Pdf Opera - Penne Matte

Transcript

Pdf Opera - Penne Matte
Daniele James Marchiori
RINTOCCHI NEL BUIO
© TRAGOPANO 2015
TRAGOPANO edizioni
San Marco 1901, 30124 Venezia
e-mail: [email protected]
www.tragopano.it
Stampato per conto di TRAGOPANO
presso Stamperia Cetid srl, via F. Mutinelli 9, Venezia-Mestre
nel mese di aprile 2015
ISBN 978-88-909203-7-0
A
Elisa mia compagna, mio sole e sollievo, nella solerte e sempre
vicina attenzione. Suoi l’aiuto, la convinzione e la preziosissima
collaborazione nelle fasi di lavorazione. Grazie tesoro.
A
mio fratello Simone che ha scelto di spegnere la luna per sempre.
Nota dell’Editore
Difficile immaginare uno scrittore che non sia pure un lettore. Non è inconsueto poi che uno scrittore elegga un altro scrittore (generalmente del tempo passato) a suo modello. Gli esempi non mancano. Questa seconda opportunità rientra nella
discrezionalità umana di manifestare gusti e scelte, anche se
trattandosi di letteratura e della copiosità millenaria della sua
produzione, è arduo per un letterato contemporaneo, accreditato alla dialettica culturale, scegliere tra molti il proprio modello. Non meraviglia che la scelta cada su Omero, Aristofane,
Sofocle, o chissà quale altro remoto autore. In questo caso parrebbe opportuno pensare che una simile preferenza sia dettata
da apposito radicalismo spirituale, non troppo diverso da quello del religioso che sceglie a nume tutelare il proprio santo. I
vescovi eletti papi scelgono non a caso il nome con cui caratterizzare simbolicamente il proprio papato. Religione quindi.
Propensione all’assoluto della fede, atto di lucida consapevolezza passionale, gesto di riconoscimento, debito e riconoscenza verso il maestro.
Non sono pochi i saggi elaborati da scrittori che hanno per
tema l’opera di altri scrittori. Meno frequenti i romanzi che
hanno per protagonista la figura storica di uno scrittore.
Passiamo al caso di Daniele James Marchiori e al suo romanzo di debutto che ha per protagonista Edgar Allan Poe.
Marchiori è veneziano, ma non so in che modo Venezia si
inserisca nella sua scelta narrativa, o meglio non so se il luogo
venga prima del protagonista del romanzo: Edgar Allan Poe.
7
Insisto nel dilemma: l’uomo o lo scrittore? Ripiego in un dato
certo: Poe ha ambientato a Venezia il racconto dal titolo
L’appuntamento.
Dunque Venezia. Ancora una volta.
Prima New York.
Il romanzo inizia citando il laudano, vizio tipicamente ottocentesco. Il che quadra con le pagine che seguiranno: il proposito di Marchiori è ribadire la centralità dell’Ottocento letterario. Come negare a questo secolo la reputazione di grande
costruttore di storie? C’è chi dice che la storia finisca con l’avvio del Novecento. Rilievo divenuto ormai accademico.
Marchiori vuole riempire questo vuoto, e lo fa senza risparmio.
Se il protagonista del romanzo è Edgar Allan Poe, il riempimento non può essere che debordante, in linea con gli eccessi a
cui lo scrittore americano ci ha abituati.
Naturalmente non si tratta solo di sostanza, la forma dello
scrivere di Marchiori (che viene dalla poesia) è volutamente
aulica, a tratti mimetica. Qui il sipario si apre sulla mimesi
come componente non propriamente segreta dell’esercizio letterario di architettare storie (affresco, saga, epica, fungono da
accessori alla storia). Le storie si assomigliano, si incuneano
una nell’altra. Un medesimo trasporto di voler costruire e raccontare fa da ponte tra storia e storia, le diversità del racconto
si uniformano al paradigma della costruzione e dell’intenzione.
Ogni storia è emulatrice. Borges ci ha insegnato che un libro
inevitabilmente ne contiene un altro, o altri, non è questione di
quantità ma di circolarità. È interessante citare Borges in rapporto al ritorno di Marchiori che sceglie il paradigma opposto
alla sintesi borghesiana: la prosa debordante di Poe.
Nel romanzo di Marchiori è accentuato il credito romanzesco, il grado appercettivo che fa della storia lo specchio di se
stessa. Marchiori vuole vedersi costruire e raccontare e vuole
esser visto. Non vuole ingannare, travestire, confondere: vuole
che gli sia riconosciuto il diritto di ricordare e far ricordare il
8
tesoro della letteratura. Ecco perché ha scelto uno scrittore
come protagonista del romanzo, ed ecco perché lo scrittore
paradigmatico è Edgar Allan Poe, forse il più prolifico costruttore di storie al limite dello stesso raccontare.
Marchiori è consapevole di camminare sul filo, il rischio è il
precipizio. Ammiriamo il coraggio e la fede, il giudizio finale
lo daranno i lettori, l’editore ha fatto la sua parte.
9
New York
New York estate 18…
Giacevo nel cottage di Grand Concourse road, Fordham, Bronx,
quasi assuefatto all’assunzione di intrugli che ad altri sarebbero
risultati fatali. Ragionavo sull’accaduto: le poche gocce ingerite
dalla bottiglietta di laudano acquistata dal farmacista di Norfolk
prima del mio arrivo a New York, prima dell’imbarco sul battello
a pale e prima del treno in cui portato dagli effetti della tintura
avevo cercato la morte. L’estasi si insinuava fra i cunicoli del mio
cervello, stendendo un buio velo su quel che in realtà era un lucente meriggio assolato.
Quel mostro oscuro lo combattevo con tutto me stesso e quando finalmente giunsi a New York mi attendeva per la nostra quotidiana battaglia.
Un flusso di coscienza inarrestabile, che scendeva come una
cascata ad invadere la mia mente, suggeriva che: da quando la mia
amata Virginia, le cui corde del cuore sono un liuto, mi aveva privato del suo amore morendo, il mio essere già tendente alla dissolutezza si trovava a dover affrontare soltanto critiche, costernanti
insuccessi, pettegolezzi. Il Reverendo Rufus Griswold, pessimo
poeta ed ottimo chiacchierone da salotto, vestiti i panni del difensore della purezza e del pudore, aveva cercato di screditarmi massacrando la mia opera e riducendola a qualcosa di depravato e sinistramente volgare.
Questo appariva ai miei occhi certamente come una sconfitta
Mi sentivo escluso, osservavo la miseria che mi attorniava, pensando che stavo marcendo con essa.
11
Un Re afflitto in un ricovero per straccioni, un Re costretto ad
una dimora da poveri.
Quando tutto ciò sarebbe finito?
Quando il corvo avrebbe pronunciato ancora “mai più”?
Quando la notte avrebbe smesso di essere solo tenebra e si
sarebbe accesa di speranza?
Mai più in queste maledette condizioni.
Mai più schiavo di intrugli fatali.
Il giorno muore quando la notte prende vita, ed io ero deciso a
scomparire nella tenebra di ghiaccio.
Mai più.
La visione
Svanita ogni visione offertami dal laudano, mi trovavo solo
senza zia Clemm a pensare al futuro della mia massa di stracci.
Steso sul letto della mia amata sposa sulla cui tomba avevo proferito lancinanti pianti e volgari bestemmie. Rimaneva di lei: un
ritratto ovale.
Turpi pensieri.
Dovevo partire, andarmene, dimenticare il tetro dolore che le
mura ed i viali di questo luogo mi infliggevano. Dovevo cercare
qualcosa di meno funesto che ristabilisse il mio pensiero organico.
Dopo alcuni bicchieri di dozzinale cognac consumati in una bettola di Fordham, finii per ronzare come una mosca afflitta da un
fuoco interno per le strade umide e consunte dal disonore e dalla
prostituzione, ambienti congrui al mio stato d’animo. In questo
vagare, la mia strada corrotta mi portava sempre più verso le adiacenze del porto, senza che la più sensibile delle mie cellule nervose potesse accorgersene, favorendo ciò che speravo avvenisse: partire, lasciare questo posto infame.
Ma verso dove?
Avevo rifiutato la gentile accoglienza del Chevalier Ruinal presso la sua maison di Place Vendôme a Parigi. Dovevo ripiegare su
12
qualcosa che mi assicurasse una indipendenza al riparo dal clamore.
Voci indefinite spianarono la strada alla soluzione. La mia meta
aveva un solo nome: Venezia.
La città Serenissima era stata già per me luogo di agiato ricovero, ospite di un caro amico per il cui tramite avevo conosciuto la
Marchesa Mentoni in circostanze purtroppo sinistre: madre sconsolata aveva perduto il suo neonato fra le gelide acque del canale
nei pressi del Ponte dei Sospiri.
Vidi la morte, la riconobbi e la vinsi per mezzo della vita che
resiste. Feci la conoscenza della bellezza e l’apprezzai, sondai il
mistero e ne rimasi avvinto.
Mi trovavo ora sul molo e osservavo le bettole lungo la banchina che pullulavano di marinai ubriachi, capitani più o meno ardimentosi e smunte prostitute di ogni nazionalità che offrivano in
cambio di pochi dollari sorrisi a occhi guerci e a bocche sdentate.
Figure confinate in un quadro oscuro che aveva snaturato le loro
esistenze e senza il quale non sarebbero sopravvissute. Animali
sottratti al loro ambiente naturale.
Lo scenario di pattume stava cominciando a solleticare la mia
fantasia. Dovevo stare attento a non lasciare che la realtà si plagiasse in spregio alla ragione. La mia meta era ragionevole: dovevo arrivare a Venezia! Cercare il mezzo che mi avrebbe trasportato nella piccola laguna italiana.
La partenza
Il molo sembrava respingere i miei passi, quasi che il battito dei
tacchi fosse fonte di fastidio per le pietre lastricate e per lo sciabordio sincopato del mare, confuso fra i suoni cupi delle navi entranti, e i fischi di quelle in partenza verso terre di salvezza.
Percepivo il rifiuto della mia terra natale divenuta ostile, il paese
mi stava respingendo con ogni mezzo. Ricordai i molti tentativi da
parte di svariati medici ottusi e corrotti per farmi internare in una
13
clinica per alienati di Utica, o da editori perversi che mi avrebbero venduto a ricoveri Wigs per le tornate elettorali, dove ubriacati
e malmenati gli elettori erano obbligati a votare più volte lo stesso
candidato.
La volontà di un rapporto d’amore colmo di intensità, tenero
come la culla di un bambino, mai reciso dalla violenza impietosa
del destino. L’avversità che ha versato il bocciolo dell’amore in
una pozza di sangue scuro, denso e avvolgente... Tutto ciò mi stava
uccidendo.
Quale timore misto a scomposta gioia provai nel trovarmi
davanti l’oggetto della mia ricerca: il cartello con la scritta BOARDING TO VENICE ITALY (SOUTHAMPTON ENGLAND,
GENOA ITALY, ATHENS GREECE) LUGGAGE CLAIM.
Una nave di grandi dimensioni stava attraccata alla banchina,
come un enorme essere venuto da altri mondi, sovrastante l’insulsa piccolezza di noi terrestri... Athena il suo nome.
Mi avvicinai leggero alla biglietteria passeggeri, aspirando
l’odore del legno impregnato di salsedine marina e quello tipico
delle corde impilate in un angolo del locale.
Dietro al banco un ufficiale di marina, dalla corporatura robusta
e dai folti baffi bianchi, controllò i miei documenti e dopo aver
riposto la mia quota in contanti in un cassetto, mi iscrisse sul libro
di bordo, specificando: “cabina di seconda classe.” Mi fu consegnato un foglio con il regolamento di bordo, le disposizioni di
sicurezza ed il sigillo in ceralacca verde, tipico delle compagnie di
trasporto passeggeri.
Ritornato nelle vicinanze della nave mi misi in fila sulla banchina dove agenti di commercio, famiglie e cercatori di fortuna formavano una lunga coda in attesa dell’imbarco.
Controllai ripetutamente il mio orologio da taschino. Trascorsi
venti minuti venne calata la passerella d’imbarco, il bagaglio dei
passeggeri di prima classe fu trasportato dai facchini e riposto
nella cabina di destinazione; per noi della seconda classe solo il
controllo del foglio e poi una scricchiolante passerella per arrivare
14
al primo ponte dove erano situate le nostre cabine. Padri di famiglia grondanti sudore caricavano i bagagli, per me e la mia scarna
borsa in pelle fu un gioco da ragazzi, scalai la passerella e di fronte alla porta 121 mi fermai. Entrai nei miei nuovi alloggi.
La cabina era piccola e molto calda, composta da un letto, un
piccolo armadio malconcio e uno scrittoio con una piccola sedia,
entrambi fittamente incisi di nomi e date di precedenti traversate.
Sistemai il soprabito, la giacca, la borsa e la tuba nell’armadio,
presi l’acciarino e feci brillare le due lampade a olio. Estrassi dalla
borsa i miei fogli densi di lavori in bozza, la penna ed il calamaio,
e mi stesi sulla branda cullato dallo sciabordio dell’acqua. Caddi
in un sonno lieve. Sognai come sempre la leggiadria perduta di
Virginia: felice danzava leggera fra la folla brulicante del mercato
di Richmond. Nel sogno pensai approvasse la mia scelta di lasciarmi alle spalle l’orrore, ma la consolante considerazione fu straziata dall’arrivo di un corvo che divorò occhi e membra della povera
anima mia, tesoro prezioso. Fui preso da un’ira furente, dolorosa
quanto impotente: non potevo muovermi, non potevo correre e
afferrare quella bestiaccia che con il becco insanguinato mi osservava con occhi diabolici. Nell’orecchio mi risuonavano le parole
che il Vescovo di Chichester aveva pronunciato in occasione delle
esequie della moglie: Aspettami là! Non mancherò di raggiungerti in quella valle cupa... Con un balzo mi svegliai madido di sudore.
Avvertii lo sciogliersi delle corde d’ormeggio, la vibrazione
della vaporiera percuoteva la nave in tutte le sue parti provocando
un rumore costante e profondo. Aprii la porta della cabina e usci
sulla passerella; avvicinandomi al parapetto notai che il cielo si era
fatto plumbeo e l’acqua nera come la pece. Osservavo il molo
distanziarsi e la ressa di amici e parenti venuti a salutare i naviganti in partenza; per me non era venuto nessuno, ma ciò non aveva
importanza. Presto udii il fischio che annunciava l’uscita dal
porto, mentre un forte vento mi scompigliava i capelli facendo
svolazzare le falde della mia redingote. Ostentavo uno sguardo
15
sapiente. Mentre l’orizzonte si faceva via via più lineare e rarefatto cercavo di immaginare una sorte per il mio Gordon Pym.
Athena
Le prime ore di navigazione trascorsero piacevoli, tranne per la
diffusa sensazione di malessere che il navigar per mare infonde in
chi non ci è abituato. Pensai che il rimanermene rannicchiato nella
cabina di certo non avrebbe giovato al torpore febbrile che stavo
vivendo, tanto meno si sarebbe rivelato guaritore della nausea
assassina che attanagliava il mio stomaco.
Presi la tuba, il bastone da passeggio ed ignorando i malesseri
percorsi il ponte esterno ricoperto in legno verniciato. Passai oltre
le cabine degli altri viaggiatori, o forse converrebbe definirli compagni di sventura, e mentre mi accingevo a salire le scalette che mi
avrebbero condotto al ponte principale mi parve che un’ombra mi
stesse seguendo. Mi voltai di scatto, quasi nel tentativo di sorprendere il silenzioso inseguitore, ma nulla si presentò ai miei sguardi
di indagatore.
Eppure qualcosa si muoveva alle mie spalle. La mia pelle sembrava cosparsa di invisibili aghi aguzzi che penetravano le carni,
avviso della presenza di qualcosa di oscuro ed infame. Reputai tale
sensazione uno strascico delle sbornie dei giorni precedenti. Mi
sbagliavo. Mentre giungevo alla sommità della scaletta, si propagò nell’aria un olezzo putrescente, dovuto, così dedussi, alle acque
dell’oceano; mi girai lentamente quasi fossi un pupazzo da carillon e osservai alle mie spalle.
Non l’avessi mai fatto!
Figure orrende avvolte nel buio si stagliavano sulla scaletta e sul
ponte di seconda. Potevo solo scorgere con certezza la luce violacea emanata dai loro occhi infernali. Mostri infami che segreti
assiepavano lo spazio d’ombra che mi circondava: esseri venuti
dall’oltretomba, servi della bestia selvaggia, festosi nell’aver trovato territorio fertile al loro disegno di incutere orrore.
16
Era certo che il sottoscritto, bersaglio della ingiuria, fosse uno
dei più dotati detentori di capacità d’analisi che si conoscesse,
oltre a Monsieur Dupin ovviamente. Chi giocava con le ombre
nello stupido tentativo di spaventarmi, dimenticava la mia prefazione ai I delitti della Rue Morgue dove potenzialità d’analisi
erano dispiegate con ampi riferimenti al quotidiano e ai sistemi più
efficaci di simpatizzare con la soluzione, per così dire.
In questo frangente di analisi commisto all’orrore mi sovvenne
un nome: Nachzehrer.
Nachzehrer: nella tradizione popolare tedesca, i vampiri, i
masticatori del sudario... Si narra che questi defunti particolari, se
così vogliamo considerarli, avvolti come tutti gli altri in un sudario, fossero in grado di risvegliarsi post-mortem e divorare il panno
avvolgente la faccia, aprendo un varco alla loro voracità di nutrirsi del sangue del defunto compagno di fossa. Vampirizzare e generare un nuovo Nachzehrer.
Spesso a suddetti dannati veniva conficcata una pietra in bocca
prima dell’avvolgimento nel sudario, in modo da impedire al vampiro di praticare il foro.
Pensai che nella nave doveva essere stato imbarcato qualcosa di
sinistro diretto in Italia, altrimenti non si poteva spiegare la presenza dell’immondo a bordo. Ciò nonostante non mi lasciai impressionare e a passo lento proseguii, proprio mentre la nave si imbatteva in fitti banchi di nebbia che rendevano ancor più angosciante
la situazione. Raggiunsi il ponte e da qui mi introdussi nel salone
principale. La musica che udivo era suonata dall’orchestra di
bordo e annunciava la salvezza.
Così fu.
Una luce proveniente dalle moderne lampade a gas si diffondeva favorendo una confortevole sensazione di protezione; capannelli di signore si assiepavano nel salone coinvolte in serrate conversazioni. L’atmosfera pacata era interrotta da qualche risata fragorosa che proveniva dai divanetti di velluto dorato, dove gentiluomini conversavano animatamente di politica ed economia, gustando
17
un buon sigaro e qualche bicchiere di sherry.
Il tono era tranquillo e l’orrore che avevo provato fuori dal salone aveva ceduto ad una sobria voluttà. Sono pur sempre uno scrittore, abituato a padroneggiare i miei fantasmi.
Al banco del bar ordinai un bicchiere di ottimo brandy. Mi ero
ripromesso di resistere alla tentazione, non avrei dovuto bere, ma
il fascio nervoso che mi rodeva chiedeva di essere placato. Solo un
buon brandy poteva aprire la strada al pensiero risolutore.
Spinto dall’inerzia più che dalla volontà osservai il vetro trasparente retrostante il bar e la sala da pranzo, un vetro che nelle belle
giornate di sole offriva una vista meravigliosa sulla prua, ma che
stasera con mio grande sconforto era offuscato da una fitta cortina
di pioggia. Notai come in un lampo, la cascata d’acqua interrompersi per un attimo d’orrore: qualcosa si era appoggiato alla vetrata. Una sembianza orribile, non una donna, non un uomo, ma un
essere vestito di stracci che si appoggiava con lunghi capelli fradici, mostrando delle mani con lunghe dita affusolate e una bocca
dai denti sproporzionati ed aguzzi che sbavavano lungo la superficie del vetro. Una scena raccapricciante. La figura infernale, forse
indietreggiando e sparendo, permetteva alla pioggia di spargersi
sul vetro e cancellare in un attimo il suo terribile lascito di saliva
immonda, per offrire spazio a ben altre immagini: Virginia pallida
e con gli occhi chiusi nella sua veste funebre, quei pochi abiti trovati qua e là che avevano composto il suo corredo.
La bestia immonda stava usando l’immagine del mio tenero
bene per accusarmi di falso amore. Come scrittore vedevo cose
che altri non vedevano, ma come uomo ero stato capace di vedere
la verità dell’amore? Era questo il messaggio? La condanna?
Sconvolto cercai di riprendermi con un sorso di brandy e con il
proposito di sbarcare dalla nave, ma tremila profondi metri di orrore oscuro, schiumoso e minaccioso, me lo impedivano.
Mi volsi verso la sala dove la scena degli astanti festosi osservata all’entrata proseguiva quasi fosse stata dipinta, a suo modo, ai
miei occhi, anch’essa orribile. Esattamente quanto avevo sempre
18
rifiutato: la rovina della cultura e lo sperpero della società borghese.
Abbassai gli occhi sulla coppa di brandy, sembrava sangue, ma
rifiutai di spaventarmi. Ero sotto giogo mentale e la mia furia stava
per declinare i presupposti di ragione per i quali un gentiluomo si
distingue... Virginia... Non potevo nemmeno per un attimo pensarla fra gli artigli di quelle bestie primordiali, di quei figli dell’abisso, così trangugiai il sangue frutto dell’orrore, quasi fossi uno di
loro e poi ne chiesi ancora all’unica figura che mi sembrava ancora appartenere al genere umano: Mr. Cooper, il barman. Non so
perché conoscessi il suo nome.
“Signor Cooper, vorreste essere così gentile da versarmi dell’altro brandy appena vi sarà possibile?” “Certo Mr. Poe, perdonatemi, in un attimo sarò da voi.” Notai con stupore che anch’egli
conosceva il mio nome, forse era di Richmond o Baltimora o
Filadelfia o... Al diavolo: conosceva il mio nome e basta, non era
poi così importante.
Mr. Cooper con fare distinto, tipico dei migliori barman europei, mi servì il liquore appoggiando il bicchiere su una piccola salvietta in organza molto elegante.
Avrei voluto che una soluzione balenasse all’orizzonte oscuro
del mio pensiero.
Trangugiai in un modo un po’ troppo avido anche la seconda
coppa di brandy e a Mr. Cooper ne chiesi un’altra. La terza.
Sarebbe stato inopportuno rimanere seduti sullo sgabello del
bar; di gran lunga più adeguata si prospettava la scelta di alzarsi e
sorseggiare il brandy passeggiando per il salone, magari cercando
di fare la conoscenza di qualcuno e offrire distrazione all’angoscia
che mi attanagliava. Mi alzai, il brandy assunto con troppa voracità fece vacillare il mio passo, ma non mi preoccupai, seppur camminando in modo incerto mi avvicinai ai capannelli di gentiluomini cercando di prendere parte alle loro conversazioni.
Uno dei presenti scoprii essere un certo signor Rescu, un nobile transilvano che sfoggiava una perfetta padronanza della lingua
19
inglese, un gentleman che commerciava in antiquariato e che
venuto a New York per recuperare alcune urne medioevali appartenute al passato del suo paese, aveva ora compito di portarle a
Venezia per consegnarle al committente.
Potete immaginare quanto affascinante risultasse una storia del
genere al mio orecchio, da silenzioso ascoltatore mi trasformai in
animato interlocutore e subito chiesi: “Concedetemi signore, trovo
interessantissima la vostra storia, potrei saperne di più? Sapete,
sono uno scrittore e il contesto che avete descritto è quanto mai
affascinante e suscita in me ampie fantasie.” “Certo Mr. Poe, ma
non rimanete in piedi, prendete posto, sarò lieto di rispondere alle
vostre domande.” Come faceva a conoscere il mio nome? Non ero
assolutamente famoso, non almeno al punto da essere conosciuto
al di fuori del mio paese.
Riflettei sul fatto che Mr. Cooper aveva sicuramente rilevato il
mio nome dalla carta d’imbarco sulla quale aveva annotato le consumazioni, ma questo signore, come faceva a saperlo?
“Non abbia timore Mr. Poe”, proseguì. “Si sieda e condivida
questa conversazione piacevole, credo possa suscitare il suo interesse, visto che è uno scrittore.” Non gli lasciai il tempo di andare
oltre e mi rannicchiai sul divanetto di fronte a lui.
Chiesi: “ Dove ci siamo conosciuti signore? Perdoni la mia smemoratezza ma non mi sovviene di ricordarlo.”
“Non è fondamentale al momento Mr. Poe, sono un frequentatore di ambienti colti e dunque da qualche parte ci saremo pur
incontrati.”
Cercai, nel modo più rapido possibile, di ricordare quel volto
intravisto forse in occasione di qualche conferenza o rappresentazione teatrale, ma non ottenni alcun dato: non ricordavo. Tralasciai
qualsiasi tentativo di recondita memoria e proseguii sforzandomi
di sembrare naturale per poter investigare sull’ambigua identità del
mio interlocutore.
“Sono innanzitutto lieto di poter parlare con voi signore, che da
quanto ho appreso siete membro di una prestigiosa famiglia; sicu20
ramente avrete da insegnarmi cose nuove. Ditemi dunque, parlatemi di queste preziose urne, che al solo immaginarle provo brividi
profondi.”
Ciò che si frappose alla sua risposta fu spaventoso. Mentre fissavo la vetrata posta sulla fiancata, anteponendosi alla pioggia che
batteva a stravento si appoggiarono al vetro una moltitudine di
esseri avvolti in stracci fradici, distinguibili per l’orrore delle
espressioni e dei gesti. Qualcosa come una sorta di danza lasciva
li distingueva, mentre le loro orribili bocche deformi lasciavano
sul vetro l’impronta di bave immonde. Era emerso l’inferno viaggiando per mare?
Possibile tutto ciò?
Una voce mi destò: “Mr. Poe, Mr. Poe...” In un attimo feci di
nuovo parte del presente e mi accorsi che il mio nobile interlocutore si sforzava di farmi svegliare dall’assopimento stralunato in
cui ero precipitato. Avevo chiuso gli occhi e tentato di scacciare la
rovina che si era affacciata ai miei occhi.
Non proferii scuse, solo un blando: “Voglia scusarmi signore,
mi ero assorto un attimo.”
Rescu
A stordirmi ora ci pensava Mr. Rescu con il suo eloquio di nobile rampollo.
“Dovete sapere Mr. Poe che tutto quanto si narra a proposito
della Transilvania è in parte vero, ma anche in parte faceto. La mia
famiglia, discendente diretta dalla nobiltà medievale del sacro
Ordine del Drago, si è sempre distinta per carattere sublime e
superiorità civile, screditata dalla miscredenza di chi da sempre ci
ha considerati pericolosi avversari, costretta in una società che ha
fatto della malignità il suo credo.”
Chiesi spiegazioni.
“Cosa significa quanto avete detto?”
“Intendo dire che la supposizione dell’esistenza del non morto,
21
del vampiro, potrebbe essere consona allo storico della mia famiglia, ma ciò nonostante, questo non ha nessuna rilevanza.”
“Nessuno ha evocato il non morto signore, perché preoccuparsene? Nulla e nessuno si è permesso di evocare l’immondo e ritengo che chi associ tale figura al vostro popolo pecchi d’ignoranza
imperdonabile, non v’è ragione di preoccuparcene, siamo gente di
cultura.”
Parole di circostanza che non impedirono di spaventarmi nel
cercare di comprendere in quale modo quest’uomo fosse arrivato
a me, conoscendo il mio nome ed il senso oscuro del mio essere.
Sembrava sapere troppo. Il fatto mi disturbava. Accolsi con sollievo che altri presenti si aggiungessero alla discussione. La cosa
stemperò, almeno in parte, il sospetto che cominciavo a maturare.
L’ospite transilvano tentò di dissipare l’enfasi e risolse in una
risata il suo cupo discorso, aggiungendo che nessun vampiro o
licantropo era mai stato avvistato o riconosciuto in terra di
Transilvania. Concluse esprimendo ampia speranza di arrivare
presto a Venezia e consegnare il suo prezioso fardello nelle mani
di un certo Alberto Torchia.
Mi sentivo in dovere d’intervenire, la faccenda si stava facendo
interessante.
“Perdonatemi signore, cosa rappresenta questo oggetto prezioso
che l’italiano richiederebbe con tale ardore e sofferta attesa?”
Ancora una volta non esitò a rispondere, ed esimendosi dalla
vaghezza dimostrata fino allora diede una spiegazione precisa.
“Si tratta di due urne contenenti la terra di un antico cimitero,
Mr. Poe: un cimitero abbandonato in terra transilvana che immagino interessi al Torchia, a quale scopo non sta a me indagare.”
Rimasi perplesso dalla sua franchezza, non mi aspettavo che un
uomo rimasto fino a quel momento vago potesse prodursi in una
così limpida dichiarazione. Decisi di insistere.
“Così vi state recando a vendere qualcosa che non ha importanza alcuna per voi, qualcosa che potrà recarvi solo un vantaggio
economico, senza conoscerne il fine.”
22
“Esatto”, rispose di getto, “vi dirò che non posso nemmeno contare su chissà quale arricchimento, si tratta soltanto di una missione.”
Attesi qualche istante prima di passare al contrattacco.
“Non capisco di quale missione parliate, signore. Forse non mi
è dato di conoscere il significato del termine missione, oppure non
riconosco quest’affermazione che a mio parere è delirio a discapito della vostra esibita certezza.”
Era ormai ovvio che dalla semplice conversazione si era passati alla provocazione e non c’era più spazio per le esternazioni chiare e neutrali.
Le mie doti di mentalista, ovvero di indagatore, avevano già sondato i temi oscuri del mio interlocutore, portando alla luce contenuti che lo costringevano a rispondere in maniera decisa.
“Voi siete un grand’uomo Mr. Poe, un uomo che non teme bavagli né sorprese... Ma sono certo di potervi accontentare e soprattutto sorprendere.”
Prese forma in me una sensazione d’allarme incredibilmente violenta, pensai fosse il ritorno della dose eccessiva di
brandy, tale da fare dell’ebbrezza l’ansia. Non era propriamente così. Percepivo lucidamente il mio stato, una consapevolezza di pericolo che infiammava il mio volto, braccia,
mani, terminazioni nervose come schiacciate da un gelo che
annullava ogni serena influenza. Attendevo un disastro e non
fui disatteso.
Il mio interlocutore ormai dal volto impallidito e cosparso di
vene bluastre che ne usurpavano la fisionomia non aprì bocca.
Frugò nella tasca sinistra della sua giacca in satin di seta e ne trasse un contenitore in metallo satinato: “Tenete Mr. Poe, questo vi
farà sentire meglio.”
Non capivo, forse perché in preda all’ansia, come il misterioso
ospite dopo essersi dichiarato detentore di essenze diaboliche,
potesse ora assumere le vesti di guaritore e suggerirmi il rimedio.
Allungò la mano pallida come quella di un morto, non più oli23
vastra come la vidi quando la strinsi all’atto della presentazione.
La curiosità mi assalì come fossi tornato improvvisamente bambino e una volta stretta nel pugno la gelida scatolina non resistei alla
tentazione di guardarci dentro. Trovai una pallottola verde intenso,
al tatto umida e appiccicosa, l’annusai e il mio sospetto trovò conferma. Si trattava di una sostanza erbacea, sminuzzata e poi pressata. Chiusi la scatola. Il metallo del contenitore ora era bollente,
riscaldato dal calore del mio corpo.
“Di cosa si tratta Mr. Rescu? Non è mio costume usare droghe
o oppiacei, non credo di essere il giusto destinatario, mi dispiace...”
Il nobiluomo sospirò come per stanchezza, la voce ridotta a un
filo.
“Mr. Poe vi sembra che io sia il tipo d’uomo in grado di proporre droghe o sostanze proibite? Vi state sbagliando mi dispiace,
questo offende oltremodo la mia persona e fraintende il mio intento. Restituitemi la Jewelweed e non ne parliamo più.”
Jewelweed? Il nome mi risultava familiare. Cercai di forzare la
memoria alla ricerca di qualche nozione in grado di farmi uscire
dall’indeterminatezza e finalmente il lampo illuminante arrivò:
Jewelweed era il nome comune di una pianta infestante, che i nativi americani usavano per la cura delle malattie della pelle causate
dal contatto con Poison Ivy, un tipo di edere velenose. Non solo, la
Impatiens capensis, questo il nome scientifico, veniva usata anche
come decotto nella cura dell’impazienza, stati di agitazione dovuti ad attese snervanti, ai quali i nativi si esponevano quando attendevano esiti miracolosi legati ad attività sciamaniche: guarigioni di
neonati o importanti richieste di variazioni meteorologiche per salvare le battute di caccia.
…Perché Mr. Rescu mi offriva questo?
“Perdonate la mia ignoranza signore, non volevo assolutamente
offendervi, solo che non mi è chiara la natura del vostro dono.”
Mr. Rescu si sedette in posizione composta, più consona al
costume tradizionale e, seppur sempre pallidissimo, prese fiato.
24
“Mr. Poe, poc’anzi vi descrissi quale uomo di grande spirito,
indomito e senza paura di cadere in errore, ma non aggiunsi che è
altrettanto indomita in voi l’impazienza, la volontà di comprendere troppo in troppo poco tempo. Vi suggerisco di pazientare, altrimenti rischierete di ledere il vostro fine intelletto.”
Ora mi fu chiara la specificità del suo dono.
I suoi occhi magnetici si posavano su me in attesa di risposta.
Riposi l’oggetto ricevuto nella tasca della mia redingote.
“Adesso è tutto molto chiaro, vi porgo nuovamente le mie scuse,
forse ho agito in preda all’impazienza di cui parlate. Terrò il vostro
dono e saprò farne buon uso per la cura del mio difetto.” Risposta
dalla quale badai bene non trapelasse alcuna forma di resa. Ne
andava del mio orgoglio.
“Molto bene Mr. Poe, vedo che siete così intelligente da accettare preziosi suggerimenti, vi fornirò l’ultima indicazione: quando
più tardi raggiungerete la vostra cabina, prima di coricarvi, fate un
decotto di ciò che vi ho dato e tutto sarà più semplice da sopportare e comprendere...”
La sua ultima frase mi lasciò parecchio perplesso: quest’uomo
parlava con fermezza sapendo ciò che diceva, e forse, sapeva
anche di più. Doveva essere a conoscenza di quanto mi era successo sul ponte poco prima di entrare nel salone. Era soltanto una supposizione la mia e non era il caso di dimostrare ulteriore impazienza con domande inopportune. Mi limitai a ringraziare.
Evasi i convenevoli di rito, Mr. Rescu si alzò vacillante dalla
poltrona, poggiando tutto il suo peso sul bastone in preziosa
malacca d’Indonesia. Strano vederlo vacillare, non l’avevo visto
bere. Si congedò in modo discreto, rivolgendomi un ultimo sguardo, poi si allontanò attraversando il salone e una volta uscito dalla
porta fu inghiottito dall’oscurità.
25