Bön. Un po’ ovunque nel versante meridionale dell’Himalaya il termine bonpo o bonbo ha acquisito il senso generico di sciamano.
“Bombo also mediate in another sense-divinities and harmful agents not only come to them but bombos travel to the realms of
these beings to reveal them. This form of mediation is announced in the link of bombos with midspace spirits.” David H.
Holmberg, Order in Paradox, Delhi, Motilal Banarsidass, 1996, p. 151.
20
3
colleghi dovevano annualmente irrorare la tavoletta con il sangue di uno yak sacrificato durante la
festa sdon aphu, che si celebra nel circondario tra gennaio e febbraio, se volevano conservarne il
potere (śakti). È per mezzo della tavoletta e del suono del tamburo che il jhākri riesce a farsi
possedere dal proprio spirito tutelare e a compiere altri prodigi. Il suo spirito tutelare, egli dichiarò,
si chiamava Julung ed era un terribile spirito, genio di una montagna dei pressi, che è stato il suo
guru onirico. Sarebbe stato questo spirito a insegnargli a combattere gli altri spiriti per difendere il
villaggio, ad assisterlo nelle guarigioni e a istruirlo nella scienza delle erbe. Chaphok descrisse
dapprima Julung con tinte inquietanti, come un nano di pelle nera a cavallo di una tigre. Nel seguito
del discorso Julung fu descritto più semplicemente come uno spirito tigre. Ciò lasciò aperta la
possibilità d’interpretazione che il nano nero altri non rappresentasse se non lo stesso Chaphok nella
sua dimensione sottile, quando era portato in volo estatico dal suo spirito tutelare. Chi ha studiato in
India il fenomeno della teriantropia, non può non notare la concordanza di questo racconto con la
fenomenologia del vampirismo. 25 Lo spirito-tigre infatti è dissetato con sangue di yak (bos
grunniens), bagnandone le fauci fissate alla tavoletta.26
Nel corso dell’intervista Chaphok volle indossare i paramenti del suo ufficio. La parte più
notevole fu rappresentata dall’avvolgimento di una lunga fascia di tela bruna sul capo dello
sciamano. Egli maneggiò la stoffa in modo tale che il turbante che ne risultò avesse la forma di un
paio di corna di mithun, il bisonte (bos frontalis) semiselvatico che vive nelle jungle montane
dell’India del nord-est, vittima prescelta per i sacrifici delle sessanta e più etnie dell’Arunachal
Pradesh. Ciò potrebbe confondere lo studioso non smaliziato, 27 e condurlo a credere che
l’assunzione di corna da parte dello sciamano indichi la sua lontananza dall’identificazione con la
tigre. Tuttavia già in altre occasioni abbiamo avuto occasione di dimostrare esattamente il
contrario.28
In seguito constatammo l’esistenza di un altro sciamano della medesima categoria. Si trattava di
Wangdi, trentacinquenne d’etnia khoitam monpa, residente in un gruppo di case nei pressi di
Sellary. A tracolla portava la tavoletta irta di zanne di felini, artigli d’aquila, zoccoli di mithun;
inoltre su questa tavoletta erano fissate due scuri neolitiche, chiamate con il nome d’origine
sanscrita parasu, e un cristallo di rocca, che egli definiva orgogliosamente dorji (rDo rje),
diamante. Era evidente però che la tavoletta continuava a essere nutrita di sangue sacrificale, poiché
la spessa pellicola coagulata che copriva mandibole e grinfie era ancora lucente e brulicante di larve
e scarafaggi. Grazie all’insegnamento di un lama appartenente alla religione Bön non riformata, egli
era posseduto ora dalla divinità Kephoti Kithon,29 che egli vedeva in sogno vestito di un abito
tibetano, con una corona d’oro e i capelli sciolti sulle spalle. Interrogato sull’uso rituale della
tavoletta, Wangdi s’infervorava nella descrizione della festa durante la quale si sacrificava uno yak,
con il cui sangue s’aspergeva quell’oggetto rituale.30 Nella sua descrizione molto vivace si lasciò
25
Filippi 2005, pp. 165-178.
Tra i miju mishmi dell’area di Tezu, nell’estremo oriente dell’Arunachal Pradesh, durante la medesima missione si è riusciti a
determinare l’esistenza di una triplice gerarchia di sciamani: il più basso livello era costituito da sciamani che, in trance, operano
piccole guarigioni, consultano i defunti e gli spiriti. Gli sciamani del secondo livello possono compiere il volo sciamanico; il terzo
livello è rappresentato da sciamani di temibile potenza, che portano il loro operare al limite della follia, e che sono caratterizzati da
una natura di were-tiger. Alcuni membri del nostro team hanno avuto l’occasione di intervistare uno di questi sciamani-tigre. Cfr.
Bartolucci 2004, p. 201.
27
Though much information can be obtained about the practice of sorcery generally, secrets of lycanthropy [teriantropia] are
jealously guarded because of the crimes involves. I may, however, mention that in the hut of a man I visited (he had an evil
reputation for practicing sorcery) I found, among other paraphernalia of sorcery, a pair of sharp bullock horns and several animal
masks. P. Thomas, Secrets of Sorcery, Spells and Pleasure Cults of India, Bombay, D. B. Taraporevala Sons Co., 1983, p. 31.
28 G. G. Filippi, “Mahīsa: iconologia di un mito”, in Annali di Ca’ Foscari, XXXI, 3 (SO 23), Venezia, 1992, pp. 161-184; “On
some sacrificial features of the Mahīsamardinī,” in Annali di Ca’ Foscari, XXXII, 3 (SO 24), Venezia, 1992, Venezia, 1993, pp.
172-182. Si consideri, per esempio, all’ossessiva presenza di corna di bufalo (bubalus bubalis) tra gli ornamenti delle popolazioni
naga degli stati dell’India che confinano con la Birmania. Al contrario di quanto ci si aspetterebbe di conseguenza, i guerrieri naga
s’identificano con i leopardi, in un caso di teriantropia sciamanica collettiva.
29
Non si è stati in grado in alcun modo di classificare questa divinità.
30
Il rapporto ininterrotto tra uno sciamano che comincia a oracolare in nome di una divinità, e sacrifici cruenti è ulteriormente
testimoniato da Casper J. Miller: “Some Chetri informants, while insisting that the word dhāmī is a synonym for jhānkrī, also use
it sometimes in a specialised sense for a man who possessed by the lineage deity (kul deutā) and drinks the blood of a goat while in
a trance during the dewālī pūjā (worship of the kul deutā).” Miller, Kathmandu, Sahayogi Press Pvt., 1987, p. 141, n. 3.
26
4
anche sfuggire come egli ancora compisse quel sacrificio. Più avanti, nella stessa narrazione, egli
anche confessava che ancora, di tanto in tanto, si faceva possedere da spiriti.31
Abbiamo avuto occasione di alludere più volte nel corso di queste brevi note, che nella pianura
alluvionale del Brahmaputra, che si estende a Sud dell’Arunachal Pradesh, si trovano analoghe
tipologie oracolari e sciamaniche anche in ambito hindū. In Assam i posseduti dalle dee
Khamakhyā, Kālī e Manasā, sono chiamati deodhā (sskr. devadhvan), termine che significa eco del
dio esattamente come lha jukhan in lingua monpa.32 Come nel resto del Subcontinente indiano, le
possessioni oracolari e sciamaniche sono attribuite quasi esclusivamente alle attività degli dei Śiva,
soprattutto nella sua ipostasi tenebrosa di Kāla o Mahākāla, e Kālī, il suo corrispettivo femminile.
Kāla, il cui nome comprende simultaneamente i signifi-cati di nero, morte e tempo, esattamente
come Kālī al femminile, è il signore degli inferi (pataleśvara) e capo degli spettri (bhūteśvara). In
questo senso Śiva si identifica con Mrtyu e con Yama, il dio della morte e il re dei morti,
rispettivamente.33 Per questa ragione Śiva Mahākāla è abbinato al bufalo, cavalcatura della morte, o
porta corna di bufalo.34 Questo animale con pelle nera, dalle abitudini notturne e di indole iraconda
ha sempre rappresentato in India la terribilità della morte. Kāla dimora preferibilmente nei campi di
cremazione, nei rari cimiteri dove si inumano bimbi morti prematuramente, o, nel caso del
Buddhismo tantrico, nei luoghi dove si smembrano e si offrono ai rapaci i morti. Sono questi luoghi
di potenza, ove convergono per scopi diametralmente opposti gli yogi tantrici e gli stregoni malvagi.
Kāla e Kālī possono essere incontrati sui campi di cremazione mentre divorano e inceneriscono i
cadaveri degli umani, esattamente come, in una dimensione macrocosmica, Śiva danzando consuma
l’universo e lo riduce in cenere. 35 A questa fase distruttiva succede poi la rimanifestazione del
mondo o la rinascita dell’individuo, palesando così la duplice funzione śivaita di generazione e
morte, heros e thanatos, rappresentata del simbolo aniconico di lingayoni. Nel contempo il dio
mortifero è in grado anche di uccidere la stessa morte, ragion per cui Śiva, in una visione suprema,
è la divinità che, attraverso l’esperienza della morte, conduce all’immortalità.36 Così si spiegano
tutte le diverse personalità di Śiva, conosciute come Yamantaka, Kālahā, Kāla Bhairava, colui che
uccide Yama, che finisce la morte, che terrorizza la morte. Queste personalità complesse di Kāla e
Kālī sono preposte alla possessione di supporti corporei a fine oracolare. I posseduti dalla divinità
officiano generalmente nei cortili dei templi consacrati alla dea, dopo essere condotti alla trance
dalla recitazione di mantra e con il suono di campanelle di bronzo.
Il dio Śiva, come si è menzionato, è anche il capo di schiere di spiriti, larve e demoni di diversi
ordini e gradi. Tra questa turba si distinguono i bīr (ssrk. vīra) e i brahma bābā, anime in pena di
brahmani e guerrieri morti di morte violenta o privi di esequie.37 I piśāca sono una categoria più
ampia di revenants, spiriti famelici che tendono a infestare dimore o città abbandonate. I bhūta sono
larve che conservano ancora alcuni elementi corporei, per cui hanno maggiori possibilità di apparire
o comunque di comunicare con i viventi, e corrispondono agli spiriti-fuochi fatui dell’occidente.38 I
vetāla sono demoni potenti che possono possedere e animare i cadaveri e sono spesso descritti
come vampiri. I nāga sono geni ctoni di forma ofidica, maligni e pericolosi, guardiani dei tesori
nascosti: essi sono anche depositari di conoscenze segrete a cui gli yogi tantrici ambiscono.39
31
Chaphok, almeno durante il nostro primo incontro, e Wangdi, furono concordi ad affermate che si autoinducevano la trance
tramite un tamburo. Tuttavia, che la tecnica basata sull’uso della campanella non sia sconosciuta tra i jhākri è dimostrato da
quanto abbiamo potuto constatare durante un rituale di trance di cui Chekcha fu il protagonista. In ogni caso è evidente la
relazione che intercorre tra il tamburo e il tuono, da una parte, e il suono metallico del bronzo percosso e il fulmine, dall’altra. Il
primo richiama gli spiriti, il secondo caccia gli spiriti e invoca gli dei. Cfr. G. G. Filippi, “The Celestial Ride”, Mastromattei 1999,
pp. 85-86.
32
M. C. Goswami, “Shamans and Shamanism at Kamakhya Dham, Assam”, Bulletin of the Department of Anthropology, Gauhati
University, vol. IV, December 1975, p. 4.
33
Kusum P. Merh, Yama, the Glorious Lord of the other World, New Delhi, DK Printworld, 1996, pp. 79-99.
34
Le corna di bufalo per la loro forma a falcetto rappresentano la luna, dimora degli antenati, pitr. G. G. Filippi, Mrtyu, concept
of Death in Indian Traditions, New Delhi, DK Printworld, 1996, pp. 183-185.
35
Jonathan P. Parry, Death in Banaras, New Delhi, Cambridge University Press, 1994, pp. 75-117.
36
G. G. Filippi “The guru and Death”, A. Rigopoulos 2004, pp. 121-135.
37
Diane M. Coccari, “The Bir Babas of Banaras and the Deified Dead”, Alf Hiltebeitel (ed. by), Criminal Gods and Demon
Devotees, New Delhi, Manohar, 1990, pp. 251-269.
38
Filippi 1996, pp. 180-182.
39
David N. Lorenzen, “New Data on the Kāpālikas”, Hiltebeitel 1990, pp. 231-238.
5
Tutti questi esseri, con il permesso del loro signore Śiva possono prendere possesso di corpi
viventi, eccezion fatta, come s’è visto, per i vetāla. Bīr e brahma bābā sono gli spiriti che
conducono alcuni umani particolarmente sensibili a diventare sciamani. Spesso diventano i loro
spiriti tutelari e guru onirici. I piśāca, quando non scatenano fenomeni di poltergeist, entrano in
contatto con gli sciamani per richiedere riti funebri in loro favore, in modo da abbandonare la terra
dei viventi e poter raggiungere i naraka.40 I bhūta, invece, rappresentano sempre un pericolo e la
loro temuta incubatio è considerata esattamente come una possessione diabolica. Tramite esorcismo
è comunque possibile disintegrare il bhūta per sempre. La possessione da parte dei nāga conduce ai
fenomeni di teriantropia, ma il controllo tramite mantra dei geni-serpente può condurre alla
scoperta di tesori o all’apprendimento di conoscenze esoteriche.41 Per questa ragione molti asceti
aghori, kāpālika e altri yogi tantrici s’arrischiano sulla via pericolosa per affrontare le schiere
spiritiche di seguaci di Śiva, pur di ottenere la sapienza segreta.
40
41
6
Filippi 1996, pp. 190-191.
David Gordon White, The Alchemical Body, Chicago, Chicago University Press, 1991, pp. 58-60.