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Dieci considerazioni per il governo della città ovvero la questione delle periferie
Quello che faccio è uno strano mestiere che sta a cavallo tra le tecniche e le interpretazioni, tra i
metodi quantitativi e quelli qualitativi, fra i modelli e la comunicazione; il tutto nell’idea che
bisogna governare la città, che la città è – nel suo insieme – un bene comune (anche se molte cose
della città possono e debbono essere “merci”, così non è per la città nel suo insieme; e la stessa cosa
succede per molte altre cose in molti altri campi) e che a governarla debbono essere i cittadini (non
per capirci i “portatori di interesse” o i percettori di rendite).
Vorrei ribadire questo concetto con un esempio: il mercato1, un luogo fondamentale della città, è un
luogo pubblico, anche se le merci che vi si scambiano sono beni privati, come luogo pubblico viene
programmato, progettato, regolato, “mantenuto”; non vi si svolge solo lo scambio di merci, ma è
luogo di relazioni, di discussioni, di trame, di seduzioni, di intrattenimento (i fieranti, che vanno a
quei particolari mercati occasionali che sono le fiere, i saltimbanchi, i malandrini, i giocatori delle
tre carte, … si trovano al mercato); l’agorà era il luogo dello scambio e della democrazia; spesso vi
sono state anche “città dei mercati”, a volte stagionali o mobili.
Poi mi occupo di giochi, in generale – come deve essere – per divertimento e, qualche volta, come è
possibile, in quanto essi sono una “tecnologia educativa” ed uno strumento utile per capire la città e
per capire come si può guidare; non a caso a questo tema tornerà alla fine di questo saggio.
C’è solo una giustificazione per un esordio così personale: che esso sia utile; credo che lo sia perché
nell’esperienza che raccontiamo mi sono “allargato” un po’ troppo, proponendo alle mie
studentesse e ai miei studenti un percorso – riferito alle periferie di Sassari - che arrivasse sino al
progetto, non limitandosi all’analisi e alla diagnosi.
Le considerazioni che seguono sono – in molti sensi – il riferimento teorico ed il quadro concettuale
di quei progetti.
Governare le trasformazioni
La prima considerazione serve a definire il quadro di riferimento dell’intera costruzione logica e
concettuale del progetto; governare le trasformazioni della città è necessario, governare le
trasformazioni della città è possibile.
Il fatto che sia difficile e che debba essere fatto in modo diverso che in passato, non vuol dire che
non si debba e non si possa fare.
Governare la città è difficile ed ha molte implicazioni ed oggi avviene in modo diverso da ieri,
soprattutto per quanto riguarda la progettazione e la pianificazione del suo futuro.
Non a caso si parla di pianificazione strategica,2 che, se spesso nei fatti non è altro che uno degli
innumerevoli inganni per farla finita con la pianificazione “dura” dei piani regolatori, potrebbe
essere qualcosa di diverso, come diremo.
Molte sono le trasformazioni che le dinamiche della città hanno avuto negli ultimi anni; non dico
tanto le trasformazioni che le città hanno avuto, che erano state numerose e rapide anche in passato,
parlo di una sorta di meta-livello: sono anche le cause delle trasformazioni ad essere cambiate, in
particolare vi è un intreccio fra città reale e sua rappresentazione3, vi è la perdita o l’attenuazione di
1 Se ci pensate si parla molto del Mercato e poco dei mercati veri e concreti, sarà perché si preferisce la dizione di shopping center
o Mall (con la inguaribile fastidiosa sudditanza linguistica che ci viene imposta dalla cosiddetta “cultura aziendale”; quando ero
piccolo mi piaceva molto andare al mercato e soprattutto al fiera.
2 La pianificazione strategica è una delle più recenti pratiche di pianificazione, che deriva da pratiche aziendali; la pianificazione
strategica in linea di principio dovrebbe definire il quadro delle azioni, degli obiettivi, delle strategie e dei protagonisti per
“disegnare” in un futuro di medio periodo le linee condivise dello sviluppo della città e del suo territorio, dal punto di vista
ambientale, sociale ed economico. Si veda ad esempio Cavenago D. (2004) Città e piano strategico. Percorsi di governance del
territori Milano, Il Sole 24 Ore.
3 Si veda Batty M. (1995) "The Computable City" in Proceedings of Conference on Computers in Urban Planning and Urban
Management, Melbourne
un aspetto fondamentale che ha accompagnato sinora la storia della città, il ruolo fondamentale
della contiguità spaziale nell’evoluzione urbana.
Cosa è mutato (o meglio cosa deve mutare) invece nelle pratiche di governo?
In sostanza non è mutata la necessità di governare i processi, di utilizzare un piano, di definire
vincoli e norme, ma è mutata l’idea che ciò possa avvenire per volontà demiurgica del decisore
(politico o tecnico è quasi lo stesso): le trasformazioni, la definizione di visioni ed obiettivi comuni,
la costruzione del bene comune hanno bisogno di un processo di scelta “partecipato” che si
accompagni alla realizzazione e alla gestione dei progetti.
Governo dunque, ma più nel senso etimologico del termine, quello della guida che il nocchiero
(kubernetes) fa della nave, tutt’altro che debole.
Si tratta di coniugare livelli di azioni diversi, alcune azioni intraprenderle direttamente, altre
stimolarle o sostenerla, altre assecondarle, altre contrastarle, altre impedirle.
In questo senso si tratta di usare livelli, modalità e stili di piano diversi per i quali uno strumentochiave può essere la pianificazione strategica.
Se dal punto di vista dell’igiene mentale la classificazione e le definizioni proposte da Gibelli4
possono essere utili, viene da credere che una pianificazione strategica efficace debba avere la
caratteristica di definire un quadro molto coerente e stabile di obiettivi, strumenti e politiche, debba
raccordarsi con altri strumenti di piano su scale spaziali e temporali diversi in modo definito e
normato, debba combinare gli approcci top-down e bottom-up.
È una questione usata ed abusata (come la polemica contro il riduzionismo): come si gestiscono i
sistemi sociali? Da troppo tempo si polemizza aspramente con gli approcci “hard”, contro il
governo forte (chi non contrappone l’ottima governance al pessimo governement?), contro i
meccanismi top-down.
Ma è proprio sempre così? Il sistema produttivo agricolo dell’impero cinese o egizio era forse del
tutto inefficiente per il fatto di essere centralizzato e basato sul “comando e controllo”? La
costruzione dell’Airbus A380 è avvenuta sulla base della capacità di auto-organizzazione della
migliaia di operai e tecnici coinvolti? E le piramidi? E la grande muraglia? E la sconfitta dei
nazisti da parte dell’Armata Rossa? E lo sbarco in Normandia? E la forma urbana di Washington?
Laddove vi è una finalità esplicita e definita e serve un’organizzazione coerente e strutturata
l’approccio “dall’alto” è inevitabile: almeno fino ad un certo punto.
Ma chi può anche solo discutere il fatto che molti sistemi reali (anche i sistemi sociali) hanno la
capacità di produrre comportamenti autonomi, di esibire proprietà emergenti, di auto-organizzarsi,
di costruirsi?
Come dicevamo un “buon governo” sa muoversi in modo da assecondare o contrastare – a seconda
degli obiettivi e dei contesti – i processi spontanei. Come negare che navigare è un processo molto
“top-down” che si muove molto dentro processi “bottom-up”?
E non sono fragili davvero le società che governano la natura non ubbidendole o che ubbidiscono
alla natura non governandola?
Governare per che cosa?
La seconda considerazione ci indica a cosa deve tendere il governo, in generale e per quanto
riguarda le trasformazioni del territorio.
Saper leggere, descrivere, interpretare, orientare e governare le trasformazioni radicali della città,
del territorio e dell’ambiente, all’interno dell’obiettivo di fondo di uno sviluppo che garantisca
equità, sostenibilità, diritti è il compito e la sfida che dobbiamo porci, ciascuno di noi dal proprio
punto di vista.
Uso la parola “sviluppo” con prudenza, ma con convinzione ed in qualche modo la associo alla
parola “progresso”.
4 Gibelli M.C. (1996), “Tre famiglie di piani strategici” in Curti F. e Gibelli M. C. (1996) Pianificazione strategica e gestione dello
sviluppo urbano, Alinea, Firenze.
Infatti se è assurdo confondere lo svolgersi della storia con il progresso (cioè come un oggettivo
“tendere a …”) è altrettanto assurdo pensare che l’azione deliberata degli esseri umani non debba
invece puntare al “progresso” e – tutto sommato – cosa sia il progresso non è impossibile definirlo.
Ad esempio un egregio lavoro in questa direzione, che sembra quasi sconosciuto al mondo della
“politica” in particolare in Italia, pur essendo a molti molto noto, è quello fatto a questo proposito
dall’UNDP con l’Indice dello Sviluppo Umano ISU (o HDI), con l’Indice di Liberta Umana ILU (o
HFI) e con l’Indice di Libertà Politica ILP (o PFI)5; di grande interesse si può considerare anche il
lavoro di Clifford Cobb sul GPI (Genuine Progress Index)6 che considera le perdite dovute
all’inquinamento; questi indici possono poi essere affiancati da una misura delle ineguaglianze
come l’Indice di Gini o della pressione sull’ambiente come l’Impronta Ecologica7.
È chiaro che scegliere l’uno e l’altro di questi indicatori non è indifferente, implica una scelta
politica ed etica, ma se è vero – come vedremo – che “misurare non basta”, misurare non è un
cattivo inizio per definire le questioni e alla fine “misurare si deve”.
Anche nel nostro lavoro questo è stato un punto cruciale che forse lo rende più interessante e
persino più audace del mero “gesto progettuale” realizzato sulla base delle emozioni o dalla
sensibilità o dall’esperienza del progettista (“ed a quel modo che ditta dentro, vo significando”);
non è vero infatti che gli esercizi creativi siano limitati dai vincoli e dalle regole, al contrario,
misurare la propria progettualità sui dati reali è esercizio creativo, gioco della fantasia e
dell’intelligenza molto più efficace, divertente e opinabile (dà più strumenti alla discussione).
In un gioco di simulazione in rete che abbiamo recentemente realizzato per l’ARPAL Liguria sulla
sostenibilità8 il carattere multidimensionale dei concetti di sviluppo e sostenibilità e il loro articolato
intrecciarsi con la soddisfazione dei bisogni e dei desideri è la molla dell’intero processo di
simulazione.
In ogni caso è noto a quasi tutti gli economisti che non c’è solo la crescita del PIL a misurare lo
sviluppo di un spese, anzi è noto che – in molti casi – questa può essere una misura distorta.
Invece di “progresso” (che pare in qualche misura indicare che vi è una sola direzione data), a me
piace usare il più perspicuo termine “sviluppo” (un termine che lascia aperte molte possibilità, ma
non tutte), precisando che non confondo in nessun modo il termine “sviluppo” con il termine
“crescita”9.
A me piace la parola sviluppo: anche etimologicamente il termine “sviluppo” ha una connotazione
molto positiva e felice, vuol dire “sciogliere dai vincoli” e dunque ha un legame stretto con il
significato della parola libertà; se è vero che nell’uso corrente si tende a sovrapporre “sviluppo” e
“crescita” (economica), così non è in linea di principio e di fatto.
Svilupparsi è in genere una cosa positiva (non sempre e comunque e non in tutte le accezioni, visto
che nella lingua reale una certa ambiguità e polisemia sono inevitabili; per fortuna!).
La crescita è un termine molto più neutro, ha connotazioni a volte positive, a volte negative, a volte
indifferenti: non si può assumerlo come desiderabile di per sé e comunque; come nota Latouche:
“Al di fuori dell’immaginario economico è impossibile porre come un assioma che più è
necessariamente meglio.”10.
Lo sviluppo, pur auspicabile, non è comunque indolore e non “gratis”. Può essere – come ogni
attività - solo parzialmente sostenibile.
In particolare se ci riferiamo alla città, dobbiamo essere prudenti.
5 Si veda http://hdr.undp.org/.
6 Si veda Cobb G. W. and Cobb, J.B. (1994) The green national product: a proposed index of sustainable economic welfare
Washington, University Press of America
7 Si veda Wackernagel M. e Rees W. (2000) L’Impronta Ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra Roma, Edizioni
Ambiente
8 http://arpal.eja.it.
9 Che la confusione regni sotto il cielo della terminologia è noto da molto tempo; di recente – anche per un infelice esito elettorale –
la parola progresso aveva ricevuto qualche anatema, mentre per Pasolini si doveva volere il progresso (di sinistra), ma non lo sviluppo
(di destra).
10 Latouche S- (2003) Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia mondializzata Milano, Bollati Boringhieri
Intanto credo che possa essere considerato abbastanza evidente il fatto che non è più sicuro che si
debba “costruire”, almeno in molta parte dell’Italia e dell’Europa; un buon punto di partenza
potrebbe essere quello di non aumentare il “consumo di suolo” da parte dell’edificato.
Sicuramente servono infrastrutture, ma non sempre queste debbono essere aggiuntive a quelle
esistenti e spesso possono essere più “parche” nell’uso del suolo; sicuramente serve una migliore
qualità dell’abitare, ma quasi sempre ciò si può e si deve realizzare con la riqualificazione, il
recupero, la sostituzione del patrimonio esistente; sicuramente serve ridefinire le destinazioni d’uso
di molte aree industriali abbandonate, ma più che qualche volta ciò può servire per ridurre
l’edificazione, dando respiro alla città; sicuramente serve “ricucire” funzionalmente lo sprawl,
costruendo da queste ricuciture “le reti di città”, ma se si addensa, qualcosa bisogna abbandonare e
“dis-edificare; sicuramente la quasi totalità dell’edificato va ripensato e riqualificato dal punto di
vista ambientale (in primo luogo per quanto riguarda l’efficienza energetica) e forse è questo il caso
in cui demolire in modo sistematico può a volte essere necessario.
Città e sostenibilità
La terza considerazione riguarda la questione della sostenibilità.
La città non è mai stata "sostenibile" in nessuno dei sensi in cui questa espressione è usata, in
particolare se si pensa all’accezione che Latouche11 definisce “eco-centrata”: anzi la città è il
luogo della vita umana organizzata in cui la crescita dell'entropia è massima.
Sia la nascita che lo sviluppo della città sono sotto il segno dell'oppressione esterna, dello spreco,
dell'inquinamento, in generale dell'esternalizzazione:
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oppressione verso le campagne e verso le "colonie" estere; anche quando la "città" è
democratica al suo interno tende a non esserlo verso l'esterno: oppressione tesa a
estrarre surplus o a imporre consumi, comunque non all'insegna del rapporto
equilibrato con le risorse.
spreco per il ruolo centrale attribuito al "movimento" incessante, ai trasporti di persone,
beni e prodotti da e verso la città e fra una città e l'altra e all’interno della città; il
“movimento” è la condizione necessaria dell’esistenza della città.
inquinamento per la densità e la concentrazione della popolazione e la dimensione degli
insediamenti e la conseguente entità dei rifiuti e delle scorie della produzione e del
consumo.
"consumo di ambiente" ed esternalizzazione ché fra tutte le forme insediative la città è
quella che divora più energia e che produce maggiore entropia (fuori di essa).
Sostenibili (o meglio meno insostenibili) potrebbero essere altri tipi di insediamento, ma questa
"sostenibilità" produrrebbe forme insediative orribili, come l’ecologicamente perfetto ed inumano
mondo asimoviano di Solaria12.
Volere la città significa fare i conti con una macchina, per molti versi meravigliosa, irrinunciabile
(l'unico ambiente in cui l'uomo è una specie singolare, diversa, unica), ma costosa e inefficiente.
Si tratta di fare i conti con la città, dunque.
Per la città il problema del limite è sempre esistito, ma forse ora per la prima volta, assume
dimensioni non solo locali e non solo per brevi periodi.
Molte città, la stragrande maggioranza di esse, si sono estinte per aver distrutto il loro ambiente, le
condizioni per la propria sopravvivenza, per autofagia.
Dunque il rispetto di alcune soglie sempre è stato imprescindibile; al più la città che, per sua
natura, ha sempre cercato di superare i limiti dell'ambiente circostante, ne ha forzato le dimensioni
con le conquiste, l'espansione territoriale e commerciale.
11 Latouche S. (1995) La megamacchina Milano, Bollati Boringhieri.
12 Si veda Pedna A. (2000) Le utopie urbanistiche di Isaac Asimov Roma, Unicopli.
Spesso non ci è riuscita e ha divorato se stessa.
Quasi mai ha saputo imporsi dei limiti, programmare il suo sviluppo, essere "sostenibile" anche
solo rispetto a se stessa, e questi casi rari sono stati e rimangono esempi indimenticabili per il
mondo.
Ma il limite della città, l'ambito della sua divorante famelicità era sino a ieri prevalentemente
"locale", i danni ambientali (diretti quantomeno) erano legati alla "prossimità", alla contiguità
spaziale; una delle caratteristiche della città moderna è stata la rottura del "dogma" della contiguità
spaziale per quanto riguarda l'approvvigionamento e i mercati, mentre per quanto riguarda quella
contemporanea è la rottura della contiguità spaziale per quanto riguarda la produzione.
Negli ultimi decenni la crescita dell'urbanizzazione e l'aumento dei consumi urbani stanno
determinando una globalizzazione anche degli effetti ambientali, sia in termini di impatto
momentaneo che di pressione stabile: non solo viene investito tutto il mondo attuale, ma viene
"consumato" tutto il mondo futuro.
Vero è che si può sempre sperare che lo sviluppo scientifico risolva molti problemi, e per alcuni di
essi succederà, ma non dimentichiamo che molte città si sono estinte con il "loro" ambiente e che
nulla impedisce che la città "globale" con il "suo" ambiente si estingua, prima che l'innovazione
"salvifica" si produca.13
Nel nostro lavoro di progetto abbiamo avuto sullo sfondo questa necessità, la riduzione dello
“spreco urbano”, anche se non con l’attenzione di dettaglio che meritava; come argomenterò uno
delle speranze dell’eliminazione delle periferie e del miglioramento della qualità della vita in quei
quartieri attraverso la loro riqualificazione va nella direzione della di munizione concreta della loro
insostenibilità ambientale.
Città di ieri e città di oggi
In quarto luogo si tratta di identificare i caratteri distintivi della città
Vale la pena partire da alcune “affermazioni” che mi appaiono evidenti per le città di sempre:
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nelle dinamiche urbane si intrecciano permanenza (le stratificazioni) e cambiamenti, sicché
il futuro di ogni città non è indipendente dalla sua storia ;
la città è la nicchia ecologica della specie umana, anche perché si tratta di una specie
sommamente adattabile, sicché la forma città, pur mutevole è resistente e resiliente;
la città rende possibile isolarsi e rende inevitabile stare con gli altri, sicché gli spazi di
relazione e quelli dell’abitare sono entrambi essenziali e la qualità urbana dipende dalla
qualità di entrambi: le “città” senza spazi pubblici o che distruggono lo spazio pubblico non
sono città: in esse i "non-luoghi" divengono gli unici simulacri della città, come non sono
città le “città” senza abitanti;.
la città è il luogo dell’interazione sociale fra diversi, sicché le città “ideali” non sono città, le
città-fortezza (le Gated Cities) non sono città.
Possiamo tentare di definire un insieme di caratteristiche fondamentali della città:
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compattezza e continuità (ovvero una densità costante alle diverse scale),
presenza di infrastrutture e di spazi pubblici,
compresenza di funzioni diverse
mutevole diversità sociale e culturale
Un interessante esercizio sarebbe vedere quale nome potrebbero avere le forme di insediamento che
mancano di queste caratteristiche.
Che cos’è un insediamento senza compattezza? Si tratta in fondo del cosiddetto sprawl, della
13 Si veda Diamond J. (2005) Collasso. Come le civiltà scelgono di morire o di vivere Torino, Einaudi
“marmellata urbana” senza addensamenti, mentre un insediamento senza continuità è quello della
cosiddetta “città diffusa” in cui vi sono nuclei urbani di diversa consistenza sparsi all’interno della
“marmellata”, senza infrastrutture e spazi pubblici abbiamo le aree urbane “informali”. Come molte
delle favelas, le favelas hanno una molteplicità di funzioni che mancano ai quartieri dormitorio o ai
“non-luoghi delle mono-cultura turistiche o commerciali, gli elementi (non tutti) di diversità sociale
e culturali mancano alle gated city e alle banlieu.
Potrebbe essere interessante e non troppo difficile costruire una “misura” dell’urbanità” sulla base
di queste caratteristiche opportunamente definite con indicatori.
Ma la città di oggi presenta un grande intreccio di caratteristiche peculiari anche contraddittorie:
ƒ
densità variabile: dalla città compatta come Hong Kong alla città dei suburbi nordamericana, alla città diffusa monocentrica, a quella policentrica, a quella senza nuclei,
ƒ minore o maggiore continuità
ƒ alto costo delle residenze, ma con valori del suolo e degli immobili “a macchia di
leopardo”,
ƒ alta immigrazioni, ma con la creazione di "ghetti" urbani,
ƒ localizzazione periferica dei centri industriali e centrale dei centri finanziari, ma anche
delocalizzazione di produzione e controllo;
ƒ diffusione contemporanea e coesistenza di terziario "avanzato" ed "arretrato", sino al
lavoro servile tipico dell’Ottocento;
ƒ modalità di lavoro assai diverse e atipiche, notevoli opportunità di lavoro e ampie aree di
disoccupazione, con contemporanei effetti di polarizzazione e diffusione),
ƒ presenza di una visibile gerarchia fra le città di ogni rete, ma non basata sulla contiguità
spaziale.
Una caratteristica comune a quasi tutte le città del mondo dalla Cina alla Francia, è il dominio pieno
ed incontrollato che sulla città esercita il capitalismo finanziario che non ha più il suo ancoraggio, il
suo limite e il suo freno nel capitalismo produttivo; il capitalismo finanziario è per sua natura
mobile, incorporeo, disancorato: esso sta in ogni luogo e dunque in nessun luogo, mentre il
capitalismo produttivo ha bisogno di consistenza fisica, occupa spazi, ha un corpo, vive di luoghi.
Urbs, civitas e polis
La quinta considerazione riguarda la perdita del ruolo politico della città, che è un bel problema
anche per il senso delle parole.
Un’altra causa del declino e della scomparsa delle città è stata il venir meno della loro capacità di
garantire forme adeguate di cittadinanza, nei modi storicamente possibili e quindi diversi da
un’epoca all’altra; l’inclusione forse non coincide con i diritti di cittadinanza, ma essi ne sono la
condizione: “l’aria della città rende liberi” non era solo un modo di dire.
Un’evoluzione della città contemporanea è quella di originare città senza abitanti, ovvero senza
cittadini; un non-città che dissolve in uno stesso tempo la “forma” della città (l’urbs) e la società (la
civitas): si perde il cittadino se si perde la città e si perde così la politica e così si perde la
democrazia; il cittadino diviene solo consumatore è la “città” una delle tante (neppure la più
importante) “macchina per il consumo”, una marmellata in cui gli unici grumi sono le cittadelle del
consumo che spesso assumono l’aspetto fantasmatico di città fittizie.
Queste trasformazioni pongono a chi interviene nella città (fra essi l’architetto e l’urbanista) un
compito nuovo: non si tratta di progettare questi grumi fittizi, anche quando sono spazi bellissimi
o ispirati (e molto spesso non lo sono), senza occuparsi del resto della marmellata.
Forse si può ripensare alla “politica per la città” a partire da altri addensamenti, quelli delle
“comunità” che in qualche interstizio si sono collocate, che agiscono pratiche di solidarietà, che
inventano occasionali momenti di coesione sociale, che astutamente percorrono le strade inventando
luoghi pubblici, ma che lo fanno isolate, senza progetto, senza relazioni, senza potere, a volte senza
cultura.
Come nota Sassen:
“oggi la politica si svolge sempre più in sedi informali. E ciò acquista maggiore rilevanza
a livello locale, nelle città, in quelli che sono «spazi urbani complessi». Oggi il sistema
politico formalizzato rappresentato dai partiti, dai sindacati, dai parlamenti nazionali
«accomoda» meno la politica rispetto al passato, mentre acquistano importanza gli spazi
politici informali. (…) Le sedi politiche informali sono multivalenti e possono piacerci o
non piacerci. Le grandi multinazionali sono soggetti politici informali e ovviamente non
ci piacciono. Ma sono soggetti politici anche le donne, anche le madri di Plaza de Mayo.
Molte iniziative informali promosse dai movimenti sembrano pura poesia e invece sono
fondamentali. Oggi viviamo una fase di grandi transizioni in cui i soggetti politici
informali hanno la possibilità di essere presenti, di elaborare proposte e di conoscersi gli
uni con gli altri, è il momento di creare presenza politica informale orizzontale, di
vederci, capire chi siamo, di produrre «narrazioni alternative».”
Ma serve una “struttura” che si innesti su questi brandelli di civitas dando loro norma ed estensione,
che ricostruisca luoghi pubblici come luoghi di incontri fra popolazioni che si parlano, che
restituisca nella città anche i luoghi dell’abitare, luoghi di qualità al livello delle Best Available
Technologies e luoghi per tutti (politiche della casa che recuperino gli spazi urbani con azioni e
mosse che permettano la residenza di giovani, anziani, poveri, classi medie).
Politiche che accolgano comunità ed identità, accettino le diverse “popolazioni”, ma per farle
dialogare, convivere, intrecciarsi, che quindi esprimano l’universalità dei diritti e le regole della
convivenza, cioè del “civismo”.
Politiche pubbliche che svolgano il ruolo che il mercato non può svolgere, costruendo cittadinanza e
ridando così forma all’urbs.
Governare l’ambiente e la forma della città (l’urbs) e insieme saper far vivere e sviluppare la sua
società (la civitas): che dietro agli effetti drammatici delle catastrofi naturali vi sia – come a New
Orleans – il venir meno di “quella cosa che chiamiamo società”, quella cosa reale che secondo la
più grande rivoluzionaria del passato millennio “non esiste”14?
Non si può dire che l’esperienza del Presidente operaio (in senso proprio) Lula Da Silva in Brasile,
abbia cambiato profondamente quel paese, ma alcune “periferie” (in particolare alcune favelas)
sono cambiate davvero; alcune politiche sociali, combinate con meccanismi di partecipazione, di
empowerment e qualche buona scelta urbanistica dei risultati li hanno prodotti; il progetto “Fame
zero (Fome Zero) coordinato per due anni da Frei Betto15 ha consentito a molte famiglie di disporre
delle risorse minime per progettarsi un futuro, per mandare i figli a scuola, per formalizzare in parte
un’attività di lavoro: anche le favelas non sono “buchi neri”, se si consolida la società, la comunità e
si individua una prospettiva possono trasformarsi, acquistare una dimensione urbana.
La scomparsa possibile di una città come Venezia, la sua trasformazione in “città senza abitanti”,
ormai alquanto vicina e probabile persino, sarà dovuta a entrambe queste spinte, in larga misura
opposte: da un lato l’incapacità di controllare e limitare la pressione della città sul suo ambiente
(anche per incuria e disattenzione), dall’altro la perdita di funzioni sociali e di diversità, il dominio
14 “There is no such thing as society: there are individual men and women, and there are families.” Margaret Thatcher British
Prime Minister, citato da Bauman, Z. (2000) la solitudine del cittadino globale Feltrinelli
15 Fame Zero è il programma strategico creato dal Governo Federale del Brasile per combattere la fame e le sue cause strutturali, che
generano esclusione sociale, allo scopo di garantire la sicurezza alimentare del popolo brasiliano attraverso un insieme di politiche
strutturali, specifiche e locali. Fame Zero è un di inclusione sociale, che vuole accompagnare le famiglie beneficiarie in un percorso
dall’esclusione all’inclusione, dalla povertà alla generazione di reddito, dalla dipendenza alla cittadinanza.”
“O Fome Zero é uma estratégia impulsionada pelo governo federal para assegurar o direito humano à alimentação adequada às
pessoas com dificuldades de acesso aos alimentos. Tal estratégia se insere na promoção da segurança alimentar e nutricional
buscando a inclusão social e a conquista da cidadania da população mais vulnerável à fome.” http://www.fomezero.gov.br/.
Non basta, ma quei 50 reais (15 euro) al mese sulla base di un progetto e qualche modesta politica di inclusione, fanno la differenza;
l’elemosina non sarebbe lo stesso.
pieno e incontrollato su tutte le attività della monocultura del turismo, avida di risorse e
insostenibile come tutte le monoculture, insaziabile nel divorare spazi e persone.
Diversità come condizione prima della sopravvivenza della città e insieme estensione e
generalizzazione dei diritti, in primo luogo quello di cittadinanza, che coinvolge ed implica il diritto
all’abitare, il diritto alla casa.
Possiamo imparare dalla storia come le città sono sopravvissute e sono morte e quali fattori ne
hanno determinato gli esiti16.
Centro e periferie
In sesto luogo bisogna capire cosa sono oggi le periferie.
L’incendio di un condominio fatiscente a Parigi, vicino a Place d’Italie, e il fatto che in
quell’incendio, a causa dello stato di abbandono dell’edificio, siano morte 17 persone fra cui 14
bambine e bambini, tutti immigrati regolari dall’Africa, è solo l’emergenza tragica del problema
delle condizioni dell’abitare in tutte le città contemporanee, in cui progressivamente è stata
abbandonata ogni azione per il “diritto alla casa”, azioni che erano elemento centrale, cardine della
politica urbanistica delle amministrazioni pubbliche soprattutto nel primo dopoguerra, in cui a
dirigere l’Ufficio per le attività edilizia del Comune di Berlino era Martin Wagner e in cui nella
Vienna “rossa” sorsero le grandi Hof.
Case popolari per la città fordista certo, ma elementi essenziali di costruzione consapevole e
pianificata della città; abitazioni come spazio interiore, ma in relazione agli spazi pubblici, come
scrive Sennett17: “il nostro problema urbano è quello di ridare realtà all’esterno in quanto
dimensione dell’esperienza umana” in modo da contrastare l’impossibilità dell’individuo di
confrontarsi con ciò che sta fuori.
Questa politica “locale” avveniva con la consapevolezza della necessità di “spuntare le unghie” al
dominio pieno ed incontrollato del capitale finanziario e della rendita, dando il senso a la dignità di
luoghi pubblici anche simbolici e di identità alle nuove strutture “produttive”, come lo avevano
molte fabbriche e molti magazzini della città industriali, come è stato ad esempio il grande Mulino
Stucky a Venezia e come è l’inceneritore Spittelhau di Venna ai giorni nostri: in questo si può
ritrovare il ruolo del progetto, che è anche atto “libero” di creatività”, ma che non è e non può
essere disincarnato, che non può diventare solo design.
Anche in aree più decentrate, più ai margini dei processi economici e meno dense, questi processi
di perdita di “urbanità” (città senza abitanti e conseguente diffusione urbana, dominio della rendita
nelle scelte urbanistiche, perdita di senso della cittadinanza) avvengono e dispiegano i loro effetti:
anche il ridursi del peso della “contiguità” spaziale, per cui, per molte cose, Londra e Cagliari,
Barcelona e Napoli sono più o meno altrettanto lontane o vicine, contribuisce ad “accordare” le
dinamiche territoriali di aree decentrate anche ai fenomeni globali, sicché il loro controllo, il
governo di questi processi ha bisogno di molta azione “locale”, ma anche di attenzione e intervento
sulla dimensione generale.
La nascita delle moderne periferie (anche le città antiche avevano i propri suburbia, ma il fenomeno
delle periferie è un fenomeno moderno che possiamo far partire dal periodo di abbattimento delle
mura, anche se ha assunto poi forme e modi diversi in varie parti del mondo) e la crisi dei processi
di integrazione economica, culturale e sociale determinano l’esistenza nelle città, a volte nel loro
più interno centro, di aree di esclusione permanenti, escluse dal presente e dal futuro, aree cui si
contrappongono i ghetti dorati delle gated city o le città “specializzate”.
“La fabbrica ha smesso di essere un luogo di mescolanza sociale. Ieri vi si incontravano gli operai e i capireparto, gli ingegneri e i padroni dello stabilimento.
I loro rapporti erano certamente conflittuali, ma ciascuno misurava direttamente
la propria dipendenza nei confronti degli altri. Oggi, gli ingegneri sono negli uffici
16 Si veda Diamond J. (2005) Collasso. Come le Società scelgono di morire o di vivere Torino, Einaudi.
17 Sennett R (1992) La coscienza dell’occhio Progetto e vita sociale nelle città Milano, Feltrinelli
studi. Gli impiegati si trovano nelle società di servizi e i lavori industriali vengono
subappaltati, robotizzati o delocalizzati. (…)
Ancora ieri, in città, i ricchi abitavano al secondo piano, i poveri all'ultimo. Ricchi e
poveri si incrociavano per le scale e, anche se non si parlavano, i loro figli
frequentavano talvolta le stesse scuole. Da quando l'ascensore è stato installato
ovunque, gli stabili sono frequentati dai ricchi o dai poveri. Ma non da entrambi
contemporaneamente. Ricchi e poveri vivono in quartieri distinti. Il quartiere smette
di essere un luogo di mescolanza sociale.
Peggio ancora, con la Rer (la rete ferroviaria regionale di Parigi, ndr) le periferie
tendono ad allontanarsi sempre di più dai quartieri chic. Ieri i sobborghi operai non
erano mai molto lontani dal centro delle città. Gli operai dovevano andare sul posto
di lavoro a piedi. Con la Rer la distanza può aumentare. Parigi, quale che sarà la sua
demografia futura, non arriverà mai a toccare Sarcelles. Gli abitanti delle periferie
vengono in città il sabato sera a lustrarsi la vista e poi ritornano a casa. I centri
"difficili" non sono che la punta visibile di un processo molto più vasto, all'interno del
quale ogni gruppo sociale vede allontanarsi il livello superiore che un tempo era
vicino.(…) Viene a crearsi una serie di universi chiusi, in cui l'unica istanza sociale è
un'istanza di sicurezza pubblica.”18
Le recenti rivolte delle banlieue francesi hanno mostrato come anche dove è esistita una volontà
pubblica di integrazione ed una consapevole pianificazione del territorio i processi economici e
finanziari determinano una crisi delle città che appare ingestibile ed irrazionale.
Cattiva architettura? Cattiva urbanistica? Cattiva politica? Spesso sì, qualche volta no.
Le periferie sono aree di bordo, terre di confine, talvolta veri spazi di transizione tra città e
territorio, a volte vere e proprie cerniere ambientali, ridare loro caratteristiche urbane, significa
costruire insieme urbs e civitas, tenendo conto del fatto che spesso in esse si esprimono nuove
culture e nuove forme di aggregazione, rapide nell’evolversi e pronte a degenerare e che oltre ad
essere un problema della città, spesso ne sono una risorsa potenziale e che dunque la soluzione non
è l’omologazione, ma l’ibridazione, non la costruzione di una città centripeta, per sua natura
creatrice di luoghi periferici, ma la promozione di una città multi-centrica e plurale.
Avendo ben presente che oltre alla cattiva architettura, alla cattiva urbanistica, alla cattiva politica,
rovina della città è in primo luogo la cattiva economia, ovvero il dominio pieno ed incontrollato
della rendita e della speculazione.
Indizi per una risposta possono venire dall’uso delle parole.
La banlieu è originariamente il territorio che circonda la città e da essa dipende; la parola viene da
ban = bando e lieue=luogo, cioè il territorio di una città su cui si estende la giurisdizione cittadina..
Ma la banlieu è anche il luogo in cui vivono gli esclusi, coloro che sono “banditi” dalla città.
“Il y a donc toujours eu un mur invisible mais bien réel entre les habitants de la
ville et ceux de la banlieue. Les banlieues sont extérieures (topographiquement),
exclues
(socialement),
étranges
(culturellement)
et
abandonnées
(administrativement) puisqu'il y a moins de services qu'en ville. Ce dernier fait est
particulièrement grave puisque, avec le chômage, la violence et la ségrégation
urbaine, il représente l'ensemble des problèmes les plus graves de la banlieue. Les
victimes de ces problèmes sont surtout les jeunes qui dès l'âge de huit-dix ans
commencent à avoir des problèmes à vivre dans cette galère, qui sortent du collège
parfois sans diplôme et qui commencent à travailler pour la survie quotidienne de
leurs familles.” 19
18 Cohen D. (2006) “Il sociale ha divorziato dall’economia” in Il Sole 24 Ore Il Domenicale 17 Settembre
19 C’è stato sempre un muro invisibile, ma molto reale tra gli abitanti della città e quelli delle banlieu. Le banlieu sono esterne
(topograficamente), escluse (socialmente), strane (culturalmente) e abbandonate (amministrativamente) poiché hanno meno servizi di
una città. Quest’ultimo fatto è particolarmente grave poiché con la disoccupazione, la violenza e la segregazione urbana rappresenta
l’insieme dei più gravi problemi della banlieu. Le vittime di questi problemi sono soprattutto i giovani che dall’età di otto / dieci anni
cominciano ad avere dei problemi a vivere in questa galera, che escono dalla scuola superiore a volte senza diploma e cominciano a
E non è solo una situazione temporanea, come era accaduto spesso in passato, quando si poteva
sostenere che ““la banlieue d’aujourd’hui est le fauburg de demain, comme le fauburg
d’aujourd’hui est la banlieue d’hier”20; il faubourg (da foris-burgum) era il borgo costruito fuori
dalle mura, propriamente il sobborgo.
Il faubourg è in periferia, ma non è necessariamente periferico; c’è infatti nel termine periferia un
significato letterale, “che sta sulla circonferenza” (da perì = intorno phereia, da pherein = portare),
che indica distanza dal centro ed uno derivato, a volte metaforico, “che non ha le caratteristiche del
centro (urbano)” che rende possibili che anche un quartiere o una zona del centro fisico di una città,
sia una periferia, come in molti casi; periferia può tradurre faubourg e banlieu, cosi come, a volte,
ghetto, slums, suburb, favelas; periferia può tradurre dal tedesco sia vorort, sia stadtrand, sia
persino hinterland.
Le periferie al centro
Una settima considerazione riguarda il nodo politico e culturale più rilevante: come ridare qualità
alla vita urbana; la maggiora parte degli abitanti della città, che sono la maggior parte degli abitanti
del mondo, vive in periferia.
Ad esempio, c’entra o non c’entra l’emergenza casa? C’entra o non c’entra che
anche in Francia non si costruiscono più case popolari e che i municipi quelle che
hanno le vendono? C’entra o non c’entra che non ti basta uno stipendio per avere in
affitto un bilocale? C’entra o non c’entra che su 340 mila richiedenti un alloggio
nell’area parigina non c’è alcuna disponibilità di alloggi? C’entra o non c’entra la
corsa senza fine del mercato immobiliare, canoni e valori degli immobili cresciuti a
dismisura.(…) C’entra o non c’entra la redistribuzione della ricchezza che sta
producendo una sempre più accentuata polarizzazione tra ricchi e poveri. C’entra o
non c’entra che circa 6 milioni di persone in Francia sono relegati in quartierighetto delle grandi città dalle quali sono stati esclusi fisicamente e socialmente.
Siamo sicuri che non c'entra nulla il nostro passato e (…) non abbiamo “Niente da
nascondere”?
Che tipo di periferia è questa che attraversa il centro e che ci sta davanti mentre
svolgiamo le nostre attività quotidiane? O, piuttosto, di che “cosa” è periferia?
Cos’è quello che sta attorno a quello che semplicemente indichiamo come
periferia? Dov'è il centro di questa periferia, quel luogo da cui secondo un
movimento centrifugo giungono fino a qui queste tracce?
La periferia messa a fuoco e fiamme non illumina il degrado sociale e fisico dei
quartieri ma tradisce la rimozione di un pensiero sulla città, su cosa è diventata la
città, sulle disuguaglianze prodotte, qui e altrove, dal modello economico
neoliberista.
E’ vero o non è vero che da tempo le città non sono più nell’agenda politica
pubblica? E’ vero o non è vero che la sicurezza urbana è il modo, ormai prevalente,
con cui le città entrano nei dibattiti, nelle agende della politica. (…)
Si può cambiare rotta? Possiamo tornare a guardare le città come a luoghi
dell’innovazione, della crescita e della giustizia sociale? La risposta deve essere si,
e bisogna fare in modo che le città (non solo le periferie) tornino ad essere un tema
centrale. “21
Le periferie hanno molto poco della civitas, ma molto meno dell’urbs e tuttavia non sono dei vuoti,
dei buchi neri; in esse nascono fenomeni culturali importanti, autonomi, creativi, in esse si
sviluppano energie sociali, che hanno bisogno di sbocchi, li cercano e ne trovano molti e diversi,
lavorare per la sopravvivenza quotidiana delle loro famiglie. Le Berque A. (1998) "Fonder la cité" in Le Monde de l'Education n.
263, Octobre
20 “La banlieu di oggi è il sobborgo di domani, come il sobborgo di oggi è la banlieu di ieri”
21 Caudo G. (2005) “Periferie, di che cosa?” in Il Manifesto 7 Novembre
uno dei quali è la violenza.
L’attivazione delle energie sociali (la scoperta di quella che è stata definita insurgent city)
strettamente collegata con la definizione di obiettivi concreti di sostenibilità ambientale (concreti
vuol dire radicali, soprattutto per quanto riguarda trasporti, rifiuti e consumi energetici) e
l’attenzione al contesto, sono aspetti necessari di ogni strategia di “salvezza” della città.
La “partecipazione” proprio per questo serve: non si tratta di partecipazione come costruzione del
consenso o come semplice decentramento istituzionale, si tratta di partecipazione come espressione
dell’azione di trasformazione che viene dalle pratiche sociale, cui si dà struttura, visibilità, efficacia,
potere; per usare un termine tecnico si tratta dell’empowerment ovvero della conquista di potere di
decisione e di diritti reali da parte dei diversi soggetti.
Per questa ragione non servono sempre grandi progetti, ma servono progetti efficaci che cambiano
concretamente alcuni aspetti della vita quotidiana, che danno vita a spazi pubblici, che modificano
le logiche consolidate ed insostenibili della mobilità e della residenza: servono progetti che si
sviluppano, che divengono grandi.
Passi concreti che rendono la città “a misura di”: a misura delle bambine e dei bambini, dei giovani,
delle donne che lavorano fuori casa e che lavorano in casa, a misura di chi usa il trasporto pubblico
perché non ha alternativa e di chi vorrebbe usarlo se fosse un’alternativa, a misura di chi ha bisogno
di luoghi collettivi da vivere ogni giorno e in ogni momento, sono il punto di partenza di una città
vivibile in ogni sua parte.
“Questa è una delle ragioni principali per cui la richiesta di spazi privati/pubblici è
così scarsa; e anche la ragione per cui i pochi spazi rimasti sono quasi sempre
vuoti, il che facilita chi persegue l'obiettivo di ridimensionarli o, meglio ancora, di
eliminarli gradualmente. Un'altra ragione della loro diminuzione e del loro
scadimento è la palese irrilevanza di qualunque cosa accada al loro interno.
Supponiamo per un momento che sia accaduto un evento eccezionale e che gli
spazi privati/pubblici siano affollati di cittadini che desiderano discutere dei loro
valori e analizzare le leggi che devono guidarli: dov'è l'istituzione capace di
tradurre in realtà le loro decisioni? I poteri più forti fluttuano o scorrono come un
fiume nel suo alveo, e le decisioni cruciali vengono prese in uno spazio diverso
dall'agorà, o anche dallo spazio pubblico organizzato politicamente”
Chi decide? La frattura sociale e la secessione
L’ottava considerazione riguarda il problema della democrazia e del potere di decisione nell’epoca
della rinascita dei semidei22.
La questione della democrazia è nel mondo dell’ultima, recente globalizzazione un punto critico
quasi disperato; è vero che esiste in molti cittadini una sensibilità acuta ed una pronta capacità di
mobilitazione e ciò comunque è un bene, ma questi cittadini “avvertiti” si misurano con i problemi
sempre e comunque in quanto questioni “locali” e soprattutto essi si percepiscono e si
rappresentano come “utenti”, rivendicano non potere e responsabilità, ma servizi e rispetto delle
regole; la loro voce parla solo per loro, per il qui, per ciò che è loro diritto avere, raramente per tutti
(e solo un progetto per tutti è un progetto di organizzazione e gestione del territorio), per uno spazio
più ampio del nostro spazio, per conquistare nuovi diritti; ed è soprattutto vero che quelli che non
hanno voce non trovano nessuno che vuole dargliela (al massimo – e non è poco – si offre loro pietà
e rispetto).
22 Con un collega giocoliere (Ben Sidoti) ho sviluppato un gioco sul lavoro nell’epoca della globalizzazione; era difficile pensare ad
un ruolo soprattutto, quello nuovo che abbiamo chiamato dei “semidei”; si tratta in primo luogo dei billionaire veri, gli uomini e le
(rare) donne da oltre un miliardo di euro e gli affini o assimilati: forse è dall’epoca della Rivoluzione Francese che non vi era più un
simile strato di impuniti, sciolti da ogni legge, con la loro corte di burattini, marionette, pennivendoli, cortigiane, buffoni, ruffiani ed
adulatori, che vivano in un mondo separato dal nostro, inaccessibile ed indifferente alle nostre sorti; a loro si aggiungono i nobili di
basso rango, tra cui manager pubblici pagati con oltre un milione di euro di stipendio all’anno e qualche milione di liquidazione; i
tempi sono cambiati e non è fine parlare di “odio di classe”, ma qualche rimpianto, solo virtuale, per la “macchina celibe di Monsieur
Guillottin corre al cuore di ognuno. Il gioco è Pianeta GiOtto e lo trovate sul mio sito http://bibo.lampnet.it
La razionalizzazione dei meccanismi decisionali che elimini le sovrapposizioni e i conflitti di
competenze offre qualche speranza di potersi realizzare meglio che in passato; perché la
comunicazione è più facile e più rapida e più completa, perché si sta imponendo come modello
organizzativo quello di una struttura leggera ed orientata all’obiettivo, perché buone tecniche e
buone tecnologie rendono possibile destrutturare e distruggere le gabbie burocratiche.
E infine la globalizzazione; altra questione che opprime: a chi farà riferimento il progettista se
ormai votano solo i mercati (finanziari)? Chi sarà il suo “cliente”? Dovrà costruire un prodotto
(meglio se volatile e virtuale) per il “mercato delle città” (che non è più il mercato che le città come
macchine produttive generano, ma il mercato delle città stesse come merci)?
C’è dunque un paio di questioni politiche cui non sappiamo dare risposta; c’è invece un pacchetto di
questioni tecniche (paradigmi, modelli e organizzazione) cui siamo messi in condizione di
rispondere e bene.
“Da sempre lo spazio ha l’importanza che gli viene conferita dai obiettivi e dai
mezzi delle azioni umane, così nel gioco della globalizzazione questa importanza è
diminuita.” (…) Per gran parte della storia moderno l’effetto [dell’esercizio del
potere] era perseguito applicando il modello del controllo secondo il Panocticum di
Bentham-Foucault (…) In altri termini nella struttura panoctica entrambe le parti, i
sorveglianti, i gestori e i gestiti, sono “legate al luogo”. Entrambe le parti dovevano
essere “locali” e rimanerlo: se si fossero separate, la relazione di potere avrebbe
smesso di sussistere.
Non potendosi separare, le parti erano condannate alla reciproca compagnia con
inevitabili schermaglie e attriti. Ciascuna delle parti infatti cercava di acquisire una
libertà maggiore e limitare quella degli avversari. Era anche necessario però
negoziare un modus vivendi, cercare cioè soluzioni a conflitti e trovare
compromessi (…) I potenti dopo tutto dipendevano da coloro che cercavano di
spossessare, come i deboli dipendevano da chi li sovrastava. (…) Oggi non è più
vero (…). Non solo i patrizi trovano il modo si separarsi non appena lo spazio che
abitano diventa troppo caldo o troppo costoso da tenere in ordine, ma in più hanno
trovato lo stratagemma della secessione. (…)
I patrizi dell’epoca della globalizzazione sono, come lo erano un tempo, la
principale fonte di rischio e di incertezza per i plebei, ma oggi non è più vera la
dinamica opposta, la dipendenza non è più mutua. (…) I gestori del potere
economico sono, a tutti i fini pratici, extraterritoriali. Il loro potere sta nella
straordinaria capacità di rendersi inaccessibili e di fuggire dove il “potere molesto”
degli individui che dominano e del cui lavoro vivono non abbia più peso. Lo
stretto controllo del territorio è stato sostituito dalla facilità di abbandonarlo. (…)
Con un brusca inversione di tendenza (…) oggi la conquista territoriale, con gli
spiacevoli obblighi che ne conseguono – quali la gestione quotidiana (…) è
considerata una passività da evitare a qualsiasi costo.”23
I semidei, duecento anni dopo la Rivoluzione Francese e molto di più che allora, popolano di nuovo
la terra: l’abisso tra ricchi sciolti da ogni legge e virtualmente onnipotenti, che hanno il solo limite di
essere mortali e la gente comune, tra cui anche i miserabili delle periferie del mondo, ma non solo, è
sempre più ampio, tanto che essi vivono vite separate in mondi separati, senza quasi intersezioni,
senza relazioni.
La rivolta banlieuesarde è certamente il frutto d'una condizione quasi-castale: la
maggioranza dei figli e nipoti dell'immigrazione coloniale non ha alcuna speranza
di mobilità sociale, condannata come è a ereditare lo status dei genitori o dei nonni,
o addirittura ad essere declassata. La prospettiva dell'inserimento lavorativo e
sociale è assai sfuggente se, come ha rilevato un'indagine, chi abbia un cognome
23 Bauman Z. (2000) “Il potere in un mondo diventato troppo piccolo“ in La repubblica 9 Ottobre
che suona arabo o africano ha sei volte in meno la possibilità d'essere convocato
per un colloquio di lavoro, rispetto ad un coetaneo franco-francese. Da parte
istituzionale, una delle poche risposte non-repressive date alla grande questione
sociale che sta dietro la rivolta è la proposta di abbassare l'obbligo scolastico a 14
anni, rendendo possibile l'avviamento al lavoro della fascia dai 14 ai 16 anni: il che
equivale alla condanna definitiva dei giovani delle 752 zone urbane sensibili al loro
destino di reietti.24
Città e periferie: che fare?
La nona considerazione riguarda quel che è possibile fare e suggerisce qualche strada.
“E’ per questo che sempre più forte e urgente si fa il bisogno di un nuovo progetto
politico con valenza strategica e di interesse nazionale che colga la sfida di
collegare lo sviluppo economico e le aree urbane secondo principi di equità e di
giustizia. Per questo il soggetto pubblico deve recuperare autorevolezza e tornare a
fare la regia dei processi di trasformazione urbana. Non si può essere fraintesi se si
afferma che oggi la carenza principale del soggetto pubblico non sta nelle risorse
economiche ma nella capacità di formulare con chiarezza politiche pubbliche.
Abbiamo bisogno di più mercato ma il mercato ha bisogno di più pubblico, e se
guardiamo alle città comprendiamo quanto questa esigenza non si possa più
rinviare oltre.”25
“La perdita del senso della città intesa come bene comune, la massiccia
privatizzazione di ciò che apparteneva alla comunità. Cattive amministrazioni
locali, pessimi indirizzi statali, fameliche speculazioni, immobiliaristi che si
arricchiscono producendo periferia e piani regolatori sbagliati hanno finito per
omogenizzare i centri urbani. Siamo uno dei paesi con il maggior numero di case in
proprietà. Le strade un tempo luogo di convivenza sono occupate da auto in sosta o
in movimento. I luoghi pubblici sono scarsi e in genere lontani, squallidi.
(…)
Città metropolitana non significa “grande città” bensì, città madre. Ma il capoluogo
stenta a decentrare quello che ritiene la sua forza, il suo potere, economico
soprattutto, e così paga il prezzo della congestione. Produce solo periferia e non
capisce che sta diventando essa stessa banlieue. La città di città richiede saggezza
amministrativa, volontà pianificatoria, capacità di coordinarsi nell'interesse
comune, nel bene della collettività.”26
Quel che in primo luogo chiedono gli abitanti delle periferie, come tutti gli esseri
umani è la base della condizione umana in un sistema di relazioni sociali: il
rispetto27.
“On n'est pas des racailles mais des êtres humains. On existe. La preuve: les
voitures brûlent.”28
“Les quartiers pauvres, au XIXe siècle, n’étaient pas extérieurs à la capitale. Le
prolétariat était dans la ville. La nouveauté des banlieues, ces espaces où l’on
24 Rivera A. (2005) “Brucio tutto, quindi esisto. La voce delle banlieu” in Liberazione 12 Novembre
25 Cervellati P. (2005) “Intervista” in Il Giornale di Sardegna 22 Novembre
26 Cervellati P. (2005) Intervista in Il Giornale di Sardegna 22 Novembre
27 Rispetto, si intitola un importante testo di Sennet; anche il recente dibattito sui problemi e le contraddizioni del multiculturalismo,
vedo un punto comune fra le diverse risposte alla crisi dei modelli di integrazione: il rispetto. Si veda Sennet R. (2004) Rispetto. La
dignità umana in un mondo di diseguali Bologna, Il Mulino e Benhabib S. (2005) La rivendicazione dell’identità
culturale.Eguaglianza e diversità nell’era globale Bologna, Il Mulino
28 “Non siamo feccia, ma esseri umani. Esistiamo. La prova: le macchine bruciano.”
parque aujourd’hui les pauvres, c’est cette extériorité radicale. Le ban est un lieu
qui n’en est pas un. Les parias partagent avec cet espace où ils sont parqués la
même caractéristique. Ils sont tout à la fois dehors et intérieurs à la société, sur le
mode du déchet. Ils sont toujours dans cette situation topologique paradoxale où ils
sont à la fois à l’intérieur et à l’extérieur. J’essaie dans ce petit livre de mettre à
jour une continuité : les choses fondamentales, dans l’histoire de l’humanité, se
découvrent au ban. Le paradigme de la naissance du monothéisme, de ce point de
vue, est intéressant. Un peuple d’esclaves, les Juifs, porté par une nécessité
historique, invente une subversion universaliste, égalitaire, inédite dans l’histoire
de l’humanité, qui lui permet de se libérer. Ces hommes du ban, du fait de n’être ni
à l’intérieur, ni à l’extérieur, ont découvert l’être lui-même, ce que l’on a très
longtemps appelé Dieu, et que certains continuent à appeler ainsi. Ce Dieu sans
visage, vide, qui choquait les Romains. Dans ce petit livre, je dis simplement.
(…)
Dans l’immédiat, il faut refuser ce leitmotiv du nihilisme démocratique qui consiste
à dire : «Les paroles ne valent rien, elles n’ont pas de conséquences, elles ne
comptent pas.» La parole a des effets. Chacun peut trouver ses énoncés. Se réunir,
prendre la parole, parler de l’actualité, fabriquer des choses... (…). La source de la
psychose est dans ce nihilisme démocratique tantôt hilare, tantôt dépressif, qui
consiste à ne plus croire en rien, à penser que plus rien de grand n’est possible. À
dire, pour celui qui jouit d’un confort dont la plus grande partie de lé est toujours
privée, qu’il n’y a «pas de progrès». Pas d’enjeu, pas de principes, pas de progrès,
pas d’héroïsme…”29
L’interpretazione dell’urlo di chi è senza futuro è quella dettata dalle politiche della sicurezza. La
violenza espressa dall’odio per una condizione inaccettabile e senza speranze riceve la risposta che
separa gli umani tra di loro, perché non volgano gli occhi verso i semidei.
“Le più infauste e dolorose tra le angustie contemporanee sono rese perfettamente
dal termine tedesco Unsicherheit, che designa il complesso delle esperienze
definite nella lingua inglese uncertainty [incertezza], insecurity [insicurezza
esistenziale] e unsafety [assenza di garanzie di sicurezza per la propria persona,
precarietà]. La cosa singolare è che queste afflizioni costituiscono un enorme
impedimento ai rimedi collettivi: le persone che si sentono insicure, che diffidano
di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che temono per la propria sicurezza
personale, non sono veramente libere di assumersi i rischi che l'azione collettiva
comporta. Non trovano il coraggio di osare né il tempo di immaginare modi
alternativi di vivere insieme; sono troppo assorbite da incombenze che non possono
condividere per pensare (e tanto meno per dedicare le loro energie) a quei compiti
che possono essere svolti solo in comune.
Le istituzioni politiche esistenti, che dovrebbero sostenerle nella lotta contro
l'insicurezza, sono di scarso aiuto. In un mondo caratterizzato da una rapida
globalizzazione, nel quale una larga fetta di potere, e la fetta più importante, è
preda della politica, queste istituzioni non possono fare granché per offrire
sicurezza o certezza. Quello che possono fare e che stanno cercando di fare è
convogliare l'ansia, estesa e diffusa, verso una sola componente della Unsicherheit,
quella della sicurezza personale, l'unico ambito in cui qualcosa può essere fatto e
viene effettivamente fatto. Il guaio è che mentre un intervento efficace per
debellare, o perlomeno mitigare, l'insicurezza e l'incertezza richiede un'azione
comune, gran parte delle misure adottate in nome della sicurezza personale
producono divisione: seminano il sospetto, allontanano le persone, le spingono a
fiutare nemici e cospiratori dietro ogni polemica o presa di distanza, e finiscono per
29 Belhaj Kacem M. (2006) “Entretien” in L’Humanité 7 Juin; si veda anche Belhaj Kacem M. (2006) La Psychose française. Les
banlieues: le ban de la République Paris, Gallimard
isolare ancora di più chi già vive isolato. Ma la cosa peggiore è che tali misure non
solo lasciano intatte le vere fonti dell'ansia, ma consumano tutta l'energia che esse
generano: un'energia che potrebbe essere utilizzata molto più efficacemente se
venisse incanalata nello sforzo di riportare il potere nell'ambito dello spazio
pubblico gestito politicamente.”30
La periferia moderna ha nata con lo stigma dell’essere il luogo dove vivevano le “classi
pericolose”;31 all’inizio le classi pericolose delle grandi città della rivoluzione industriale
mettevano insieme i proletari e i sotto-proletari (operai, manovali, ambulanti, e mendicanti,
prostitute, ladri …) in condizioni abitative indegne32; in qualche momento le spinte igieniste
e filantropiche, la crescita della produttività e gli effetti della seconda globalizzazione33 e del
conseguente scambio ineguale imposto dall’imperialismo, l’organizzazione e la lotta
organizzata dai socialisti, hanno portato non solo al risanamento fisico e sociale delle
periferie, ma anche alla riduzione della loro perifericità, alla nascita di quartieri “operai” di
qualità e ben collocati e collegati: quando gli abitanti dei quartieri popolari con le loro
organizzazione sindacali e politiche eleggono le maggioranza al Consiglio comunale e il
Sindaco34 e riescono a sottrarre quote consistenti di reddito alla rendita e ad aumentare la
quota dei salari rispetto ai profitti, le loro periferie non sono più tanto periferiche, divengono
più belle, più ricche di funzioni, attraggono risorse e attività, sono centri di discussione, di
deliberazione e di potere; è una situazione sempre precaria, insidiata, da difendere.
Questa è la prima grande riflessione che dobbiamo fare e costituisce la chiave per affrontare
il problema.
“La grande maggioranza delle ragioni di crisi della città, anche contemporanea, è
riconducibile alla contraddizione tra il carattere collettivo, comunitario, sociale
della città e le caratteristiche individualistiche dei fondamentali aspetti
dell’organizzazione della produzione o del consumo.”35
In generale le linee- guida che potrebbero essere considerate dovrebbero tener conto:
1. Lotta alla rendita
2. Empowerment // rispetto
3. Lavoro // Lavori
4. Un’economia non solo di merci
5. Mobilità da, per, verso non solo per lavoro
6. Diradamento
7. Riqualificazione // risanamento // sostenibilità
8. Funzioni centrali
9. Spazi pubblici
10. Eventi // anche architettonici
11. Auto-governo
30 Baumann Z. (1999) la solitudine del cittadino globale Milano, Feltrinelli
31La contrapposizione tra “classi laboriose” e “classi pericolose ha a che fare con la nascita della città moderna e dell’urbanistica; si
veda Chevalier, L. (1976) Classi laboriose e classi pericolose Bari, Laterza; un’analisi più generale delle strategie di controllo della
“classi pericolose” si trova in Foucault M. (1976) Sorvegliare e punire Torino, Einaudi
32 Engels F. (1973) La condizione della classe operaia in Inghilterra Roma, Editori Riuniti
33 Prima di questa globalizzazione possiamo forse contarne altre due; quella del Sei / Settecento del cosiddetto commercio triangolare
fra Africa, Europa ed Americhe, che ha dato origine allo schiavismo produttivo e quella dell’Epoca degli imperi e del colonialismo,
che ha avuto il suo simbolo nelle guerre dell’oppio e nella sottomissione delle grandi civiltà dell’Asia.
34 Così è stato per circa 15 anni a Vienna, con risultati straordinari dal punto di vista sociale, urbanistico ed architettonico. Si veda
Tafuri M. (1980) Vienna rossa. La politica residenziale nella Vienna socialista Milano, Electa
35 Salzano E. (1998) Fondamenti di urbanistica: la storia e la norma Bari, Laterza
12. Educazione
13. Riorganizzazione // riequilibrio territoriale
14. Mixité
Un breve commento servirà per sottolineare che queste linee d’azione sono intrecciate fra di
loro e che solo insieme rappresentano una strategia efficace.
I particolare le prime tre linee sono strutturali: solo se il controllo delle dinamiche di sviluppo
è sottratto al dominio della rendita e governato, sulla base dei rapporti di forza fra le classi,
dal potere pubblico; solo se i protagonisti delle trasformazioni sono gli abitanti tutti dei
quartieri e se la ricchezza delle loro espressioni (che, tra l’altro, i “padroni delle mode”
saccheggiano, senza pagare dazio36) trova riconoscimento e interlocuzione, solo se il lavoro
è una dimensione consistente e ricca di prospettive e proiettata al futuro, garanzia di
riconoscimento e di promozione (che mai riconosce a sé stesso dignità nella prospettiva di
lavori precari o nel friggere polpette, per tutta la vita?) e di reddito e di valore, solo se si
danno queste condizioni, gli interventi architettonici, urbanistici, culturali hanno speranza di
successo, possono sottrarre le periferie alla loro condizione di luoghi del bando.
Il quarto punto recita: “un’economia non solo di merci”: la costruzione di opportunità di
lavoro e la realizzazione di servizi anche importanti può non passare per l’economia delle
merci: esistono esperienze, solide anche se minoritarie, di economie alternative, come ad
esempio quelle basate sulla “banche del tempo”37 o sull’economia partecipativa38.
C’è un tema che non abbiamo trattato, non perché non sia importante, ma perché è un
problema a sé ed a molte dimensioni.
Il tema della sicurezza, l’invenzione delle nuove “classi pericolose”, ha molte componenti
ideologiche, spesso non sostenute dai dati di fatto: nella “rivolta” delle banlieu dell’ottobre-novembre
2005 vi sono stati consistenti e sgradevoli danni alle cose (otto / diecimila automobili incendiate e
qualche servizio pubblico saccheggiato), ma molto rari sono stati gli episodi di violenza contro le
persone ed in tutte le manifestazioni del disagio delle banlieu i feriti e i morti sono rari, quasi sempre
in scontri legati a prevaricazioni della polizia o da esse direttamente provocati.
La situazione negli USA è stata a volte estremamente più aspra, ma il contesto dei “ghetti” delle città
nordamericane è particolare.
Esiste, anche in Italia e con molta forza nelle metropoli del Sud, una presenza pervasiva, spesso di
totale controllo del territorio, da parte della criminalità organizzata ed accanto ad esso una criminalità
erratica e spontanea, molto aggressiva e pericolosa, ma queste attività criminali, che pure spesso
nascono dalle periferie (e spesso sono visibili e percepite come insostenibili quando partono dalle
periferie “in centro”, come succede a Napoli) sono fenomeni che hanno ragioni complesse, in cui vi è
spesso un continuum tra l’illegalità criminale e l’illegalità “in giacca e cravatta”, tra dissoluzione dei
legami della società e dei valori della convivenza ed esaltazione della ricchezza, tra criminalità,
evasione fiscale, sfruttamento del lavoro nero e corruzione.
Bisogna anche in questo caso, anche in situazioni che spesso sono vissute con estremo disagio da
molte persone, sapere ragionare e distinguere.
A questo disagio, anche quando è solo percepito ed anche quando, come spesso succede, fa
“collassare” nella domanda di sicurezza di tipo poliziesco le diverse incertezze, la paura del futuro, la
mancanza di prospettive, il vuoto dell’esistenza (le varie forma della Unsicherheit che abbiamo
richiamato, citando Baumann), bisogna dare una risposta; è la risposta è difficile.
Bisogna analizzare, discutere, distinguere: nei fenomeni sociali ascoltare anche la voce di chi non si
dà voce, di chi esprime la sua voce con la distruzione e il rifiuto (quelli che “rompono”, i casseurs),
con il chiamarsi fuori, ci vuole pazienza e rispetto ed umiltà39; anche la criminalità non può essere
36 Non si contano i video pubblicitari, gli slogan, le musiche, i claim, le immagini le linee di mode estorte o rubate dai cacciatori di
novità (i cool hunter) ai giovani delle periferie di tutto il mondo; si veda ad esempio il video di Madonna Hung Up
http://mfile.akamai.com/9139/asf/stream.wmg.com/wmi/uk/madonna/hungup/HungUp_hi.asx.
37 Si veda Cosuccia P. (2001) La banca del tempo Torino, Bollati Boringhieri.
38 Si veda Albert M. (2006) Il libro dell’economia partecipativa Milano, Net.
39 C’è che studia da tempo i fenomeni: in Francia annate intere degli Annales de la recherche urbani hanno indagato il tema delle
ridotta ad un unicum,c’è una criminalità “individuale”, “anarchica”, “ribelle, che fa più paura alle
classi dominanti e magari è guardata con benevolenza o tollerata e controllata dalle classi povere
(anche quelle laboriose)40 ed una criminalità “immorale” respinta da tutti e una criminalità
organizzata, che magari alcuni strati sociali deprivati tollerano o apprezzano per paura o per i
“vantaggi” che porta. Non è facile e non sempre c’entrano allo stesso modo le periferie.41
Un interessante saggio di Denis Duclos, documentato ed attento e privo di pregiudizi,42
mostra che la banlieu è un luogo in grado di proporsi come motore di integrazione ,
un’integrazione intesa come scambio, ibridazione, meticciato, non come assimilazione (del
resto è la società franco-francese che ha rifiutato l’assimilazione di questi francesi di altra
origine, ormai cittadini di terza o quarta generazione, ma troppo bruni o troppo scuri e magari
troppo vitali o troppo irrispettosi).
“La turbolenza delle bande può essere insopportabile. Ma meglio sarebbe distinguere fra i
segnali di una ribellione quotidiana e ciò che non è altro che l’energia esplosiva della
nuova generazione (…)
Ma ciò che irrita fortemente alcuni intellettuali è il fatto che questa vitalità rumorosa, a volte
mortale, si sia tradotta nella fabbricazione di una cultura espansiva, molto più
condividibile di quella che essi rimuginano al «centro». Essi lamentano implicitamente non
il difetto di integrazione o la distruzione dei punti di riferimento, ma al contrario, il fatto che
gli altri giovani, affascinati, e i media, obnubilati, abbiano amplificato l'ondata hip-hop
nata nelle banlieue nel corso di diverse generazioni e ne abbiano fatto un elemento
integratore, forse più forte persino (tenuto conto delle contaminazioni internazionali)
delle culture operaie che in parte ha sostituito. (…)
Ma questa situazione è molto lontana dalla nostra: la scuola repubblicana rimane
comunque agli avamposti, i media coprono e attraversano questa popolazione come gli
altri francesi e il livello di padronanza tecnologica dei ragazzi delle banlieue (internet,
cellulari, ecc.) ha già avuto modo di stupire... i poliziotti incaricati di prevedere gli
assembramenti combattivi ,che sono stati talvolta ingannati da ciò che possiamo ben chiamare una cultura del l'organizzazione!
Smettiamola quindi di disprezzare adulti, ragazzi e bambini che stanno
producendo-a partire dalla propria situazione e talvolta loro malgrado - una parte
dinamica della cultura francese, nell'ambito di un passaggio “dalla cultura atavica alla
cultura composita” (..)
L’”eccezione francese” della crisi della relazione con i giovani ci apparirà quella di un
laboratorio d'avanguardia (fin tanto che non è colpito dalle regressioni comunitaristiche
verso il conflitto interetnico e interreligioso) dove emerge, nella tensione, una via
originale, aperta verso una solidarietà tra componenti della società.
In questa prospettiva, i discorsi violenti di militarizzazione dell'inquadramento familiare
non hanno molto senso. Non fanno altro che prolungare il fallimento non delle politiche di
integrazione ma piuttosto il fallimento degli indietreggiamenti di fronte alle esigenze ineluttabili di una osmosi in corso: il fallimento di un accanimento nel degradare lo stato in “stato
banlieu, avvertendo tutti che molte cose sarebbero potute succedere; le cose che sono successe; e dicendo perché. Chi ascolta davvero
poi le voci (a volte strozzate e rozze, a volte raffinate e innovative) che si possono ascoltare nella produzione culturale, della musica,
del linguaggio, del linguaggio ovvero delle molte lingue creole (dal verlan alle contaminazioni linguistiche) e delle contaminazioni tra
culture; I tre protagonisti che sanno esprimere solo poche cose e con la loro modalità comunicativa del film di culto sulle banlieu,
ovvero L’odio di Kassovitz, sono un africano-francese, un arabo-francese (beur in verlan), ed un ebreo-francese; in qualche
misura quella mixité o una simile si dà in molte banlieu , dove vi sono anche molti franco-francesi.
40 Senza indulgere in romanticismi bisogna dire che “c’è mala e mala”: il libro di Massimo Carlotto dedicato al contrabbandiere e
rapinatore Beniamino Rossini, malavitoso d’altri tempi (mai droga o donne) forse costruisce un mito un po’ troppo singolare Parlotto
M. (2006) La terra della mia anima Roma, Edizioni e/o e forse la stessa indulgenza si può trovare nel pur documentato studio di Del
Lago e Quadrelli (Del Lago A. e Quadrelli E. La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini Feltrinelli 2003 e tuttavia non tutta la
criminalità viene percepita con lo stesso timore ed avversata allo stesso modo.
41 Nel bel libro-reportage di Stefania Scateni (Scateni S. (2006) Periferie. Viaggio ai margini delle città Bari, Laterza) , che raccoglie
il contributo di scrittori ed artisti “capaci di vedere quello che non c’’è”, il saggio di Nicola Lagioia su Bari offre alcuni spunti
illuminanti su perché e come i criminali sono diversi a secondo del contesto sociale: anche in questi casi estremi, dobbiamo dire che
“sì, esiste qualcosa che si chiama società”, altrimenti siamo fritti.
42 Duclos D. (2006) “Riflessioni sulla grande rivolta delle periferie francesi” in Le Monde Diplomatique – Il Manifesto Settembre
incendiario”.
Tuttavia, il successo di una reale politica pubblica d'integrazione - sola suscettibile di avere
ricadute rapide e a lungo termine sui monelli di Parigi che giocano a Robin Hood con i
poliziotti o i pompieri - dipende da due condizioni.
La prima è elle essa stessa si inserisca all'interno di tiri radicale cambiamento di atteggiamento
che scarti ogni forma di paternalismo o di denigrazione inconscia, e riconosca all'Altro il
diritto di occupare il proprio posto vicino a noi in questo mondo che si sta unificando, così
come noi esigiamo la stessa cosa quando, in gruppo, emigriamo per vivere da pensionati con
un potere d'acquisto migliore, in Marocco o vicino alle spiagge africane o di altri paesi ospiti.
La seconda condizione noti è specifica ai ragazzi dei “quartieri”. Noti si può volere assieme che
la scuola repubblicana sia apprezzata da tutti e proporre, allo stesso tempo, di allineare le
remunerazioni del lavoro e le condizioni di lavoro ai livelli più bassi vigenti nei “laboratori del
mondo” dove si è massicciamente delocalizzati lo sfruttamento capitalista incapace di
sopravvivere senza schiavi. Come dice giustamente uno dei nostri vecchi saggi: “Bisogna dare
lavori ai giovani; ma lavori redditizi. E, un bel giorno, saranno carini e simpatici”43
Le periferie italiane per quanto dissestate non hanno lo stesso tipo di problemi delle banlieu;
non sono necessariamente minori, ma certamente sono diversi: la questione razziale etnicoreligiosa, soprattutto legata a cittadini di seconda o terza generazione, è la differenza
principale, in Italia l’immigrazione è fenomeno più recente e la localizzazione degli
immigrati è frequentemente in aree degradate, ma nei centri urbani storici o in zone di questi,
vere e proprie periferie nel centro città (le “periferie centrali”), le periferie vere e proprie (le
periferie periferiche) sono luoghi del “bando” verso gli emarginati, verso le “classi
pericolose” del Duemila, in genere però abitate da italiani di antica progenie.
Che fare a Sassari
Infine, la decima considerazione è quella che ci dettato le linee di intervento operative nelle
situazioni concrete.
Certo Sassari non è Parigi e neppure Napoli e dunque gli effetti della condizione periferica
assumono dimensioni meno ampie e meno drammatiche, potremmo dire più “tradizionali”.
Intanto vi è una periferia centrale, che corrisponde grosso modo all’intera area del centro
storico fra le mura, in cui il progressivo degrado del patrimonio abitativo si è inevitabilmente
accompagnato alla perdita di funzioni e di diversità sociale.
In alcuni quartieri sono confinate le “classi pericolose”, anche se il problema della violenza e
della criminalità non è oggettivamente grave a Sassari e non è neppure percepito come molto
rilevante,se non localmente in situazioni particolari.
Le linee generali che abbiamo fornito per gli interventi possibili e necessari per affrontare il
problema della città contemporanea, cioè soprattutto il problema delle periferie, possono
trovare nella realtà di Sassari un’opportuna declinazione.
Alcune informazioni ed indicazioni utili, che si aggiungono a quelle che abbiamo desunto
dalle nostre analisi, sono confermate dai primi documenti della pianificazione strategica del
Comune di Sassari, che per altri versi è stata un’occasione mancata.
Non sarà inopportuno capire perché il processo di definizione del quadro generale per la
pianificazione strategica che è stato – con ottime intenzioni – attivato dal Comune di Sassari
nell’estate / autunno del 2006, sia stato un’occasione perduta; infatti da quel processo sarebbe
potuto e dovuto emergere il quadro operativo delle azioni necessarie a rivitalizzare un
sistema urbano un po’ torpido e grigio, a ricostruire una forma urbana ora sfrangiata e priva
di identità, a costituire una rete sovralocale, una città territoriale, che investe un’area che a
Sassari è già complementare, ma in modo non strutturato.
Dalla nostra analisi sono emerse alcune linee che abbiamo posto alla base dell’azione
progettuale per mettere al centro le periferie e che in qualche modo sono state presenti nelle
43 Duclos D. (2006) “Riflessioni sulla grande rivolta delle periferie francesi” in Le Monde Diplomatique – Il Manifesto Settembre
azioni e nelle scelte proposta dagli studenti. Le principali linee sono:
-
lavoro per tutti: nel risanamento, nella riqualificazione, nella gestione, nella cura,
nel recupero
gestione diretta delle attività di risanamento ed interlocuzione con le scelte
generali
formazione ed educazione
riqualificazione e recupero della dimensione di quartiere
diradamento, riorganizzazione, eliminazione delle barriere sociali
realizzazione di servizi sovra-locali e reti: dello sport, del gioco, dello spettacolo,
del divertimento, dell’educazione, della formazione
ricucitura e delimitazione del tessuto urbano e freno all’espansione diffusa
mobilità interna, fra i quartieri, con il centro e con l’area vasta
ricostruzione di una nuova centralità simbolica del centro storico
sistema di area vasta.
Nelle periferie di Sassari alla domanda “ti piace dove stai”, la risposta è molto spesso “no”;
alla domanda “te ne vorresti andare” la risposta è altrettanto spesso “no”; questa terra è la
mia terra, ma così non mi piace. Nessuno può trascurare il fatto che le cose stanno così: per
chi progetta è un buon punto di partenza (se il progettista non guarda il suo ombelico).
Sulla stessa logica si pone il progetto Le periferie al centro promosso dal Comune di Sassari,
che sperimenta in tre quartieri periferici la realizzazione di progetti di riqualificazione urbana
a partire dalle scuole, non tanto per “bambineggiare” e non solo perché – come si ama
ripetere -una città a misura di bambini è una città buona per tutti, ma perché uno dei pochi
importanti, utili, rispettati ed amati presidi della legalità e della società nelle aree periferiche
sono le scuole, avamposti della civiltà e della cultura (che a qualche ministro venga in mente
di tagliare i fondi alle scuole, sia di un governo sia dell’altro è solo la prova di quanto la
cosiddetta “classe politica” non abbia senso della realtà: del resto se lo stesso ministro è
disposto a liquidare un manager pubblico che ha fallito il suo compito con qualche milione di
euro, vuol dire che non c’è una sola realtà).
Ho tenuto un corso (sui giochi didattici) in una disastrata scuola media di Palermo allo Zen,
una scuola poi apparsa sulla stampa nazionale perché ripetutamente “vandalizzata”: è vero, ci
sono azioni vandaliche e c’è molta prevaricazione ed enormi drammi sociali ed un peso
visibile della criminalità organizzata, ma ho visto che i genitori hanno rispetto degli
insegnati, quasi tutti, anche perché la scuola dà loro rispetto e li tratta da uguali, i ragazzi,
molti dei quali sono già dei perdenti, ma a volte, magari per pochi momenti, si trovano in
quelle scuole delle intuizioni, dei “lampi” di curiosità, un senso di sé, gli viene in mente che
un’altra vita sarebbe possibile: ma per questo la scuola non basta.
Andando a spasso per il quartiere con le insegnanti non ero a disagio, gran parte delle
persone erano persone per bene, appartenenti “classi laboriose”, magari solo in potenza, ma
per un lavoro vero, un lavoro con un futuro.
Partire dalla scuola può essere una buona idea per stimolare processi di cambiamento.
Un parkour nella città futura
Voglio parlare infine e lateralmente delle città del futuro, per come le vorremmo, ricorrendo ad una
metafora che fa riferimento ad un’attività, a cavallo fra lo sport, le arti marziali, e la danza che ha il
nome di parkour; le parkour è qualcosa di più e di diverso dal parcour, il percorso; dal sito
ufficiale i “parkouristi” italiani leggiamo che:
“Il Parkour è l'arte di sapersi spostare. Il principale obiettivo di questa disciplina è quello
di raggiungere la padronanza del corpo e della mente per superare gli ostacoli che ci
circondano. I praticanti del parkour, chiamati traceurs ovvero "creatori di percorsi",
aspirano a superare in modo creativo, fluido, atletico ed esteticamente valido le barriere
naturali o artificiali che si trovano sulla loro strada. Per riuscirci utilizzano corse, salti,
volteggi, cadute e arrampicate.
Ma il parkour non è solamente un puro esercizio fisico, perché il confronto con gli
ostacoli materiali spinge il traceur alla scoperta dei suoi limiti e quindi del suo essere
all'interno dell'ambiente che lo circonda. Affrontando la paura spesso ci si accorge che le
nostre potenzialità vanno oltre i confini che diamo per scontati. Per questo il parkour è
sia uno sport che una filosofia di vita quotidiana. Il padre riconosciuto di questa
disciplina è il francese David Belle che verso la fine degli anni '80 iniziò a praticare in un
ambiente urbano (precisamente a Lisse, un sobborgo di Parigi) le tecniche apprese
giocando da bambino nei boschi della campagna francese.”44
Il parkour un po’ come tutte le attività nate dalla voglia di vivere e di divertirsi e di esprimersi del
“popolo”: le classi dominanti se ne appropriano in men che non si dica.
Tutte le attività popolari, spesso di strada, dopo un po’ di trasformano in sport, regolati dall’alto ed
inseriri nel circuito della produzione e del commercio. Così sta avvenendo per il parkour.
Le parole hanno connotazioni spesso contraddittorie; trovare la propria strada è l'obiettivo
consigliato a tutti i ragazzi, non bisogna perdersi per strada, tuttavia; la strada giusta è difficile da
trovarsi (le strade per l'inferno sono diritte) e non sia mai che si finisca per strada (“ti metto in
mezzo a una strada!); nulla di peggio poi delle donne di strada, delle parole da strada, e dei ragazzi
di strada infine; la piazza invece è quasi solo negativa (mettere in piazza si può fare se non si arriva
alla piazzata, e dalla piazza bisogna guardarsi in politica, essendo chi la “usa” più indegno di chi usa
la tv).
E dunque non molti anni fa tutte le persone per bene volevano “togliere i bambini dalle strade”; non
che i bambini nelle strade ci fossero da molto tempo: sino a poco più di cento anni fa in Italia i
bambini andavano a lavorare quasi tutti (a nove anni con delle limitazioni a dire il vero45) e quando
da parte di persone di buon cuore si voleva limitare questa opportunità, una delle obiezioni era che
al di fuori della fabbrica sarebbero rimasti “per strada” (come è noto mandarli a scuola non per tutti
era opportuno e moralmente sano, oltre ad essere troppo costoso); ma le persone perbene volevano
tutte (e – diciamolo con qualche rammarico – a ragione), “togliere i ragazzi dalla strada”, per
mandarli a scuola, al doposcuola, all'oratorio.
D'altro l'altro c'era l'immaginario della “strada maestra di vita” nelle varie versioni, più o meno
romantiche, da Gavroche (che sapeva ironizzare con finezza e cantava il famoso ritornello, oggi di
moda c’est la faute à Voltaire46 a Tom Sawyer (una persona di qualche saggezza costui: aveva
44 www.parkour.it. Si veda anche "Yamakasi - i nuovi samurai", film diretto da due giovani esordienti e incentrato sulla storia di un
gruppo di traceur parigini. Uno di loro, il David Belle consacrato padre spirituale della disciplina, è stato anche protagonista di
Banlieu 13, film girato nei ghetti parigini con scene mozzafiato di parkour in cui Belle si diverte dando il meglio di sé.
45 L’11 Febbraio 1886 Il Palamento italiano vota una legge sul lavoro minorile; prevede il divieto di impiegare fanciulli sotto i 9
anni negli opifici, nelle cave e nelle miniere e di adibire al lavoro notturno quelli inferiori ai 12 anni. Ma la legge esclude le piccole
industrie, l'artigianato, i lavori agricoli, il domicilio, settori dove i minori sono impiegati in massa.
La legge viene approvata dopo una feroce resistenza degli industriali la grandissima maggioranza dei datori di lavoro considerò la
legge una inammissibile ingerenza dello Stato nei loro affari.
46 Gavroche, patrono di tutti i ragazzi di strada, canta un ritornello che si prende gioco dei grandi Illuministi (come è giusto che sia è
bene ridere di tutto), ma soprattutto dei loro nemici oscurantisti; in questa epoca di revisionismo senza limiti temporali (anche Maria
Antonietta non era male, per non parlare di Nicola II; gli unici che si fa ancora un po’ fatica sono i Savoia) la scanzonata canzonetta di
Gavroche ci piace ricordarla:
“On est laid à Nanterre // C'est la faute à Voltaire // Et bête à Palaiseau // C'est la faute à Rousseau // Je ne suis pas notaire // C'est la
faute à Voltaire // Je suis petit oiseau // C'est la faute à Rousseau // Je suis tombé par terre // C'est la faute à Voltaire // Le nez dans le
ruisseau // C'est la faute à Rousseau.”
“C’è chi è brutto a Nanterre // è colpa di Voltaire // c’è chi è stupido a Palaiseau // è colpa di Rousseau // Non sono notaio // è colpa di
Voltaire // Sono un uccellino // è colpa di Rousseau // Sono cascato a terra // è colpa di Voltaire // col naso nel ruscello // è colpa di
Rousseau.”
C’est la faute à Voltaire è il titolo di un interessante film di d'Abdel Bechiche, autore di un altro importante film, questo sulla banlieu,
intitolato La schivata (L’esquive) sulle sue chiusure e sulla sue potenzialità . Hugo V. (1997) I miserabili Milano, Rizzoli
scoperto la differenza fra lavoro e gioco47) ai ragazzi della via Pal48; e al di là della retorica, la strada
a vivere insegnava davvero.
E non è stata solo colpa delle macchine (né delle automobili, né delle TV, né dei personal computer)
se quelle occasionali situazioni (ci sono state, meno di quanto si crede, ma ci sono state) in cui molti
bambini hanno potuto vivere esperienze ricche e sofisticate, fra strade, case e scuola, in una città
piene di relazioni, di luoghi, di discorsi, sono quasi del tutto scomparse (a Venezia, che forse fu in
vari momenti una di queste città, non sono oggi certo le automobili a tenere i bambini lontani dalle
calli e dai campi e infatti basta poco per riportarceli).
Azzardiamo l'ipotesi che molto pesi, abbia pesato e peserà la “mercificazione” non solo della città
(ormai tutta), ma anche la mercificazione, ormai quasi compiuta, del gioco, la più nobile (con altre,
ma fra le più nobili) attività umana, un'attività gratuita, “che non ha altro scopo che sé stessa”,
un'attività fondamentale anche (soprattutto?) per i bambini, fondamentale per il “contesto della
scoperta”, per costruire le relazioni, per capire ed essere capiti; è vero della mercificazione della città
fa parte il dominio delle automobili nello spazio urbano e il loro controllo pieno e totale delle strade,
ma questa è una conseguenza dell’organizzazione della città al servizio della produzione, della sua
trasformazione in merce.
Le arti dello spettacolo in particolare avevano bisogno delle strade e delle piazze e degli spazi
pubblici. Abbiamo già citato le fiere ed i fieranti, nomadi per forza, spinti dalla fame e dal coraggio:
anche per loro, come per i teatranti (di cui erano parenti stretti) e per tutti i professionisti e le
professioniste del divertimento, del gioco e del piacere, era previsto che l’eterno riposo potesse
avvenire solo in terra sconsacrata, il che li destinava all’inferno. Le fiere erano luoghi pericolosi per
il corpo e per l’anima, ma erano fra le poche occasioni che i poveri avevano di divertirsi e persino di
imparare (fra saltimbanchi, giocolieri, acrobati, incantatori di serpenti, ciarlatani, barbieri c’erano
anche i cantastorie, gli attori girovaghi e poi le mostre anatomiche, i musei delle cere, i gabinetti
ottici, i teatri meccanici, gli zoo, i circhi).
Queste due attività, il divertimento e l’apprendimento, erano attività che l’apparato ideologico e
pratico dei potenti e dei padroni di ogni epoca riservava ai ricchi: i poveri ci avrebbero potuto
prendere gusto!
Vale la pena soffermarci su questo punto; gli intellettuali hanno sempre disprezzato i divertimenti
del popolo (“volgari” per l’appunto) e sempre apprezzato e sostenuto quelli dei ricchi; in realtà se si
separa il grano dal loglio gran parte dei divertimenti dei ricchi erano sciocchi e volgari e noiosi
(molti se ne sono salvati perché troppi ne sono stati prodotti per loro) e gran parte di quelli popolari
erano acuti e sofisticati e piacevoli (non molti se ne sono salvati perché troppo pochi ne sono stati
prodotti per loro) e spesso di questi i ricchi si sono appropriati.
Il medesimo discredito di cui godevano i divertimenti di strada era riservato ai giochi in genere
(destinati ai bambini e da controllare e “purgare” sino a renderli evanescenti oppure da finalizzare ad
un’educazione coattiva soprattutto per la costruzione dei ruoli sessuali – come le bambole – e
sociali). In realtà il gioco è attività realmente sociale (non a caso i giochi ad una persona sono
definiti “giochi contro [la] natura”) che tenta di forzare i limiti stessi dei “mezzi” (molti ragazzini
vittime della passione per i “videogiochi”, forzano la solitudine - se e quanto possono anche
fisicamente- cercando relazioni, costruendo comunità, spesso evolvendo la loro passione verso i
“giochi di ruolo”). Quando i bambini e i ragazzi giocavano e non guardavano la TV (anche perché
non c’era) la stessa vociante, sciocca e petulante tiritera che oggi viene ripetuta contro la TV e
contro i videogiochi era ripetuta contro i giochi tutti (anche quelli di strada).49
47
“Tom si disse che dopotutto non era un mondo così vuoto. Aveva scoperto, senza saperlo, una grande legge dell'umano agire, e
cioè che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa basta rendere la cosa difficile da ottenere. Fosse stato un grande,
saggio filosofo, come lo scrittore di questo libro, a questo punto avrebbe compreso che il Lavoro consiste in qualunque cosa uno è
obbligato a fare, e che il Gioco consiste in qualunque cosa uno non è obbligato a fare.” Twain M. (1987) Le avventure di Tom Sawyer
Milano, Mondadori.
48 Molnar F. (2003) I ragazzi della via Pal Milano, Mondadori
49 Dal 2004 si svolge a Verona un Festival meraviglioso dei giochi di strada che si chiama TocaTi (“sta a te” “è il tuo turno”),
organizzato dall’Associazioni Giochi Antichi (AGA) l’intero centro cittadino viene restituito ad una dimensione ludica e gli spazi
Adesso le cose sono un po’ cambiate, il divertimento è una merce che si può vendere a basso costo,
purché sia evirato e reso stupido: chi si lamenta dei “graffiti”, degli skater e delle esuberanze
giovanili, non rammenta che le alternative che a questi giovani vengono offerte sono gli spettacoli
Tv come L’isola dei famosi.
Credo di non esagerare se affermo che quasi tutta la musica moderna e molte pratiche di danza sono
nate nelle strade, dall’insopprimibile vitalità degli esseri umani; molti di esse nelle periferie o nei
quartieri popolari: alcuni – nonostante tutti i tentativi – conservano il loro carattere culturalmente e
moralmente eversivo (il tango tra tutti50).
Anche il parkour, che prendo a metafora della cultura non recintabile delle periferie, dell’inventarsi
percorsi e altre vie nella città, della scoperta di altre vie e di un altra dimensione del percorso,
dell’abolire i confini, che spesso vengono imposti alla mente, nel superare muri e recinzioni con un
gesto elegante e creativo, sta diventando e diventerà uno pratica alla moda, venendo già codificato
come sport estremo.
Ma non finirà qui...
vengono liberati, ridiventano spazi pubblici; e un limite ha (ancora) il TocaTi è di svolgersi quasi esclusivamente in centro; anche a
Sassari si svolge un’iniziativa di grande rilievo il Festival dell’arte in strada, Girovagando organizzata, con un sostegno pubblico
molto al di sotto del necessario, da Theatrenvol. Si veda rispettivamente http://www.tocati.it/ e http://www.theatrenvol.org/.
50 Aldilà della polemica sull’origine del tango nei bordelli di Buenos Aires, accredita dalla versione più “romantica” che in qualche
modo è stata accredita e nobilitata da Borges (Borges J.L. (1997) Storia universale dell’infamia Milano, Adelphi) e contestata sulla
base dei fatti da altri (si veda Lao M (2001) T come Tango Roma ElleU Multimedia), la natura meticcia e popolare del tango è fuori
discussione e la sua componente erotica non può essere soppressa o sublimata.