ci accorava il tango della Pampa

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ci accorava il tango della Pampa
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DOMENICA 30 DICEMBRE 2012
Eravamo una piccola città
di Giorgio Torelli
P
arma, fine degli anni Quaranta. Natale e Santo Stefano sono passati. Nei nostri presepi, gli angeli restano in servizio di volo
sulla capanna del Pargoletto, Maria
allatta pensosa e le pie donne continuano ad adottarla: è così giovane,
così pallida. San Giuseppe, vigoroso
e barbuto, non dorme mai. Sta dove
ha da essere, in piedi sulla porta
sbrecciata della stalla per filtrare gli
stupefatti, i postulanti, gli oblatori in
continuo arrivo e i pecorai con i doni
degli umili tra le mani gelate: focacce, ricotta e formaggio.
dalle tenorili note sillabate.
Era il saluto definitivo del gaucho
che, in arcione, stava lasciando la sua
patria d’erba e simbolicamente richiamava il nostro altrettanto congedarci dalle venture e dai palpiti di
un anno ormai in bilico, dodici mesi
vissuti con la regìa della sorte, gioie
friabili e subito dopo amarezze senza
preannuncio.
Eravamo gauchos anche noi della
piccola città, coinvolti nel passo figurato del tango dei tanghi: lo zio
ragioniere, con la mossa del piede
rialzato a tempo debito (la "pistoletta") come prescritto nei bassifondi di
Buenos Aires; lo zio brigadiere dei
pompieri, che provocava il casquet
della dama per riavvinghiarla a spasimo; mio cugino, reduce dalle battaglie perdute in Africa settentrionale, gran frequentatore festivo delle
balere di città si rivelava magistrale
nel gioco delle gambe incrociate.
Il tenore a cavallo intonava dal disco:
“Adiòs Pampa mia / me voy a tierras
extrañas / Adiòs caminos che he recorrido / rios, montes y cañadas / tapera donde è nacido (Addio Pampa
mia, vado in terre straniere. Addio
sentieri che ho percorso, torrenti,
monti, gole e il rancho in rovina dove
sono nato)”.
Che si sappia, nessun legionario romano sì è presentato, a cavallo o in
calighe ferrate per curiosare o capire
cosa stia succedendo attorno a quella stamberga dove il fiato greve
dell’asino e del bue inteporiscono
l’aria che sa di fieno bagnato e strame. Ogni tanto, nevica. E noi, quasi
1950 anni dopo il Fatto, seguitiamo a
tenere le miniature del presepe in
bellavista. E aspettiamo, al caldo,
che l’anno estinto si delinei all’orizzonte come un brigantino dalle vele
non ancora rattoppate.
A casa mia, sarebbe stato impossibile accompagnare all’uscita l’anno
decrepito e stendere la passatoia rossa a quello imminente, festeggiando
la svolta altrove. Tutte in famiglia le
grandi ricorrenze, con amici e parenti a far corona amorevole. A ripensarlo, il menù era eccelso. Non più
cappelletti, plasmati dal tocco pianistico di dita consapevoli che il gran
depositario dell’onesta cucina Pellegrino Artusi avrebbe onorato. Ma, al
contrario, un pasticcio di sublime
pastafrolla ad alto contenuto di maccheroni, forse un retaggio - così si
diceva - delle portate di corte riservate alla regnante duchessa Maria
Luigia vedova Bonaparte. Memorabile il vassoio oblungo e filettato
d’oro del vitello tonnato, impreziosito da trancetti di limone siculo.
E, ancora più lancinante, lo strappo
sentimentale: “Si nos volvemos avernos / tierra querida, quiero que sepas
/ que al irme dejo la vida. Adiòs! (Se
non torniamo a vederci, voglio che tu
sappia, terra amata, che andandomene lascio la vita. Addio!)”. Il 78 giri
frenava con un lungo fruscìo, tutte le
scarpe danazanti in stop e i volti accesi.
Bellissima fatica. Avevamo il respiro
corto anche noi, riuniti sulla soglia di
un addio definitivo al passato remoto, arredato da cose viste, fatte, interpretate, vincenti o subite. Stava
per presentarsi l’anno novello in confezione sigillata. Pronte le coppe per
lo spumante.
E via di seguito: frutta fresca e secca
da inverno agiato, noci di Sorrento,
mandorle abruzzesi, nocciole delle
selve piemontesi, spagnolette dal
crac fragrante, anche datteri delle
oasi magrebine (ultimo raccolto) e
trionfale mousse di cioccolata calda
in tazze di candore claustrale coi
cucchiaini d’argento a far da paggi.
Dodici rintocchi, brindisi a mani levate sotto il vischio che decorava l’incorruttibile pendola. Largo alla prima
ora del primo giorno dell’anno, tutto
fresco di vernice: baci, abbracci, occhi
umidi, un cugino ingegnere di Roma a
sostenere che, per scaramanzia, si dovesse gridare: “Al lupo! Al lupo!”. Già
Nel dire adiòs all’anno
ci accorava il tango della Pampa
Mai panettone, troppo milanese.
Solo vini di serena reputazione e calici a sette riflessi. Dunque, cena tra
le amate sponde domestiche. E poi, a
più mani, esiliata in un angolo la tavola ancora apparecchiata, via con le
danze per volgere in allegrezza
l’aspettativa - molta - dei doni di cornucopia previsti e sperati dalla munificenza dell’anno già in curva d’arrivo. La carissima pendola - deputata
a esibirsi nella Mezzanotte di valico
tra la dipartita dell’anno in estinzione e il lieto evento dell’anno inesplorato - già segnalava le ore Ventitrè.
Era tempo di dar voce al nuovo radiogrammofono in finta radica e ai
lucenti dischi a 78 giri pronti a far la
gibigianna sotto l’invasiva puntina
del pick-up.
Li rammento tutti, i partecipi del
ballo in famiglia: quelli di casa e gli
ospiti, solleciti a stringersi in coppie
e affabili nel ruotar su se stessi con
ogni possibile eleganza, mentre andavano precisandosi - di disco in disco - musiche care alla memoria e
Dopo la festosa cena di San Silvestro e in attesa della Mezzanotte
spartiacque (parenti e amici alla grande tavola di casa),
si ballava in famiglia alternando i dischi a 78 giri
sul nuovo radiogrammofono in finta radica. E il rimpianto
del gaucho a cavallo, che lasciava per sempre il suo mare d’erba
e di polvere (il disco tenorile sarebbe piaciuto a García Lorca),
confinava col nostro fatale congedarci dal tempo ormai scaduto
favorevoli all’abbandono. Le coppie
in ballo saranno state una decina, variate ad ogni diverso motivo: lo zio
con la cugina, la zia con il marito della sorella, il babbo con la cognata, la
mamma con l’ospite d’onore, un continuo assortirsi nel crescere delle canzoni e nell’impegno di danzarle con
stile.
Il lamento d’amore di un amante
esacerbato si accentuava col cupo
commento del contrabbasso e dalle
spazzole strascicate sul tamburo della
batteria, invadendo la sala diventata
dancing d’occasione: “Ti ho vista
piangere / Mi hai fatto tanto male al
cuor / perchè io so che il tuo dolor
non è per me / Vorrei consolar le tue
pene e poi dirti tutto il mio amor”. Ed
ecco alla ribalta, lo swing italiano di
Biancastella che “nel boschetto andò e incontrò un bel cavalier sulla
sella / Disse: dove vai piccina? Sai
chi sono? Sono il re / Vieni, tu sarai
regina con me”. Pronto a esibirsi,
adesso, Emile Waldteufel, lo Strauss
parigino di Les Patineurs, il più
morbido dei valzer, felpato e avvolgente, le scarpe lucide strisciate sul-
le mattonelle come pattinando sul laghetto gelato.
Suonavano le Ventitrè e trenta, ormai. E cresceva il momento del disco-principe: il tango argentino di ultimo grido dal titolo nostalgico
“Adiòs Pampa mia”, uno struggente
allontanarsi a cavallo dai luoghi amati, una quasi poesia di García Lorca
crescevano, fuori delle finestre ben
chiuse, le sparatorie multiple, le fucilerie, i mortaretti, i tricche-tracche, le
revolverate di rito, qualche schianto a
sgomito da mandare in sonata i vetri.
Ci guardavamo con amore e confidenza, tutti più vecchi, la neve prevista
per la nottata. Mio padre, impavido e
brillante, faceva il botto coi tappi.
Aveva riposto in cucina, se mai avesse
a fioccare, una carota di un palmo per
fare il naso al pupazzo di neve da sagomare subito in giardino con tanto
di ramazza al fianco, gli occhi di carbon coke e un cilindro di cartone in
bilico sulla capoccia di ghiaccio per
far turlulù ai molinelli della malora.
Sono certo di risentire la sua voce
quando diceva in dialetto: “Chissà
mai se a Betlemme, sotto la fiocca, i
pastori saranno stati capaci di fare il
giocattolo più modesto, il pupazzo di
neve per far festa a Gesù, poverino,
così bello, senza una casa e senza un
centesimo, povrén, acsì bél, sensa ‘na
ca e sensa gnan un borr”.