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L’esodo a ritroso dei clandestini del Sahel Stefano Liber ti Il Manifesto Foto di S. Liberti e F. Pastore Un paio di pantaloni e una camicia. Ad Abdou Wakilou non è rimasto quasi nulla dei nove mesi trascorsi in Libia: nelle tasche, il provvedimento di espulsione delle autorità di Tripoli; nello sguardo, l’amarezza per le umiliazioni subite. Reduce da un viaggio attraverso il deserto del Teneré su un camion carico di immigrati rispediti a casa, questo trentacinquenne nigerino rievoca con una punta di tristezza le ultime tappe della sua odissea. “Facevo il macellaio a Shabâ. Un lavoro discreto, con una paga decente”, racconta. “Un giorno, mentre stavo andando a lavorare, la polizia mi ha fermato per strada. Mi hanno chiesto i documenti e, appena hanno visto che non ero in regola, Stazione di Agadez – l’ufficio dello chef de ligne Agadez-Dirkou mi hanno sbattuto in carcere. Non mi hanno lasciato neanche il tempo di andare a casa a recuperare le mie cose”. Dal giorno dell’arresto, la vita di Abdou è un susseguirsi di mortificazioni. Chiuso nel centro di detenzione di Shabâ in attesa di essere rimpatriato, viene prelevato ogni mattina con un pulmino e portato a costruire… il nuovo commissariato della città. Il sole è opprimente, il lavoro sfiancante. Per ricompensarlo della fatica, i poliziotti libici alla sera gli danno una ciotola colma di riso. Finché un bel giorno, invece del solito pulmino, viene caricato su un camion. Destinazione sud: si torna in Niger. Sul cassone del veicolo, un centinaio di compagni di sventura condividono con lui 2 l’esperienza del viaggio a ritroso sulla stessa pista che li aveva condotti verso nord. Oggi Abdou trascorre le sue giornate nei pressi della stazione degli autobus di Agadez, crocevia di partenze e ritorni, punto di snodo delle rotte dell’immigrazione che dal Niger portano in Nord Africa. E da qui – per chi ha il coraggio e i soldi necessari – in barca in Europa. Abdou scruta un pick-up carico e pronto per partire alla volta di Djanet, in Algeria, sulla strada che va all’oasi di Ghat, nel Fezzan libico. Vuole ritentare la sorte? “No, la Libia mai più. È troppo pericoloso”. Da quando l’Italia ha firmato gli accordi con il colonnello Gheddafi (vedi box 1), i sub-sahariani – e in particolare i cittadini del Niger, protagonisti da decenni di un’emigrazione transfrontaliera verso il Paese vicino – sono nel mirino. Vengono arrestati per strada, chiusi nei centri e caricati sui camion, senza alcun criterio apparente. “La loro unica preoccupazione è fare numero”, dice Raliou Ahmed Assaleh, direttore della locale Radio Sahara e corrispondente da Agadez di Radio France Internationale. “Da due anni a questa parte, i camion dei rimpatri sono diventati la norma. Ne arrivano ogni giorno. L’Italia fa pressioni su Gheddafi e lui rimanda indietro i nigerini. Ma è una vera e propria truffa: perché questi ultimi non hanno alcuna intenzione di andare in Europa”. Dopo gli accordi firmati con il governo Berlusconi, la Libia ha cominciato a svolgere al confine sud il ruolo di gendarme per conto terzi. La politica panafricanista lanciata con tanto clamore nel 1999, al grido di “frontiere aperte per tutti”, è ormai acqua passata. Per dimostrare la sua buona volontà nel realizzare il compito assegnatogli dall’Europa, il leader di Tripoli dispone oggi retate e rimpatri. Per comprovare il buon funzionamento dei centri di detenzione costruiti con i soldi italiani, li riempie con solerzia. E per rimpolpare le statistiche, carica camion e pick-up alla volta del deserto. I numeri dimostrano l’estensione del fenomeno: nel 2005 sono stati rimpatriati ad Agadez 8.235 cittadini nigerini, a fronte dei 1.574 del 2004. Una progressione che non sembra arrestarsi: al commissariato di Dirkou, primo centro abitato sulla strada che dalla Libia porta alla gloriosa capitale tuareg, hanno registrato 1.384 rimpatri solo nel primo trimestre del 2006. “La politica dei refoulements è diventata sistematica da un paio d’anni”, spiega All’interno dell’ufficio 3 ACCORDI SULL’IMMIGRAZIONE TRA ITALIA E LIBIA La storia degli accordi sull’immigrazione tra Italia e Libia comincia nel 2000, quando i due governi firmano a Roma un’intesa di carattere generale per combattere il terrorismo, il crimine organizzato, il traffico di droga e l’immigrazione irregolare. Si tratta di un accordo molto generale, specchio di un’epoca in cui gli sbarchi in provenienza dalla Libia non sono ancora un fenomeno preponderante. È dal 2002, con l’aumento degli arrivi sull’isola di Lampedusa e nella Sicilia meridionale, che la cooperazione in materia migratoria si intensifica: nel settembre 2002, si riunisce Tripoli il primo comitato di sicurezza italo-libico. Nel luglio 2003, viene stabilito un coordinamento permanente tra funzionari della polizia italiana e colleghi della direzione generale della sicurezza libica. Nell’ambito di questi rapporti rafforzati, Roma approva nel 2003 la fornitura di materiale per rafforzare il controllo dei confini (tanto i 1770 chilometri di costa che i 4400 chilometri di frontiere terrestri). Vengono quindi ceduti a Tripoli jeep 4x4, gommoni, binocoli, strumenti per l’identificazione di documenti falsi e varie altre apparecchiature. Nello stesso anno, l’Italia finanzia la costruzione di un centro di permanenza temporanea per immigrati irregolari a Gharyan, vicino Tripoli, e un programma di 47 voli charter che dalla Libia rimpatriano 5.688 immigrati irregolari, principalmente nigeriani, ghanesi, egiziani. L’Italia prevede nella finanziaria 2004-2005 fondi da destinare alla Libia per la costruzione di altri due centri: uno a Khufra, al confine sud-orientale con Sudan e Ciad; un altro a Shabâ, al confine sud-occidentale con Niger e Algeria. Gli incontri ad alto livello si susseguono: il 25 agosto 2004 l’allora premier Silvio Berlusconi si reca a Tripoli. Al ritorno a Roma annuncia la stipulazione di un accordo bilaterale per il rimpatrio di cittadini di paesi terzi transitati per la Libia. Di tale accordo - inizialmente definito “segreto” e di cui persino l’Europarlamento ha chiesto conto – non si è mai trovata traccia e la sua esistenza è stata esclusa pubblicamente anche da alti funzionari del ministero dell’interno. Quel che è certo è che l’attività diplomatica si intensifica e si articola intorno a uno sorta di do ut des: da una parte l’Italia si spende per ottenere la revoca dell’embargo sulle armi dell’Unione europea contro Tripoli; dall’altra, il colonnello Gheddafi promette maggiore cooperazione nel contrasto all’immigrazione clandestina. Il 26 settembre 2004 il ministro degli interni Giuseppe Pisanu è a Tripoli. È probabile che in quella occasione - così come durante il precedente viaggio di Berlusconi, cui Pisanu ha ugualmente preso parte – l’Italia abbia ottenuto l’ok verbale a un rimpatrio di cittadini di paesi terzi: subito dopo (il 1°ottobre) iniziano a partire i criticati charter da Lampedusa verso la Libia – in sei giorni, sono mandati nel paese nordafricano 1153 immigrati irregolari, alcuni dei quali potenziali richiedenti asilo. L’11 ottobre l’Unione europea decreta la revoca dell’embargo. Più o meno nello stesso periodo, da quanto raccontano in Niger, sono cominciate le deportazioni di cittadini nigerini attraverso il deserto del Teneré, che continuano tuttora. 4 Tahirou Oumarou, responsabile della divisione “Nigerini all’estero” al ministero degli Affari esteri di Niamey. “Anche in passato le autorità di Tripoli procedevano di tanto in tanto a rimpatri di stranieri. Ma erano occasionali, conseguenza spesso di qualche frizione all’interno del Paese. Ormai possiamo invece dire che è la norma: ogni giorno assistiamo alla deportazione, attraverso il confine di Madama, di decine di nostri connazionali”. Oumarou non deplora tanto il fatto che i nigerini siano rimpatriati (“sono immigrati illegali, la Libia ha tutto il diritto di mandarli indietro”), quanto il trattamento che questi ultimi sono costretti a subire. “Perché non permettono loro di recuperare le loro cose? Perché li rinchiudono in quei centri di detenzione?”, chiede. Il funzionario non sa dire con certezza cosa spinga la Libia a liberarsi di una presenza immigrata che è sempre stata parte integrante del panorama sociale del sud del Paese. Ma, con fare diplomatico, avanza un’ipotesi: “I rimpatri di massa sono iniziati poco dopo la firma degli accordi tra il vostro governo e quello libico. Diciamo che la coincidenza è, quantomeno, sospetta”. Nel sottolineare questo punto, segnala poi un altro aspetto: “Se, come sembra dalla convergenza di date, Tripoli ha cambiato politica in seguito alle pressione italiane, è bene che l’Italia sappia che sta prendendo un abbaglio: posso affermare con certezza che il 99,9 per cento dei nostri connazionali rispediti indietro non ha mai sognato neanche lontanamente di andare in Europa. A dimostrarlo, basta un dato: tra gli immigrati sbarcati sulle coste europee o tra quelli morti nei naufragi in mare, non si è mai avuto il caso di un nigerino”. Agadez, la por ta del Teneré Alla stazione di Agadez, 1000 chilometri e dodici ore di strada a nord della capitale Niamey, la questione sollevata diplomaticamente da Oumarou è sulla bocca di tutti. “È un vero scandalo. L’Europa cerca di fermare l’emigrazione verso le sue coste, ma non si preoccupa minimamente degli effetti che le sue politiche hanno all’interno del continente africano. Con i vostri accordi, colpite solo la povera gente che, per sfuggire alla miseria, vuole andare a lavorare al di là del confine”. Capo del sindacato dei trasportatori di Agadez, Alajj Ousmane ha il dente avvelenato con l’Italia, che anche secondo lui ha una responsabilità diretta nella stretta ai confini: “Voi italiani siete ossessionati dall’idea dell’invasione e non vi rendete conto che la stragrande maggioranza dei cittadini sub-sahariani che emigrano verso il Nord Africa non ha la minima intenzione di attraversare il mare. Solo gli anglofoni – i nigeriani e i ghanesi – passano di qui per andare in Europa. Gli altri puntano semplicemente alla Libia”. A poca distanza, un altro pick-up è pronto a salpare con trenta persone a bordo. Prezzo del trasporto: 35mila franchi Cfa (circa 50 euro) fino a Djanet, in Algeria. Da lì, il gruppo continuerà a piedi con alcuni passeurs specializzati nell’ingresso in territorio libico. La provenienza dei passeggeri sembra confermare le parole di Ousmane: sono tutti nigerini diretti in Libia. Alcuni hanno già sperimentato di persona il rimpatrio coatto; altri conoscono il rischio, ma partono lo stesso. Vittime di un tasso di disoccupazione galoppante e di una società che offre loro ben poche prospettive, gli exodants – come li chiamano da queste parti – vogliono spingersi al di là del deserto semplicemente per offrire alle loro famiglie un’esistenza un po’ più dignitosa. Alla stazione di Agadez le partenze per la Libia attraverso le due rotte principali – una a est lungo la pista del deserto del Teneré; l’altra a nord verso l’Algeria a da qui a Ghat (vedi box 2) – avvengono alla luce del sole. In un piccolo ufficio al centro del grande spiazzo di asfalto dell’autogare si organizzano i viaggi in camion per l’oasi di Dirkou, tappa intermedia nella rotta del Teneré. È una stanza un po’ buia, in cui si 5 affaccendano diversi personaggi: lo chef de ligne, incaricato di tenere la contabilità delle partenze; un autista dall’aria stralunata; e un gigante nigeriano dalla barba lunga e l’atteggiamento equivoco, che sembra avere il monopolio nel trasbordo dei suoi concittadini. L’uomo, uno yoruba del sud della Nigeria, è scontroso e diffidente; non vuole interferenze nel suo business e respinge ogni tentativo di interlocuzione. È uno tchaga (intermediario, in lingua haussa). Si occupa cioè, in cambio di laute percentuali, di procacciare passeggeri per i camion in partenza. Il suo ruolo è riconosciuto, la sua funzione di “facilitatore” socialmente accettata. Quello di tchaga è solo uno dei tanti mestieri legati a un’immigrazione di transito che costituisce una delle principali fonti di reddito per la città di Agadez. “Tra autisti, proprietari di veicoli, meccanici, intermediari, affittuari di case, venditori di barili d’acqua e di cibo, le rotte per la Libia danno lavoro approssimativamente a mille persone” spiega ancora Ousmane. La cifra sembra esagerata, ma un semplice colpo d’occhio rivela che le partenze generano indubbiamente un certo indotto: nel quartiere antistante la stazione, sono decine i venditori di barili d’acqua (ex contenitori per olio e benzina rivestiti di un telo di canapa per proteggerli dal calore) e di pezzi di ricambio per jeep e camion. La parete dell’ufficio dello chef de ligne è coperta di foto di camion in partenza, di poster di cantanti di grido di Lagos, di messaggi lasciati qui nel corso degli anni. Una scritta in francese augura “a tutti i camerunesi di passaggio in bocca al lupo per il viaggio”. Accanto a quelli che somigliano tanto a ex voto lasciati dai candidati all’emigrazione, una lavagnetta indica il costo della traversata: 15.000 franchi Cfa (25 euro). In realtà, il prezzo varia a seconda della provenienza e della capacità di negoziare del passeggero. I nigerini del nord possono arrivare a pagare anche 7.000 franchi Cfa, mentre i forestieri – che non conoscono la città e non sanno orientarsi tra le agenzie che offrono il passaggio per Dirkou – spesso spendono molto di più. Non appena arrivano ad Agadez sono presi in consegna da uno tchaga, che fornisce loro il pacchetto completo: ospitalità in case di 6 transito in attesa della partenza, pasti e posto sul camion. Il tutto a un costo variabile, che può arrivare – soprattutto per gli stranieri anglofoni, che hanno difficoltà a comunicare – fino a 50.000 franchi Cfa (80 euro). A questi vanno aggiunte le tangenti da versare alla polizia e ai doganieri, che hanno stabilito un vero e proprio tariffario a seconda della provenienza e dello status del migrante in transito: alla dogana di Agadez trattengono 1000 franchi Cfa per uno straniero o un nigerino privo di carta d’identità; al punto di controllo subito fuori città 2000 franchi Cfa per gli stranieri e 1000 per i sans papiers nigerini; fino all’esorbitante “tassa d’ingresso” a Dirkou, dove la polizia chiede 5000 franchi Cfa e i doganieri 2000. “Per arrivare in Libia tranquilli è bene avere in tasca 120.000 franchi Cfa (circa 180 euro)”, conclude Ousmane. Il business delle partenze sembra rispondere a regole codificate: la torta viene spartita tra i proprietari dei veicoli, gli autisti e i vari intermediari. Facilmente riconoscibili tra gli sfaccendati che si aggirano all’autogare, queste figure sono considerate alla stregua di tour operator, che si limitano a offrire un servizio in cambio di un compenso. “In Europa tendete a parlare di organizzazioni strutturate che gestiscono le rotte migratorie. In realtà tutto si fa in modo più artigianale: si tratta di persone che sfruttano le loro conoscenze per rispondere a una domanda del mercato. Lo tchaga – o connection man, come lo chiamano gli anglofoni – è spesso un emigrante tornato indietro o rimasto bloccato nei luoghi di transito. Gli autisti sono invece per lo più ex ribelli tuareg che hanno saputo riconvertire nel business dell’emigrazione la loro straordinaria conoscenza delle piste del deserto. A volte a guidare i pick-up per l’Algeria sono le stesse persone che, durante l’alta stagione, trasportano i turisti europei a vedere le bellezze del Teneré”, spiega Ibrahim Manzo Diallo, direttore di Aïr Info, una rivista mensile che si occupa dei problemi del Nord tuareg. Diallo sa di cosa parla: quattro anni fa, curioso di vedere come funzionava la rotta, si è travestito da emigrante ed è arrivato fino in Libia. “Ci ho messo in tutto dieci giorni – continua il giornalista, ma all’epoca era molto più facile: il confine era aperto e non era ancora cominciata la politica di rimpatri di massa. Nel complesso, il viaggio costava un po’. Ma almeno, una volta entrato, non correvi il rischio di essere rimandato subito a casa”. La prospettiva del rimpatrio coatto rappresenta il principale incubo degli exodants in partenza. Ma non sembra tale da fermare un flusso che affonda le sue radici nel sottosviluppo persistente del Niger e in una tradizione ancestrale di viaggi oltrefrontiera. Se la strada per Dirkou appare oggi un po’ in disuso, quella che passa per l’Algeria continua a essere piuttosto battuta. “Ogni giorno faccio partire due o tre pick-up, carichi per lo più di nigerini”, racconta alla stazione un vecchio intabarrato nella chiche, il turbante del deserto. Ex combattente della rivolta tuareg, l’uomo ha riconvertito i suoi veicoli nel trasporto delle persone. “È un buon lavoro, con cui riesco a sfamare la mia numerosa famiglia”, si giustifica. “E con cui aiuto quei poveretti che vogliono andare a cercare fortuna al di là del confine”. A pochi metri di distanza, i candidati all’esodo aspettano che l’autista finisca di espletare le formalità con la polizia, che registra in un’apposita lista nomi e bagagli di tutti i viaggiatori. Stravaccati sul pavimento della stazione, al riparo dell’ombra proiettata da un muretto, i passeggeri – tutti uomini, tra i diciotto e i trenta anni – stringono tra le gambe le poche cose che li accompagneranno durante il viaggio. I più non hanno nulla; un piccolo fagotto con una coperta e l’immancabile bidone d’acqua. Sperano di riuscire a lavorare un po’ e racimolare qualche soldo nel Paese vicino. Ma spesso si vedono costretti a tornare a mani vuote, rimpatriati a forza o fuggiti volontariamente da una Libia che si mostra sempre meno indulgente con “i fratelli africani”. Un autogrill in mezzo al deser to Il guineano Thomas è uno di questi “autodeportati”. A circa 200 chilometri da Agadez, in un minuscolo agglomerato di capanne sulla pista che va verso l’oasi di Dirkou e da qui in Libia, si riposa all’ombra del camion che lo sta riportando indietro. “Ho trascorso due anni a Tripoli. Ma ormai, tra le retate e il razzismo della popolazione locale, il clima è diventato soffocante: così ho deciso di tornare a casa”, racconta amaro. Con lui viaggiano alcune decine di persone: sono soprattutto nigerini, ma tra loro ci sono anche maliani, senegalesi, burkinabé, ciadiani. Tutti erano emigrati alla volta della Jamahiriya. E tutti sono ora di ritorno. Pensano forse di ripartire? Alzano gli occhi al cielo. Hanno mai sognato di andare in Europa? “Sì, ma solo con un visto. Il mare è troppo pericoloso”, risponde un giovane burkinabé. Thomas e i suoi compagni non sono i soli a tornare indietro spontaneamente. Mentre descrivono la loro esperienza in Libia, i sogni e le aspettative deluse, due altri bestioni a 10 ruote compaiono all’orizzonte. Carichi all’inverosimile, contornati da una ghirlanda di barili d’acqua, i due camion somigliano a cattedrali mobili, tanto instabili quanto imponenti. Arrivati all’altezza delle capanne, gli autisti spengono i motori. I viaggiatori abbarbicati sui sacchi di miglio nel cassone dei veicoli non aspettano altro: senza farsi pregare scendono a terra, visibilmente contenti di potersi concedere una pausa di riposo. Alcuni prendono d’assalto il punto d’acqua; altri si allontanano in fretta per andare alla toilette. Altri ancora si dirigono verso un baracchino dove si vende carne di montone, pane e nescafé. Un paio di donne con tanto di bimbi a tracolla cercano riparo in una zona d’ombra. Affollata e caotica, l’area di sosta somiglia a un autogrill in un week-end estivo. Nonostante la stagione non sia la più adatta alle traversate del deserto, meno faticose e più frequenti nei mesi invernali, sulla pista è 7 un via vai incessante di camion. Alcuni trasportano verso nord sigarette di contrabbando destinate al mercato nordafricano. Altri, persone. Dirette, queste ultime, soprattutto a sud: a pochi chilometri di distanza, altri due veicoli stracolmi di passeggeri in rotta verso Agadez sembrano indicare che la via del ritorno è oggi più battuta di quella di andata. E che alle cifre ufficiali dei refoulements va aggiunto un numero imprecisato di fuggitivi, che hanno preferito il rientro volontario all’ignominia della detenzione e del rimpatrio coatto. Perché la deportazione può riservare anche brutte sorprese. A volte, i camionisti libici incaricati di ricondurre i “clandestini” ad Agadez li abbandonano a metà strada, nell’oasi di Dirkou, dove questi rimangono di fatto bloccati. “Li scaricano come merci e fanno dietro front, anche se in teoria sarebbero pagati per trasportarli fino ad Agadez”, racconta ancora Diallo. Imprigionati in questa sorta di terra di nessuno, dove lo Stato è per lo più assente e i servizi ridotti al minimo, i refoulés sono costretti ad arrangiarsi per riuscire a completare il viaggio. Alcuni si dedicano a lavori di fatica. Altri vendono, in mercati improvvisati, le poche cianfrusaglie che sono riusciti a portare indietro dalla Libia: qualche vestito sdrucito, coperte, mucchi di tappeti e orologi con l’effigie di Gheddafi. Spesso trascorrono qui anche mesi, prima di riuscire a racimolare il denaro necessario per pagarsi l’ultimo tratto di strada. LE ROTTE VERSO LA LIBIA Due sono le strade che seguono i candidati all’esodo per raggiungere dal Niger la Libia: la prima attraversa verso est tutto il deserto del Teneré e, oltrepassata l’oasi di Dirkou, piega verso nord sul massiccio del Djado per poi entrare nel paese di Gheddafi; la seconda si infila, attraverso le alture lunari dell’Aïr, nell’immenso Adrar algerino. Poco prima di arrivare alla città di Djanet, in corrispondenza di un pozzo, i migranti sono presi in consegna dalle guide, che li accompagneranno a piedi attraverso le montagne del Tassili n’Ajjer per penetrare nel Fezzan. Entrambe le strade hanno i loro pregi e difetti. La via algerina è più breve, ma più rischiosa: la traversata dell’Aïr si compie su piste poco battute a bordo di piccoli pick-up e, in caso di guasto, può rivelarsi fatale; il successivo passaggio delle montagne a piedi è un’esperienza sfiancante e adatta solo a persone dal fisico particolarmente resistente. La via del Teneré, un tempo strada maestra per l’ingresso da sud nella Jamahiriya, è oggi più controllata: per quanto interminabile, il confine libico non è più il colabrodo di una volta; la polizia e i soldati pattugliano le piste più utilizzate e costringono i viaggiatori clandestini a giri sempre più larghi. I commercianti tubù e tuareg che assicurano il passaggio da Dirkou ad al Ghatroun, dove comincia l’asfalto libico, a volte sono costretti a passare per il Ciad, con traversate che possono durare settimane. Senza contare che, per paura di essere intercettati, a volte lasciano i loro passeggeri subito dopo il confine, costringendoli a camminare per decine di chilometri sotto il sole. 8 LEGENDA Dirkou, un punto in mezzo al nulla Una striscia di sabbia, qualche casupola di cemento tra le palme, una caserma dell’esercito e uno spiazzo da cui partono i camion: Dirkou è un punto in mezzo al nulla. Ex avamposto militare all’epoca della rivolta tuareg, l’oasi ha conosciuto un inaspettato sviluppo come snodo di merci e persone circa dieci anni fa quando, alla fine della guerra, la pista del Teneré è diventata uno dei principali punti di accesso dal Sahel al Nord Africa. “Il transito di immigrati ha indubbiamente portato una certa ricchezza”, riconosce Boubacar Mohamed Djaram. Eletto sindaco della cittadina due anni fa, questo arabo dalla corporatura robusta respinge l’idea che “Dirkou è un crocevia delle rotte dei clandestini”. E sottolinea l’apporto positivo degli exodants su quest’oasi 9 Area di sosta sulla pista Agadez-Dirkou. Panini per i viaggiatori sperduta: “Alcuni emigranti di passaggio hanno finito per stabilirsi qui, perché hanno visto che ci sono buone opportunità di business”. Una visita al mercato sembra confermare le parole del primo cittadino. Materiale elettronico, vestiti, piccoli bar dotati di ogni sorta di bibita: non si ha l’impressione di trovarsi in mezzo al deserto, in un punto distante 700 chilometri dalla più vicina strada asfaltata. Segno di una modernità che avanza a passi da gigante, un’antenna per il segnale del telefono cellulare provvede anche da qualche settimana a collegare Dirkou con il resto del pianeta. Subito dietro il mercato, in un quartiere tanto distaccato da essersi meritato il soprannome di “ghetto”, vivono i nigeriani: hanno i loro locali, i loro dormitori, i loro negozi. Accanto al bar Djado, in cui è possibile ottenere 10 qualsiasi superalcolico, la Survivor’s Rest House (“Locanda del sopravvissuto”) alla sera offre riparo ai nuovi arrivati. Poco più in là, un baracchino di un barbiere svolge anche la funzione di centro telefonico. Di giorno, il quartiere ha un aspetto sonnacchioso: le strade sono poco animate; all’interno del bar, una manciata di clienti sorseggia birra in un’atmosfera di silenzio surreale. Ma la sera il “ghetto” si anima: tra la musica, le chiacchiere, gli scambi di informazioni per continuare il viaggio, le viuzze si affollano. Appoggiate ai muri delle casupole, ragazze super-truccate e seminude – spesso destinate al mercato della prostituzione in Europa – vendono le loro grazie per 1000 franchi Cfa, l’equivalente di un euro e mezzo. La comunità sembra ben organizzata, con una specie di governo autogestito che si occupa di tutti i problemi interni. Ci sono tre “presidenti”, uno per ogni etnia principale (yoruba, ibo e haussa), cui è demandata la gestione degli affari correnti. Una volta alla settimana tutti i nigeriani si ritrovano in una grande assemblea in cui vengono affrontati i problemi più stringenti. E in cui si discute, tra le altre cose, dell’organizzazione dei passaggi verso nord. La struttura dei viaggi sembra rispondere alle medesime regole di Agadez. Le stesse figure – connection men nigeriani, autisti e proprietari di veicoli, per lo più tuareg o tubù – organizzano i trasbordi. Con una differenza: il passaggio della frontiera viene fatto clandestinamente; i viaggi avvengono in modo meno ostentato, a bordo di pick-up. Si parte di notte, avvolti dal buio e dalla chiche, e si fanno spesso giri molto larghi, per evitare di incappare nelle pattuglie libiche. “Le partenze sono sempre più rare”, racconta un uomo ossuto che afferma di aver fatto per anni il connection man. “Non è più come un tempo, quando organizzavamo uno o due viaggi al giorno. Oggi, assistiamo soprattutto a un flusso in senso inverso: la maggior parte della gente torna, volontariamente o meno. Tra gli stranieri, sono rimasti solo i nigeriani e i ghanesi, che hanno i loro giri. E che, soprattutto, possono permettersi di pagare di più”. Se un tempo a Dirkou si è arrivati a contare in un anno 75 nazionalità differenti, oggi le vie dell’emigrazione verso il Nord Africa sembrano essersi spostate altrove. Conseguenza della stretta libica? Risultato delle pressioni europee? Difficile dirlo. Le rotte cambiano in continuazione, per effetto dei fattori più diversi. L’unica certezza è che oggi nell’oasi si vedono pochi stranieri. E che quelli che si vedono non hanno l’aria particolarmente felice. Chi ha i soldi per continuare, non si ferma a lungo: tre o quattro giorni, il tempo necessario per contattare il connection man e scomparire nella notte a bordo di un pick-up. Chi non li ha, rimane in questo limbo, costretto a vendere le proprie braccia o il proprio corpo. Il nigeriano Yusuf Baba Ibrahim è uno di questi intrappolati. Ha trascorso alcuni mesi in Libia, lavorando a Shabâ come Area di sosta. Zona-preghiera per i più temerari. 11 giardiniere. Poi è stato catturato e sbattuto nel centro di detenzione. Un’esperienza traumatica, il cui solo ricordo gli genera terrore: “Eravamo decine in celle piccolissime. Alcuni di noi venivano picchiati, altri erano portati a lavorare”. Tanto disperata è la sua situazione che Yusuf prende una decisione estrema: fingersi nigerino per essere spedito nel Paese vicino. Lui è un haussa del nord della Nigeria, la stessa etnia che vive nel sud del Niger, e il travestimento non gli riesce difficile. Yusuf è arrivato nel purgatorio di Dirkou alcuni mesi Un guasto al motore può diventare un problema serio. 12 fa a bordo di un camion libico. Oggi lavora come “tuttofare” nella casa del sindaco. Il futuro gli appare incerto: non ha i soldi per tornare a casa, né per tentare di nuovo l’avventura. Ma un dubbio lo tormenta: “Dicono che è stata l’Italia a premere perché ci cacciassero in massa dalla Libia. È vero?”, chiede. A risposta affermativa, una smorfia di incomprensione gli si disegna sul volto. Poi aggiunge, con espressione cupa: “Credevo che l’Europa mostrasse più attenzione per il rispetto dei diritti umani”.