Approccio di Bush e di Obama in Medio Oriente

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Approccio di Bush e di Obama in Medio Oriente
BUSH IN MEDIO ORIENTE
Per molti, la ragione per cui gli Stati uniti hanno abbandonato i loro ormeggi realisti risiede
nell'ascesa dei neoconservatori. Si è detto che funzionari d'alto rango dell'amministrazione Bush
come l'ex vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz e il sottosegretario politico alla Difesa Douglas
Feith, e influenti esterni come Richard Perle, William Kristoll e Charles Krauthammer avessero
un'indebita influenza sulla politica estera americana. Ciò che unisce i neoconservatori è una
credenza comune nella realizabilità e nella desiderabilià dell'espansione della democrazia, con la
forza se necessario, come mezzo per promuovere gli interessi americani 8. I neoconservatori sono
stati all'avanguardia negli sforzi americani per invadere l'Iraq, ignorare Arafat e spingere i governi
arabi verso regole democratiche. Dato che gli Stati Uniti hanno perseguito tutte queste politiche, ci
sono pochi dubbi che i neoconservatori abbiano di fatto influenzato la politica estera americana in
Medio Oriente.
Non c'è, tuttavia, nulla di necessariamente sinistro nell'influenza dei neoconservatori. La politica
estera ai livelli più alti è uno scontro di idee. Queste idee neoconservatrici hanno trionfato in certe
circostanze semplicemente dimostrando il potere delle loro ragioni. Per di più è dubbio che forti
personalità come il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il Vice-Presidente Dick Cheney e il
Segretario di Stato Condoleezza Rice siano stati in qualche modo accecati da una cabala di
cospiratori neoconservatori.
Cosa più importante, il focalizzarsi dei neoconservatori nel cambiare la natura dei regimi piuttosto
che nel promuovere il balance of power è supportatto dalla natura delle relazioni internazionali nel
post-Guerra Fredda. Le democrazie liberali raramente, se non mai, vanno in guerra con altre
democrazie liberali. Che questo dipenda dalle idee democratiche (risoluzione pacifica dei conflitti,
compromesso, tolleranza delle visioni opposte) o dalla struttura delle democrazie (controlli e
bilanciamenti, divisione dei poteri che rendono una decisione per la guerra più difficile da prendere)
non è la questione chiave. Ciò che è essenziale è che quando si espandono le democrazie liberali,
allora si espande anche la pace tra le nazioni. Per una superpotenza interessata al mantenimento
dello status quo come gli Stati Uniti, la pace internazionale è di solito desiderabile, il che rende
l'espansione della democrazia esattamente coincidente con gli interessi americani. Inoltre, è meno
probabile che i gruppi terroristici si sviluppino nelle democrazie liberali che nelle autocrazie.
Mentre è vero che le democrazie liberali non sono una panacea contro il terrorismo, come si vede
dall'emergere di gruppi terroristici in Gran Bretagna, Italia e Giappone, i gruppi terroristici più
pericolosi, come Al Qaeda, emergono tipicamente in stati non democratici. Espandendo la
democrazie, quindi, si mantiene la promessa di fermare l'espansione dei più letali gruppi terroristici,
una preoccupazione vitale della politica americana dal'11 settembre9.
Concentrare la politica estera su ciò che accade all'interno dei paesi, piuttosto che sul tentativo di
scoraggiare la guerra tra di essi, ha senso anche a causa di un fondamentale cambiamento nel corso
delle relazioni internazionali: il percepibile declino della guerra interstatuale. Se i realisti avessero
ragione sul fatto che le nazioni devono costantemente temere attacchi da altre nazioni, allora il
tentativo di scoraggiare la guerra interstatuale sarebbe davvero un interesse americano chiave. Gli
Stati Uniti non solo vorrebbero scoraggiare attacchi contro di loro da parte di altri paesi, l'America
avrebbe anche interesse a scoraggiare aggressioni contro i suoi alleati chiave. In questo ambiente
internazionale avrebbe davvero senso che la politica americana riguardasse meno la trasformazione
dei regimi che l'assicurazione che, quale che sia la natura del governo, la leadership riconosca che la
guerra non sarebbe nei suoi interessi. Una politica estera americana di stabilità attraverso il balance
of power è quella giusta per un mondo coerente con le assunzioni realiste.
Il problema, tuttavia, è che la minaccia della guerra interstatuale, che è al cuore del realismo,
è palesemente diminuita nei decenni scorsi, specialmente dopo la fine della Guerra Fredda.
Questo pone in questione la necessità per la politica estera americana di concentrarsi nella
prevenzione della guerra tra stati come principale preoccupazione. Dalla seconda guerra mondiale
non c'è stata una guerra tra le grandi potenze, il che fa del nostro tempo il più lungo periodo di pace
tra le grandi potenze, dall'emergere degli stati nazionali nella metà del 1600. La “lunga pace” non è
stata confinata alle sole grandi potenze.10 In tutto il mondo ci sono state solo sette guerre
interstatuali tra il 1989 e il 2002 e in alcuni anni, il 1993 e il 1994, per esempio, non ci sono state
guerre tra stati.11 Nell'era post-Guerra Fredda le guerre internazionali hanno mostrato un costante
declino dopo il picco del 1991. Anche le vittime della guerra sono diminuite insieme alle spese
militari nello scorso decennio. Per la maggior parte delle persone la probabilità di morire in un
incidente automobilistico è centinaia di volte superiore a quella di morire in guerra.12 Le guerre
tra gli stati semplicemente non sono più la minaccia che sono state un tempo, il che fa si che
prevenirle sia una preoccupazione minore per gli Stati Uniti.
Le ragioni per la pace internazionale sono molte e probabilmente durevoli. Il territorio, una ragione
primaria per la guerra, ha perso importanza quando l'agricoltura è declinata come fonte di ricchezza
e potere, e i missili a lungo raggio diminuiscono la significatività strategica del possesso di
territorio. La globalizzazione ha legato la prosperità delle nazioni a quella delle altre, rendendo la
guerra un avvenimento costoso anche per i vincitori. L'egemonia americana ha mutato la
competizione tra le nazioni, mantenendo nello stesso tempo qualche parvenza di ordine in quello
che altrimenti sarebbe un mondo anarchico. La conquista di territori produce scarsi benefici, dato
che la ricchezza di un paese dipende da una popolazione abile e libera, con accesso a molte fonti di
informazione – non da una società astiosa, repressa e prigioniera. E' stato anche suggerito che il
lungo periodo di pace, specialmente nel mondo sviluppato, abbia trasformato la psiche delle
persone al punto tale che la guerra, come la schiavitù, sarebbe diventata virtualmente impensabile.13
Il minore impatto della guerra interstatuale è rispecchiato in Medio Oriente. E' naturalmente
vero che l'Iraq è stata coinvolta in numerose guerre con l'Iran, il Kuwait e gli Stati Uniti nei passati
vent'anni, ma con l'eccezione dell'Iraq e del recente attacco di Hezbollah a Israele, il Medio Oriente
è stata una regione relativamente pacifica durante gli ultimi decenni. Anche Israele, che è al centro
di così tanti conflitti armati, ha combattuto il suo ultimo conflitto interstatuale nel 1982 (con la
Siria) e la sua ultima guerra interestatuale nel 1973. Questo è in percepibile contrasto con i primi
tempi, quando Israele ha combattuto guerre in ogni decennio dagli anni 40 al 1973. L'ultima guerra
inter-araba che non ha coinvolto l'Iraq , tra l'Arabia Saudita e lo Yemen (sostenuto dall'Egitto),
risale agli anni 60. La visione realistica di un mondo anarchico con stati continuamente in guerra gli
uni con gli altri, semplicemente non si riflette nella realtà del Medio Oriente, specialmente in anni
recenti. Dato che le nazioni in Medio Oriente hanno meno timore le une delle altre, gli Stati Uniti
non devono preoccuparsi troppo di assicurare che i loro alleati siano protetti da attacchi da parte di
altri stati.
Ha anche senso per l'America concentrarsi sugli avvenimenti interni ai paesi chiave, perché
mentre la guerra interstatuale sta scomparendo, la violenza interna continua a erompere. E'
certo che anche le guerre civili sono declinate dalla fine della Guerra Fredda, ma,
diversamente dalla guerra tra stati, ci sono poche indicazioni che stiano diventando obsolete.14
Le guerre civili hanno causato più del 70% delle guerre e delle vittime dalla fine della seconda
guerra mondiale.15La predominanza delle guerre interne è diventata anche più pronunciata dalla
fine della Guerra Fredda. Le sette guerre interstatuali verificatesi tra il 1989 e il 2002 sono
sovrastate dalle 109 guerre civili verificatesi durante lo stesso periodo.16 Una volta iniziate, le
guerre civili sono difficili da fermare. Durano tipicamente il doppio delle guerre interstatuali ( in
media 33 mesi contro 18 mesi e mezzo).17 Secondo Ted Gurr e Monty Marhall,
approssimativamente il 20% di tutti i paesi (la maggior parte dei quali in via di sviluppo)
fronteggiano una possibilità realistica di guerra civile o di collasso del governo.18
Anche altre forme di violenze interne agli stati continuano a dominare la scena internazionale.
Ribellioni, genocidi, assassini e terrorismo caratterizzano la politica di molti paesi, in particolare
quelli nel mondo in via di sviluppo, dove governi illegittimi si confrontano con conflitti etnici e
religiosi. I movimenti violenti sono assai diffusi nella maggior parte del mondo, minacciando la
sicurezza personale dei cittadini e la capacità dei governi di esercitare il potere. In Medio Oriente, la
guerra civile in Libano negli anni 70, gli scontri interni in Siria negli anni 80, e le sfide terroristiche
ai regimi esistenti in Egitto e in Arabia Saudita negli anni 90 e nel ventunesimo secolo hanno reso
chiaro che la pace internazionale non ha avuto un corrispettivo a livello interno. Le forze
pacificatrici che hanno quasi completamente fermato le guerre tra gli stati sono largamente
inapplicabili ai conflitti interni. Nessuno sostiene che la democrazia prevenga la guerra all'interno
degli Stati come sembra fare tra di essi. Le guerre civili, o la violenza interna su larga scala in
democrazie come gli Stati Uniti, l'India e Israele falsificano la nozione di “pace democratica”,
quando gli scontri sono confinati in un solo paese. La logica rassicurante della deterrenza nucleare
non tiene a freno le guerre civili, nelle quali mancano avversari chiaramente definiti contro i quali si
possa minacciare la micidiale rappresaglia. Gli scontri interni largamente diffusi in potenze nucleari
come il Pakistan,l'India, Israele e la Russia, non forniscono un grande incoraggiamento circa gli
effetti delle armi nucleari nell'indurre la pace.
La nozione che le persone abbiano introiettato le norme della non- violenza e della risoluzione
pacifica dei conflitti non si applica a molti conflitti civili, nei quali la brutalità e lo spargimento di
sangue non necessario sono cose normali. Mentre le norme globali contro i conflitti possono avere
qualche effetto positivo circa la prevenzione delle guerre tra gli stati, sono largamente inefficaci
circa le guerre interne. Quando Saddam Hussein gasò i curdi nel 1987, causò proteste internazionali
molto ridotte. Quando invase il Kuwait nel 1990, invece, causò un grande intervento internazionale
guidato dagli Stati Uniti, che respinse la sua aggressione. La lezione è chiara: se vuoi esercitare la
violenza, fallo all'interno dei tuoi confini. Nemmeno la globalizzazione previene seriamente i
conflitti civili. Proprio come i benefici della globalizzazione differiscono da nazione a nazione,
esacerbando le tensioni internazionali, così differiscono all'interno delle singole nazioni,
esacerbando i conflitti intestini già esistenti. Pertanto mentre il conflitto preoccupa gli Stati Uniti,
sono le guerre civili che continueranno a dominare il paesaggio globale.
Per molta parte del mondo la visione delle relazioni internazionali è esattamente opposta.
Invece di un mondo di anarchia internazionale e ordine interno, viviamo in un mondo di
ordine interno e anarchia internazionale.19 In questo mondo, non è ciò che le nazioni si fanno
l'una con l'altra che è importante, ma piuttosto ciò che accade all'interno dei loro confini che
conta.
OBAMA IN MEDIO ORIENTE
Anthony M. Quattrone
La politica estera del presidente americano Barack Obama si è sviluppata, fino a questo momento, su tre
principali traiettorie: l’apertura nei confronti del mondo islamico, il cambio di rotta nella conduzione della
guerra in Afghanistan, e la riduzione e il controllo delle armi nucleari nel mondo. La prima traiettoria,
l’apertura degli Usa nei confronti del mondo islamico, è molto ambiziosa sia a causa del pregiudizio
dell’americano medio che associa il terrorismo all’Islam, sia per la percezione del mondo islamico che gli
Usa sono sempre dalla parte di Israele, contro i palestinesi e la nazione araba in generale. Con il discorso
che ha tenuto all’Università del Cairo il 4 giugno 2009, Obama ha cercato di mettere in risalto le cose che la
cultura americana e quella islamica hanno in comune, lanciando messaggi di rispetto, tolleranza, e
condivisione. Il percorso di avvicinamento fra Islam e America è ancora lungo e pieno di ostacoli che
dovranno essere affrontati e superati con pazienza e molto realismo. Uno dei maggiori ostacoli rimane il
conflitto fra Israele e palestinesi, che continua ad alimentare sentimenti antiamericani in tutto il Medio
Oriente. L’atteggiamento intransigente da parte di alcuni governanti israeliani, così come le discutibili
iniziative riguardanti la presenza di coloni israeliani in territori arabi e palestinesi, e le recenti decisioni di
autorizzare la costruzione di nuove unità abitative ebraiche a Gerusalemme creano nuovi ostacoli per la
politica di avvicinamento nei confronti dell’intero mondo islamico. Per il generale David H. Petraeus, il
comandante delle forze militari Usa nel Medio Oriente e uno dei massimi strateghi militari americani di tutti
i tempi, il conflitto fra Israele e i palestinesi tocca direttamente gli interessi nazionali americani, creando un
ambiente poco sicuro per le forze militari Usa in tutto il Medio Oriente.
La seconda traiettoria che marcherà in modo indelebile la politica estera di Obama è il cambio di strategia
che il presidente ha impresso alla guerra in Afghanistan. Durante la campagna elettorale, Obama aveva
criticato il presidente in carica, George W. Bush, per non aver completato le operazioni militari in
Afghanistan, lasciando ampi territori del paese in mano ai taleban, e senza che le istituzioni centrali afgane
potessero svilupparsi concretamente. Per Obama, una nuova strategia che combinasse interventi militari e
civili era necessaria per evitare che l’Afghanistan ricadesse di nuovo sotto il controllo dei taleban, i quali
avrebbero potuto ospitare, ancora una volta, i terroristi di al-Qaeda. Obama ha deciso nel maggio 2009 di
cambiare rotta nominando il generale Stanley McChrystal come comandante delle forze Usa e NATO in
Afghanistan, con gli ordini di sviluppare una nuova strategia integrata, che combinasse sicurezza,
stabilizzazione delle istituzioni afgane, e sviluppo economico. Obama ha accettato, almeno in parte, la
richiesta di McChrystal di aumentare le truppe americane dispiegate, e ha condotto una notevole campagna
diplomatica per convincere i partner europei della NATO a impegnarsi di più. E’ ancora troppo presto per
comprendere se la nuova strategia di Obama e McChrystal riuscirà nel portare la pace in Afghanistan, ma è
certo che il realismo del presidente permette anche ai militari di ragionare in modo sistemico
sull’interrelazione fra sicurezza e stabilità istituzionale ed economica del paese.
La terza traiettoria che segna la politica estera di Obama è la sua visione di un mondo senza armi
nucleari. Obama annunciò nel discorso che tenne dinanzi ad una folla festante a Praga il 5 aprile 2009, che si
sarebbe impegnato per la riduzione e la non proliferazione delle armi nucleari. Il comitato di Oslo per il
Nobel della pace ha premiato la visione del presidente americano, assegnandogli il Nobel per la pace del
2009, forse anche per incoraggiarlo nell’avanzare, durante il suo mandato presidenziale, il processo di
denuclearizzazione del mondo. A un anno di distanza dal discorso di Praga, il presidente americano non ha
deluso le attese, segnando due grossi successi nella direzione di un mondo senza armi nucleari. Il primo è la
firma del nuovo trattato START che Obama e il premier russo Dmitrij Medvedev hanno firmato a Praga l’8
aprile 2010. Questo nuovo trattato, che prevede la riduzione dei rispettivi arsenali bellici nucleari del trenta
percento, sostituisce il primo START firmato da Mikhail Gorbaciov e George H.W. Bush nel 1991.
Il secondo successo è la partecipazione di quarantasette paesi alla conferenza sulla sicurezza nucleare
organizzata e ospitata dal presidente americano a Washington il 12 e 13 aprile 2010. Obama è soddisfatto
che la conferenza ha permesso di formulare un piano di misure concrete per porre “sotto chiave” nel giro dei
prossimi quattro anni tutto il plutonio e l’uranio altamente arricchito disseminato per il pianeta, garantendo
che tale materiale non cada nelle mani di paesi ad alto rischio o di gruppi terroristi. “A due decenni dalla
fine della Guerra fredda” ha evidenziato Obama, “ci troviamo ad affrontare una crudele ironia della storia: il
rischio di un confronto nucleare tra le nazioni è diminuito, ma il pericolo di un attacco nucleare è
aumentato”, perché se del materiale nucleare cadesse nelle mani di organizzazioni come al-Qaida, “anche
una quantità minima di plutonio, delle dimensioni di una mela, potrebbe uccidere centinaia di migliaia di
persone”. Le maggiori potenze nucleari sembrerebbero interessate, dopo la conferenza, a sostenere Obama
quando proporrà nuove misure contro l’Iran e la Corea del Nord per bloccare i loro programmi per costruire
armi atomiche.
Alcuni
osservatori americani avevano rilevato che durante gli ultimi mesi il presidente non era stato
sufficientemente presente nell’arena internazionale, e che forse era troppo distratto dai problemi interni, e in
particolare dalla sofferta approvazione della riforma sanitaria. Durante le ultime tre settimane, dalla visita a
sorpresa in Afghanistan il 28 marzo 2010, seguito dalla firma del nuovo START a Praga, e dalla conferenza
di Washington sulla sicurezza nucleare, Obama è tornato energicamente sulla scena mondiale.
Tuttavia, Obama dovrà focalizzare di nuovo tutta la sua attenzione sul fronte interno, specialmente tenendo
conto che a novembre si svolgeranno le elezioni di mid-term, con il rinnovo di tutta la Camera e di un terzo
del Senato. Secondo un sondaggio prodotto per l’Associated Press prima della conclusione del vertice sulla
sicurezza di Washington, il presidente è scivolato sotto il cinquanta percento nel gradimento degli elettori, e i
deputati e senatori democratici sono ancora più giù. Obama sicuramente si ricorderà che George Bush padre
ebbe grossi successi in politica estera, testimoniando la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione
dell’URSS e del Patto di Varsavia, e vincendo la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, ma perse le
elezioni perché l’economia Usa non girava.
Veniamo ora al caso dell’Iran. Innanzitutto, per chi se lo fosse dimenticato, è opportuno ricordare alcuni
fatti di primaria importanza per capire le relazioni con questo paese. In primo luogo, l’Iran prese parte alla
conferenza internazionale di Berlino del 2001 con la quale si definì il futuro dell’Afghanistan post-talebano.
Inoltre, dopo l’inizio dell’operazione Enduring Freedom collaborò significativamente con gli Stati Uniti
consegnando loro membri di Al-Qaeda e guerriglieri talebani catturati mentre cercavano illegamente rifugio
nel territorio iraniano.
Sfortunatamente, questi fatti furono messi volentieri da parte dall’Amministrazione Bush e dalla schiera di
“opinionisti” convinti che l’Iran fosse il più pericoloso nemico dell’Occidente. Non c’è dunque da stupirsi se,
di lì a poco, le relazioni tra i due paesi degenerarono. E quando l’Iran offrì a Washington di abbandonare il
suo programma nucleare, riconoscere Israele e ristabilire le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti in
cambio di una garanzia da parte di questi ultimi relativamente alla sua sicurezza, a Washington soffiava il
vento della vittoria (eravamo nel mese di maggio 2003 appena qualche settimana dopo il rovesciamento del
regime iracheno), e ci si illuse che l’Iran sarebbe stato il prossimo paese travolto dall’onda democratica in
Medio Oriente. Le cose sono andate diversamente, e gli unici travolti sono stati i soldati americani in Iraq.
Non dall’onda democratica, ma dall’onda di attacchi suicidi, a cui l’Iran decise di contribuire più o meno
indirettamente. Dopo due anni, con l’elezione di Ahmadinejad, l’Iran divenne definitivamente il nuovo
nemico dell’Occidente nell’immaginario collettivo (è importante ricordare a proposito che Ahmadinejad
sostituì il riformista Khatamì. Quando l’Iran era guidato da quest’ultimo, molti “esperti di Iran” ci dicevano
che Khatamì non contava nulla, perchè il potere era in mano dell’ayatollah supremo Khamenei. Quando
Ahadinejad fu eletto, di colpo in bianco gli stessi esperti di Iran iniziarono a dirci che il potere si trovava
nelle mani del Presidente della Repubblica Islamica e non più in quelle dell’ayatollah supremo).
Su Epistemes sono apparsi nel corso degli ultimi tre anni numerosi articoli nei quali spiegavamo come mai
trattare con l’Iran fosse inevitabile. Quando sui giornali italiani si discettava ancora di improbabili
bombardamenti israeliani, di fantomatiche guerre stellari, di ancora più improbabili attacchi nucleari contro
Israele, su Epistemes spiegavamo che, prima o poi, gli Stati Uniti si sarebbero trovati a dover trattare con
l’Iran per via della sua rilevanza geostrategica. Quel giorno è arrivato. Sarebbe potuto arrivare prima.
L’Iran è un paese centrale nel panorama mediorientale e centrasiatico. Le sue riserve di gas sono tra le più
grandi al mondo, mentre quelle di petrolio lo rendono il quarto produttore. Inoltre, attraverso lo Stretto di
Hormuz, che è controllato direttamente da Teheran, passa più del 40% del petrolio mondiale trasportato via
mare. Infine, l’Iran vanta una certa influenza sui gruppi sciiti iracheni, su Hezbollah in Libano e soprattutto
su alcuni gruppi in Afghanistan. Confinando sia con l’Afghanistan che con l’Iraq, è palesemente ovvio che
ogni strategia rivolta a migliorare la situazione interna a questi ultimi richieda la cooperazione di Teheran.
Quanto detto sarebbe però irrilevante se ignorassimo gli aspetti che abbiamo menzionato all’inizio di questo
articolo: la forza relativa di un paese; e la sua strategia. L’Afghanistan è sempre più instabile, e i successi
degli anni passati potrebbero presto apparire come ricordi lontani. Se ciò accadesse, si tratterebbe di una
sconfitta epocale per gli Stati Uniti: il loro status di paese più potente al mondo verrebbe inevitabilmente
compromesso; allo stesso tempo, il terrorismo riceverebbe nuova linfa da questa “vittoria”.
Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno attraversando un periodo difficile. Per via della crisi economica, le
risorse disponibili sono inevitabilmente inferiori a quelle degli ultimi anni. Inoltre, per Washington anche le
priorità sono cambiate, in quanto i problemi domestici distraggono e finiranno per distrarre molti degli sforzi
dell’amministrazione Obama. Dunque, se la situazione in Afghanistan non ha fatto che peggiorare, mentre
gli Stati Uniti si sono indeboliti sul piano internazionale, diventa chiaro che questi ultimi, da soli non
possano raggiungere alcun risultato sicuro e stabile.
La scelta che spetta ad Obama, come precedentemente illustrato, è di priorità. Gli Stati Uniti potrebbero
decidere di continuare con la politica del “non-dialogo” con l’Iran. Il costo di questa scelta sarebbe il rischio,
serio e concreto, di mettere difinitivamente in forse il futuro dell’Afghanistan. Oppure, più razionalmente, gli
Stati Uniti hanno la possibilità di mettere da parte la retorica degli ultimi anni, e chiedere l’aiuto dell’Iran.
Come aveva detto il Generale Petreus, personaggio che non può certo essere accusato di vigliaccheria, per
vincere in guerra bisogna fare compromessi. Che piaccia, o che non piaccia, questa è la politica. Questa è la
guerra.
Lo stesso identico discorso vale per i talebani. Dopo gli attacchi dell’11 settembre, si è diffusa la convinzione
che i talebani siano tutti pazzi fanatici interessati solamente ad uccidere gli occidentali. Certamente questa
caratterizzazione è vera per alcuni. Ma trattare come una verità assoluta quella che è una semplificazione
superficiale è assai rischioso. Il rischio si trova proprio nel fatto che oggi, parlare di dialogo con i talebani,
oggi, può apparire come una blasfemia. In realtà, tra quelli che vengono comunemente identificati come
talebani ci sono anche guerriglieri al soldo di signori della guerra (ossia, veri e propri “padroni” di un
territorio che si sono imposti tramite l’uso della forza); popolazioni locali che si oppongono alla presenza
americana; gruppi infiltrati dai servizi segreti pachistani, etc. Ciò non vuole dire che costoro siano brave
persone. Questo è chiaro. Ma significa che tra i talebani ci sono individui che combattono per dei fini
materiali ben chiari. Non si tratta quindi di soli pazzi fanatici. Questo è l’aspetto importante da cogliere.
Significa che parte del nemico contro il quale si combatte può essere “comprato”. Secondo un antico detto,
se non puoi sconfiggerli, alleati con loro. Questo è il principio alla base della decisione di dialogare con i
talebani. In questo gruppo eterogeneo è possibile rintracciare delle componenti con la quali, in cambio di
cocnessioni di vario genere, si possono fare compromessi.
Ovviamente questo significherà mettere in secondo piano la democrazia, i diritti umani e tutte quelle altre
belle cose che ci erano state promesse in merito all’Afghanistan. E già, pare propri che sarà così.
Nuovamente, la decisione da prendere è di priorità. Obama potrebbe decidere di tirare diritto e continuare ad
aspirare ad un Afghanistan democratico, trovandosi poi fra qualche anno in una situazione addirittura
peggiore di quella attuale. Oppure, come vuole fare, può scegliere di decidere di mettere da parte per il
momento i sogni riguardo la democrazia e i diritti umani, ma garantire, in cambio, la stabilità
dell’Afghanistan.
DOMANDE: ha senso rimanere a combattere in iraq anche ora che saddam è stato giustiziato e le
armi di distruzioni di massa non si trovano?