Immaginare un reddito garantito per tutti Condizioni
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Immaginare un reddito garantito per tutti Condizioni
OCCASIONE STORICA PER I KURDI – alle pagine 12 e 13 nnn Recensioni e segnalazioni Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto ALLE PAGINE 22 E 23 euro 1,50 in vendita abbinata con il manifesto nnn n. 5, anno XX, maggio 2013 sped. in abb. postale 50% n Il carnevale delle inchieste n Come parlare a Pyongyang n A Porto Rico, un ambiguo referendum n In Mali, il blues dell'esercito P. RIMBERT E R. KEUCHEYAN PHILIPPE PONS JAMES COHEN DOROTHÉE THIÉNOT n Le ambizioni di Pechino n Haiti devastata dai benefattori n L'energia elettrica verde al bivio n Corea del sud, i drama fanno scuola OLIVIER ZAJEC CÉLINE RAFFALLI AURÉLIEN BERNIER STÉPHANE THÉVENET DOSSIER: UN’UTOPIA A PORTATA DI MANO Sommario dettagliato a pagina 2 DISEGUAGLIANZA, DEMOCRAZIA, SOVRANITÀ Condizioni Immaginare un reddito garantito per una riconquista per tutti Inventare un’altra vita, altri rapporti sociali, può sembrare fuori posto in periodo di crisi. Eppure non è mai stato tanto necessario. In Europa, in America latina, in Asia, si fa strada l’idea del diritto a un reddito di base incondizionato. Nessuno crede più che la ragione prevarrà sulle insensate politiche di austerità, o che la morale eviterà gli scandali mescolando denaro e potere. Ormai, la speranza di un cambiamento si basa sulla radicale contestazione degli interessi in gioco. di SERGE HALIMI di MONA CHOLLET SANDRO CHIA Senza titolo, 1989-90 I LAVORA, e, in cambio, si ricevono soldi. Questa logica è così ben impressa nella mente, che la prospettiva di garantire un reddito di base incondizionato, cioè di versare a ciascuno una somma mensile sufficiente a permettergli di vivere, indipendentemente dall’attività lavorativa, sembra un’aberrazione. Siamo ancora convinti di dover strappare a una natura arida e ingrata i mezzi per la sussistenza individuale; ma la realtà è ben diversa. parte dei prelievi obbligatori è aumentata inesorabilmente con la presidenza di Mitterrand, Chirac e Sarkozy (2).» E non sarebbe troppo difficile avanzare ancora un po’ per fare in modo che tutti siano al riparo dal bisogno (leggere l’articolo a pagina 15). S Borse di studio, congedi parentali, pensioni, assegni famigliari, indennità di disoccupazione, minimi sociali e il regime francese dei lavoratori dello spettacolo con contratto a termine, sono tutte prestazioni che hanno in comune la caratteristica di separare il reddito dal lavoro. Per quanto insufficienti e criticabili possano essere, tutti questi dispositivi dimostrano che il reddito garantito è un’utopia «già realizzata». In Germania, solo il 41% del reddito della popolazione proviene direttamente dal salario, ci dicono Daniel Häni e Enno Schmidt nel loro film Le Revenu de base (Reddito di cittadinanza minimo) (2008) (1). In Francia, nel 2005, il reddito dipendeva al 30% dalla redistribuzione (assegni vari): «Malgrado i discorsi ideologici, malgrado la liquidazione dello stato assistenziale denigrato dai neoliberisti, la quota- Per cominciare, si risparmierebbero le somme destinate a perseguire l’obiettivo ufficiale del pieno impiego, dato che la prima conseguenza del reddito di base sarebbe quella di eliminare la disoccupazione in quanto problema – sia come questione sociale che come fonte di angoscia individuale. Più niente giustificherebbe gli incentivi elargiti alle imprese per incitarle ad assumere. Ricordiamo che le politiche di esenzione o di riduzione dei contributi sociali destinate a questo scopo sono passate da 1,9 miliardi di euro nel 1992 a 30,7 miliardi nel 2008 (3). O ancora, che nel 1989 il gruppo sudcorecontinua a pagina 18 (1) http://ildocumento.it/attualita-e-politica/reddito-di-cittadinanza-minimo.html (2) Yann Moulier-Boutang, L’Abeille et l’Economiste, Carnets Nord, Parigi, 2010. (3) Progetto di legge di finanziamento della Previdenza sociale 2013, allegato 5. «Non voglio sbagliarmi voglio sapere di dove parto per serbare tanta speranza» (Paul Eluard, Poesia ininterrotta) C ERTE RIVELAZIONI rimandano a ciò che noi già sappiamo. Apprendiamo che dei politici amano il denaro, frequentando coloro che lo possiedono? Che insieme talvolta sguazzano come una casta al di sopra della legge? Che la fiscalità coccola i contribuenti più ricchi? Che la libera circolazione dei capitali permette loro di nascondere il bottino nei paradisi fiscali? La scoperta di singole trasgressioni ci incoraggerà a rimettere in discussione il sistema che le ha generate (si legga articolo a pagina 2). Ora, negli ultimi decenni, la trasformazione del mondo è stata così rapida da superare la nostra capacità di analizzarla. Caduta del muro di Berlino, emergenza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), nuove tecnologie, crisi finanziarie, rivolte arabe, declino europeo: ogni volta, gli esperti si sono alternati per annunciarci la fine della storia o la nascita di un nuovo ordine mondiale. Al di là di queste premature sepolture, o incerte nascite, sono emerse più o meno universalmente tre grandi tendenze, sulle quali, in un primo momento, è importante fare un bilancio: l’impennata delle disuguaglianze sociali, la decomposizione della democrazia politica e la riduzione della sovranità nazionale. Come la pustola in un grande corpo malato, ogni nuovo scandalo ci permette di vedere gli elementi di questo trittico risorgere separatamente e intrecciarsi tra loro. Lo sfondo generale può essere così riassunto: poiché i governanti dipendono principalmente dalle decisioni continua a pagina 8 QUANDO IL REALITY TRASFORMA IL LAVORO IN SPETTACOLO Epopea culinaria e rinascita imprenditoriale Con il nuovo manifesto, Il recente decesso del candidato di «Koh-Lanta» (Tf1) ha mostrato tutta la brutalità dei reality. Questa violenza può anche essere puramente morale, come nelle trasmissioni culinarie che danno una visione al contempo marziale e lenitiva del lavoro. di MARC PERRENOUD * N EL CORSO degli ultimi anni, in Francia sono comparsi reality culinari come «Masterchef» (Tf1, 2010), «Top chef» (M6, 2010) o «Un dîner presque parfait» (M6, 2008). Sono tutti giochi-concorso a eliminazione che richiamano talent show quali «Star academy» (Tf1) o «À la recherche de la nouvelle star» (M6). Il vincitore ottiene un lasciapassare dorato nel mondo professionale e, oltre a beneficiare di un’importante esposizione mediatica, seppur effimera, vince una grossa somma di denaro per aprire un’attività, uno stage in una * Sociologo, università di Losanna. prestigiosa impresa o, quando si tratta di trasmissioni musicali, la produzione di un album e una campagna promozionale. Nel 2004, nel Regno unito è stata lanciata una trasmissione che avrebbe presto raggiunto il successo mondiale, pur avendo un contenuto molto diverso. Mandato in onda in Francia via cavo e su satellite (su Cuisine tv dal 2006, poi su W9), «Ramsay’s kitchen nightmares», tradotto in «Cucine da incubo», mette in scena lo chef-divo Gordon Ramsay. Per una settimana, questo proprietario di ristoranti a molte stelle, autore di libri di cucina e protagonista di una serie di video, affianca un ristoratore sull’orlo del baratro per le grandi difficoltà in cui versa la sua attività. Dopo alcuni anni di pro- duzione nel Regno unito, la trasmissione e il sue eroe hanno attraversato l’Oceano per una versione americana (2008-2010), approdando in Francia su M6 nel 2011-2012 con i primi episodi condotti dallo chef Philippe Etchebest. È nota l’appetenza dei reality per le trasmissioni di coaching, che costituiscono un sottogenere a pieno titolo. Ma, in generale, si tratta di una forma di assistenza per raggiungere degli obiettivi nell’ambito della vita privata: perdere peso, vestirsi, educare i bambini, pulire, decorare, vendere o comprare casa, ecc. Qui, Ramsay non offre consigli ad abili dilettanti («Master chef»), né a continua a pagina 20 ci trovate in edicola anche per il 2013 Al solito prezzo. Sosteneteci, difendete, con noi, il pensiero critico. www.ilmanifesto.it/abbonamenti 13 16 14 17 15 14 17 giugno luglio agosto settembre ottobre novembre dicembre 8 MAGGIO 2013 Le Monde diplomatique il manifesto DISEGUAGLIANZA, Condizioni continua dalla prima pagina è vietato avanzare altre ipotesi. Questa per esempio: il capitale, meno tassato del lavoro, dedica al consolidamento dei propri appoggi politici una parte dei risparmi realizzati grazie alle decisioni che lo hanno favorito: fiscalità di comodo, salvataggio delle grandi banche che hanno preso in ostaggio i piccoli risparmiatori, popolazione spinta a rimborsare prioritariamente i creditori, debito pubblico che costituisce per i ricchi uno strumento di investimento (e uno strumento di pressione) supplementare. Queste innumerevoli connivenze politiche garantiscono al capitale la conservazione di tutti i suoi vantaggi. Nel 2009 sei dei quattrocento contribuenti americani più ricchi non hanno pagato alcuna imposta, ventisette meno del 10%, nessuno ha pagato più del 35%. di una minoranza privilegiata (quella che investe, specula, assume, licenzia, presta) acconsentono di buon grado alla deriva oligarchica dei sistemi politici. E quando si inalberano prendendo coscienza del rinnegamento del mandato che il popolo ha loro affidato, la pressione della finanza internazionale si adopera per farli saltare. «Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sul bene comune». Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, come tutti sanno, non è mai stato rigorosamente rispettato. In ogni tempo, le distinzioni sono state motivate non dal bene comune ma da altri fattori: il luogo dove si ha la fortuna (o la sfortuna) di nascere, la condizione dei genitori, l’accesso all’educazione e alla sanità, ecc. «La diseguaglianza in sé non è mai stata un grande problema nella cultura politica americana, che insiste sull’eguaglianza delle possibilità piuttosto che su quella dei risultati – ricorda ancora oggi l’intellettuale conservatore Francis Fukuyama. Ma il sistema è legittimato se le persone continuano a credere che, lavorando duro e dando il meglio di sé, essi stessi e i loro figli avranno delle buone possibilità di progredire, e se hanno delle buone ragioni per pensare che NEW YORK, STATI UNITI, SETTEMBRE 2012 Attivisti di Occupy Wall Street i ricchi lo sono diventati rispettando le regole del gioco (1)». Rassicurante o anestetizzante, questa fede laica svanisce in tutto il mondo. Interrogato sei mesi prima della sua elezione alla presidenza della repubblica sugli strumenti di «risanamento morale» che invocava dai suoi voti, François Hollande evocava il «sogno francese». Esso corrisponde alla narrazione repubblicana che ci ha permesso di progredire malgrado le guerre, le crisi, le divisioni. Fino a questi ultimi anni noi avevamo la convinzione che i nostri figli sarebbero vissuti meglio di noi». Ma il candidato socialista aggiungeva: «Questa convinzione è svanita» (2). dipendono dai consumi delle classi medie cominciano a perdere opportunità in un mondo in cui la domanda globale, quando non è asfissiata dalle politiche di austerità, si concentra sui beni di lusso e sulla fascia più bassa. Secondo i sostenitori della globalizzazione, l’approfondimento delle disparità sociali proverrebbe principalmente da una crescita delle tecnologie a tal punto rapida da penalizzare le persone meno istruite, meno mobili, meno flessibili, meno agili. La risposta ai problemi sarebbe allora facilmente trovata: l’educazione e la formazione (dei ritardatari). Nel febbraio scorso il settimanale delle «élites» internazionali The Economist così riassumeva questo racconto giustificatorio dove politica e corruzione sono assenti: «L’1% dei più ricchi ha visto il proprio reddito salire di colpo grazie al premio che un’economia globalizzata ad alta tecnologia conferisce alle persone intelligenti. Un’aristocrazia che una volta dedicava Il club dei miliardari L MITO della mobilità sociale segue la paura del declassamento. Un operaio non mantiene più neppure una piccola speranza di diventare padrone, giornalista, banchiere, professore d’università, responsabile politico. Le grandi scuole sono ancora più chiuse agli strati popolari di quando Pierre Bourdieu pubblicava Les Héritiers, nel 1964. Stessa cosa per le migliori università del mondo le cui spese di iscrizione sono esplose (3). Impossibilitata a pagarsi ancora per lungo tempo i suoi studi superiori, una giovane donna si è suicidata a Manila. E, due anni fa, uno studente americano spiegava: «Io devo 75.000 dollari. Naturalmente, non sarò in grado di pagare alle scadenze. Mio padre, essendo il mio garante, deve rimborsare il mio debito. Anche lui va in fallimento. Avrò quindi rovinato la mia famiglia perché ho voluto elevarmi al di sopra della mia classe (4)». Egli ha voluto vivere il sogno americano, «brandelli di ricchezza». Per causa sua la famiglia sta compiendo il percorso inverso. Quando il «vincitore prende tutto (5)» la disparità di reddito rileva a volte una patologia sociale. Proprietaria del gigante della distribuzione Walmart, la famiglia Walton deteneva trent’anni fa 61.992 volte la ricchezza media americana. Ma questo probabilmente non era abbastanza, poiché oggi ne possiede 1.157.827 volte. I Walton in questo periodo hanno accumulato tanto per se stessi quanto le 48.800.000 famiglie meno abbienti (6). La patria di Silvio Berlusconi mantiene un piccolo ritardo sulle prodezze americane, ma, l’anno scorso, la Banca d’Italia ha annunciato che «i primi dieci patrimoni nazionali [posseggono] tanto denaro quanto i tre milioni d’italiani più poveri (7)». E, ormai, la Cina, l’India, la Russia o i paesi del Golfo, sgomitano nel club dei miliardari. In materia di concentrazione del reddito e di sfruttamento dei lavoratori essi non hanno niente da imparare dagli occidentali, ai quali d’altra parte impartiscono volentieri lezioni di liberismo selvaggio (8). I miliardari indiani, che possedevano nel 2013 l’1.8% della ricchezza nazionale, ne accaparravano già il 22% cinque anni più tardi (9). Nel frattempo, essi sono certo diventati un tantino più numerosi, ma il 22% della ricchezza per sessantuno individui, non è molto in una nazione di più di un miliardo di abitanti? Mukesh Ambani, l’uomo più ricco del paese, forse si pone la questione dallo scintillante salotto di casa sua, dal ventisettesimo piano che si affaccia su Bombay – una megalopoli con più di metà della popolazione che vive ancora nelle baracche. Questo è il punto che preoccupa il Fondo monetario internazionale (Fmi)… Dopo aver a lungo proclamato che la «dispersione dei redditi» era un fattore di concorrenza, d’efficienza, di dinamismo, osserva che il 93% della crescita degli utili, realizzata negli Stati uniti durante il primo anno della ripresa, è andata all’1% degli americani più ricchi. Anche all’Fmi sembrava troppo. Perciò, messe da parte le considerazioni morali, come assicurare lo sviluppo di un paese la cui crescita offre i vantaggi maggiori a un ristretto gruppo di persone che non può acquistare granché, disponendo già di tutto? E, di conseguenza, accaparra o specula alimentando ancor più un’economia finanziaria già parassitaria. Due anni fa uno studio dell’Fmi si arrendeva, ammettendo che favorire la crescita e ridurre le diseguaglianze costituivano «le due facce della stessa medaglia (10)». Gli economisti osservano, d’altra parte, che i settori industriali che il suo denaro “al vino, alle donne e alla musica” è stata rimpiazzata da un’élite formata nelle business schools, i cui membri si sposano tra loro e impiegano saggiamente il loro denaro pagando ai propri figli corsi di cinese e abbonamenti a The Economist (11)». La sobrietà, la modestia e la saggezza dei genitori premurosi che educano i propri figli a leggere il (solo) giornale che li renderà migliori spiegheranno anche il decollo della ricchezza. Non Un’economia globale in cui «chi vince prende tutto», sindacati nazionali a pezzi, una fiscalità leggera per i redditi più pesanti: la macchina della diseguaglianza rimodella l’intero pianeta. Le sessantatremila persone (di cui diciottomila in Asia, diciassettemila negli Stati uniti e quattordicimila in Europa) che detengono una fonte di ricchezza superiore a 100 milioni di dollari possiedono un patrimonio accumulato di 39.900 miliardi di dollari (13). Far pagare i ricchi non rappresenterebbe più soltanto un fatto simbolico. Due ali dello stesso uccello predatore E POLITICHE economiche che L hanno soddisfatto una minoranza non hanno tuttavia quasi mai violato le regole democratiche – il governo della maggioranza. A priori, c’è un paradosso. Uno dei più famosi giudici della storia della Corte suprema americana, Louis Brandeis, dichiarava in effetti che «Noi dobbiamo scegliere. Possiamo avere una democrazia, o avere REUTERS/ALBERT GEA A REUTERS/LUCAS JACKSON Ma il peso di queste differenze si trova a volte alleggerito dalla convinzione che la mobilità sociale contrasterà le diseguaglianze di nascita. Per Alexis de Tocqueville, una speranza di questo genere, più diffusa negli Stati uniti che nel Vecchio continente, aiuterebbe gli americani ad accettare disparità di reddito maggiori che altrove. Un piccolo contabile di Cleveland o un giovane californiano senza diploma potrebbero sognare che il loro talento o la loro determinazione potranno spingerli al posto che John Rockefeller o Steve Jobs hanno occupato prima di loro. Insomma, i ricchi utilizzano la loro ricchezza per accrescere la loro influenza, poi la loro influenza per accrescere la loro ricchezza. «Nel corso del tempo, sostiene Fukuyama, le élite sono in grado di proteggere i loro privilegi manipolando il sistema politico, spostando il loro denaro all’estero per evitare la tassazione, trasmettendo questi benefici ai propri figli attraverso l’accesso privilegiato alle istituzioni d’élite (12)». Si capisce allora che un possibile rimedio richiederebbe più di piccole modifiche costituzionali. BARCELLONA, SPAGNA, FEBBRAIO 2013 Manifestazione contro le misure di austerità una concentrazione di ricchezza nelle mani di qualcuno, ma non possiamo avere le due cose insieme». La vera democrazia pertanto non si riduce al rispetto delle forme (elezioni multipartitiche, cabine di voto, urna elettorale). Essa implica molto più che la partecipazione rassegnata a un voto che non cambierà nulla: un’intensità di controllo, un’educazione popolare, una cultura politica, il diritto di reclamare un rendiconto, di revocare gli eletti che tradiscono il loro mandato. Non è per caso che nel 1975, in un periodo di fermento politico, d’ottimismo collettivo, di solidarietà internazionale, di utopie sociali, l’intellettuale conservatore Samuel Huntington ammetteva la sua inquietudine. In un famoso rap- (1) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire. Des origines de la politique à nos jours, Saint-Simon, Parigi, 2012. (2) La Vie, Parigi, 15 dicembre 2011. (3) Leggere Christoher Newfield, «Il debito studentesco, una bomba a scoppio ritardato», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2012. (4) Tim Mak, «Unpaid student loans top $1 trillion», 19 ottobre 2011, www.politico.com (5)Robert Frank e Philip Cook, The WinnerTake-All-Society, Free Press, New York, 1995. (6) «Inequality, exhibit A: Walmart and the wealth of American families», Economic Policy Institute, 17 luglio 2012, www.epi. org (7) «L’Italie de Monti, laboratoire des “mesures Attali”», Les Echos, Parigi, 6-7 aprile 2012. (8) Leggere «Fronte antipopolare», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2013. (9) «India’s billionaires club», Financial Times, Londres, 17 novembre 2012. (10) «Income inequality may take toll on growth», The New York Times, 16 ottobre 2012. (11) «Repairing the rungs on the ladder», The Economist, Londra, 9 febbraio 2013. (12) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire, op. cit. (13) Nel 2011, il prodotto interno lordo mondiale era di circa 70.000 miliardi di dollari. Knight Frank e Citi Private Bank, «The Wealth Report 2012», www.thewealthreport.net. Le Monde diplomatique il manifesto MAGGIO 2013 9 DEMOCRAZIA, SOVRANITÀ per una riconquista porto pubblicato dalla Commissione trilaterale egli riteneva che «l’azione efficace di un sistema democratico in generale esige un livello di apatia e di non partecipazione da parte di taluni gruppi e individui (14)». Cina, dove il reddito annuo pro-capite supera di poco i 2.500 dollari, il Parlamento conta ottantatré miliardari, si capisce che i ricchi cinesi non mancano di buoni avvocati al vertice dello stato. Su questo punto, almeno, il modello americano ha trovato il suo maestro, anche se, per l’assenza di elezioni, Pechino non distribuisce ancora le sue ambasciate più ambite ai più generosi finanziatori delle campagne presidenziali vittoriose, come fa Washington. Missione compiuta… L’ultrareazionaria Commissione trilaterale, peraltro, sta celebrando il suo quarantesimo anniversario allargando la cerchia dei suoi convitati agli ex ministri socialisti europei (Peter Mandelson, Elisabeth Guigou, David Milliband) e a partecipanti cinesi e indiani. Non è arrossita per il cammino percorso. Nel 2011, due dei suoi membri, Mario Monti e Lucas Papadémos, ex banchieri entrambi, sono stati sospinti da una troika di organismi non eletti – l’Fmi, la Commissione europea, la Banca centrale europea (Bce) – alla guida dei governi italiano e greco. Ma capita che le persone il cui «livello di apatia» resta insufficiente, esitino ancora. Così, quando Monti ha cercato di convertire il suffragio per censo della troika in suffragio universale, ha incassato un clamoroso fallimento. Il filosofo francese Luc Ferry si dichiara rattristato: «Ciò che mi addolora, perché io sono democratico nell’anima, è la costanza con la quale il popolo, in tempo di crisi, sceglie senza incrinature, se non i peggiori per lo meno quelli che dissimulano più abilmente e più ampiamente la verità (15)». Eppure ci chiediamo che cosa i liberali ancora temono dai governanti, visto che sia le riforme economiche e sociali che quelle che stanno per essere messe in atto continuano a coincidere con le esigenze del mondo imprenditoriale e dei mercati finanziari. Ai vertici dello stato la convergenza è d’altra parte rafforzata dalla stravagante sovrarappresentazione di categorie sociali borghesi e per la facilità con la quale esse passano dal pubblico al privato. Quando in un paese come la economica. Due mesi fa, ha pubblicato una dettagliata inchiesta: «come il dominio della politica da parte dei ricchi e del mondo degli affari frena la mobilità sociale in America (17)». Risposta: in materia di politica economica e sociale, anche di diritto del lavoro, i cittadini privilegiati si ritrovano su priorità profondamente distinte da quelle della maggioranza dei loro concittadini. Ma essi dispongono di mezzi fuori dal comune per portare a compimento le loro aspirazioni. Così, mentre il 78% degli americani ritiene che il salario minimo dovrebbe essere indicizzato al costo della vita e sufficiente per chi ne ha diritto per non cadere in povertà, solo il 40% dei contribuenti più ricchi è dello stesso avviso. Essi si mostrano ugualmente meno spese e ad alzare le tasse. (…) Il problema che affrontano i nuovi governanti è dover agire nel quadro delle istituzioni della zona euro e seguire le direttive macroeconomiche fissate dalla Commissione europea. (…) Va altrettanto detto che dopo il chiasso e il furore di un’elezione, il margine di manovra economica si restringe (20)». «Abbiamo l’impressione – sospira M. Hamon – che una politica di destra o di sinistra dosi differentemente gli stessi ingredienti (21)». Paradisi fiscali e privilegi N ALTO funzionario della ComU missione europea ha assistito a un incontro tra suoi colleghi e la di- rezione del Tesoro francese: «È stato allucinante: si comportavano come un maestro di scuola che spiega a un cattivo studente cosa deve fare. Ho molto ammirato il direttore del Tesoro che ha mantenuto la calma (22)». La scena ricorda la sorte dell’Etiopia o dell’Indonesia all’epoca in cui i dirigenti di questi stati erano ridotti al rango di esecutori dei castighi che l’Fmi infliggeva ai loro paesi (23). Una situazione che oggi conosce anche l’Europa. Nel gennaio del 2012 la Commissione di di affrontare la concorrenza tra gli stati. (…) Il reale impatto degli uomini politici sulla vita economica di un paese è sempre più limitato. Fortunatamente (24)». Al contrario, la pressione subita dallo stato si accresce. E si esercita contemporaneamente dal lato dei paesi creditori, della Bce, dell’Fmi, della pattuglia delle agenzie di rating, dei mercati finanziari. Jean-Pierre Jouyet attuale presidente della Banca pubblica di investimento (Bpi), ha ammesso due anni fa che questi ultimi in Italia avevano «fatto pressione sul gioco democratico. È il terzo governo che salta per loro iniziativa a causa del debito eccessivo. (…) L’aumento dei tassi di interesse del debito italiano è stata la scheda elettorale dei mercati. (…) Alla fine i cittadini si rivolteranno contro questa dittatura di fatto (25)». La «dittatura di fatto» può nondimeno contare sui grandi media per confezionare le distrazioni che ritardano e poi deviano le rivolte collettive, che personalizzano, cioè depoliticizzano, gli scandali più eclatanti. Chiarire la vera natura di ciò che sta accadendo, i meccanismi grazie ai quali ricchezza e potere sono stati carpiti da una minoranza che controlla sia lo stato che il mercato, richiederebbe un continuo lavoro di educazione popolare. E ricorderebbe che tutti i governi cessano di essere legittimi quando lasciano crescere le diseguaglianze sociali, subiscono l’abbattimento della democrazia politica, accettano la messa sotto tutela della sovranità nazionale. MARSIGLIA, FRANCIA, APRILE 2013 «No ai licenziamenti» Dexia e l’italiano della Deutsche Bank. Possono difendere il bene pubblico se devono stare attenti a non dispiacere regimi feudali stranieri o istituzioni finanziarie delle quali potrebbero diventare in futuro partner in affari? Quando, in un numero crescente di paesi, una tale prassi coinvolge volta a volta i due principali partiti, questi diventano per il popolo quello che il romanziere Upton Sinclair chiamava «due ali dello stesso uccello predatore». Le impronte dei ricchi sullo stato ISTITUTO DEMOS ha voluto L’ valutare gli effetti della vicinanza tra funzionari del governo e oligarchia i francesi, gli spagnoli, gli irlandesi, gli olandesi, i portoghesi, i greci, gli sloveni, gli slovacchi e i ciprioti hanno tutti, in una maniera o nell’altra, votato contro il modello economico della zona euro. Ciononostante le politiche economiche non sono affatto cambiate dopo questi rovesci elettorali: la sinistra ha rimpiazzato la destra, la destra ha cacciato la sinistra, il centrodestra ha ugualmente schiacciato i comunisti (a Cipro), ma gli stati continuano a ridurre le loro REUTERS/JEAN-PAUL PELISSIER Per premunirsi contro questo genere di delusione, il modo più semplice è di non tenere in alcun conto il verdetto degli elettori. L’Unione europea, che dispensa lezioni di democrazia al mondo intero, ha fatto di questa negazione una sua specialità. Non per caso. Da trent’anni gli ultraliberisti che guidano la danza ideologica negli Stati uniti e nel Vecchio continente si ispirano alla «teoria delle cose pubbliche» dell’economista James Buchanan. Fondamentalmente diffidente verso la democrazia, tirannia della maggioranza, questa scuola di pensiero postula che i dirigenti politici siano inclini a sacrificare l’interesse generale – in stretto accordo con i dirigenti d’azienda – per soddisfare le loro clientele e assicurare la propria rielezione. La sovranità di questi irresponsabili deve di conseguenza essere strettamente limitata. Questo è il compito dei meccanismi coercitivi che in questo momento ispirano la costruzione europea (indipendenza delle banche centrali, regola del 3% del deficit, patto di stabilità) o, negli Stati uniti, il taglio automatico della spesa pubblica («sequestro del budget»). Le collusioni – e i conflitti di interesse – tra governanti e miliardari si fanno ormai gioco delle frontiere. Nicolas Sarkosy, il quale, quand’era all’Eliseo, aveva accordato favori al Qatar, tra cui un accordo fiscale che esonerava l’emirato dalle imposte sulle plusvalenze immobiliari, ha ora intenzione di imbarcarsi nella finanza speculativa con l’appoggio di Doha. «Il fatto che egli sia un ex presidente non significa che debba diventare un frate trappista», ha perorato il suo ex ministro degli interni Claude Guéant (16) Il voto di povertà non sembra opportuno neanche per altri ex capi dell’esecutivo Anthony Blair, Jean-Luc Dehaene e Giuliano Amato: il britannico è consulente della JP Morgan, il Belga della Come si può dire meglio che i ricchi lasciano pesantemente la loro impronta sullo stato e il sistema politico? Votano più spesso, finanziano le campagne elettorali più di altri e, soprattutto, esercitano una continua pressione sugli eletti e i governanti. L’aumento delle diseguaglianze negli Stati uniti si spiega ampiamente con la bassissima tassazione del capitale. Tuttavia, questa misura è oggetto di una attività di lobbying permanente presso il Congresso, dunque il 71% del suo costo (coperto dall’insieme dei contribuenti) va a beneficio del solo 1% degli americani più ricchi. Il rifiuto di una politica attiva per l’occupazione rivela la stessa scelta di classe, sostituita anch’essa da un sistema oligarchico. Nel gennaio del 2013 il tasso di disoccupazione degli americani che dispongono almeno di un titolo di studio non era che del 3,7%. Al contrario, si attesta al 12% per i non diplomati, molto più poveri. La loro opinione non pesa molto a Washington diversamente da quella di Sheldon e Miriam Adelson, la coppia di miliardari americani il cui finanziamento per le elezioni dell’anno scorso ha superato quello della totalità degli abitanti di dodici stati americani… «Nella maggior parte dei casi – con- favorevoli dei primi ai sindacati e alle leggi finalizzate a sostenerne l’attività. Quanto alla maggioranza vorrebbe che il capitale fosse tassato quanto il lavoro. E assegna un’assoluta priorità alla lotta contro la disoccupazione (33%) piuttosto che a quella contro il deficit (15%). Risultato di questa divergenza di opinione? Il salario minimo ha perso il 30% del suo valore dopo il 1968; nessuna legge (contrariamente a quanto dichiarato dal candidato Barack Obama) ha ammorbidito il calvario che comporta la costituzione di un sindacato nell’impresa; il capitale resta tassato due volte meno del lavoro (20% contro il 39,6%). Infine il Congresso e la Casa bianca rivaleggiano nei tagli al bilancio in un paese dove la percentuale di popolazione attiva occupata sta raggiungendo il minimo storico. clude lo studio di Demos – le preferenze della stragrande maggioranza della popolazione sembrano non avere alcun impatto sulle scelte politiche». «Volete che mi dimetta? Se è così ditemelo!» Il presidente cipriota Nicos Anastasiades aveva così apostrofato Christine Lagarde, direttore generale dell’Fmi, quando esigeva la chiusura immediata di una delle più grandi banche dell’isola, gran dispensatrice di occupazione e reddito (18). Il ministro francese Benoît Hamon sembra a sua volta ammettere che la sovranità (o l’influenza) del suo governo sarà strettamente limitata dato che «sotto la pressione della destra tedesca, si impone una politica di austerità che ovunque in Europa si traduce in un aumento della disoccupazione (19)». Nella messa a punto delle misure che consolidano il potere di classe del capitale e della rendita, i governi hanno sempre dovuto ricorrere alla pressione degli «elettori» non residenti di cui devono invocare l’ «irresistibile potere»: la troika, le agenzie di rating, i mercati finanziari. Una volta concluso il rito elettorale nazionale, Bruxelles, la Bce e l’Fmi, per parte loro, inviano le prescrizioni ai nuovi governanti affinché essi abiurino senza tentennamenti a questa o quella promessa della campagna elettorale. Anche il Wall Street Journal nel febbraio scorso si è commosso: «Dall’inizio della crisi, tre anni fa, Bruxelles intima al governo greco di tagliare circa 2 miliardi di euro dalla spesa pubblica del paese. Entro i cinque giorni successivi e con la minaccia di una multa. Nessuna sanzione incombe invece sul presidente dell’Azerbaigian, sull’ex ministro delle finanze mongolo, sul primo ministro georgiano, sulla moglie del vice primo ministro russo o sul figlio dell’ex presidente colombiano. Tutti hanno naturalmente trasferito una parte della loro fortuna – mal acquisita o chiaramente rubata – nei paradisi fiscali. Come le Isole vergini britanniche, dove sono censite venti volte più società registrate che abitanti. O le isole Cayman che contano tanti hedge funds (fondi speculativi) che gli Stati uniti. Senza dimenticare il cuore dell’Europa, la Svizzera, l’Austria e il Lussemburgo, grazie ai quali il Vecchio continente compone un cocktail esplosivo tra una crudele politica di austerità di spesa e un consiglio di gabinetto specializzato nell’evasione fiscale. Nessuno si lamenta di questa porosità delle frontiere. Proprietario di una multinazionale del lusso e decimo uomo più ricco del pianeta, Bernard Arnault una volta si è a sua volta rallegrato della perdita di influenza dei governi democratici: «Le imprese, soprattutto internazionali, hanno dei mezzi sempre più grandi e in Europa hanno acquisito la capacità Ogni giorno si susseguono manifestazioni – nelle strade, nelle fabbriche, nelle urne – per reiterare il rifiuto popolare dei governi illegittimi. Ma, malgrado l’ampiezza della crisi, costoro brancolano alla ricerca di proposte alternative, per metà convinti che queste non esistano e per metà che comporterebbero un costo proibitivo. Da qui l’insorgere di un’esasperazione disperata. È urgente trovare uno sbocco. SERGE HALIMI (Un prossimo articolo rifletterà sulle strategie politiche suscettibili di individuare percorsi alternativi) (14) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, The Crisis of Democracy, New York University Press, 1975. (15) Le Figaro, Parigi, 7 marzo 2013. (16) Anne-Sylvaine Chassany e Camilla Hall, «Nicolas Sarkozy’s road from the Elysée to private equity», Financial Times, Londra, 28 marzo 2013. (17) David Callahan e J. Mijin Cha, «Stacked deck: How the dominance of politics by the affluent & business undermines economic mobility in America», Demos, www.demos.org. Le informazioni che seguono sono tratte da questo studio. (18) «Chypre finit par sacrifier ses banques», Le Monde, 26 marzo 2013. (19) Rmc, 10 aprile 2013. (20) Matthew Dalton, «Europe’s institutions pose counterweight to voters’ wishes», The Wall Street Journal, 28 febbraio 2013. (21) Rtl, 8 aprile 2013. (22) «A Bruxelles, la grande déprime des eurocrates», Libération, Parigi, 7 febbraio 2013. (23) Leggere Joseph Stiglitz, «I guasti del Fondo monetario in Etiopia», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2002. (24) Bernard Arnault, La Passion créative. Entretiens avec Yves Messarovitch, Plon, Parigi, 2000. (25) «Jouyet: “Une dictature de fait desmarchés”», Le Journal du dimanche, Parigi, 13 novembre 2011. (Traduzione di P.S.)