PDF: Materiali Forum 4.4.2014

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PDF: Materiali Forum 4.4.2014
Forum sulle Politiche abitative
CONFEDERAZIONE
GENERALE
ITALIANA
DEL LAVORO
Materiali della riunione del 3 aprile 2014
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Nota introduttiva
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Relazione
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Elementi emersi nella discussione
4
Sintesi degli interventi
5
Contributi pervenuti
6
Come proseguire
1.
Nota introduttiva
A seguito del primo incontro del Forum sulle Politiche abitative, che si è tenuto il 3 aprile
2014 e che ha visto la partecipazione delle nostre strutture ed il contributo di esperti del
settore, ritengo utile trasmettere alcuni materiali che possono costituire l'avvio di una
discussione tra i partecipanti.
Ho riportato integralmente la relazione introduttiva, i contributi di alcuni esperti che sono
intervenuti e di altri che non hanno partecipato per impegni sopraggiunti.
Come indicato nella parte conclusiva, proporrò in seguito un'ipotesi di traccia di lavoro per
il prossimo appuntamento, auspicando un lavoro comune.
Fidando sulla vostra partecipazione attiva, avvieremo una riflessione su alcuni punti tra
quelli segnalati: il tema dell'edilizia sociale e le politiche attinenti la riqualificazione e la
rigenerazione, evidenziando le peculiarità; i contenuti del nuovo accordo di partenariato, le
funzioni del CIPU e, più in generale, la declinazione delle politiche europee rivolte alla
città, rispetto ai temi che stiamo affrontando.
Con l'impegno di avvisarvi per tempo, la prossima riunione sarà indetta entro la prima
settimana di giugno
Sulla base della proposta della CGIL, sono stati invitati come esperti ed hanno dato l'adesione al forum:
Mauro Baioni, Paolo Berdini, Fabio Coronas, Gianfranco Coronas, Tommaso Dal Bosco, Vezio De Lucia,
Roberto Fabbri, Claudio Falasca, Carmela Giannino, Antonio Larocca, Alessandro Leon, Silvia Lucciarini,
Francesco Monaco, Alessandro Montebugnoli, Michele Munafò, Maria Teresa Palleschi, Stefano Sampaolo,
Giancarlo Storto, Walter Tocci, Silvia Viviani, Edoardo Zanchini.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
2.
Relazione - Laura Mariani
Il tema delle politiche abitative è un tema oggi, indiscutibilmente, di rinnovato dibattito, ri spetto al quale la CGIL conferma un interesse rilevato anche nelle discussioni rinvenute
nei territori.
E' del tutto evidente che la fase attuale si caratterizza per un peggioramento della questione abitativa che la crisi ha fortemente acuito, estendendo la vulnerabilità anche a fasce di popolazione tipicamente non coinvolte da questo tipo di problemi, sia in forma tem poranea che prolungata nel tempo.
Nell'ottobre scorso la CGIL ha promosso una Campagna nazionale sulla Casa e l'Abitare, condivisa con SPI, FILLEA, SUNIA e Federconsumatori, consapevoli della necessità
che debba essere affrontata non solo l'emergenza, ma anche i tanti nodi strutturali che
condizionano negativamente il settore, e consapevoli anche che oggi ci troviamo di fronte
a scenari profondamente mutati rispetto al passato, che implicano nuove letture dei fenomeni e nuove modalità di intervento, in grado di fornire risposte ai nuovi bisogni abitativi,
alla necessità di più ampia inclusione sociale, di maggiore sostenibilità in termini di qualità
e costi. Modalità che possono costituire una grande opportunità di sviluppo e lavoro.
Nell'analisi siamo partiti dai bisogni, dalla connotazione attuale del disagio abitativo, cercando di individuare le categorie che si sono aggiunte a quelle tradizionali e più facilmente
censibili con requisiti per un alloggio pubblico, esprimendo una domanda di abitazioni incompatibile con i livelli del mercato privato, caratterizzate da determinate condizioni di red dito e vulnerabilità, legate a particolari dinamiche che concorrono a definire il problema
abitativo oggi: modificazioni demografiche, del tessuto sociale, economiche più generali.
Abbiamo individuato alcune azioni da rivendicare e portare anche nella contrattazione territoriale che vede il sindacato impegnato con gli enti locali:
■ la riqualificazione del patrimonio esistente, che rappresenta una priorità in relazione
non soltanto alla necessità di rigenerare parti urbani degradate, ma anche di recupero di
singoli edifici con la messa in sicurezza e l'adeguamento funzionale ed energetico, potendo in questo modo agire anche in direzione di aumentare l'offerta abitativa e permettendo di rispondere a quote di domanda. Un’operazione di questo tipo rappresenterebbe
una grande opportunità di ripresa da una crisi che ha fatto perdere 750mila posti lavoro ed
in cui nuovi modelli costruttivi, riorganizzazione del sistema imprenditoriale e
specializzazione delle imprese e dei lavoratori, può diventare un’opportunità per la ristrutturazione del sistema industriale delle costruzioni.
■ una fiscalità immobiliare con caratteri di maggiore equità, che sia orientata in modo da
diventare anche strumento di politica abitativa.
■ l'aumento dell'offerta di alloggi in affitto a canoni sostenibili, sia agendo sul mercato, settore nel quale è urgente la revisione della 431/98 e sono necessarie misure fiscali
che incentivino l'immissione di alloggi sfitti e l'utilizzo di contratti a costi calmierati, sia sviluppando l'edilizia sociale, in una prospettiva che ha trovato esperienze e diffusione negli
altri paesi europei. Con il presupposto che questa è qualcosa di diverso dall’edilizia pubblica: gli interventi hanno natura differente (si prevede il coinvolgimento di risorse private e la
possibilità di realizzare alloggi per la vendita ad integrazione dell’intervento di realizzazione degli alloggi in locazione); differenti sono gli strumenti operativi (utilizza principalmente
aree acquisite consensualmente o aree pubbliche disponibili per la trasformazione urbanistica); sostituisce il modello dei quartieri interamente costituiti da ERP con residenze
sociali integrate all’interno di tessuti socialmente misti; le abitazioni prevedono un’artico lazione del canone legato alle condizioni reddituali e alla durata della locazione e non
esclusivamente il canone sociale previsto nell'edilizia pubblica. La realizzazione, attraverso nuove opportunità di rapporto pubblico/privato, ha conseguenti connessioni con le poli-
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tiche fiscali ed urbanistiche. Certamente negli interventi si pone la necessità che i proces si, volti prioritariamente alla riqualificazione di edifici, spazi urbani degradati o inutilizzati,
aree dismesse, periferie, non agiscano nella direzione di favorire la rendita immobiliare e
contrastino ulteriore espansione e consumo di suolo.
■ un ruolo programmatorio più inciso a livello centrale, stante la necessità che lo
Stato detti indirizzi, programmi e obiettivi prioritari, anche in relazione a misure economiche e sociali che vengono definite. Con questa finalità abbiamo inoltre rilevato la necessità
di impegnarci nel monitorare l’utilizzazione di fondi già stanziati: le risorse del Piano di
edilizia abitativa, del Fondo Investimenti per l'Abitare gestito da CDPI Sgr., i fondi GESCAL
che ancora giacciono come residui di alcune Regioni presso la CDP. Accanto a questi i
fondi europei destinati all'efficientamento energetico del patrimonio edilizio e quelli che nella programmazione 2014-2020 possono essere indirizzati all'intervento sulle città e sulla
condizione urbana, compresa la riqualificazione fisica e sociale. Mi riferisco, in particolare,
al PON “Città metropolitane” e agli interventi per le città che saranno previsti dai POR.
Oggi la CGIL promuove questo Forum, che fa riferimento ai temi della Campagna e che
vuole aprire un confronto, con contributi ed approfondimenti di esperti del settore, ritenendo che in questa fase rivesta una forte utilità. I “numeri” che danno il senso e la dimensione del problema sono, infatti, sempre più preoccupanti.
Bankitalia rileva nel 2012 un calo del reddito familiare (7,3%), un aumento delle famiglie
che percepiscono un reddito inferiore a quello medio (58%); una diminuzione della ricchezza media (6,9%); una crescita degli individui in “povertà relativa” (14,1%), delle famiglie in situazione di disagio economico (22%) e di quelle in cui questo è connesso con una
spesa per l'abitazione superiore al 30% del reddito (10%): il Ministero delle Infrastrutture
ha diffuso il dato di circa 2,5 milioni di famiglie per le quali l'incidenza supera la soglia critica del 40%, la CGIL stima che queste abbiano raggiunto i 3 milioni.
Aumentano quindi le famiglie, in cui uno o più componenti lavorano, che vivono in situazione di forte fragilità economica. L''università Cattolica di Milano ha stimato in 13-15 milioni le famiglie che nei prossimi anni disporranno di un reddito mensile di circa 1.500 euro al
mese, inserite quindi in una sorta di cuscinetto sociale al di sotto della media dei redditi
dei cittadini italiani e al di sopra della soglia di povertà.
Un parametro del disagio deriva dai dati su sfratti e pignoramenti: negli ultimi cinque anni
quasi 150mila famiglie hanno perso la propria abitazione in proprietà o in affitto a causa di
morosità sfociate in pignoramenti o in esecuzione di provvedimenti di sfratto.
E' di pochi giorni fa la notizia diffusa dall'Istat di 7 milioni di pensionati che percepiscono
meno di 1000 euro mensili e dei 7 milioni di giovani che vivono nella famiglia d'origine.
In questo quadro le azioni messe in campo negli ultimi anni dai Governi che si sono
succeduti, sono risultate gravemente carenti di strategie convincenti.
Al contrario, appare non più rinviabile, una rilettura complessiva della problematica,
contestualizzata con riferimento alle competenze dei soggetti istituzionali circa la programmazione e l'attivazione degli interventi, al complesso nodo del rapporto pubblico privato,
che nell'edilizia sociale deve trovare forme innovative di dialogo e sintesi, e più in generale
alle problematiche urbane di cui l'edilizia sociale è componente essenziale.
Perché l’intervento pubblico, già indebolito nel corso degli ultimi decenni da un progressivo disinvestimento dello Stato, è apparso in tutta la sua debolezza di fronte a una situa zione di forte ampliamento della domanda, evidenziando le criticità di un settore privo di
una programmazione dal 1998, dopo il definitivo esaurimento del Piano decennale, data
dopo la quale le poche risorse disponibili sono derivate più dal recupero di finanziamenti
non utilizzati in precedenti programmi che da nuovi stanziamenti. L’ultimo provvedimento
di un accettabile contenuto è la legge 21 del 2001 (sul disagio abitativo) e, dall’inizio degli
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anni Duemila in poi, soltanto interventi legislativi occasionali.
Anche il recente decreto predisposto dal ministro Lupi, prevede una sommatoria di misure che dovrebbero far superare alcune criticità, con elementi positivi (riduzione dal 15 al
10% della cedolare secca sugli affitti a canone concordato, piano di recupero e manutenzione degli alloggi ex Iacp, incremento dei fondi dedicati al sostegno per locazioni alle fa sce più deboli), ma altri di segno opposto, quali l’incentivazione ad una ulteriore dismissione dell’edilizia residenziale pubblica e, nell'ambito dei quello che viene definito sviluppo
dell'edilizia sociale, una generalizzata possibilità di poter ricorrere ai patti di futura vendita,
dopo solo 7 anni, per i locatari degli alloggi sociali, rendendo di fatto del tutto residuale la
locazione permanente che, dell’edilizia sociale, rappresenta la componente più rilevante
per incrementare il comparto dell’affitto.
In definitiva alla crisi non si risponde.
Peraltro fuori dal Governo i partiti, anche le stesse parti sociali, mostrano un interesse
marginale nel trattare il problema casa, che non è quasi mai presente nei programmi politici, e semmai lo è solo per questioni emergenziali.
E' indispensabile una corretta ricollocazione della “nuova questione abitativa” che affronti in modo organico la complessità delle problematiche. Noi riteniamo che condizione
indispensabile sia il superamento della tradizionale scissione tra politiche abitative e
politiche urbane, che nel passato ha avuto qualche giustificazione, pur essendo causa di
forti contraddizioni, ma oggi, se non superata, porterebbe all'impossibilità di dare soluzioni.
Infatti, fino agli anni Novanta, le città configuravano due modalità di accrescimento: da un
lato la città privata che perseguiva un modello di sviluppo legato alla logica del libero
mercato, si sostanziava in una forte crescita edilizia, tipica della fase espansiva, con massicce utilizzazioni di suolo agricolo e un accrescimento concentrico della rendita differenziale a favore delle zone di maggior pregio con effetti nell'uso squilibrato della città, producendo forti distorsioni solo parzialmente attenuate dagli effetti dal decreto sugli standard,
forse la più rilevante conquista degli anni 60 e di tutta l'urbanistica riformista.
Dall'altra la città pubblica che si identificava nei piani di zona 167, che la legge 10/77 prevedeva nella misura minima del 40% in tutti i comuni con popolazione superiore ai 20mila
abitanti. Lo strumento era l'esproprio che ha reso gli interventi possibili a costi accessibili,
ed i finanziamenti erano costanti e di rilevanza significativa, 3500 mld di lire annui per circa
venti anni. Certamente alcune contraddizioni rimanevano, tra cui la realizzazione di periferie urbane marginali particolarmente consistenti nelle grandi città.
Questo modello, che ha tuttavia prodotto anche qualche risultato positivo, consentendo
l'accesso all'abitazione a larghi strati di popolazione (attualmente la percentuale di alloggi
in proprietà ha raggiunto il 70%), oggi è andato in crisi fino, di fatto, ad esaurirsi.
Innanzitutto mancano i finanziamenti pubblici con cadenza certa ed entità rilevante, le pro cedure di esproprio diventano sempre più difficoltose per i costi ed i contenziosi, ed in ogni
caso verrebbe confermato un modello di nuova urbanizzazione e nuove periferie in aggiunta a quelle già presenti per le quali i problemi di integrazioni sono considerevoli. Que sto in contrasto con una accresciuta coscienza sul contenimento dell'uso del suolo.
Nella città privata emergono le contraddizioni presenti nel passato, oggi acuite dalla crisi.
L'impoverimento economico crescente che impedisce l'erogazione dei servizi occorrenti,
insieme ad una incapacità di governare la complessità dei processi della ristrutturazione
urbanistica, hanno portato le amministrazioni comunali a ricercare accordi con operatori
privati, spesso rinunciando ad essere protagonisti di contenuti e obiettivi delle trasformazioni stesse. Che sono avvenute, generalmente su proposta di privati, dove era garantito
un profitto legato alla valorizzazione della rendita di posizione, raramente in zone marginali
o periferiche.
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I Comuni, peraltro, in conseguenza alla scarsità di risorse rese disponibili dai bilanci locali,
hanno proceduto con premialità urbanistiche o fiscali, ad incentivare sia le trasformazioni a
cui i privati risultavano interessati, sia edilizia aggiuntiva con l'obiettivo di ottenere la
realizzazione di opere utili alla collettività altrimenti prive di finanziamenti. Una rinuncia
quindi a forme di condizionamento dei meccanismi del libero mercato motivati dall'affidare
ai privati quanto il pubblico non riusciva a fornire in termini di servizi e infrastrutture.
In questo contesto la domanda debole non ha trovato risposta e oggi viviamo una fase
regressiva in cui il problema abitativo tende ad acuirsi. La domanda è sempre meno solvibile, non c'è il paracadute degli alloggi pubblici, né di un sostegno all'acquisto che, attraverso l'edilizia agevolata, aveva portato ad incrementare la proprietà a costi accessibili.
La situazione assume caratteri di forte criticità, e anche se gli obiettivi parzialmente raggiunti dalle politiche passate hanno ristretto il problema dal punto di vista quantitativo, tende a consolidarsi un fabbisogno aggiuntivo, non solo marginale, legato a nuove dinamiche:
dal 2000 al 2010 il CRESME rileva un incremento delle famiglie italiane e straniere pari a
300mila nuovi nuclei all'anno tra il saldo di quelle che nascono e quelle che si estinguono
(erano 128mila negli anni '80). Ad un aumento dei nuclei familiari (+12,8% in un decennio)
ha corrisposto una diminuzione del numero medio dei componenti (2,4) ed un aumento dei
nuclei unipersonali, monogenitoriali, monoreddito.
E' evidente la necessità di riaffermare una politica centrale e locale.
Lo Stato, come già detto, dal 1998, anno di chiusura dei fondi Gescal, si è sottratto a finanziare il settore pubblico e il decreto Lupi ha contenuti allarmanti circa la vendita del patrimonio di ERP senza un piano di rilancio dell'intervento pubblico (oltre 600mila domande
di famiglie aventi diritto sono inevase da Comuni ed ex IACP). Un comportamento dello
Stato che si sente in dovere di non esprimere politiche è sbagliato e disattende il titolo V
della Costituzione laddove (art. 117) si afferma che lo Stato ha legislazione esclusiva nella
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, tra i quali, pur non citandola espressamente, rientra certamente l'abitazione come una componente essenziale.
Le Regioni, che hanno avuto competenza con il D.L. 112/98, non hanno messo in campo
una politica abitativa, al massimo riorganizzando compiti e funzioni, avendo interesse a
definire nuovi assetti per gli IACP. Meno ci si è posti il problema di come e quanto destinare come finanziamenti per l'edilizia sociale.
I Comuni a loro volta sono stati lasciati soli e quindi si assiste oggi ad alcune esperienze
pur significative ma quasi sempre a carattere estemporaneo (quota di edilizia sociale nei
piani regolatori, garanzie per i pagamento dell'affitto a chi immette alloggi a canoni convenzionati, tutela per i proprietari dal rischio morosità, alcuni programmi di trasformazione
urbana significativi che prevedono quote di alloggi pubblici).
Non c'è dubbio che non si può delineare una politica né una risposta significativa su iniziativa delle autonomie locali, in grado di attivare solo interventi sporadici. Al contrario c'è bisogno di una visione strategica: non si tratta di riproporre sic e sempliciter finanziamenti
per ERP, ma di trovare politiche che riescano a dare risposte ai vari segmenti in cui è articolata la domanda.
A fronte di un modello che, come detto, è profondamente mutato, oggi l'alternativa non
può che risultare molto più articolata e costituita da una pluralità di possibili interventi.
Su questi temi, cui si è fatto solo cenno, l'obiettivo di questo forum è aprire una riflessione ampia, facendo convergere approfondimenti sulle diverse tematiche e confronti
inclusivi di esperienze e buone pratiche.
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Elementi emersi nella discussione
Nel portare a sintesi i contenuti emersi nel corso degli interventi, alcuni aspetti possono
considerarsi condivisi. Innanzitutto la constatazione che, nella fase attuale, si riscontra una
forte carenza di sedi in cui confrontare e prospettare soluzione ai temi delle politiche abitative ed urbane e, quindi, è stata ritenuta positiva la promozione del forum per gli obiettivi
che intende perseguire.
E' stata condivisa inoltre l'analisi proposta e l'impostazione dell'oggetto del confronto che
ha in qualche modo evidenziato l'insieme delle problematiche di cui si deve tener conto.
Dagli interventi sono pervenuti utili contributi, i cui punti principali sono di seguito riportati.
Sulla domanda:
è importante capire come si riformula il problema casa in questo momento di profonda crisi
economica, in cui molti aspetti importanti convergono in uno scenario di accresciuta complessità. Bisogna considerare alcuni nuovi fenomeni:
■ l'impoverimento sempre più accentuato del ceto medio, che vede progressivamente diminuire il potere d'acquisto;
■ la difficoltà economica dei giovani legata a problemi lavorativi, salari decrescenti e contratti sempre più temporalmente limitati se non irregolari;
■ la frammentazione familiare che caratterizza la società, con nuclei numericamente ridotti
nel tempo e abitazioni sovradimensionate rispetto alle esigenze, tenuto conto anche di
mutamenti sociali che interessano i nuclei familiari (persone che vivono sole, divorziati, se parati, ecc.);
■ l'invecchiamento progressivo della popolazione, con conseguenze nelle capacità reddituali;
■ l'accrescimento della popolazione residente nelle grandi aree metropolitane nell'ultimo
decennio, con una componente rilevante dovuta all'immigrazione, e conseguente dispersione in territori progressivamente urbanizzati.
Sulle competenze:
si avverte la mancanza di una sede istituzionale in cui si definiscano obiettivi nazionali.
Molte amministrazioni sperimentano nuove politiche, ma resta la carenza di una strategia
unitaria:
■ non è ammissibile che lo Stato si ritragga da un impegno nel settore, diversamente da
come avviene nei Paesi dell'Europa occidentale; occorre ristabilire un impegno sia di definizione di strategie che, soprattutto, di stanziamento delle risorse occorrenti.
■ manca in Italia un Ministero per le politiche urbane e la recente istituzione del Comitato
Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU) ha prospettive tutt'altro che definite, non
sembrando scontata la sua stessa sopravvivenza;
■ è tutt'ora assente una normativa nazionale concernente contenuti e finalità dei processi
di rigenerazione, in assenza della quale i grandi Comuni risultano non attrezzati per con frontarsi con tale problematica.
Sul mercato:
in assenza di politiche efficaci con predefiniti obiettivi, il mercato ha dato delle risposte incoerenti e contraddittorie, di cui allo stato attuale si pagano le conseguenze:
■ lo svuotamento delle città, il degrado dei centri storici, le terze o quarte cinture, le ultra6
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periferie, che hanno investito i Comuni capoluoghi e quelli della prima e seconda cintura
delle grandi aree urbane;
■ i fenomeni di espulsione dei ceti meno abbienti in zone esterne, dovuti in particolare ad
operazioni di trasformazione urbanistica appannaggio di ceti medio alti;
■ la diminuzione dei valori immobiliari, a meno delle aree pregiate, mediamente dal 20% al
40%, portando ad un impoverimento patrimoniale familiare, non compensato da misure di
welfare.
Sulla rendita:
l'urbanistica contrattata ha esaltato la rendita all'interno della città costruita, modalità oggi
sempre più portatrice di effetti negativi:
■ si pone il problema di assoluta rilevanza, di individuare gli strumenti pubblici al fine di re distribuire le plusvalenze dovute alla rendita, a beneficio della collettività;
■ appare necessario approfondire forme più idonee per contrastare la rendita differenziale,
dove ne venga accertato un alto gradiente nella distribuzione dei valori, utilizzando, a titolo
esemplificativo, la fiscalità, la differenziazione negli oneri concessori, la tassazione immo biliare.
Sulla produzione edilizia:
il precedente ciclo edilizio ha portato ad una produzione, oltre che di entità rilevante, non
rispondente alle reali esigenze della domanda:
■ occorre che il settore si misuri con l'attuale crisi dell'edilizia che ha comportato una forte
contrazione dell'occupazione e del numero di imprese;
■ è necessario praticare in modo convincente politiche in grado di contenere il consumo
del suolo, attraverso la definizione di target a livello nazionale, regionale e comunale, utilizzando la leva economica e finanziaria, individuando incentivi finanziari e meccanismi
sanzionatori; misure che possano indirizzare alla rigenerazione urbana ed al riuso degli
edifici esistenti e delle aree dismesse.
Sulla connessione tra politiche abitative e politiche urbane:
le politiche abitative non devono risultare politiche settoriali, ma diventare parte integrante
di quelle urbane, eventualmente dei sistemi territoriali o degli ambiti di area vasta (provin ciali o anche regionali);
■ occorre invertire il meccanismo perseguito dagli enti locali che, non soltanto hanno trascurato il protagonismo nelle politiche abitative, ma hanno rinunciato ad un ruolo di regia
nelle trasformazioni territoriali, accettando di contrattare le modalità di trasformazione in
cambio di servizi che i bilanci comunali non riuscivano a realizzare, comportamento questo
che accentuato negli anni della crisi;
■ nelle politiche urbane bisogna chiarire il significato ed i contenuti della rigenerazione ur bana, contrastando operazioni di demolizione e ricostruzione con aumenti di volumetria,
che vengono erroneamente annoverati tra gli interventi di riqualificazione.
Sull'edilizia sociale in relazione alle trasformazioni urbane:
diventa prioritario individuare le modalità per realizzare edilizia sociale:
■ è indispensabile precisare cosa debba intendersi per edilizia sociale (il decreto Lupi ne
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riduce fortemente il significato e l'efficacia, prevedendo la possibilità di alienazione dopo
solo sette anni);
■ l'edilizia sociale deve diventare componente fondamentale delle trasformazioni urbanistiche.
Sulle risorse:
Il problema delle risorse non è solo nella loro disponibilità, ma anche nell'utilizzo:
■ bisogna ipotizzare il reperimento di nuove risorse, facendo riferimento alla fiscalità
generale, ed imporre una priorità nell'utilizzo delle risorse disponibili a favore delle città, in
alternativa a i programmi riguardanti le grandi opere;
■ le risorse devono essere orientate ad una riqualificazione sostenibile delle città, attenta
alle ricadute economiche, ambientali e sociali, privilegiando l'edilizia sociale ed il recupero
del patrimonio pubblico (da non dismettere per assicurare entrate aggiuntive nei bilanci
pubblici);
■ sono evidenti, quale conseguenza di tale impostazione, le ricadute positive nell'occupazione, sia quantitativa che qualitativa, potendo agire in direzione di una riattivazione del
mercato basato su esigenze reali, favorendo anche la formazione di figure professionali
specialistiche.
Sulla contrattazione territoriale:
cambiano le richieste di lavoratori e pensionati, legate a mutate condizioni reddituali, che
si traducono in difficoltà nel sostenere i costi abitativi e le politiche abitative sono
maggiormente presenti nella contrattazione sociale territoriale rispetto al passato:
■ occorre attivare sinergie, per aprire nei territori una discussione sui temi abitativi, ed
promuovere tavoli specifici, rimanendo spesso difficile interloquire con i Comuni che si
trovano a misurarsi con forti emergenze e scarsità di risorse;
■ un aspetto importante è sul versante culturale, nella discussione con gli Enti locali, dove
è necessario modificare, all'interno del dibattito, il punto di vista che considera aspetto
marginale l'edilizia sociale;
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Sintesi dei contributi (nell'ordine di intervento)
Carmela Giannino
In Italia la percentuale di proprietari di case è molto elevata: oltre l‟ 80% delle famiglie
possiede la casa in cui vive e le famiglie in affitto sono in continuo calo negli ultimi anni.
Questo dato distanzia l‟Italia dalla maggioranza degli altri paesi europei. La questione abitativa assume poi contorni più gravi nelle aree metropolitane. In esse il tema dell’emergenza abitativa si associa alla questione della qualità dell’abitare, intesa come qualità della
produzione edilizia e come integrazione tra politiche abitative e il più generale governo del
territorio.
Tutto questo a fronte di un rilevante patrimonio urbano abitativo “sommerso” inutilizzato o
utilizzato tramite affitti in nero, e di una disponibilità di nuovi alloggi derivante dalla trasformazione e dal risanamento di immobili già esistenti, dismessi o inutilizzati potenzialmente
destinati a divenire luoghi di degrado urbano.
Le aree urbane rappresentano dunque un fattore strategico per la crescita e la competitività del Paese, ma solo a patto di riuscire a conseguire una diffusa qualità della vita, intesa
come valorizzazione del territorio, dell’edificato, qualità delle relazioni, accessibilità dei luo ghi, integrazione sociale.
Se si analizza il patrimonio edilizio esistente, come rilevato dal Cresme, emerge che dei
circa 59 milioni di abitazioni censite al Catasto, ben 10 milioni sono state realizzate tra il
1946 e il 1971 e gli edifici con più di 40 anni di età arrivano al 50% nelle grandi città. Inol tre gli edifici realizzati prima del 1976, data di entrata in vigore dei primi provvedimenti
sull'efficienza energetica, sono circa il 65%.
Il patrimonio edilizio esistente può dunque rappresentare una grande risorsa, oggi mal utilizzata, che richiede un recupero di qualità e di funzionalità con particolare attenzione alla
necessità di dare risposta alla domanda abitativa nell’ottica del risparmio energetico e del
contenimento del consumo di suolo.
Ma tale patrimonio può costituire una risorsa solo se le politiche abitative si considerano
integrate alle politiche urbane e se si riesce ad individuare lo strumento o il luogo nel quale
potersi confrontare a livello nazionale e poi anche locale e attraverso il quale definire una
strategia nazionale per le città.
Un elemento importante di innovazione è stato l’istituzione nel 2012 del Comitato Intermi nisteriale per le Politiche Urbane (CIPU) .
Il CIPU doveva costituire il luogo di programmazione e confronto per le politiche urbane,
ma l'idea iniziale non è andata avanti, gli sviluppi a livello politico non sono stati quelli pre posti. Oggi assistiamo alla messa in atto di politiche settoriali che sembrano non avere una
strategia di fondo. Da un lato le amministrazioni centrali quali ad esempio i Ministeri delle
Infrastrutture, della Ricerca, dell’Ambiente perseguono politiche per la riqualificazione urbana, sull’efficientamento energetico o sul tema della smart city, dall’altro le stesse politiche mancano di una cornice programmatica che le renda integrate tra loro.
La stessa programmazione comunitaria 2014-2020, che privilegia un opzione strategica
sulle città, a cui destina risorse importanti, prevede interventi che per essere ancor più effi caci e aggiuntivi necessitano del coordinamento con le politiche ordinarie sulle città. La
programmazione comunitaria, così come espressa dall’Accordo di partenariato e dai programmi operativi regionali in corso di definizione, appare deludente. Si privilegiano interventi per l'innovazione meno incentrati sulla rigenerazione urbana e sulla riqualificazione
fisica di parti di città che necessitano invece soprattutto di interventi in questa direzione.
Questo gruppo dovrebbe portare all'attenzione altre necessità e altri bisogni.
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Stefano Sampaolo
E' importante capire come si riformula il problema casa in questo momento.
Sono tra quelli che pensano che il problema esisteva già quando il ciclo edilizio era mon tante, perché alcune contraddizioni erano già evidentissime. Oggi c'è in più, a condizionare il dibattito sulla casa, l'esplosione di almeno tre fenomeni in parte nuovi: in primo luogo
l'impoverimento del ceto medio in forme molto più accentuate che in passato; in secondo
luogo, anche in parte in conseguenza di tale fattore, la fortissima crisi dell'edilizia, un settore che faceva un pezzo importante di Pil.
Questo significa che ogni governo affrontando il tema casa cerca anche di risollevare un
settore economico importante (si costruivano più di 300mila abitazioni, forse il 2013 si
chiude con 60mila abitazioni); terzo la (apparentemente) diffusa consapevolezza degli
impatti negativi di quella fase espansiva sul territorio (in termini di consumo di suolo, bassa
qualità urbana, mobilità). Tanto che oggi tutti parlano di consumo di suolo zero, con il
rischio che certe parole rimangano slogan del momento, su cui teoricamente siamo tutti
d'accordo, ma prescindendo poi dalla concretezza delle questioni.
Certo non possiamo parlare di politiche della casa senza pensare ai sistemi urbani, perché in questi anni, in assenza di politiche abitative efficaci e coerenti, la società, il mercato
hanno cercato e dato delle risposte, incoerenti, contraddittorie, ma le hanno date, e proprio a questa scala: basti pensare alla crescita delle terze o quarte cinture urbane, dove
l’offerta abitativa era più accessibile, nonché di alcuni centri ultraperiferici (vedi per esempio il piccolo comune isolato che si ripopola di rumeni e albanesi).
Questo significa che oggi dobbiamo pensare la città come è realmente, come grande sistema regionale in cui spesso i più poveri sono stati mandati molto lontano, le funzioni
meno pregiate sono state estromesse all'esterno, mentre nella città consolidata, si è riusciti a realizzare alcune operazioni di rinnovo urbano, con i nuovi contenitori culturali, l’archi tettura di qualità, gli spazi pubblici rigenerati, ecc di cui hanno però beneficiato perlopiù i
ceti medio-alti.
Tornando all'edilizia, che è un pezzo importante dell’economia e dell’occupazione di questo Paese, non è pensabile si ripeta un ciclo di quel tipo. Dobbiamo lavorare invece affin ché si avvi un ciclo nuovo, diverso, magari più modesto nei numeri, ma di più lunga durata
e più coerente con le vere domande della società.
Pensiamo a come la domanda di abitazioni sia legata ad una società sempre più
frammentata. Ricordiamo che nel ‘71 una famiglia era composta da 3,7 persone, quasi 4
persone, e una casa occupata al censimento era fatta da circa 3,5 stanze. Oggi abbiamo
più di 4 stanze, ma la famiglia è composta da 2,4 persone, al nord siamo spesso sotto i 2
componenti in media.
Allora affrontare il problema della casa significa anche tentare di utilizzare meglio quello
che si è già costruito. Come riutilizziamo in modo intelligente il patrimonio edilizio tendo
conto che questo fenomeno di frammentazione della società non si fermerà? Perché è
evidente che anche se sono arrivati 4,5 milioni di stranieri che fanno famiglia e figli più di
noi, questo fenomeno di frammentazione è nelle cose per tanti motivi. Basti pensare ai 7
milioni di persone che vivono da sole, all'allungamento della speranza di vita, a
separazioni e divorzi ecc.
Questo per dire che se è utile - e penso che lo sia - un approfondimento critico su questi
temi anche come interlocuzione con le proposte più o meno disorganiche che vengono
dal Governo, è importante tentare di guardarci dentro, per cercare di capire quali sono
realmente le strade per dare risposte efficaci anche al di la delle formule tradizionali.
Non ci possiamo cioè accontentare di slogan che sostanzialmente vanno bene a tutti, ma
dobbiamo entrare nel merito delle questioni e delle risposte che si possono dare.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Michele Munafò
Il suolo, con le sue molteplici valenze economiche, ambientali, sociali, culturali, è una risorsa sostanzialmente non rinnovabile a causa del lunghissimo tempo di formazione e ripristino naturale. E’ la piattaforma sulla quale si è sviluppata la società umana che ci fornisce cibo, biomassa e materie prime; è un elemento del paesaggio e del patrimonio culturale e svolge un ruolo fondamentale come habitat e come riserva di patrimonio genetico.
La crescita delle città, delle aree urbanizzate e delle infrastrutture in Italia negli ultimi anni
ha “invaso” le aree naturali e agricole fino a coprire una superficie complessiva di quasi
22.000 chilometri quadrati, pari al 7,3% del nostro territorio al 2012 (dati ISPRA) compro mettendo i servizi ecosistemici forniti dal suolo in condizioni naturali, contribuendo alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, comportando un rischio accresciuto di
inondazioni, contribuendo al riscaldamento globale, minacciando la biodiversità.
È per questi motivi che è fondamentale considerare le ricadute ambientali delle trasformazioni territoriali e delle politiche urbane e abitative, passando dall’enunciazione dell’obietti vo dell’azzeramento del consumo di suolo (spesso utilizzato come un semplice slogan) a
politiche ed azioni concrete per ridurre gli effetti negativi del consumo di suolo e, in partico lare, della sua forma più evidente e irreversibile: l'impermeabilizzazione.
Esistono varie strategie, come le restrizioni allo sviluppo urbano nelle aree agricole e naturali e la limitazione del consumo di suolo attraverso la definizione di target realistici a livello
nazionale, regionale e comunale, le principali indicate a livello europeo, che possono indirizzare, di conseguenza, verso la rigenerazione urbana ed il riuso di aree dismesse. Ma
non basta, deve essere utilizzata anche una leva economica e finanziaria, non semplicemente legata a un aumento degli oneri di urbanizzazione, ma in grado di eliminare la convenienza dello sviluppo urbano ed edilizio su aree non impermeabilizzate, sia di chi costruisce, sia dei Comuni. Non basta tornare alla Bucalossi, evitando che gli oneri siano utilizzati per ripianare i bilanci comunali, cosa necessaria ma non sufficiente.
Dobbiamo individuare un sistema di incentivazione e di sanzioni verso chi ha realmente il
compito di governare e di tutelare il nostro territorio: i Comuni. Bisognerebbe cioè assicu rare, da un lato incentivi finanziari (come i sussidi per lo sviluppo di siti in zone contaminate) e, dall’altro, meccanismi sanzionatori nei confronti dei comuni che consumano nuovo
suolo da attivare nel caso in cui i limiti previsti a livello regionale e comunale non fossero
rispettati, tagliando i finanziamenti, agendo sul patto di stabilità, o in altro modo.
Ma anche incentivi per l’affitto e per aumentare il tasso di occupazione o la realizzazione
di censimenti degli edifici non utilizzati, sono elementi che potrebbero essere considerati in
una logica di definizione di misure utili a tutelare il suolo e che potrebbero rientrare tra i
possibili emendamenti al disegno di legge sul consumo di suolo, attualmente alla Camera,
che potrebbe vedere la luce in tempi brevi.
Alessandro Leon
Le politiche per l’abitazione sono un tema multidisciplinare, oggetto di un dibattito abbastanza continuativo tra urbanisti, architetti, ambientalisti, storici dell’arte, archeologici ed
economisti. Negli ultimi anni, mentre in ambito urbanistico, culturale ed ambientale il dibat tito si è caratterizzato soprattutto per alcune conseguenze prodotte da una politica speditiva dei nuovi insediamenti residenziali (e non) in area urbana come il consumo di suolo,
l’inquinamento o il piano casa, in ambito economico invece, dopo il fallimento delle cartolarizzazioni e dei tentativi di (s)vendere il patrimonio pubblico demaniale, il dibattito si è rarefatto, persino taluni aspetti più specifici che attengono il finanziamento degli enti locali
(compensazioni, perequazioni, ecc.) sono stati terreno di discussione tra gli economisti più
nell’ambito della spending review e prima del federalismo fiscale che in quello dell’econo mia urbana.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Una riflessione multidisciplinare si rende necessaria per cercare di elaborare i vari fattori di
origine urbanistica, economica, finanziaria, storica, ambientale al fine di giungere ad una
interpretazione condivisa della situazione corrente, all’elaborazione di uno scenario futuro
del settore della casa ed eventualmente ad una politica dell’abitazione sociale comune.
Sull'analisi esiste un’ampia convergenza: la crisi economica è purtroppo profonda e durerà
ancora a lungo; l'indebolimento della classe media, che è stata in passato il motore della
spesa per la casa in questo paese, oggi non ha più le risorse per poter acquistare la casa
per se e per i propri figli; il lavoro è diventato più saltuario e diviso tra più persone, è meno
frequente ed a volte irregolare; i giovani e i meno giovani non possono far fronte, con salari decrescenti e contratti a tempo determinato, alle proprie esigenze abitative; il tasso di incremento della popolazione straniera potrebbe ridursi in relazione ad un mercato del lavoro problematico. Questi aspetti convergono verso un difficile scenario di medio e lungo ter mine per la casa che, a differenza degli anni ‘90, non potrà trovare nella spesa pubblica un
sostegno e/o una sostituzione. Dieci anni fa sembrava che il settore finanziario - prima dello scoppio della bolla - potesse produrre tutti i capitali che lo Stato non aveva (c’era già
Maastricht) a coprire esigenze anche di famiglie economicamente marginali, dando in ga ranzia la casa stessa, e così contribuendo all'espansione del mercato della casa e di funzioni urbane collegate (commercio di vicinato, alberghi, uffici per servizi privati, ecc.). Anche questa forma di intervento privato (e di finanziamento) è finita; gli strumenti finanziari
costruiti per fare nuove case probabilmente non ci saranno più, almeno non in quella mo dalità.
Potrei fare un esempio, in proposito. La Regione Toscana alcuni anni fa propose, in un apposito convegno tematico, di utilizzare i pochi soldi GESCAL rimasti insieme ai soldi raccolti con apposite cartolarizzazioni per fare case che avrebbero costituito la garanzia stessa del reddito futuro atteso delle abitazioni sociali, raddoppiando così le risorse disponibili
ed il numero di case. Ma cartolarizzare case in affitto a persone che sono in difficoltà e che
non sono spesso in grado di pagare l'affitto, equivale a dare valore a qualcosa che non
produce alcun reddito in futuro. Quel certificato finanziario, quindi, nel lungo periodo,
equivaleva a zero, a meno che una parte delle case fossero destinate a famiglie non in difficoltà, contraddicendo dunque all’origine gli obiettivi delle politiche sociali per la casa. Tut tavia, di fronte all'idea che si sarebbe potuto raddoppiare le risorse, in parte GESCAL in
parte no, accecò i responsabili pubblici in Toscana relativamente alle conseguenze prodotte da questi strumenti finanziari nel lungo periodo. In altri termini, qualora la Regione To scana avesse dato seguito a questa intenzione, si sarebbe innescata una bolla che sarebbe scoppiata in ogni caso, a maggior ragione qualora le condizioni macroeconomiche reali
dell’economia toscana fossero peggiorate, come è storicamente avvenuto.
Bisogna dunque tornare a ragionare in forma più concreta, tenendo conto delle risorse di
cui disponiamo, avendo consapevolezza che né le imprese private, né le famiglie, né lo
Stato dispongono singolarmente di risorse finanziarie in quantità sufficiente. Si può ragionare, dove è presente una rendita urbana differenziale alta, se questa, attraverso la tassa zione, l’esproprio o la compensazione, possa essere indirizzata a rispondere ad un qualche risultato socialmente rilevante. In realtà, i risultati dell’urbanistica contrattata dell’ultimo
decennio sono molto deludenti, i progetti urbani capaci di generare al contempo valore sociale e profitti privati sono rari o inesistenti. Di fatto, gli obiettivi pubblici perseguiti dagli enti
locali si sono rivelati parziali e sbagliati, sottintendevano spesso altri scopi, altre esigenze
di bilancio, fondi per attività che non avevano nulla a che vedere né con quel territorio, né
con quelle case, né con quei residenti.
Perché gli enti locali sono stati così poco “capaci” di generare politiche abitative efficaci?
E’ solo un problema di risorse finanziarie disponibili (ad es., ex gescal)?
Per comprendere meglio i comportamenti degli enti locali bisognerebbe aggiungere e de12
Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
scrivere alcuni ulteriori fenomeni, diversi da quelli prima menzionati, che hanno a loro volta
influenzato l’evoluzione abitativa in molti contesti territoriali. Tra questi ne menzioniamo alcuni:
1) la popolazione complessiva in Italia è cresciuta significativamente nell'ultimo decennio,
con un'inversione di tendenza rispetto ai passati decenni;
2) solo nelle grandi aree metropolitane si è segnato un incremento della popolazione residente nel decennio del 4,3% medio annuo;
3) nello stesso periodo, sempre nelle grandi aree metropolitane, sono cresciute le famiglie
(circa 300mila l'anno per dieci anni);
4) le nuove residenze si sono riversate, in anni in cui hanno dominato i meccanismi di mercato, su un territorio amplissimo, come testimoniato nella fig.1 relativa alle grandi aree metropolitane che mette a confronto il comune “centroide” con il resto della Provincia;
Fig. 1 - Variazione % della popolazione residente nelle città metropolitane fra il 2001
e il 2011: comuni capoluogo vs resto della
provincia
Fonte: ISTAT, Censimento della popolazione e delle abitazioni, 2001 e 2011
5) Ne consegue che, e non solo nelle grandi città, la rendita finanziaria e la rendita urbana
hanno generato nuove case soprattutto fuori dai centri urbani;
6) Peraltro, in questi dieci anni, l'incremento degli stranieri è stato enorme ed ha portato
solo a Roma ad una quota di stranieri sul totale della popolazione residente all'8,6%. Ciò
ha modificato profondamente l'aspetto sociale della città. Aggiungerei del paese;
7) Un ulteriore aspetto da tener presente, che viene fuori dai Censimenti, è che al tempo
stesso mentre la popolazione si distribuiva in un territorio sempre più grande, le imprese e
gli occupati hanno trovato lavoro soprattutto nei centri urbani. Questa ripartizione territoria le inefficiente delle abitazioni ha creato un crescente congestionamento, problematiche
ambientali, un’eccessiva mobilità urbana e servizi pubblici che al contempo si sono fortemente impoveriti.
In questi anni, dunque, è emersa una domanda aggiuntiva di abitazione di dimensioni im portanti. Una parte consistente del nuovo bisogno non dispone dei capitali necessari per
farvi fronte. Gli enti locali hanno reagito alla domanda aggiuntiva di abitazione (e non solo)
nelle forme che oggi vediamo, confidando sulle risposte di mercato, generando un ulteriore ed enorme costo sociale diretto, indiretto ed indotto. Tale costo, se non si interviene ri solutamente, è crescente nel tempo. Questi fenomeni dovrebbero indurci a riflettere sul
reale fallimento degli enti locali: il mancato coordinamento tra politiche abitative, politiche
per l’insediamento delle imprese e servizi pubblici locali. La vocazione produttiva delle città, in questi dieci anni, è cambiata profondamente, e non si è governato in modo integrato
i servizi pubblici locali, la mobilità conseguente e la localizzazione dei posti di lavoro. Manca dunque un vero governo del territorio. In parte, la gestione di fenomeni così complessi
richiede un coordinamento stretto tra i diversi uffici degli enti locali, quelli urbanistici, quelli
dei servizi pubblici locali, quelli statistici e anagrafici, quelli dello sviluppo locale. Senza un
dialogo interno tra gli uffici, e tra questi e gli altri enti pubblici coinvolti (la Regione in primis), la rendita urbana dominerà e vincerà sempre.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Se tale coordinamento non fosse possibile (le barriere burocratiche sono spesso invalica bili), qualora le risorse finanziarie pubbliche e private per la casa non tornassero ad essere
disponibili o sufficienti, sarebbe forse il tempo di tornare a discutere di politiche pubbliche
a saldo di bilancio zero, come quelle destinate a stimolare un affitto “sociale”, un mercato
storicamente residuale rispetto alla casa in proprietà. Infatti, se il mercato del lavoro è saltuario, se la mobilità del lavoro è alta, una politica per la casa alternativa è quella di rende re più fluido il mercato dell’affitto a basso costo anche tramite la revisione frequente dei
patti in deroga. Si potrebbe dare la possibilità alle famiglie di dividere l’appartamento in
due (senza aumentare le superfici), soprattutto nei centri storici e nella città consolidata,
eliminando tasse oggi esistenti come gli oneri di urbanizzazione, le tasse sul costo di costruzione e la tassa di registro (è al 10%!). Così la famiglia può dare la casa al figlio, oppu re può affittare una parte del proprio appartamento ad altri generando un reddito. Anche
l’affitto può essere sostenuto tramite specifiche politiche fiscali, se va a favore di persone
in difficoltà o svantaggiate. Queste politiche favoriscono, tra l’altro, il ritorno delle famiglie
all’interno delle città, evitando ulteriori dispersioni di segno opposto rispetto al lassaiz faire
dell’urbanistica comunale.
Su queste considerazioni si inneschi un dibattito sulle nuove case, sull’affitto, sulla rendita
urbana, sul finanziamento di progetti abitativi complessi, sulla localizzazione d’impresa, sul
ridisegno dei servizi pubblici adeguati. Lo scopo ovvio è quello di poter generare una città
più umana e più sostenibile.
Paolo Berdini
Per avviare il cammino nuovo suggerito dalla relazione di Laura Mariani, occorre in primo
luogo compiere un rigoroso esame critico della politiche urbane dell’ultimo ventennio il cui
tratto peculiare è stato quello di abbandonare completamente ogni politica abitativa nei
confronti dei ceti popolari nella convinzione che sarebbe stato il mercato a risolvere la questione abitativa.
I risultati di questo errore di prospettiva sono sotto gli occhi di tutti. Dopo una fase di crescita dei valori immobiliari che è durata dal 1994 (anno di uscita da Tangentopoli) al 2007
(anno di inizio della crisi dei mutui subprime statunitensi), da sette anni i valori immobiliari
sono in continua discesa. Ad eccezione delle aree pregiate delle città (centri storici e peri ferie di vecchio impianto) i valori immobiliari denunciano una diminuzione compresa tra il
20% nelle aree urbane e il 40% nelle aree interne italiane. La scellerata corsa all’acquisto
delle abitazioni favorita dalle politiche abitative sta provocando un generale impoverimento
della parte più povera della popolazione: un altro micidiale colpo alla parallela scomparsa
del welfare urbano. A fronte di questo fenomeno, poi, non è stata come è nota risolta la
questione degli alloggi per la fascia più povera della popolazione, per le giovani coppie e
per gli immigrati. Un fallimento clamoroso che si stenta ancora a denunciare, forse perché
la sinistra ne è stata parzialmente attrice e convinta sostenitrice. Manca insomma la con sapevolezza del disastro provocato dall'economia liberista.
Ma dobbiamo andare oltre alla doverosa critica e tentare di costruire una nuova strada.
Accenno a quattro questioni più urgenti. In primo luogo la moratoria delle nuove costruzioni. A fronte dell’enorme stock abitativo invenduto e al fenomeno del deprezzamento dei valori immobiliari cui facevo cenno, ogni ulteriore costruzione non farebbe che provocare un
ulteriore decremento di valore: dobbiamo impedirlo perché colpisce i ceti più deboli e im pedisce l’avviarsi dei processi di trasformazione urbana.
La seconda politica da attivare è quella del recupero urbano, da favorire attraverso politiche appropriate e incentivando il protagonismo dei comuni oggi ridotti nelle loro capacità
operative, specie nel campo dell’urbanistica. E soprattutto, bloccando ogni alienazione del
patrimonio immobiliare pubblico: questa immensa risorsa deve infatti essere utilizzata per
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
grandi progetti e per realizzare gli alloggi popolari che oggi mancano. Occorre infine
dotare questa filiera produttiva di finanziamenti adeguati perché oggi, come noto, la quota
degli stanziamenti è pressoché inesistente.
Per finanziare il recupero urbano in tempi di riduzione della spesa pubblica, c’è una sola
possibilità: quella di spostare risorse dal settore delle grandi opere. Oggi nell’elenco delle
opere infrastrutturali considerate “fondamentali” per lo sviluppo del Paese sono inserite
199 opere: troppe, evidentemente.
Il loro numero è soltanto legato alla soddisfazione degli appetiti del cartello delle maggiori
imprese che si accaparrano così uno stanziamento pari a 160 miliardi a fronte a dei 2
miliardi previsti per il piano città. Bisogna imporre una nuova visione culturale e il
rovesciamento delle proporzioni degli stanziamenti del bilancio statale.
Accenno infine alla quarta politica che a causa degli squilibri che il ventennio liberista ha
provocato nell’assetto fisico e sociale del paese si ponga con grande urgenza: quella della
rivitalizzazione delle aree interne del paese. Il forte spopolamento e la perdita di attività
economiche sta causando un vero e proprio deserto territoriale tanto più pericolo quanto è
fragile dal punto di vista idrogeologico quell’area. Si rischia insomma di perdere il presidio
umano che ha fin qui garantito la relativa stabilità dei territori collinari. L’avvio delle quattro
politiche territoriali e urbane è la sola strada per riparare ai danni causati dal neoliberismo
e per uscire dalla crisi economica e sociale che attraversiamo.
Giancarlo Storto
L’adesione convinta all’iniziativa della CGIL di quanti mi hanno preceduto conferma
l’importanza di una sede in cui avviare un confronto sui temi indicati nella relazione introduttiva. Mancano infatti elaborazioni adeguate che riprendano l’insieme delle tematiche
che investono il settore e che vanno poi tradotte – ed in questa direzione il Forum può for nire contributi importanti – in proposte e rivendicazione: prima tra tutte la richiesta di un impegno finanziario da parte dello Stato, colpevolmente assente in modo anomalo rispetto
agli altri Paesi dell’Europa occidentale che non si sottraggono ad obblighi anche onerosi
per ridurre il disagio abitativo.
Ritengo sia centrale, come è stato detto in apertura, individuare i legami tra il problema
abitativo e quello del governo urbano. È necessario sostanziare un ragionamento critico su
quanto avvenuto a partire dall’inizio degli anni Novanta, ancor prima che la crisi si manifestasse con le tante implicazioni che oggi registriamo. In quegli anni è diventata pratica diffusa nella gestione delle città la ricerca di forme di contrattazione tra le amministrazioni comunali ed operatori privati, spesso collegati o sovrapposti al settore finanziario, con la conseguenza rinuncia, per l’ente locale, ad esprimere indirizzi e decisioni attraverso le scelte
di piano, prerogative irrinunciabili del decisore politico, con la sola giustificazione di ottene re in cambio qualche servizio per la collettività la cui realizzazione non trovava copertura
nei dissestati bilanci comunali.
Questa modalità, intrisa di contraddizioni ed ambiguità, ha avuto effetti ancor più negativi
negli anni della crisi. Riducendosi i margini di profitto resi possibili negli anni precedenti e
risultando il mercato più selettivo in favore soltanto di alcune destinazioni funzionali, non
raramente le amministrazioni comunali si sono rese disponibili ad agevolare ulteriormente
le richieste degli operatori, laddove il mercato non garantiva l’assorbimento degli interventi
in corso di realizzazione, attraverso varianti appositamente confezionate per consentire
mutazioni nelle destinazioni d’uso ed incrementi in volumetria. Le esigenze dei privati sono
così soddisfatte con adattamenti successivi a quanto il mercato considera commerciabile
con la garanzia di mantenere una remunerazione soddisfacente degli investimenti. Una logica tutta legata ad un uso privatistico della pianificazione urbanistica nella quale le attese
e le esigenze della collettività sono residuali o faziosamente interpretate a copertura di
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
operazioni speculative.
È evidente che occorre proporre altro, prospettando scenari in cui si arrivi a ridurre l’incidenza della rendita sul prodotto edilizio ed a stabilire diverse relazioni tra parte pubblica e
settore imprenditoriale. In proposito è appena il caso di ricordare che in anni trascorsi si
sono realizzate esperienze di segno diverso: mi riferisco alla stagione avviata alla fine degli anni Settanta in cui una parte considerevole dell’edilizia residenziale è stata costruita
nei piani di zona con l’adesione degli operatori più consapevoli che hanno ritenuto del tutto
congrui i profitti di impresa rinunciando ai guadagni derivanti dalla valorizzazione delle
aree.
Qualsiasi considerazione che non risulti subordinata in modo acritico ai meccanismi del
mercato deve quindi porsi come questione decisiva la relazione tra il prodotto fisico delle
trasformazioni urbanistiche e l’utenza a cui è destinata, assumendo l’obiettivo di dare risposte adeguate ai diversi segmenti in cui è scomponibile la domanda abitativa.
In questa direzione ritengo che il Forum possa utilmente essere indirizzato, come prima
problematica da approfondire, a ricercare le condizioni per la realizzazione dell’edilizia sociale, come componente essenziale e quantitativamente significativa, nei processi di rigenerazione e riqualificazione urbana, avendo quale presupposto la definizione di una identità da attribuire all’edilizia così genericamente indicata che la liberi da ogni forma di ambi guità oggi presente.
Claudio Falasca
Oggi abbiamo una realtà urbana che si è andata consolidando in maniera divergente ai bisogni sociali della gente. Una divaricazione che impone, in particolare, una attenta rilettura
del rapporto contesto urbano/servizi di welfare. Questo è necessario per capire le priorità
in base alle quali costruire politiche di welfare urbano capace di guardare ai bisogni attuali
e futuri. Dobbiamo prender atto che il quadro normativo, elaborato dalla cultura urbanistica
negli anni 60 e 70 del '900, non è più adeguato. Un solo dato è sufficiente per spiegare il
grado di divaricazione che dobbiamo affrontare: il rapporto anziani/popolazione passerà al
2050 da 1 a 5 a 1 a 3. Una trasformazione sociale che da sola muta profondamente il qua dro dei bisogni e quindi delle priorità, ponendo in primo piano, ad esempio, il tema inedito
dell'invecchiamento attivo mai affrontato nella storia urbana italiana.
Una riflessione necessaria anche per comprendere come affrontare, finita la stagione
dell'espansione continua e progressiva, la stagione della rigenerazione urbana. Oggi ogni
comune fa da se con norme, strumenti e mezzi del tutto inadeguati. Qui è necessario tor nare ad interrogarsi, magari in occasione della riforma del titolo V della costituzione, sulla
opportunità di avere un luogo nazionale di indirizzo. A suo tempo proponemmo ed ottenemmo come CGIL, CISL e UIL il Ministero delle aree urbane, che però per un insieme di
interessi contrapposti, non è mai decollato. Occorre ripensare a riportare all'interno della
pubblica amministrazione, in particolare dei grandi Comuni, competenze e professionalità
tecniche per ricostruire le tecnostrutture pubbliche azzerate dalla politica di esternalizzazione delle attività di programmazione,e progettazione e controllo. Occorre ripensare
l'insieme dell'attuale strumentazione urbanistica pensata per politiche espansive e del tutto
inadeguate ad una politica di rigenerazione.
E' necessario interrogarsi, inoltre, su quali politiche industriali per una stagione di rigenerazione urbana. Ancora oggi la cultura di impresa prevalente è quella della nuova edificazione che è del tutto inadeguate a gestire processi sociali, finanziari, urbanistici, di innovazione tecnologica connaturati alla rigenerazione urbana. Non dimentichiamo che questo tipo
di intervento realizzato in altri paesi ha prodotto pesanti disastri sociali. Da questo punto di
vista una riflessione sull'operato dei Fondi d investimento sarebbe quanto mai opportuna.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Maria Teresa Palleschi
Il problema non è solo quello delle risorse e dove trovarle, che sicuramente è il problema
centrale di questo Paese, ma soprattutto di quale uso vogliamo farne. Il problema, a mio
avviso, non è soltanto quello di prendere atto della crisi, ma di vedere in questa crisi
un'opportunità di cambiamento, considerando che questo modello di sviluppo ha ricadute
disastrose in termini ambientali, economici e sociali. Proviamo ad applicare anche alle politiche abitative l'approccio dello sviluppo sostenibile, in controtendenza con quanto sta avvenendo nel Paese da parte di un Governo, che sembra scarsamente attento all'ambiente
e allo sviluppo sostenibile.
Cosa significa applicare l'approccio dello sviluppo sostenibile alle politiche abitative? In nanzitutto vedere nell'housing sociale un contributo alla riqualificazione sostenibile delle
città e non semplicemente una risposta ad una domanda di alloggi che investe solo il versante architettonico, ma considerarlo come un fenomeno più complesso che investe anche altri piani, in rapporto sinergico, quali ad esempio il sistema delle infrastrutture, dei
servizi, degli spazi aperti, delle relazioni, dell'integrazione sociale, come avviene nella gran
parte dei Paesi europei e anche, fortunatamente, in alcune regioni italiane, anche se in
numero limitato.
Un altro aspetto da sottolineare è che il patrimonio pubblico va valorizzato e non affrontato
in termini esclusivamente di dismissione. Quello che sta passando da tempo è, invece, un
concetto diffuso di dismissione vista come fattore di contenimento della spesa pubblica e
abbattimento del debito pubblico. La valorizzazione del patrimonio pubblico esistente in
termini di valore di uso sociale ha ricadute positive anche di tipo economico e sociale in
quanto rende possibile la riqualificazione di aree strategiche dismesse, come, ad esempio,
caserme, fabbriche etc., che possono essere trasformate in edilizia residenziale pubblica. I
vantaggi sono enormi sia dal punto di vista economico che ambientale. Economico, in
quanto frena l’allargamento delle città ed elimina i relativi costi legati, ad esempio,
all’espansione della rete di trasporto urbano, della rete idrica, elettrica, etc; ambientale, in
quanto pone un limite al consumo di nuovo suolo.
Applicare alle politiche abitative l’approccio sostenibile significa introdurre anche un con cetto di sostenibilità in termini di architettura a basso impatto ambientale, che pone atten zione al risparmio e all’efficienza delle risorse in tutte le fasi del ciclo vitale del manufatto,
dalla progettazione e realizzazione alla conduzione o utilizzo, fino alla sua dismissione; al
tempo stesso introduce accanto al concetto di ecosostenibilità, quello di bioecocompatibilità inteso come tutela e garanzia delle condizione di sicurezza, benessere e salubrità sia
per i fruitori finali che per chi è impegnato nella realizzazione del manufatto.
Io credo che sia corretto affrontare le politiche abitative nell’ambito di una riqualificazione
della città, ma sono anche convinta che sia necessario spingere nella direzione di uno sviluppo sostenibile. L'ISFOL realizza da tempo ricerche su queste tematiche, affrontate in
termini di implicazioni occupazionali e formative.
Un approccio di questo genere ha ricadute positive, ed i dati lo dimostrano, anche in termini di occupazione non solo di tipo quantitativo, ma anche qualitativo; fa ripartire il mercato,
risolve la crisi di un settore come quello edile , che riparte non solo perché ci sono gli incentivi. Lo sviluppo sostenibile è un’opportunità di cambiamento per fronteggiare insieme
le due crisi, quella economica-occupazionale e quella ambientale-climatica, ma richiede un
investimento anche in termini formativi.
Abbiamo bisogno di una formazione che affronti il nodo della strutturazione delle compe tenze non solo per i profili più elevati, ma che coinvolga anche le maestranze. Invito la
CGIL ad operare nella direzione dello sviluppo sostenibile affinché un diverso approccio a
queste tematiche possa realizzarsi.
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5.
Contributi pervenuti
Fabio Coronas - Aspetti sulla sostenibilità ambientale, economica e
sociale dei contesti urbani metropolitani
L’analisi della sostenibilità dei contesti urbani metropolitani implica la necessità di approfondire vari ambiti in maniera interrelata, inerenti l’urbanistica e l’economia, entrando nel
merito della valutazione, della valorizzazione del patrimonio pubblico e della partecipazio ne inclusiva della cittadinanza. Fondamentali sono le scelte strategiche economico-politiche che si esplicitano attraverso strumenti e leggi urbanistiche, la cui finalità dovrebbe essere quella di dare origine a sviluppi sostenibili non solo sotto l’aspetto ambientale ma anche sotto quello economico e sociale. Urbanistica, economia e ambiente sono ambiti stret tamente connessi fra loro e bisogna essere consapevoli che le scelte di pianificazione ur banistica spesso sono a “monte” condizionate da strategie economiche.
Le leggi e gli strumenti che guidano le dinamiche di sviluppo della città, vista la complessi tà che li caratterizza, dovrebbero essere accompagnati nella loro elaborazione da pratiche
valutative che assumono un ruolo strategico per la verifica della loro efficacia in un’ottica di
sostenibilità. Queste dovrebbero porsi come strumento di verifica all’interno di ciascun processo di formazione dei piani ad ogni livello, e nella elaborazione dei progetti, della loro
realizzazione e gestione e non stare, come spesso succede, ai margini come supplemento
a decisioni già costituite.
Le valutazioni e la formazione dei piani e dei progetti dovrebbero essere fatte attraverso
un pensiero critico nei confronti di tutte quelle prassi urbanistiche che vanno nella direzio ne dell’espansione della città, del consumo di suolo esterno ed interno al contesto urbano.
Per questo, vista la pratica dominante della deroga che ha caratterizzato l’urbanistica italiana negli ultimi venti anni, è fondamentale valutare la sostenibilità dell’urbanistica contrat tata che si manifesta soprattutto attraverso l’Accordo di Programma, all’interno del quale
spesso si trovano incentivi di cubatura insediativa, cambi di destinazione d’uso di aree, perequazione dei diritti edificatori in seguito a procedure d’esproprio estesa all’intera città che
può diventare uno strumento più utile alla rendita fondiaria che ai benefici economici, so ciali ed ambientali del territorio e della comunità.
Fondamentale è dare risposte di fattibilità sostenibile dello sviluppo della città attraverso
valutazioni specifiche monocriteriali (analisi costi/benefici) e multicriteriali, che mettano in
evidenza anche vantaggi e svantaggi che talune prassi urbanistiche di governo del territorio producono nei confronti dell’ambiente, dell’economia e del sociale. L’analisi costi-benefici è uno strumento di valutazione che si compone dell’analisi finanziaria e dell’analisi economico-sociale. L’analisi finanziaria si caratterizza per avere l’obiettivo di valutare la convenienza dell’investimento attraverso costi e ricavi che la trasformazione urbana o il singolo progetto sono in grado di sviluppare nel tempo, si esplicita per mezzo di precisi indici di
redditività i quali indicano se l’investimento è conveniente.
Partendo dalla constatazione che qualsiasi trasformazione urbana determina cambiamenti, l’analisi finanziaria, a differenza di quella economico-sociale, non tiene conto dei costi e
dei benefici sociali e ambientali che possono determinarsi, è evidente quindi che la fattibilità finanziaria possa risultare non essere spesso compatibile con quella socio-economicaambientale. Ad esempio è possibile che lo sviluppo edilizio di parti di città determini
redditività monetaria ma crei allo stesso tempo disarmonia al contesto. In questa ottica le
valutazioni dovrebbero evidenziare che l’ambiente è risorsa oltre che naturale, anche sociale ed economica. Si pensi ai costi sociali ed economici che le alluvioni, determinate dai
cambiamenti climatici, accompagnati dalla cementificazione e impermeabilizzazione del
suolo, producono. Fondamentale in questo senso è la difesa di aree agricole e orti urbani.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
La sostenibilità economico-sociale è evidentemente collegata a quella ambientale, basti
pensare alla diffusione della città con i costi ambientali, economici e sociali che ne possono derivare, conseguenza spesso degli elevati valori di mercato e di locazione delle aree
centrali e semicentrali della città, non più sostenibili anche da una buona parte della classe
media, e dalla insufficiente offerta abitativa per la residenza sociale pubblica in aree strategiche da riqualificare interne al tessuto insediativo e non di margine. In questa ottica, attraverso un approccio valutativo più ampio, è fondamentale prendere in considerazione anche aspetti che in apparenza non riguardano l’urbanistica, quali ad esempio quelli inerenti
alla situazione lavorativa delle persone e delle famiglie, verificando le loro condizioni e se
sono in grado di pagare un canone d’affitto o sostenere un mutuo. In questo senso la valorizzazione del patrimonio pubblico e della residenza sociale collocata in aree strategiche
“sostenibili” da riqualificare può dare un contributo fondamentale per contrastare queste dinamiche e avviare processi virtuosi nella direzione della sostenibilità. L’espansione urbana
senza limiti, oltre che produrre la formazione di alienanti quartieri dormitorio, innesca un
elevato pendolarismo legato a ragioni lavorative, per raggiungere i luoghi centrali e semicentrali della città spesso in molte circostanze si è costretti a prendere l’automobile con
conseguente aumento di produzione di inquinamento atmosferico ed acustico.
Ai costi sociali ed ambientali vanno aggiunti quelli economici per la Pubblica Amministrazione, dovuti all’ampliamento delle reti di trasporto urbano, idriche, elettriche e delle altre
urbanizzazioni. Le risorse spese in questa direzione invece potrebbero essere utilizzate
per piste ciclabili, corsie preferenziali, trasporto pubblico su ferro e per altre azioni che
vanno nella direzione della sostenibilità e della qualità della vita.
Il patrimonio pubblico quindi può assumere, attraverso una sua virtuosa valorizzazione, oltre che un valore d’uso sociale, anche un valore economico e ambientale.
Prendendo atto che di per sé l’ambito di studio legato alla valutazione è innovativo e in
continua evoluzione, l’analisi in un’ottica sostenibile dei processi di trasformazione urbana
dovrebbe essere fatta con coscienza critica e competenze rinnovate, partendo dall’analisi
delle criticità della città moderna “famelica”, della sua sintassi urbana-territoriale, e tenendo presenti i condizionamenti delle dinamiche globali economiche e finanziarie su quelle
urbanistiche.
Gianfranco Coronas - Città metropolitane e sostenibilità: Roma e Berlino
a confronto
Una ricerca dell’Isfol – Gruppo Sviluppo sostenibile relativa alla riqualificazione sostenibile
dei contesti urbani metropolitani, ha portato a realizzare studi di caso su tre città italiane
(Roma, Milano e Napoli) e due europee (Berlino e Parigi). In considerazione degli ambiti
considerati dalla ricerca, si è potuto riscontrare il complessivo ritardo delle tre città italiane
rispetto alle capitali europee analizzate. Il contributo che porto su Roma e Berlino su
aspetti fondamentali quali quelli inerenti l’urbanistica e le politiche per la casa può permettere un confronto in merito a scelte che determinano conseguenze, che possono essere
positive o negative, sul piano della sostenibilità ambientale, economica e sociale.
A Roma negli ultimi decenni si è realizzato un modello di sviluppo urbanistico con evidenti
elementi di non sostenibilità. Nell’ambito della realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica c’è stato un progressivo ridimensionamento, mentre la città si diffondeva sull’area vasta con conseguenti costi ambientali ma anche economici e sociali. Appare poco comprensibile un’idea di città in una dimensione integrata favorevole alla qualità della vita dei suoi
abitanti. I numerosi centri commerciali sorti a ridosso del contesto urbano hanno prodotto
un modello di città basato sul rafforzamento dell’uso dell’automobile e della riduzione del
piccolo commercio diffuso nei quartieri periferici, con conseguenze ambientali negative ma
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
anche economiche e sociali per il verificarsi di esempi sempre più diffusi di quartieri
dormitorio dove non sono sorte funzioni altre con conseguenti risultati negativi anche sul
piano occupazionale.
La quasi assenza di una politica per la casa pubblica e quindi il venir meno di una funzione
di governance più ampia sulla gestione dello sviluppo della città che questa può assume re, potrebbe avere avuto conseguenze negative anche rispetto a un dato che si è prodotto
negli anni, che è quello da un lato dell’elevato valore di mercato degli immobili e dall’altro
del progressivo trasferimento di rilevanti fasce della popolazione dalle aree centrali e semicentrali a quelle più periferiche, con conseguenze negative nella gestione sostenibile del
rapporto tra localizzazione della residenza e luogo di lavoro, che ha aumentato il pendolarismo nell’area vasta e quindi i livelli di inquinamento.
A fronte di questa direzione, intrapresa probabilmente senza una valutazione attenta delle
conseguenze delle scelte politiche fatte e che sembrano guardare poco agli interessi
dell’intera e più ampia comunità di abitanti, si può affermare che un’altra via è possibile, un
altro modello di città è realizzabile, anche in una situazione di difficoltà economica, che forse proprio le politiche e le scelte attuate fin ora hanno prodotto.
E allora la valorizzazione del patrimonio edilizio pubblico, una centralità della residenza
pubblica, collocata in aree strategiche multifunzionali e integrate, che impedisca nuovo
consumo di suolo e valorizzazione degli spazi vuoti per una città ambientalmente e socialmente sostenibile può avere ricadute anche sul piano occupazionale ed economico.
Esistono zone della città da riqualificare, aree centrali e semicentrali che potrebbero, dopo
attenta valutazione, essere impiegate per residenza sociale e per funzioni a vantaggio di
una collettività che trova spazi di socializzazione e partecipazione democratica. Tutto questo può essere realizzato se c’è una forte volontà politica al cambiamento, forse i costi di
queste operazioni possono essere anche inferiori a quelli che hanno portato a realizzare
da parte pubblica quelle opere di urbanizzazione conseguenti all’espansione della città.
Altre scelte quindi possono produrre crescita economica ed evidenti vantaggi ambientali e
sociali.
Berlino appare piuttosto attenta al raggiungimento di sempre migliori risultati in termini di
sostenibilità ambientale ma anche economica e sociale. Il piano urbanistico post-riunifica zione degli anni ’90 ha puntato alla riqualificazione e riconversione delle vecchie aree in dustriali, nelle quali sono state realizzate anche residenze in nuovi quartieri polifunzionali e
integrati.
Negli anni è cresciuta nelle amministrazioni berlinesi la consapevolezza della necessità di
misure concrete per far fronte ai cambiamenti climatici e per questo la preservazione delle
aree verdi e di quelle non edificate, gli spazi vuoti, è ritenuta fondamentale nel determinare
le scelte urbanistiche.
Nella tradizione di Berlino c’è quella di favorire la filiera corta nella produzione agricola, attraverso l’attribuzione di terreni pubblici, di piccole dimensioni, in particolare collocati lungo
le linee ferroviarie dentro il contesto urbano o immediatamente a ridosso. Fasce della po polazione che non si trovano in condizioni economiche favorevoli pagando un affitto piutto sto basso realizzano in queste aree il proprio orto urbano.
La città di Berlino è culturalmente molto attenta a realizzare nel rispetto di ciò che viene
pianificato, anche attraverso la partecipazione della cittadinanza. Per questo non fa parte
della tradizione di questa città la pratica della costruzione edilizia illegale e quindi conse guentemente del condono, così come non si parla dell’applicazione di norme in deroga o
di misure che incentivano gli aumenti di cubature.
Dopo la riunificazione a Berlino non ci sono stati rilevanti interventi di edilizia residenziale
pubblica, anzi tra il 1998 e il 2008 si è messo in atto anche un processo di privatizzazione.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Tuttavia a questo processo si è messo fine poiché si è constatato che l’iniziale vantaggio
nelle casse pubbliche attraverso la dismissione veniva meno in quanto maturavano una
serie di costi sociali per l’amministrazione pubblica dovuti per il sostegno a quei soggetti
che venivano a trovarsi in difficoltà a causa della perdita della casa. Attualmente quindi
l’amministrazione di Berlino conserva il proprio patrimonio edilizio con la finalità sociale
che a questo attribuisce. Si ricorda a questo proposito che dell’immenso patrimonio pubblico della Berlino est pre-unificazione è stato privatizzato soltanto il 15% per ragioni di bilancio. Sembra che nella parte orientale di Berlino gli alloggi pubblici siano 230.000.
Una differenza sostanziale tra Italia e Germania è che in quest’ultima non necessariamente l’obiettivo è quello di diventare proprietari di una abitazione, si può tranquillamente vive re in affitto. A Berlino oltre l’80% delle persone vive in affitto.
Evidentemente questa città ha le sue specificità storiche, fino alla riunificazione anche nel la parte occidentale è esistita una regolamentazione che puntava a far pagare affitti bassi
e per questo la pratica dell’acquistare l’alloggio era poco diffusa. Questa pratica evidente mente è continuata anche a seguito della riunificazione visto il numero fortemente contenuto di soggetti che ancora oggi vivono in case di proprietà.
Roberto Fabbri - Nota di commento al DEF e al Decreto Lupi
Il tema dell’emergenza abitativa è tornato di drammatica attualità ed è nuovamente motivo
di disagio sociale , che si manifesta in particolare nelle aree metropolitane anche in forme
radicali di antagonismo sociale. E’ il risultato della crisi economica ed occupazionale ma
anche di anni di assenza di politiche abitative di carattere strutturale che consentano di offrire alle famiglie, diverse soluzioni di sostegno, in relazione alle caratteristiche del disagio
abitative, facendo leva su una continuità di risorse e di strumenti di intervento
Le ultime iniziative del Governo, pur contenendo misure apprezzabili, in questo senso non
cambiano verso alle tendenza ad intervenire in maniera straordinaria.
Apprezzabili sono soprattutto l’intervento a sostegno dei canoni e dalla morosità incolpevole, ritornando a finanziare il Fondo nazionale per il sostegno alla locazione, e gli interventi fiscali a sostegno dei contratti di locazione con patto di riscatto; una misura quest’ultima che potrà avere effetti positivi, non solo per favorire l’accesso ad un alloggio sociale
da parte delle famiglie ma anche sul settore edilizio che sarà incentivato a riconvertire gli
alloggi invenduti in offerta di alloggi sociali.
Apprezzabile anche la volontà di utilizzare la leva urbanistica per consentire la realizzazio ne di alloggi sociali tramite il recupero e la trasformazione di immobili oggi destinati ad usi
diversi.
Tuttavia su quest’ultima misura è da rilevare che i valori patrimoniali che hanno questi immobili difficilmente potranno consentire un diffuso utilizzo senza l’accompagnamento di incentivi quali premi di cubatura ,agevolazioni sulle urbanizzazioni e simili.
Fortemente da criticare è il rilancio delle vendite del patrimonio pubblico in un momento in
cui sarebbe necessario intervenire strutturalmente per aumentarne l’offerta ; da questo
punto la misura appare contraddittoria con quella finalizzata a destinare risorse alla riqualificazione di alloggi pubblici (circa 500 milioni):perché spendere altri denari pubblici su un
patrimonio che si intende poi vendere a condizioni di privilegio e fortemente scontate agli
inquilini?
Non si affronta il tema di fondo della riforma nel senso dell’efficienza e del risanamento
economico degli Enti gestori (ex IACP) che ponga fine alla dispersione di risorse pubbli che aprendo al mercato e alla concorrenza questo importante servizio di interesse generale.
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
Perché si investono altri fondi pubblici in un sistema diffusamente deficitario che pesa sui
bilanci regionali e non fornisce un servizio all’altezza delle necessità?
Un intervento strutturale deve agire contemporaneamente sul sostegno alla domanda ( è
questo è possibile grazie al rifinanziamento del Fondo nazionale di sostegno alla locazione,quello per la morosità incolpevole, il Fondo di garanzia per i mutui prima casa). E sul
sostegno per aumentare l’offerta di alloggi sociali.
Sarebbe auspicabile pertanto che per questo ultimo aspetto si agisse su due fronti:
- una parte delle risorse destinate al piano di risanamento degli alloggi pubblici fosse destinato ad interventi di alloggi sociali in partenariato pubblico privato: in questo modo si po trebbe trasformare rapidamente gli stanziamenti in investimenti con positivi effetti non solo
sulla risposta all’emergenza abitativa ma anche con effetti moltiplicativi per il rilancio della
produzione edilizia e dell’occupazione.
- sarebbe auspicabile un rafforzamento dell’operatività del Fondo investimenti dell’Abitare ,
liberandolo da quegli appesantimenti burocratici di origine Ministeriale che non consentono di realizzare quelle sinergie tra le proprie capacità di investimento, finanziamenti pub blici e partenariato con gli operatori dell’edilizia privata sociale , e rischiano di ritardare
l’obiettivo di completare gli investimenti per il 2015.
Va infine rilevato che il Decreto legge 47 è ancora una volta pieno di rimandi a provvedi menti attuativi, Decreti interministeriali, concerti ecc. tutti elementi che ritarderanno di
mesi, se non di anni l’attuazione di misure di cui ci sarebbe necessità immediata.
Francesco Monaco - Politiche abitative e nuova politica di coesione UE:
una prima panoramica delle opportunità
Le politiche abitative, nell’accezione data dalla relazione introduttiva al Forum CGIL, è
tema tradizionalmente escluso dalla politica di coesione comunitaria.
I regolamenti che disciplinano l’uso dei fondi (FESR, FSE, FEARS, FEAMP), su cui si
basa il sostegno alla politica di coesione non fanno alcun cenno agli interventi in materia di
“casa e abitare”. Nessun riferimento (salvo quanto dirò più sotto) si ritrova sul testo di
Accordo di Partenariato trasmesso il 22 aprile u.s. a Bruxelles per l’esame della
Commissione.
L’art.174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TUEF) sancisce che per
rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale europea, l’Unione deve mirare a
“ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno
favorite o insulari”: è esattamente questa, e non altro, la missione della politica di coesione
comunitaria. Naturalmente tutto lo sforzo deve essere concentrato a raggiungere gli
obiettivi posti dall’Unione nella strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed
inclusiva del continente.
Considerando tuttavia l’approccio di partenza del Forum, che assume lo stato di bisogno
quale connotazione principale del disagio abitativo -soprattutto se legato a determinate
condizioni di (scarso) reddito e di più acuta vulnerabilità sociale- è possibile far rientrare le
problematiche afferenti la questione abitativa (carenza di alloggi per fasce deboli di
popolazione) sotto la categoria generale degli interventi per il contrasto all’esclusione
sociale.
Sotto quest’ultimo profilo, sono due gli obiettivi tematici della politica di coesione 20142020 che possono essere considerati ai fini della identificazione di azioni utili a rispondere,
seppur indirettamente, anche al disagio indotto dalla privazione abitativa.
Si tratta dell’obiettivo: promuovere un’occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la
mobilità dei lavoratori (art.9, punto 8, Reg. UE n°1302\2013) e dell’obiettivo: promuovere
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Forum sulle Politiche abitative - Area Welfare CGIL nazionale
l’inclusione sociale e combattere la povertà e ogni discriminazione (art.9, punto 9, Reg. UE
n°1302\2013).
Su un totale di 41.548,4 MEURO di fondi FESR, FSE e FEARS, in dotazione per il
settennio 2014-2020, l’obiettivo punto 8 totalizza investimenti pari a 4128,9 MEURO
mentre l’obiettivo punto 9 tocca i 3.814,0 MEURO. A questi vanno aggiunte le quote di cofinanziamento nazionale obbligatorio che raddoppiano il budget a disposizione per ciascun
obiettivo.
Non è da sottovalutare la circostanza, nuova in questo ciclo di programmazione, che
almeno il 20% del Fondo FSE debba essere obbligatoriamente investito per interventi
destinati a promuovere l’inclusione sociale (art.4, comma 2, Reg. UE n°1304\2013).
Naturalmente, dovranno essere le autorità di gestione dei programmi nazionali e regionali
a declinare nei PO di rispettiva competenza, e in partenariato con i livelli istituzionali e le
parti economiche e sociali (art.5, Reg. UE n°1302\2013), le operazioni necessarie ad
intercettare e contrastare i bisogni in parola.
Sicuramente il PO plurifondo Città Metropolitane (ed in parte, nelle regioni svantaggiate,
anche il PO FSE Inclusione) potrà declinare in maniera appropriata l’obiettivo della lotta
alla povertà e la promozione dell’inclusione sociale. In particolare, sarà possibile
programmare misure di aumento dei servizi di cura, sanitari e sociosanitari, migliorandone
la qualità dell’offerta oltreché progettare interventi per la “riduzione del numero di persone
che si trovano in condizioni di disagio socio-abitativo”. Allo stesso modo negli assi
territoriali\urbani di tutti i programmi operativi regionali (POR) sarà possibile replicare
suddette operazioni, con riguardo anche a città medie ed altre tipologie di aree urbane.
Un’apertura interessante al settore è offerta dagli interventi di efficientamento energetico
che il FESR rende possibile e ammette a finanziamento per la riqualificazione del
patrimonio pubblico, compresa l’edilizia abitativa e gli immobili detenuti dagli ex IACP (o
similia).
Ulteriori opportunità possono derivare dall’indirizzare verso aree bersaglio di pronunciata
fragilità sociale (e quindi abitativa) azioni volte alla riduzione alla fonte di rifiuti urbani
ovvero a migliorare il servizio idrico integrato per usi civili. Come interessanti possono
essere le iniziative da assumere per lo sviluppo dell’impresa sociale, la cooperazione e il
Terzo settore, terreno privilegiato su cui sperimentare nuovi servizi fondati anche sulla
partecipazione degli utenti alla loro produzione. Tutte azioni ammissibili a finanziamento.
Infine, non sono da sottovalutare gli impatti che possono produrre, in una logica di
riduzione del tasso di esclusione sociale, gli interventi finalizzati al contrasto dell’illegalità e
del miglioramento del tessuto urbano che possono essere promossi, oltre che dai PO
regionali, nelle regioni svantaggiate, dal PO plurifondo Legalità.
Fuori dal campo degli investimenti in conto capitale, un ruolo importante per immaginare di
intervenire sul tema del disagio sociale, anche indotto da penuria di abitazioni, è offerto
dagli strumenti di ingegneria finanziaria.
Al di là degli schemi classici di social housing, peraltro ad un primo esame non
espressamente menzionati nei regolamenti, gli strumenti finanziari proposti dalla politica di
coesione sono diventati sempre più rilevanti, dato il loro effetto moltiplicatore sui fondi
comunitari, la loro capacità di associare diverse forme di risorse pubbliche e private a
sostegno di obiettivi di politiche pubbliche ed in considerazione del fatto che le forme di
rotazione dei mezzi finanziari rendono tali sostegno più sostenibile a lungo termine.
Gli strumenti finanziari sostenuti dai fondi comunitari dovrebbero essere usati nei casi di
fallimento del mercato ovvero quando i costi di mercato siano insostenibili per i fruitori dei
servizi e consentano di promuovere una notevole partecipazione di investitori privati e di
istituzioni finanziarie, assicurando un’adeguata condivisione dei rischi.
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6.
Come proseguire
La proposizione della CGIL è continuare con l'attività del forum, un luogo dove confrontarsi
anche con persone che hanno competenze diverse.
Su molti argomenti il Piano del lavoro è la nostra “piattaforma”, a partire dalla rigenera zione urbana. Ma su temi quali disagio abitativo, consumo di suolo, riqualificazione, nuova
edilizia residenziale pubblica, social housing, risparmio energetico, seppure la CGIL sia
presente con numerose iniziative, si riscontra una frammentazione, che ci porta ad aprire
un confronto più ampio con altri interlocutori, per riportare l'attenzione sui temi dell'abitare.
Vorremmo provare a ricostruire alcuni punti. Per noi il tema della rigenerazione urbana è
un tema di per sé inclusivo perchè, con l'accezione che utilizziamo, intendiamo provare a
sovrapporre diversi piani di programmazione e diversi livelli di contrattazione. Ripensare la
città, come ci segnala l'Europa, come luogo di innovazione, in cui si vive, si lavora, si produce, significa immaginare la riprogettazione del territorio, assumendone vari piani: quello
sociale, quello culturale, quello materiale di costruzione della città, quello che riguarda la
distribuzione e l'organizzazione delle reti di servizi. E' un livello di complessità nel quale la
riqualificazione del patrimonio edilizio ha un ruolo fondamentale.
Pensiamo ovviamente di non poter avere tutte le risposte, ma il punto nodale è come rico struiamo una visione unitaria che si confronti con il Governo ed i livelli istituzionali preposti,
spesso inerti ad impegnarsi per una politica abitativa nazionale che abbia coerenti articolazioni territoriali come ambiti di intervento integrato.
Il rilancio della politica abitativa può essere considerato dal lato della domanda o dal lato
dell'offerta. La CGIL ha inteso affrontarla dal lato dei bisogni: quelli individuali delle persone, ma anche quelli collettivi che esprimono le comunità. E le comunità hanno una declinazione di carattere economico e di carattere sociale.
L'obiettivo è rimettere il tema della rigenerazione urbana al centro di una politica nazionale. Questo è il punto che vorremmo rilanciare e sul quale interloquire con le rappresentanze politiche e con quei soggetti che avvertono la carenza di luoghi collettivi di con fronto, chiedendo di mettere a disposizione le proprie competenze, e avendo noi la possi bilità di orientare, di volta in volta, le ricadute vertenziali che emergono dalle proposte.
Per la prossima riunione proponiamo la discussione di alcuni punti, tra quelli che sono stati
segnalati. Una prima riflessione può avere come oggetto il tema dell'edilizia sociale e le
politiche attinenti la riqualificazione e la rigenerazione, evidenziando le peculiarità. Un ulte riore approfondimento può riguardare i contenuti del nuovo accordo di partenariato, le fun zioni del CIPU e, più in generale, la declinazione delle politiche europee rivolte alla città.
Alcune aree metropolitane si sono misurate con il tema della smart city. Una città intelligente è una città consapevole di quelli che sono i bisogni della comunità e ne risponde in
modo sostenibile. Applicato alla politica abitativa noi avremo spazio per costruire un piano
del lavoro che dia occupazione per i prossimi decenni. E non solo nel settore dell'edilizia,
ma soprattutto nel campo fortemente connesso con le nuove politiche industriali innovative, a basso impatto ambientale e che hanno un'integrazione con le politiche urbane.
Un sindacato ha interesse in questo. Nell'orientare la politica pubblica e gli investimenti, finalizzati a due obiettivi prioritari: generare occupazione e costruire un sistema di sviluppo
territoriale e nazionale che dia risposte ai bisogni complessi delle persone.
Operativamente vi proponiamo di redigere un “manifesto”, documento sintetico e di carattere generale, che indichi la finalità del forum; costruire un'ipotesi di lavoro per il prossimo
incontro; far partire la mailing list con cui scambiare materiali e proposte operative.
L'obiettivo dovrebbe essere costruire una rete per realizzare una campagna/iniziativa politica coerente su questi temi, che possa offrire al disorientamento della politica un'alternativa alle iniziative espresse dai gruppi di interesse che sta orientando il dibattito attuale.
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