Immaginare un reddito garantito per tutti Condizioni

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Immaginare un reddito garantito per tutti Condizioni
OCCASIONE STORICA PER I KURDI –
alle pagine 12 e 13
nnn
Recensioni
e segnalazioni
Pubblicazione mensile supplemento
al numero odierno de il manifesto
ALLE PAGINE 22 E 23
euro 1,50 in vendita abbinata con il manifesto
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n. 5, anno XX, maggio 2013 sped. in abb. postale 50%
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Il carnevale delle inchieste
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Come parlare a Pyongyang
n
A Porto Rico, un ambiguo referendum
n
In Mali, il blues dell'esercito
P. RIMBERT E R. KEUCHEYAN
PHILIPPE PONS
JAMES COHEN
DOROTHÉE THIÉNOT
n
Le ambizioni di Pechino
n
Haiti devastata dai benefattori
n
L'energia elettrica verde al bivio
n
Corea del sud, i drama fanno scuola
OLIVIER ZAJEC
CÉLINE RAFFALLI
AURÉLIEN BERNIER
STÉPHANE THÉVENET
DOSSIER: UN’UTOPIA A PORTATA DI MANO
Sommario
dettagliato
a pagina 2
DISEGUAGLIANZA, DEMOCRAZIA, SOVRANITÀ
Condizioni
Immaginare un reddito garantito
per una riconquista
per tutti
Inventare un’altra vita, altri rapporti sociali, può sembrare fuori posto
in periodo di crisi. Eppure non è mai
stato tanto necessario. In Europa, in
America latina, in Asia, si fa strada
l’idea del diritto a un reddito di base
incondizionato.
Nessuno crede più che la ragione prevarrà sulle
insensate politiche di austerità, o che la morale eviterà gli scandali mescolando denaro e potere. Ormai,
la speranza di un cambiamento si basa sulla radicale
contestazione degli interessi in gioco.
di SERGE HALIMI
di MONA CHOLLET
SANDRO CHIA
Senza titolo, 1989-90
I LAVORA, e, in cambio, si ricevono soldi. Questa logica è così ben impressa nella mente, che la prospettiva di garantire un reddito di base incondizionato, cioè
di versare a ciascuno una somma mensile sufficiente a permettergli di vivere, indipendentemente dall’attività lavorativa, sembra un’aberrazione. Siamo ancora convinti di dover
strappare a una natura arida e ingrata i mezzi per la sussistenza individuale; ma la realtà è ben diversa.
parte dei prelievi obbligatori è aumentata inesorabilmente con
la presidenza di Mitterrand, Chirac e Sarkozy (2).» E non sarebbe troppo difficile avanzare ancora un po’ per fare in modo che
tutti siano al riparo dal bisogno (leggere l’articolo a pagina 15).
S
Borse di studio, congedi parentali, pensioni, assegni famigliari, indennità di disoccupazione, minimi sociali e il regime francese dei lavoratori dello spettacolo con contratto a termine, sono
tutte prestazioni che hanno in comune la caratteristica di separare il reddito dal lavoro. Per quanto insufficienti e criticabili possano essere, tutti questi dispositivi dimostrano che il reddito garantito è un’utopia «già realizzata». In Germania, solo il 41% del
reddito della popolazione proviene direttamente dal salario, ci
dicono Daniel Häni e Enno Schmidt nel loro film Le Revenu de
base (Reddito di cittadinanza minimo) (2008) (1). In Francia, nel
2005, il reddito dipendeva al 30% dalla redistribuzione (assegni
vari): «Malgrado i discorsi ideologici, malgrado la liquidazione dello stato assistenziale denigrato dai neoliberisti, la quota-
Per cominciare, si risparmierebbero le somme destinate a
perseguire l’obiettivo ufficiale del pieno impiego, dato che
la prima conseguenza del reddito di base sarebbe quella di
eliminare la disoccupazione in quanto problema – sia come
questione sociale che come fonte di angoscia individuale. Più
niente giustificherebbe gli incentivi elargiti alle imprese per
incitarle ad assumere. Ricordiamo che le politiche di esenzione o di riduzione dei contributi sociali destinate a questo
scopo sono passate da 1,9 miliardi di euro nel 1992 a 30,7 miliardi nel 2008 (3). O ancora, che nel 1989 il gruppo sudcorecontinua a pagina 18
(1) http://ildocumento.it/attualita-e-politica/reddito-di-cittadinanza-minimo.html
(2) Yann Moulier-Boutang, L’Abeille et l’Economiste, Carnets Nord, Parigi, 2010.
(3) Progetto di legge di finanziamento della Previdenza sociale 2013, allegato 5.
«Non voglio sbagliarmi voglio
sapere di dove parto
per serbare tanta speranza»
(Paul Eluard, Poesia ininterrotta)
C
ERTE RIVELAZIONI rimandano a ciò che noi già
sappiamo. Apprendiamo che
dei politici amano il denaro, frequentando coloro che lo possiedono? Che
insieme talvolta sguazzano come una
casta al di sopra della legge? Che la
fiscalità coccola i contribuenti più
ricchi? Che la libera circolazione dei
capitali permette loro di nascondere
il bottino nei paradisi fiscali?
La scoperta di singole trasgressioni ci incoraggerà a rimettere in
discussione il sistema che le ha generate (si legga articolo a pagina
2). Ora, negli ultimi decenni, la trasformazione del mondo è stata così
rapida da superare la nostra capacità
di analizzarla. Caduta del muro di
Berlino, emergenza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica),
nuove tecnologie, crisi finanziarie,
rivolte arabe, declino europeo: ogni
volta, gli esperti si sono alternati per
annunciarci la fine della storia o la
nascita di un nuovo ordine mondiale.
Al di là di queste premature sepolture, o incerte nascite, sono emerse
più o meno universalmente tre grandi tendenze, sulle quali, in un primo
momento, è importante fare un bilancio: l’impennata delle disuguaglianze
sociali, la decomposizione della democrazia politica e la riduzione della
sovranità nazionale. Come la pustola
in un grande corpo malato, ogni nuovo scandalo ci permette di vedere gli
elementi di questo trittico risorgere
separatamente e intrecciarsi tra loro.
Lo sfondo generale può essere così
riassunto: poiché i governanti dipendono principalmente dalle decisioni
continua a pagina 8
QUANDO IL REALITY TRASFORMA IL LAVORO IN SPETTACOLO
Epopea culinaria
e rinascita imprenditoriale
Con il nuovo
manifesto,
Il recente decesso del candidato di «Koh-Lanta» (Tf1) ha mostrato tutta la brutalità dei reality.
Questa violenza può anche essere puramente morale, come nelle trasmissioni culinarie
che danno una visione al contempo marziale e lenitiva del lavoro.
di MARC PERRENOUD *
N
EL CORSO degli ultimi anni,
in Francia sono comparsi reality culinari come «Masterchef»
(Tf1, 2010), «Top chef» (M6, 2010)
o «Un dîner presque parfait» (M6,
2008). Sono tutti giochi-concorso a
eliminazione che richiamano talent
show quali «Star academy» (Tf1) o
«À la recherche de la nouvelle star»
(M6). Il vincitore ottiene un lasciapassare dorato nel mondo professionale
e, oltre a beneficiare di un’importante
esposizione mediatica, seppur effimera, vince una grossa somma di denaro
per aprire un’attività, uno stage in una
* Sociologo, università di Losanna.
prestigiosa impresa o, quando si tratta
di trasmissioni musicali, la produzione
di un album e una campagna promozionale.
Nel 2004, nel Regno unito è stata
lanciata una trasmissione che avrebbe
presto raggiunto il successo mondiale, pur avendo un contenuto molto diverso. Mandato in onda in Francia via
cavo e su satellite (su Cuisine tv dal
2006, poi su W9), «Ramsay’s kitchen
nightmares», tradotto in «Cucine da
incubo», mette in scena lo chef-divo
Gordon Ramsay. Per una settimana,
questo proprietario di ristoranti a molte stelle, autore di libri di cucina e protagonista di una serie di video, affianca un ristoratore sull’orlo del baratro
per le grandi difficoltà in cui versa la
sua attività. Dopo alcuni anni di pro-
duzione nel Regno unito, la trasmissione e il sue eroe hanno attraversato
l’Oceano per una versione americana
(2008-2010), approdando in Francia su
M6 nel 2011-2012 con i primi episodi
condotti dallo chef Philippe Etchebest.
È nota l’appetenza dei reality per le
trasmissioni di coaching, che costituiscono un sottogenere a pieno titolo.
Ma, in generale, si tratta di una forma
di assistenza per raggiungere degli
obiettivi nell’ambito della vita privata:
perdere peso, vestirsi, educare i bambini, pulire, decorare, vendere o comprare casa, ecc.
Qui, Ramsay non offre consigli ad
abili dilettanti («Master chef»), né a
continua a pagina 20
ci trovate
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MAGGIO 2013
Le Monde diplomatique il manifesto
DISEGUAGLIANZA,
Condizioni
continua dalla prima pagina
è vietato avanzare altre ipotesi. Questa
per esempio: il capitale, meno tassato
del lavoro, dedica al consolidamento
dei propri appoggi politici una parte
dei risparmi realizzati grazie alle decisioni che lo hanno favorito: fiscalità di
comodo, salvataggio delle grandi banche che hanno preso in ostaggio i piccoli risparmiatori, popolazione spinta
a rimborsare prioritariamente i creditori, debito pubblico che costituisce
per i ricchi uno strumento di investimento (e uno strumento di pressione)
supplementare. Queste innumerevoli
connivenze politiche garantiscono al
capitale la conservazione di tutti i suoi
vantaggi. Nel 2009 sei dei quattrocento contribuenti americani più ricchi
non hanno pagato alcuna imposta,
ventisette meno del 10%, nessuno ha
pagato più del 35%.
di una minoranza privilegiata (quella
che investe, specula, assume, licenzia,
presta) acconsentono di buon grado
alla deriva oligarchica dei sistemi politici. E quando si inalberano prendendo
coscienza del rinnegamento del mandato che il popolo ha loro affidato, la
pressione della finanza internazionale
si adopera per farli saltare.
«Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che
sul bene comune». Il primo articolo
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, come tutti sanno,
non è mai stato rigorosamente rispettato. In ogni tempo, le distinzioni sono
state motivate non dal bene comune
ma da altri fattori: il luogo dove si ha
la fortuna (o la sfortuna) di nascere,
la condizione dei genitori, l’accesso
all’educazione e alla sanità, ecc.
«La diseguaglianza in sé non è
mai stata un grande problema nella
cultura politica americana, che insiste sull’eguaglianza delle possibilità
piuttosto che su quella dei risultati
– ricorda ancora oggi l’intellettuale
conservatore Francis Fukuyama. Ma
il sistema è legittimato se le persone
continuano a credere che, lavorando
duro e dando il meglio di sé, essi stessi e i loro figli avranno delle buone
possibilità di progredire, e se hanno
delle buone ragioni per pensare che
NEW YORK, STATI UNITI, SETTEMBRE 2012
Attivisti di Occupy Wall Street
i ricchi lo sono diventati rispettando
le regole del gioco (1)». Rassicurante o anestetizzante, questa fede laica
svanisce in tutto il mondo. Interrogato sei mesi prima della sua elezione
alla presidenza della repubblica sugli
strumenti di «risanamento morale»
che invocava dai suoi voti, François
Hollande evocava il «sogno francese». Esso corrisponde alla narrazione repubblicana che ci ha permesso
di progredire malgrado le guerre, le
crisi, le divisioni. Fino a questi ultimi
anni noi avevamo la convinzione che
i nostri figli sarebbero vissuti meglio
di noi». Ma il candidato socialista
aggiungeva: «Questa convinzione è
svanita» (2).
dipendono dai consumi delle classi
medie cominciano a perdere opportunità in un mondo in cui la domanda
globale, quando non è asfissiata dalle
politiche di austerità, si concentra sui
beni di lusso e sulla fascia più bassa.
Secondo i sostenitori della globalizzazione, l’approfondimento delle
disparità sociali proverrebbe principalmente da una crescita delle tecnologie a tal punto rapida da penalizzare le persone meno istruite, meno
mobili, meno flessibili, meno agili.
La risposta ai problemi sarebbe allora
facilmente trovata: l’educazione e la
formazione (dei ritardatari). Nel febbraio scorso il settimanale delle «élites» internazionali The Economist
così riassumeva questo racconto giustificatorio dove politica e corruzione
sono assenti: «L’1% dei più ricchi ha
visto il proprio reddito salire di colpo grazie al premio che un’economia
globalizzata ad alta tecnologia conferisce alle persone intelligenti. Un’aristocrazia che una volta dedicava
Il club dei miliardari
L MITO della mobilità sociale
segue la paura del declassamento. Un operaio non mantiene più neppure una piccola speranza di diventare padrone, giornalista, banchiere,
professore d’università, responsabile
politico. Le grandi scuole sono ancora più chiuse agli strati popolari di
quando Pierre Bourdieu pubblicava
Les Héritiers, nel 1964. Stessa cosa
per le migliori università del mondo
le cui spese di iscrizione sono esplose
(3). Impossibilitata a pagarsi ancora
per lungo tempo i suoi studi superiori, una giovane donna si è suicidata a
Manila. E, due anni fa, uno studente
americano spiegava: «Io devo 75.000
dollari. Naturalmente, non sarò in
grado di pagare alle scadenze. Mio
padre, essendo il mio garante, deve
rimborsare il mio debito. Anche lui
va in fallimento. Avrò quindi rovinato la mia famiglia perché ho voluto
elevarmi al di sopra della mia classe (4)». Egli ha voluto vivere il sogno
americano, «brandelli di ricchezza».
Per causa sua la famiglia sta compiendo il percorso inverso.
Quando il «vincitore prende tutto
(5)» la disparità di reddito rileva a
volte una patologia sociale. Proprietaria del gigante della distribuzione
Walmart, la famiglia Walton deteneva trent’anni fa 61.992 volte la ricchezza media americana. Ma questo
probabilmente non era abbastanza,
poiché oggi ne possiede 1.157.827
volte. I Walton in questo periodo
hanno accumulato tanto per se stessi
quanto le 48.800.000 famiglie meno
abbienti (6). La patria di Silvio Berlusconi mantiene un piccolo ritardo sulle prodezze americane, ma,
l’anno scorso, la Banca d’Italia ha
annunciato che «i primi dieci patrimoni nazionali [posseggono] tanto
denaro quanto i tre milioni d’italiani
più poveri (7)».
E, ormai, la Cina, l’India, la Russia
o i paesi del Golfo, sgomitano nel club
dei miliardari. In materia di concentrazione del reddito e di sfruttamento
dei lavoratori essi non hanno niente
da imparare dagli occidentali, ai quali d’altra parte impartiscono volentieri lezioni di liberismo selvaggio (8). I
miliardari indiani, che possedevano
nel 2013 l’1.8% della ricchezza nazionale, ne accaparravano già il 22% cinque anni più tardi (9). Nel frattempo,
essi sono certo diventati un tantino più
numerosi, ma il 22% della ricchezza
per sessantuno individui, non è molto
in una nazione di più di un miliardo di
abitanti? Mukesh Ambani, l’uomo più
ricco del paese, forse si pone la questione dallo scintillante salotto di casa
sua, dal ventisettesimo piano che si
affaccia su Bombay – una megalopoli
con più di metà della popolazione che
vive ancora nelle baracche.
Questo è il punto che preoccupa
il Fondo monetario internazionale
(Fmi)… Dopo aver a lungo proclamato
che la «dispersione dei redditi» era un
fattore di concorrenza, d’efficienza,
di dinamismo, osserva che il 93% della crescita degli utili, realizzata negli
Stati uniti durante il primo anno della
ripresa, è andata all’1% degli americani più ricchi. Anche all’Fmi sembrava
troppo. Perciò, messe da parte le considerazioni morali, come assicurare
lo sviluppo di un paese la cui crescita
offre i vantaggi maggiori a un ristretto
gruppo di persone che non può acquistare granché, disponendo già di tutto?
E, di conseguenza, accaparra o specula alimentando ancor più un’economia
finanziaria già parassitaria. Due anni
fa uno studio dell’Fmi si arrendeva,
ammettendo che favorire la crescita e
ridurre le diseguaglianze costituivano
«le due facce della stessa medaglia
(10)». Gli economisti osservano, d’altra parte, che i settori industriali che
il suo denaro “al vino, alle donne e
alla musica” è stata rimpiazzata da
un’élite formata nelle business schools, i cui membri si sposano tra loro
e impiegano saggiamente il loro denaro pagando ai propri figli corsi di
cinese e abbonamenti a The Economist (11)».
La sobrietà, la modestia e la saggezza dei genitori premurosi che educano
i propri figli a leggere il (solo) giornale
che li renderà migliori spiegheranno
anche il decollo della ricchezza. Non
Un’economia globale in cui «chi
vince prende tutto», sindacati nazionali a pezzi, una fiscalità leggera per
i redditi più pesanti: la macchina della
diseguaglianza rimodella l’intero pianeta. Le sessantatremila persone (di
cui diciottomila in Asia, diciassettemila negli Stati uniti e quattordicimila
in Europa) che detengono una fonte di
ricchezza superiore a 100 milioni di
dollari possiedono un patrimonio accumulato di 39.900 miliardi di dollari
(13). Far pagare i ricchi non rappresenterebbe più soltanto un fatto simbolico.
Due ali dello stesso uccello predatore
E POLITICHE economiche che
L
hanno soddisfatto una minoranza
non hanno tuttavia quasi mai violato le
regole democratiche – il governo della
maggioranza. A priori, c’è un paradosso. Uno dei più famosi giudici della
storia della Corte suprema americana,
Louis Brandeis, dichiarava in effetti
che «Noi dobbiamo scegliere. Possiamo avere una democrazia, o avere
REUTERS/ALBERT GEA
A
REUTERS/LUCAS JACKSON
Ma il peso di queste differenze si
trova a volte alleggerito dalla convinzione che la mobilità sociale contrasterà le diseguaglianze di nascita. Per
Alexis de Tocqueville, una speranza
di questo genere, più diffusa negli
Stati uniti che nel Vecchio continente,
aiuterebbe gli americani ad accettare
disparità di reddito maggiori che altrove. Un piccolo contabile di Cleveland o un giovane californiano senza
diploma potrebbero sognare che il
loro talento o la loro determinazione
potranno spingerli al posto che John
Rockefeller o Steve Jobs hanno occupato prima di loro.
Insomma, i ricchi utilizzano la loro
ricchezza per accrescere la loro influenza, poi la loro influenza per accrescere la loro ricchezza. «Nel corso
del tempo, sostiene Fukuyama, le élite
sono in grado di proteggere i loro privilegi manipolando il sistema politico,
spostando il loro denaro all’estero per
evitare la tassazione, trasmettendo
questi benefici ai propri figli attraverso l’accesso privilegiato alle istituzioni d’élite (12)». Si capisce allora che
un possibile rimedio richiederebbe più
di piccole modifiche costituzionali.
BARCELLONA, SPAGNA, FEBBRAIO 2013
Manifestazione contro le misure di austerità
una concentrazione di ricchezza nelle
mani di qualcuno, ma non possiamo
avere le due cose insieme». La vera
democrazia pertanto non si riduce al
rispetto delle forme (elezioni multipartitiche, cabine di voto, urna elettorale).
Essa implica molto più che la partecipazione rassegnata a un voto che non
cambierà nulla: un’intensità di controllo, un’educazione popolare, una
cultura politica, il diritto di reclamare
un rendiconto, di revocare gli eletti
che tradiscono il loro mandato. Non è
per caso che nel 1975, in un periodo di
fermento politico, d’ottimismo collettivo, di solidarietà internazionale, di
utopie sociali, l’intellettuale conservatore Samuel Huntington ammetteva
la sua inquietudine. In un famoso rap-
(1) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire.
Des origines de la politique à nos jours,
Saint-Simon, Parigi, 2012.
(2) La Vie, Parigi, 15 dicembre 2011.
(3) Leggere Christoher Newfield, «Il debito
studentesco, una bomba a scoppio ritardato», Le Monde diplomatique/il manifesto,
settembre 2012.
(4) Tim Mak, «Unpaid student loans top $1 trillion», 19 ottobre 2011, www.politico.com
(5)Robert Frank e Philip Cook, The WinnerTake-All-Society, Free Press, New York,
1995.
(6) «Inequality, exhibit A: Walmart and the
wealth of American families», Economic
Policy Institute, 17 luglio 2012, www.epi.
org
(7) «L’Italie de Monti, laboratoire des “mesures
Attali”», Les Echos, Parigi, 6-7 aprile 2012.
(8) Leggere «Fronte antipopolare», Le Monde
diplomatique/il manifesto, gennaio 2013.
(9) «India’s billionaires club», Financial Times,
Londres, 17 novembre 2012.
(10) «Income inequality may take toll on
growth», The New York Times, 16 ottobre
2012.
(11) «Repairing the rungs on the ladder», The
Economist, Londra, 9 febbraio 2013.
(12) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire,
op. cit.
(13) Nel 2011, il prodotto interno lordo mondiale
era di circa 70.000 miliardi di dollari. Knight
Frank e Citi Private Bank, «The Wealth Report 2012», www.thewealthreport.net.
Le Monde diplomatique il manifesto MAGGIO 2013
9
DEMOCRAZIA, SOVRANITÀ
per una riconquista
porto pubblicato dalla Commissione
trilaterale egli riteneva che «l’azione
efficace di un sistema democratico in
generale esige un livello di apatia e di
non partecipazione da parte di taluni
gruppi e individui (14)».
Cina, dove il reddito annuo pro-capite
supera di poco i 2.500 dollari, il Parlamento conta ottantatré miliardari, si
capisce che i ricchi cinesi non mancano
di buoni avvocati al vertice dello stato.
Su questo punto, almeno, il modello
americano ha trovato il suo maestro,
anche se, per l’assenza di elezioni, Pechino non distribuisce ancora le sue
ambasciate più ambite ai più generosi
finanziatori delle campagne presidenziali vittoriose, come fa Washington.
Missione compiuta… L’ultrareazionaria Commissione trilaterale,
peraltro, sta celebrando il suo quarantesimo anniversario allargando la cerchia dei suoi convitati agli ex ministri
socialisti europei (Peter Mandelson,
Elisabeth Guigou, David Milliband)
e a partecipanti cinesi e indiani. Non
è arrossita per il cammino percorso.
Nel 2011, due dei suoi membri, Mario
Monti e Lucas Papadémos, ex banchieri entrambi, sono stati sospinti
da una troika di organismi non eletti
– l’Fmi, la Commissione europea, la
Banca centrale europea (Bce) – alla
guida dei governi italiano e greco. Ma
capita che le persone il cui «livello di
apatia» resta insufficiente, esitino ancora. Così, quando Monti ha cercato
di convertire il suffragio per censo
della troika in suffragio universale, ha
incassato un clamoroso fallimento. Il
filosofo francese Luc Ferry si dichiara
rattristato: «Ciò che mi addolora, perché io sono democratico nell’anima, è
la costanza con la quale il popolo, in
tempo di crisi, sceglie senza incrinature, se non i peggiori per lo meno quelli
che dissimulano più abilmente e più
ampiamente la verità (15)».
Eppure ci chiediamo che cosa i liberali ancora temono dai governanti,
visto che sia le riforme economiche e
sociali che quelle che stanno per essere messe in atto continuano a coincidere con le esigenze del mondo imprenditoriale e dei mercati finanziari.
Ai vertici dello stato la convergenza è
d’altra parte rafforzata dalla stravagante sovrarappresentazione di categorie
sociali borghesi e per la facilità con
la quale esse passano dal pubblico al
privato. Quando in un paese come la
economica. Due mesi fa, ha pubblicato
una dettagliata inchiesta: «come il dominio della politica da parte dei ricchi
e del mondo degli affari frena la mobilità sociale in America (17)». Risposta:
in materia di politica economica e sociale, anche di diritto del lavoro, i cittadini privilegiati si ritrovano su priorità profondamente distinte da quelle
della maggioranza dei loro concittadini. Ma essi dispongono di mezzi fuori
dal comune per portare a compimento
le loro aspirazioni.
Così, mentre il 78% degli americani
ritiene che il salario minimo dovrebbe
essere indicizzato al costo della vita e
sufficiente per chi ne ha diritto per non
cadere in povertà, solo il 40% dei contribuenti più ricchi è dello stesso avviso. Essi si mostrano ugualmente meno
spese e ad alzare le tasse. (…) Il problema che affrontano i nuovi governanti è dover agire nel quadro delle
istituzioni della zona euro e seguire
le direttive macroeconomiche fissate
dalla Commissione europea. (…) Va
altrettanto detto che dopo il chiasso
e il furore di un’elezione, il margine
di manovra economica si restringe
(20)». «Abbiamo l’impressione – sospira M. Hamon – che una politica
di destra o di sinistra dosi differentemente gli stessi ingredienti (21)».
Paradisi fiscali e privilegi
N ALTO funzionario della ComU
missione europea ha assistito a
un incontro tra suoi colleghi e la di-
rezione del Tesoro francese: «È stato
allucinante: si comportavano come un
maestro di scuola che spiega a un cattivo studente cosa deve fare. Ho molto
ammirato il direttore del Tesoro che
ha mantenuto la calma (22)». La scena
ricorda la sorte dell’Etiopia o dell’Indonesia all’epoca in cui i dirigenti di
questi stati erano ridotti al rango di
esecutori dei castighi che l’Fmi infliggeva ai loro paesi (23). Una situazione
che oggi conosce anche l’Europa. Nel
gennaio del 2012 la Commissione di
di affrontare la concorrenza tra gli
stati. (…) Il reale impatto degli uomini politici sulla vita economica di un
paese è sempre più limitato. Fortunatamente (24)».
Al contrario, la pressione subita dallo stato si accresce. E si esercita contemporaneamente dal lato dei paesi
creditori, della Bce, dell’Fmi, della
pattuglia delle agenzie di rating, dei
mercati finanziari. Jean-Pierre Jouyet
attuale presidente della Banca pubblica di investimento (Bpi), ha ammesso
due anni fa che questi ultimi in Italia
avevano «fatto pressione sul gioco democratico. È il terzo governo che salta
per loro iniziativa a causa del debito
eccessivo. (…) L’aumento dei tassi di
interesse del debito italiano è stata la
scheda elettorale dei mercati. (…) Alla
fine i cittadini si rivolteranno contro
questa dittatura di fatto (25)».
La «dittatura di fatto» può nondimeno contare sui grandi media per confezionare le distrazioni che ritardano
e poi deviano le rivolte collettive, che
personalizzano, cioè depoliticizzano,
gli scandali più eclatanti. Chiarire la
vera natura di ciò che sta accadendo,
i meccanismi grazie ai quali ricchezza
e potere sono stati carpiti da una minoranza che controlla sia lo stato che
il mercato, richiederebbe un continuo
lavoro di educazione popolare. E ricorderebbe che tutti i governi cessano
di essere legittimi quando lasciano
crescere le diseguaglianze sociali, subiscono l’abbattimento della democrazia politica, accettano la messa sotto
tutela della sovranità nazionale.
MARSIGLIA, FRANCIA, APRILE 2013
«No ai licenziamenti»
Dexia e l’italiano della Deutsche Bank.
Possono difendere il bene pubblico se
devono stare attenti a non dispiacere
regimi feudali stranieri o istituzioni finanziarie delle quali potrebbero diventare in futuro partner in affari? Quando, in un numero crescente di paesi,
una tale prassi coinvolge volta a volta i
due principali partiti, questi diventano
per il popolo quello che il romanziere
Upton Sinclair chiamava «due ali dello
stesso uccello predatore».
Le impronte dei ricchi sullo stato
ISTITUTO DEMOS ha voluto
L’
valutare gli effetti della vicinanza
tra funzionari del governo e oligarchia
i francesi, gli spagnoli, gli irlandesi,
gli olandesi, i portoghesi, i greci, gli
sloveni, gli slovacchi e i ciprioti hanno tutti, in una maniera o nell’altra,
votato contro il modello economico
della zona euro. Ciononostante le
politiche economiche non sono affatto cambiate dopo questi rovesci
elettorali: la sinistra ha rimpiazzato
la destra, la destra ha cacciato la sinistra, il centrodestra ha ugualmente
schiacciato i comunisti (a Cipro), ma
gli stati continuano a ridurre le loro
REUTERS/JEAN-PAUL PELISSIER
Per premunirsi contro questo genere di delusione, il modo più semplice è
di non tenere in alcun conto il verdetto
degli elettori. L’Unione europea, che
dispensa lezioni di democrazia al mondo intero, ha fatto di questa negazione
una sua specialità. Non per caso. Da
trent’anni gli ultraliberisti che guidano
la danza ideologica negli Stati uniti e
nel Vecchio continente si ispirano alla
«teoria delle cose pubbliche» dell’economista James Buchanan. Fondamentalmente diffidente verso la democrazia, tirannia della maggioranza, questa
scuola di pensiero postula che i dirigenti politici siano inclini a sacrificare
l’interesse generale – in stretto accordo
con i dirigenti d’azienda – per soddisfare le loro clientele e assicurare la propria rielezione. La sovranità di questi
irresponsabili deve di conseguenza
essere strettamente limitata. Questo è il
compito dei meccanismi coercitivi che
in questo momento ispirano la costruzione europea (indipendenza delle banche centrali, regola del 3% del deficit,
patto di stabilità) o, negli Stati uniti, il
taglio automatico della spesa pubblica
(«sequestro del budget»).
Le collusioni – e i conflitti di interesse – tra governanti e miliardari
si fanno ormai gioco delle frontiere.
Nicolas Sarkosy, il quale, quand’era
all’Eliseo, aveva accordato favori al
Qatar, tra cui un accordo fiscale che
esonerava l’emirato dalle imposte sulle plusvalenze immobiliari, ha ora intenzione di imbarcarsi nella finanza
speculativa con l’appoggio di Doha. «Il
fatto che egli sia un ex presidente non
significa che debba diventare un frate
trappista», ha perorato il suo ex ministro degli interni Claude Guéant (16) Il
voto di povertà non sembra opportuno
neanche per altri ex capi dell’esecutivo
Anthony Blair, Jean-Luc Dehaene e
Giuliano Amato: il britannico è consulente della JP Morgan, il Belga della
Come si può dire meglio che i ricchi
lasciano pesantemente la loro impronta sullo stato e il sistema politico? Votano più spesso, finanziano le campagne elettorali più di altri e, soprattutto,
esercitano una continua pressione
sugli eletti e i governanti. L’aumento
delle diseguaglianze negli Stati uniti
si spiega ampiamente con la bassissima tassazione del capitale. Tuttavia,
questa misura è oggetto di una attività
di lobbying permanente presso il Congresso, dunque il 71% del suo costo
(coperto dall’insieme dei contribuenti)
va a beneficio del solo 1% degli americani più ricchi. Il rifiuto di una politica
attiva per l’occupazione rivela la stessa
scelta di classe, sostituita anch’essa da
un sistema oligarchico. Nel gennaio
del 2013 il tasso di disoccupazione degli americani che dispongono almeno
di un titolo di studio non era che del
3,7%. Al contrario, si attesta al 12%
per i non diplomati, molto più poveri. La loro opinione non pesa molto a
Washington diversamente da quella di
Sheldon e Miriam Adelson, la coppia
di miliardari americani il cui finanziamento per le elezioni dell’anno scorso
ha superato quello della totalità degli
abitanti di dodici stati americani…
«Nella maggior parte dei casi – con-
favorevoli dei primi ai sindacati e alle
leggi finalizzate a sostenerne l’attività. Quanto alla maggioranza vorrebbe
che il capitale fosse tassato quanto il
lavoro. E assegna un’assoluta priorità alla lotta contro la disoccupazione
(33%) piuttosto che a quella contro il
deficit (15%).
Risultato di questa divergenza
di opinione? Il salario minimo ha
perso il 30% del suo valore dopo il
1968; nessuna legge (contrariamente a quanto dichiarato dal candidato
Barack Obama) ha ammorbidito il
calvario che comporta la costituzione
di un sindacato nell’impresa; il capitale resta tassato due volte meno del
lavoro (20% contro il 39,6%). Infine
il Congresso e la Casa bianca rivaleggiano nei tagli al bilancio in un paese
dove la percentuale di popolazione
attiva occupata sta raggiungendo il
minimo storico.
clude lo studio di Demos – le preferenze della stragrande maggioranza della popolazione sembrano non avere
alcun impatto sulle scelte politiche».
«Volete che mi dimetta? Se è così
ditemelo!» Il presidente cipriota Nicos
Anastasiades aveva così apostrofato
Christine Lagarde, direttore generale
dell’Fmi, quando esigeva la chiusura immediata di una delle più grandi
banche dell’isola, gran dispensatrice
di occupazione e reddito (18). Il ministro francese Benoît Hamon sembra a
sua volta ammettere che la sovranità
(o l’influenza) del suo governo sarà
strettamente limitata dato che «sotto
la pressione della destra tedesca, si
impone una politica di austerità che
ovunque in Europa si traduce in un
aumento della disoccupazione (19)».
Nella messa a punto delle misure
che consolidano il potere di classe
del capitale e della rendita, i governi
hanno sempre dovuto ricorrere alla
pressione degli «elettori» non residenti di cui devono invocare l’ «irresistibile potere»: la troika, le agenzie
di rating, i mercati finanziari. Una
volta concluso il rito elettorale nazionale, Bruxelles, la Bce e l’Fmi, per
parte loro, inviano le prescrizioni ai
nuovi governanti affinché essi abiurino senza tentennamenti a questa o
quella promessa della campagna elettorale. Anche il Wall Street Journal
nel febbraio scorso si è commosso:
«Dall’inizio della crisi, tre anni fa,
Bruxelles intima al governo greco di
tagliare circa 2 miliardi di euro dalla
spesa pubblica del paese. Entro i cinque giorni successivi e con la minaccia di una multa.
Nessuna sanzione incombe invece sul presidente dell’Azerbaigian,
sull’ex ministro delle finanze mongolo, sul primo ministro georgiano, sulla
moglie del vice primo ministro russo o
sul figlio dell’ex presidente colombiano. Tutti hanno naturalmente trasferito una parte della loro fortuna – mal
acquisita o chiaramente rubata – nei
paradisi fiscali. Come le Isole vergini
britanniche, dove sono censite venti
volte più società registrate che abitanti. O le isole Cayman che contano tanti
hedge funds (fondi speculativi) che gli
Stati uniti. Senza dimenticare il cuore
dell’Europa, la Svizzera, l’Austria e il
Lussemburgo, grazie ai quali il Vecchio continente compone un cocktail
esplosivo tra una crudele politica di
austerità di spesa e un consiglio di
gabinetto specializzato nell’evasione
fiscale.
Nessuno si lamenta di questa porosità delle frontiere. Proprietario di
una multinazionale del lusso e decimo uomo più ricco del pianeta, Bernard Arnault una volta si è a sua volta
rallegrato della perdita di influenza
dei governi democratici: «Le imprese, soprattutto internazionali, hanno dei mezzi sempre più grandi e in
Europa hanno acquisito la capacità
Ogni giorno si susseguono manifestazioni – nelle strade, nelle fabbriche, nelle urne – per reiterare il
rifiuto popolare dei governi illegittimi. Ma, malgrado l’ampiezza della
crisi, costoro brancolano alla ricerca
di proposte alternative, per metà convinti che queste non esistano e per
metà che comporterebbero un costo
proibitivo. Da qui l’insorgere di un’esasperazione disperata. È urgente trovare uno sbocco.
SERGE HALIMI
(Un prossimo articolo rifletterà sulle strategie politiche suscettibili di
individuare percorsi alternativi)
(14) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji
Watanuki, The Crisis of Democracy, New
York University Press, 1975.
(15) Le Figaro, Parigi, 7 marzo 2013.
(16) Anne-Sylvaine Chassany e Camilla Hall,
«Nicolas Sarkozy’s road from the Elysée to
private equity», Financial Times, Londra,
28 marzo 2013.
(17) David Callahan e J. Mijin Cha, «Stacked
deck: How the dominance of politics by the
affluent & business undermines economic
mobility in America», Demos, www.demos.org. Le informazioni che seguono sono
tratte da questo studio.
(18) «Chypre finit par sacrifier ses banques», Le
Monde, 26 marzo 2013.
(19) Rmc, 10 aprile 2013.
(20) Matthew Dalton, «Europe’s institutions
pose counterweight to voters’ wishes», The
Wall Street Journal, 28 febbraio 2013.
(21) Rtl, 8 aprile 2013.
(22) «A Bruxelles, la grande déprime des eurocrates», Libération, Parigi, 7 febbraio 2013.
(23) Leggere Joseph Stiglitz, «I guasti del Fondo monetario in Etiopia», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2002.
(24) Bernard Arnault, La Passion créative.
Entretiens avec Yves Messarovitch, Plon,
Parigi, 2000.
(25) «Jouyet: “Une dictature de fait desmarchés”», Le Journal du dimanche, Parigi, 13
novembre 2011.
(Traduzione di P.S.)