winkelmann appunti - Scuole Maestre Pie
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Appunti sparsi... Bellezza e gusto sono termini inscindibili, in quanto concepire una bellezza indipendente da un qualche osservatore che stia lì per goderla, equivale a pensare uno spettacolo recitato in assenza di pubblico, o un discorso pronunciato in assenza d'interlocutori (intendo anche in assenza di colui che lo pronuncia; ad esempio, un insieme di frasi pronunciate durante il sonno). Tali eventi possono essere senz'altro concepiti, ma mancano completamente di quel carattere pratico che tendenzialmente riconosciamo al "bello". Il bello è per Platone anche il "Vero"; ma nell'età moderna G. B. Vico afferma un altro criterio, secondo cui il vero è il "fatto" (verum - factum). Unificando questi due criteri ricaviamo la forma occidentale della bellezza, che è inevitabilmente l'arte. Il bello è nell'arte, e la possibilità che la bellezza sia propria della natura è esplicitamente esclusa da Kant nella Critica del giudizio dove definisce il bello naturale come "sublime". Essenzialmente, nella cultura filosofica dell' occidente il bello si definisce in funzione del giudizio che lo esprime, mentre il bello in sé è assolutamente chimerico. Va altresì chiarito dove si nasconda il rischio di un'estetica radicalmente empiristica: questo consiste nel fatto che essa dovrebbe, a rigore, parlare prioritariamente se non esclusivamente degli organi di senso, o della coscienza, che riceve ed unifica i "dati" di bellezza; ma ciò significa trascurare e, alla fine, ignorare completamente gli oggetti cui si accorda o rifiuta lo statuto di bellezza; il che, particolarmente nel caso delle arti umane, risulterebbe oltraggioso per gli artefici e finalmente assurdo, come assurda può essere solo una scienza dell' arte che mostri indifferenza verso le opere! Tuttavia la tendenza a considerare la bellezza di un oggetto intrinsecamente connessa con un soggetto che lo contempla, il quale "applica" il giudizio all'oggetto, e lo ritiene bello in grazia del concetto di bellezza che porta in sè, appare tanto dubbia quanto insopprimibile, nella nostra cultura estetica. È peraltro la sintesi di quel processo di intellettualizzazione dell'opera d'arte che rappresenta la più cospicua novità nell'arte di questi ultimi due secoli, dal Romanticismo in poi. L'arte moderna e contemporanea, l'hegeliana arte romantica, è segnata dal confronto con l'osservatore - critico in modo profondissimo, tale da non consentire più in alcun modo la spontaneità creativa, l'innocenza primaria del Courbet/L'origine del mondo http://www.perso.wanadoo.fr/art-deco.france/etude.htm] -innocenza peraltro sapientissima- se non nel ghetto/riserva/colonia penale del genere naif. Da quel momento l'opera d'arte è "operazione" sul corpo dell'arte; ogni nuova opera è osservatrice della totalità della tradizione artistica; chiama in causa la filosofia dell'arte; si fa meta-arte ed in molteplici correnti si traduce in una discesa agli inferi dei materiali dell'arte, fino a congiungersi con il residuale, con l'immondizia. Johann Joaquim Winckelmann VITA E OPERE Johann Joaquim Winckelmann nacque a Stendal (Magdeburgo) nel 1717, da una famiglia modesta. Fece studi irregolari. Nel 1754 soggiornò a Dresda presso l'ambasciatore vaticano Albertino Archinto, che gli affidò la sua biblioteca. Nel 1755 dopo essersi convertito al cattolicesimo si trasferì a Roma dove entrò come bibliotecario al servizio del cardinale Alessandro Albani. Nel 1762 nel primo dei suoi viaggi a Napoli, visitò Pompei e Ercolano, spingendosi fino a Paestum, di cui fu il primo a svelarne l'importanza storico-archeologica. Nel 1764 divenne sovrintendente ai monumenti antichi di Roma. Morì assassinato (forse per una rapina) in una locanda di Trieste, nel 1768, di ritorno da un viaggio in Germania. Considerato il fondatore dell'archeologia scientifica, ebbe una fortissima influenza sulle posizioni artistiche letterarie e filosofiche del suo tempo. I suoi scritti Considerazioni sull'imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, 1755) e "Storia dell'arte nell'antichità (Geschichte der Kunst des Altertums, 1764) posero in primo piano l'arte greca, anche se solo conosciuta attraverso le copie romane: in essa, Winckelmann vide realizzato l'ideale della bellezza come specchio di una umanità autonoma, caratterizzata da una armonica fusione di corpo e di spirito, da un nobile dominio delle passioni. Le sue idee si inserirono nell'idealizzazione della grecità propria di tutto il XVIII secolo tedesco, fino al classicismo di Weimar e al primo romanticismo. Furono tra le fonti principali della poetica neoclassicista, e della visione della grecità come serena olimpica e superiore armonia: una visione che sarà poi aspramente criticata dal tardo romanticismo e da Nietzsche, che svelerà - in La nascita della tragedia (1871) - come i Greci avessero piena percezione della tragedia esistenziale . La sua immagine dell'arte greca ebbe larghissima risonanza. Nel campo della storia dell'arte, il suo contributo andò nella direzione di una storia oggettiva, incentrata sulle opere e sull'evoluzione degli stili. Sottolineando dal punto di vista artistico l'aspetto creativo e non puramente mimetico dell'opera d'arte. Winckelmann è il fondatore della moderna archeologia, che non diventa più un interesse di natura antiquaria, ma un vero e proprio programma d’indagine. E’ il primo che rintraccia una linea coerente, finalizzata a scoprire “l’essenza dell’arte” attraverso le opere classiche, quali esempi di perfezione assoluta e ideale estetico. Inoltre, è il primo ad analizzare le opere d’arte antica seguendo un criterio stilistico e formale. La fortuna delle sue teorie contribuisce a determinare una vera corrente di gusto, il neoclassicismo, anche perché con lui la storia dell’arte diventa anche il fine dell’acquisizione estetica. In questo periodo, le grandi scoperte di Pompei ed Ercolano, il vento esotico delle campagne napoleoniche in Egitto, che valsero la scoperta dell’importantissima Stele di Rosetta, l’interesse per l’arte e l’archeologia coinvolsero gli uomini di cultura, come, ad esempio Goethe e Mérimée. Questo interesse non poteva prescindere dall’eredità winckelmanniana. Winckelmman morì a Trieste, tra dolori atroci, nello squallore di una camera d’albergo, per mano di un popolano butterato, proprio lui, che aveva mitizzato la bellezza di Apollo, senza “tendini né vene”, sublime, incontaminata da sangue e umori. IL PENSIERO Celeberrima è la definizione di Winckelmann delle statue greche come espressione di "nobile semplicità e serena grandezza": semplicità nel senso di essenzialità, universalità e non esagerazione, naturalezza e spontaneità, naturale sviluppo di una forma verso la sua perfezione; grandezza, invece, nel senso di onnicomprensività, magnanimità, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui - egli nota - queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza gli uomini comuni; esse sono del tutto transumanizzate, raffigurano un'umanità che non è in lotta con le proprie passioni, ma che le ha già sopite. L’interruzione medievale – con il suo temporaneo smarrimento del mondo antico - non implica una frattura nella continuità che lega antichi e moderni grazie alla ragione di cui essi sono parimenti dotati; ed è per questo motivo che il neoclassicismo settecentesco condivide, per un verso, la concezione del ritorno agli antichi come riattualizzazione della ragione, ma, per un altro verso, presenta spiccate varianti nazionali: così in Francia e in Germania esso si rivela particolarmente interessato alla sfera etica, prendendo gli antichi a modello di comportamento. Ma – chiediamoci – da dove trae origine questo improvviso interesse per il mondo greco? Soprattutto dagli scavi di Ercolano e di Pompei che si stavano a quei tempi realizzando e che inducono a far cambiare radicalmente i gusti per quel che concerne l’arredo: dal barocco si passa rapidamente alla linea dritta, con un maniacale attaccamento allo stile greco. I Francesi, poi, guardano soprattutto alle virtù civili e repubblicane degli antichi, che sono una "scuola di costumi" (Diderot) da prendere come esempio per il proprio comportamento; così gli eroi di cui parla Plutarco nelle sue Vite parallele (Muzio Scevola, Attilio Regolo, ecc) assurgono ora – grazie soprattutto ai capolavori di David - a modelli comportamentali imprescindibili per i Francesi; è, in certo senso, la borghesia che rivendica i suoi diritti di contro ad un’aristocrazia sempre più antiquata e soffocante, che si ostina a conservare un ruolo che più non le compete, coprendosi sempre più spesso di ridicolo, come lascia trasparire Parini in Il giorno. Il proposito è dunque quello di edificare con l’arte il cittadino, ed è in questo clima che nasce e si sviluppa a dismisura il museo, come luogo di conservazione e di tesaurizzazione di questi modelli greci che non finiscono mai di istruirci. Sull’altro versante, il neoclassicismo tedesco non guarda tanto alle virtù civiche quanto piuttosto all’uomo greco in quanto tale, oggetto di ammirazione, imitazione e nostalgia: la bella umanità dei Greci suscita un profondo senso di nostalgia e di rimpianto, e ad attirare i Tedeschi non è la filosofia o l’arte greca in quanto tali, ma è l’uomo greco stesso, nella sua perfezione stupefacente, di contro al classicismo rinascimentale che invece si proponeva di riattualizzare innanzitutto la cultura antica. Ciò implica un’accesa polemica contro il cristianesimo in favore della cultura greca (o, meglio, dell’uomo greco), sfociante in un generalizzato tentativo di tornare ai greci imitando le loro opere: la cosa forse più interessante è che i Tedeschi imitano le opere greche in maniera funzionale, e, più precisamente, per cercar di essere Greci, quasi come se ciò fosse il tramite che conduce all’imitazione di quell’umanità. La stessa bellezza dell’arte greca è del tutto dovuta alla bellezza di cui gli uomini greci rifulgevano in modo abbagliante: un’arte che ci presenta in maniera sorprendente l’uomo quale deve essere, forse quale veramente è stato e, magari, quale potrebbe tornare ad essere. Là dove interviene la nostalgia, essa non fa che segnalare che c’è stata una frattura tra il presente ed il passato, a cui si vorrebbe tornare, consapevoli di quanto esso fosse diverso (e migliore): da ciò si evince come gli antichi fossero altri rispetto ai moderni; in particolare, la differenza è data da una diversa esperienza della finitezza. Infatti, quella greca è un’umanità capace, pur nei propri limiti, di una pienezza d’essere pressoché divina in cui trovare appagamento, sicchè a quell’umanità resta completamente estranea la percezione della propria finitezza come di un limite al raggiungimento della propria perfezione (cosa peraltro su cui Nietzsche avrà da ridire): ai Greci manca, dunque, quell’anelito all’infinito che caratterizza la dilacerata umanità dei moderni, consapevoli della propria limitatezza e, perciò, infelici. Ciò che ai greci manca è la consapevole distinzione tra finito e infinito, distinzione di cui solo la filosofia greca è conscia: ma la filosofia greca, per quanto importante, non può essere in alcun caso fatta coincidere con l’uomo greco in quanto tale, quale lo troviamo nell’epoV omerico. Si tratta in certo senso di un’autentica greco-mania dilagante nella Germania di quegli anni, in cui i più vivaci ingegni avvertono la propria finitezza di moderni come un doloroso limite al raggiungimento della perfezione, onde il loro anelito all’infinito. Così scrive Herder: "i greci non ammettevano nessuna sfrenatezza, si fosse anche trattato di indagini su Dio; ritenevano anzi che queste ultime fossero contrarie alla natura dell’uomo, alla misura delle sue forze, alla durata della sua vita […]. Ciò che s’aveva da fare era riconoscere la propria dimensione umana […]. Si direbbe che noi abbiamo alquanto perso di vista i placidi contorni di questa esistenza umana, giacché a quei limiti preferiamo di gran lunga l’infinito e crediamo che l’unica occupazione della Provvidenza debba essere di sottrarci a quei limiti". Nel 1805, Goethe scrive un saggio su Winckelmann e il suo secolo, in cui afferma: "mentre l’uomo, moderno quasi in ogni sua meditazione, si lancia verso l’infinito per poi far ritorno - quando gli riesce - ad un punto delimitato, gli antichi, senza perdersi in ulteriori deviazioni, si sentivano immediatamente e pienamente a proprio agio entro gli amabili confini di questo che era un mondo bello". Augusto Gustavo Schlegel così si esprime in merito: "presso i Greci, la natura umana era autosufficiente e non aspirava ad altra perfezione che non fosse quella realmente raggiungibile con le proprie forze […]. Nella prospettiva cristiana tutto si è capovolto […]. La poesia degli antichi era poesia del possesso, la nostra della nostalgia". Scrive ancora Federico Schlegel: "l’antichità è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto" e quindi da ogni tensione del finito verso l’infinito; nel mondo greco viene ravvisato un autentico teomorfismo in cui l’uomo, perfetto, può bearsi di se stesso, in quanto egli è, in primis, pieno e armonico sviluppo di tutte le parti umane, cosicchè "solo l’armonica temperanza di tutte le facoltà può produrre uomini felici e perfetti" (Schiller) ed è appunto in ciò che risiede la perfetta natura dei greci di cui parla Winckelmann. Federico Schlegel così si esprime: "come nell’animo del Diomede omerico tutte le forze si accordano perfettamente, così l’intera umanità si sviluppò in Grecia in maniera armonica e perfetta", poiché risultato dell’armonia di tutte le facoltà. In secundis, il prodursi di siffatta armonica perfezione non poteva che essere naturale, ossia immediato e irriflesso. "Il moderno ebbe assegnato dall’intelletto che tutto separa le proprie forme", nota Schiller, e di conseguenza "il moderno non sviluppa mai l’armonia del suo essere" a causa della riflessione, sicchè mentre il moderno è dominato dal nefasto intelletto, "l’individuo greco ebbe assegnate le sue forme dalla natura che tutto unisce". Federico Schlegel asserisce a tal proposito che "l’arte greca è libera dalla signoria dell’intelletto" e perciò non è impacciata dalla riflessione intellettuale e può svilupparsi liberamente alla stregua di un organismo; infatti – prosegue Schlegel - "in Grecia la bellezza crebbe senza cure artificiali e – per così dire – allo stato brado. Sotto questo cielo felice, l’arte figurativa non fu abilità appresa, ma natura originaria; la sua formazione non fu che il liberissimo sviluppo di una felicissima disposizione". La contrapposizione tra la cultura naturale degli antichi e quella artificiale dei moderni non può non richiamare alla memoria Rousseau e la sua tesi, seppur qui arricchita dal mondo greco. L’intelletto produce infatti indebite divisioni e mescolanze, cosicchè all’armonia dell’uomo greco doveva corrispondere una coscienza in cui la riflessione discorsiva ancora non spadroneggiava ed egli si trovava sospeso in una percezione beatifica della propria perfezione naturale, a tal punto che – per dirla con Schiller - "quell’uomo era uno con se stesso e felice nel sentimento della propria umanità", di contro alla riflessione che distingue e contrappone finito ed infinito, dando all’uomo la dolorosa percezione della propria limitatezza. Tale riflessione mancava ai greci e, quindi, presso di loro non vi era contrapposizione tra sensibilità e ragione né, di conseguenza, il prevalere dell’una sull’altra, come invece avviene ai moderni, divisi o per un unilaterale sviluppo del sensismo materialistico o per via di un unilaterale razionalismo sfociante nel rigorismo etico a cui era approdato Kant. I Greci di cui qui Winckelmann, Schiller, Schlegel e Goethe parlano non sono tuttavia quelli della filosofia – anch’essi già alle prese con la riflessione -, ma piuttosto quelli di Omero e della statuaria, cosicchè la filosofia greca subentra come un elemento di disturbo proveniente dall’Oriente, e non tanto come una componente che porta all’apice il mondo greco. Già nella tragedia e nella poesia lirica, del resto, si palesa la contrapposizione tra finito e infinito, quella contrapposizione che porterà alla morte dell’umanità greca. Per i filosofi greci – perfettamente consapevoli della distinzione tra finito e infinito – la perfezione dell’arte è già un ideale, e non qualcosa di realmente esistente nella natura, tant’è che l’artista è da essi concepito come colui che raffigura una perfezione fittizia, che mai potrà darsi in questo mondo. Secondo Winckelmann, invece, l’artista greco non faceva altro che cogliere l’umanità greca nella sua reale (e non ideale) bellezza, dando vita a statue raffiguranti un uomo perfetto che è tale perché non ancora signoreggiato da quella riflessione che, dove presente, rende insicuri e sofferenti. Merito storico di Winckelmann è soprattutto la scoperta e la rivelazione della grecità e della sua perfezione; egli intende se stesso, più che come archeologo o storico dell’arte, come pedagogo che rivela l’uomo greco e tale è lo scopo che affida alle sue veementi descrizioni delle opere greche; la grecità quale egli la concepisce non è un passato ineluttabilmente trascorso, ma è piuttosto una forza viva e presente, un modo d’esser uomini che può e che deve tornare ad essere operante, educando l’uomo a raggiunger la sua vera umanità. Nei suoi scritti – soprattutto in Storia dell’arte e dell’antichità (1764) -, Winckelmann attacca duramente il barocco e sostiene che l’arte greca racchiude in sé un’etica e una pedagogia, cosicchè all’opera d’arte spetta – in quanto veicolo dello spirito greco – uno statuto e una funzione sacramentale, e tale è l’esperienza personale che Winckelmann ha avuto, vivendo in sé l’accendersi di una interiore e latente grecità che torna a rivivere al contatto con quella esteriore delle opere d’arte greche; ed egli invita tutti a rivivere ciò che egli ha vissuto, giacchè la grecità è una possibilità perenne dell’uomo, innata e coltivabile: si tratta di assimilarsi all’uomo greco, facendo rivivere in sé ciò che si imita, cosa possibile appunto perché il greco è virtualmente presente in ciascuno di noi. Si tratta solo di risvegliarlo e, per far ciò, occorre entrare in intimo contatto con le opere greche e con il mondo che da esse trasuda: è, questa, una rivisitazione del concetto cristiano dell’imitazione di Cristo, secondo cui l’incontro col Cristo annunciato dalle Scritture ridesta in noi il Cristo, quella scintilla divina rimasta latente nell’uomo nonostante il peccato originale. Come il vero imitatore di Cristo è colui in cui Cristo rinasce e rivive, così il vero imitatore dei Greci è chi si trasmuta in essi, facendoli rivivere entro di sé, in tutta la loro bella umanità; e in Winckelmann l’imitazione dei greci non fa che scacciare e rimpiazzare quella di Cristo, cosicchè la salvezza dell’uomo è racchiusa nei greci stessi. Ma si tratta di una grecità aspaziale e atemporale (Winckelmann mai giunse in Grecia), che in realtà finisce per identificarsi con Roma; egli contrappone gli antichi e i moderni e, per di più, scalza il cristianesimo, sostituendolo con la grecità, accentuando al massimo l’immanentismo, di contro al trascendentismo a cui porta il cristianesimo: l’uomo è, grecamente, artefice e creatore di sé e della propria humanitas, e la paideia dell’arte antica mira appunto ad educare a questo ideale per cui l’uomo diventa veramente uomo e mito al tempo stesso, tramutandosi in essere prometeico. Nella lirica I segreti così scrive Goethe: "allorchè la sana natura dell’uomo agisce come un tutto, allorchè egli si sente nel mondo come in un grande tutto e allorchè l’armonico equilibrio produce in lui una pura e libera estasi, allora il cosmo, se mai potesse aver sentimento, esulterebbe perché avrebbe raggiunto il proprio fine". L’uomo greco, così inteso, appare come teofania del nuovo dio della religione umanistica quale appare nell’arte. Così si interroga Hölderlin: "perché son legato alle coste della Grecia e le amo più della mia stessa patria? Perché sono il paradiso e il regno di Dio". Così concepita, la grecità non è un mero passato, ma anzi si configura come un possibile futuro: significativamente, Quasimodo ha intitolato una sua raccolta di versi L’antichità come futuro, con un titolo che ben rispecchia la concezione di questi autori, per cui la nostalgia non è sterile, ma produttiva, tesa a ripartorire quell’uomo ideale che visse coi Greci. Un punto nodale del pensiero di Winckelmann è dato dalla sua dura critica ai danni del barocco, età in cui – egli nota amaramente – trionfano i due grandi errori condannati dal classicismo: l’eccessivo naturalismo e il dilagare incontrollato della soggettività dell’artista; nell’arte barocca – l’arte della controriforma, tendente dunque ad una serrata propaganda religiosa – l’uomo è raffigurato nella sua finitezza peccaminosa e, al contempo, nella sua redentrice relazione con Dio: in questo modo, egli è homo viator, colto in tutta la sua contraddittorietà derivantegli dalla sua finitezza, cosicchè ci si trova dinanzi ad un’umanità in lotta tra sensualità e ascesi, tra gioia di vivere e negazione del mondo, in costante tensione e in perenne sforzo. Non è un caso che la cifra dell’arte barocca sia la torsione: così, in torsione sono le statue (pensiamo all’Estasi di S. Teresa del Bernini) ed esse non fanno altro che raffigurare un’umanità contorcentesi in preda a lacerazioni irrisolte, mai in quiete (non a caso i personaggi sono spesso raffigurati col corpo voltato, in preda allo stupore, o col corpo perigliosamente poggiante su di un sol piede): Ninfe rapite e Santi martirizzati ben simboleggiano questo turbinio di movimento incessante di un’arte che è analoga all’umanità che raffigura. Winckelmann asserisce che quest’arte (ai suoi tempi divenuta rococò), lungi dal condurre l’uomo a se stesso, lo perde nel contraddittorio labirinto della sua finitezza, salvo poi predicare la redenzione divina (e qui sovvengono i dipinti barocchi dei cieli divini sulle volte affrescate). La seconda caratteristica deteriore del barocco è il suo soggettivismo, il narcisismo di cui l’autore si macchia, come ben sapeva il Marino quando predicava che "è dell’artista il fin, la meraviglia". Mentre l’artista classico è preso dalla contemplazione e dalla raffigurazione della bellezza, sgombrando l’opera dalla sua presenza, l’artista barocco visibilizza innanzitutto se stesso e non l’oggettiva bellezza, e, così facendo, mantiene il fruitore dell’opera d’arte nella sua soggettiva finitezza. La bella umanità dei Greci è tale perché totalità e armonia delle facoltà e ciò è stato possibile perché tale era realmente la natura greca: in questa maniera, Winckelmann fa proprie alcune notazioni di Montesquieu sull’influenza del clima nell’evolvere delle culture che in esso si sviluppano. Il clima greco è il clima dell’eterna primavera, ottimale per la nascita di una cultura strepitosa: di qui – secondo Winckelmann – i corpi snelli dei Greci che, sotto il loro cielo azzurro e terso, rispecchiante il loro beato stato d’animo, hanno raggiunto in pieno l’umanità. Beffardamente interrogato se tutti i Greci fossero belli quali li si osservano nelle statue, Winckelmann rispose causticamente che magari non tutti eran così belli, ma che comunque davanti a Troia vi era un solo Tersite. Winckelmann identifica di volta in volta la propria concezione dell’umanità greca in diversi topoi, uno dei quali è dato dall’Apollo adolescente, raffigurazione tipica dell’armonia, in quanto nell’adolescente è raffigurata la tipica totalità aurorale di chi è giovane; si tratta dello svelarsi di un cosmo virtuale, che fa sì che l’adolescente sia un plesso di possibilità ancora inespresse, giacchè è ancora un tutto non specializzato, si trova in uno stato di grazia scevro di scissioni e contrapposizioni. In questo senso, è colta l’eterna giovinezza di questa umanità eterna e priva di artificio, poiché la riflessione c’è, sì, ma non domina ancora incontrastata, senza comunque che vi siano eccessi di spontaneità. Tale condizione di puer aeternus appare sì come un dono di quel cielo azzurro e terso che risplende sulla Grecia, ma è un dono coltivato e sviluppato opportunamente, e tal bellezza è massima espressione di benessere; ne emerge quella che Winckelmann definisce come la nonchalance dei Greci, e che ancora Kierkegaard – quando parla di Socrate – battezza come "noncuranza" greca. "Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interiore" e – prosegue Winkelmann - "nella quiete e nella tranquillità del corpo si palesa la grandezza posata dell’animo, sublime e nobile immagine di una così perfetta natura"; quello che leggiamo sulle statue greche è l’atteggiamento di chi, lungi dal nuotare faticosamente contro corrente, si lascia portare dalla corrente, galleggiando con leggerezza perché è già compiutamente se stesso. Così, gli eroi greci son sempre colti in posa, stanno e sono se stessi, dunque in riposo, appoggiati, "gli dei e gli eroi sono rappresentati in piedi come nei luoghi sacri ove alberga la quiete, e non come nel gioco dei venti o in una sbandierata", come invece vengono tratteggiati nell’arte barocca (pensiamo ai suoi mantelli svolazzanti). Sono in pace con se stessi perché in loro essere e dover essere coincidono, sicchè siamo lontanissimi da una vita febbrile e fabbrile, con un evidente parallelismo con la polemica rousseauiana condotta contro il modus vivendi della borghesia. Quella dei Greci era una vita trascorsa in ozio (la scolh greca), una vita in cui non ci si occupava che della propria umanità e del resto Winckelmann, nel suo epistolario, ringrazia di continuo i suoi protettori, che gli han consentito l’ozio romano, quel dolce far niente italiano, senza scomposte agitazioni e sfociante nell’olimpica serenità del meridionale (non è un caso che Winckelmann viva in anni che costituiscono i prodromi della rivoluzione industriale). Quando egli parla dell'umanità dei meridionali, intende dire che essi son più uomini di quanto non lo siano i moderni suoi conterranei, sempre più integrati, come ingranaggi, nei ranghi della trionfante borghesia, sicchè il benessere di cui Winckelmann parla non è esente da coloriture epicuree. "A Roma sono vissuto", egli nota beatamente, e non diversamente Goethe dirà: "a Roma sono rinato". E’ infatti l’ozio – nella fattispecie quello vissuto a Roma – ad illuminare sul vero valore dell’esistenza, che deve essere coltivata e non sprecata. Nel paradiso dell’umanità si gioca e non si lavora, perché il gioco – in antitesi col lavoro – impegna e insieme non impegna tutte le facoltà dell’uomo, rendendo la sua vita un po’ come una festa giocosa. Ma le feste, come tutti sappiamo, son sempre minate dagli spettri del passato e da quelli del futuro, cosicchè il loro carattere peculiare è la costante delusione rispetto all’attesa (tematica brillantemente colta da Leopardi). Le feste risultano infatti perennemente insidiate dallo spauracchio del lavoro, di cui sono solo una vuota interruzione; si limitano a soppiantare temporaneamente l’angoscia con il vuoto. E tale vuoto della festa è un vano diversivo, astratto dal lavoro ma ad esso connesso, cosicchè nella festa il lavoratore si sente fuori luogo: l’autentica festa – nota Winckelmann – è l’ozio, reso possibile dalla pienezza e dalla compattezza che fan sì che si sia presenti a se stessi e non proiettati nel passato o nel futuro. Ciò avviene quando si contempla l’opera d’arte e, del resto, l’etimologia stessa di negotium (il termine latino che noi traduciamo con "lavoro", "impegno") è nec otium, il che rivela come il lavoro altro non sia se non la corruzione dell’ozio, quella condizione originaria dell’uomo celebrata anche da Federico Schlegel. Schiller, dal canto suo, cercherà una democratizzazione di quest’ozio elitariamente inteso da Winckelmann, che esalta sempre e di nuovo la libertà di Roma e della Svizzera, di contro al dispotismo nordico e francese. Si tratta della libertà non solo da mode, costumi, educazioni e morali soffocanti, ma anche dallo Stato e da una legislazione oppressiva, sicchè in questo senso Winckelmann apre veri e propri spiragli in direzione liberale; la libertà così intesa era a suo avviso presente presso i Greci, tant’è che la tunica greca non costringeva i corpi e così pure la nudità fisica era orientata ad un libero sviluppo psicologico. Dunque il contatto con quell’arte antica è di importanza vitale, e nell’Ottocento si darà vita ad una variante estetizzante del pensiero di Winckelmann, massimo esponente della quale fu Walter Pater col suo romanzo Mario l’epicureo. Schiller invece darà della visione di Winckelmann un approfondimento filosofico e soprattutto tenterà di coniugarla con la rigorosa prospettiva morale di Kant, fuggendo perciò agli estetismi. (Stendal, Magdeburgo 1717-Trieste 1768) Critico d'arte e archeologo. Fece studi irregolari. Nel 1755 si stabilì a Roma dove fu al servizio del cardinale A. Albani. Nel 1764 divenne sovrintendente ai monumenti antichi di Roma. Tra le opere sono da ricordare il saggio Considerazioni sull'imitazione delle opere greche in pittura e scultura (1755) e soprattutto la Storia dell'arte nell'antichità (1764) che è la sua opera principale. In essa pose in primo piano l'arte greca come realizzazione perfetta degli ideali estetici. Questa visione ebbe notevole influenza sul primo romanticismo. Con Winckelmann viene avviata l'archeologia sistematica e scientifica. WINCKELMANN NEL 1755 venne ad acquartierarsi in Italia un personaggio che, sebbene non italiano, era destinato a svolgere una parte di protagonista nella vita italiana, come un secolo prima era capitato a Cristina di Svezia. Si chiamava Johann Winckelmann, ed era nato trentott’anni prima nel Brandeburgo. Il Brandeburgo era la culla della Prussia, che a sua volta, sotto la guida dei suoi maneschi Re Hohenzollern, fu la culla del germanesimo più rozzo e aggressivo. A riscattare quest’area depressa dalla sua endemica povertà era stata la patata, quando i coloni latino-americani ne introdussero in Europa la coltivazione. Era l’unica pianta capace di attecchire nel suo sabbioso terreno, e qualcuno dice che gli Hohenzollern dovevano ad essa la loro forza perché diede loro una certa autosufficienza. Si tratta naturalmente di esagerazioni. Ma sta di fatto che quel povero Paese altre risorse non aveva. Berlino, sua capitale, era un villaggio di poche migliaia di anime, e la popolazione era composta quasi esclusivamente di contadini e solati, cioè di contadini che trascorrevano una buona aliquota della loro vita a fare i soldati perché i loro Re erano sempre impegnati in qualche guerra o guerricciola per ingrandire i propri possedimenti. Il padre di Johann era uno dei pochi che fossero riusciti a elevarsi alla condizione di artigiano, faceva il sellaio, e voleva farlo fare anche al figlio. Ma il ragazzo aveva la passione dello studio, e per mantenersi a scuola si arruolò come cantore. Quando il suo maestro divenne cieco, gli si offrì come lettore, divorò tutti i libri della sua biblioteca, e mise su una scuola per conto suo. Avendo saputo che a Amburgo era stata messa all’asta la libreria di un famoso umanista morto poco prima, fece a piedi i trecento chilometri che lo separavano da quella città e ne tornò portando a spalla diecine di testi greci e latini. Di queste lingue aveva già un’assoluta padronanza. Ma non gli bastavano. E per imparare anche l’ebraico, s’iscrisse alla facoltà di teologia di Halle. Anche quando ebbe ottenuto un buon posto di professore, più che alla cultura degli allievi, seguitò a pensare alla propria. E infatti abbandonò presto la cattedra per un posto di bibliotecario a Dresda, in Sassonia. Anche Dresda non era che una piccola città di provincia, ma con rango di capitale. C’erano molti diplomatici stranieri, e fra gli altri un Cardinale, Archinto, Nunzio pontificio presso il Principe Elettore. Archinto andava spesso in biblioteca, conobbe Johann, e i due si fecero reciprocamente una grande impressione. Fu così che il teologo protestante prese a frequentare la Nunziatura cattolica, dove alcuni Gesuiti lo incantarono. Fra i ministri luterani egli non aveva mai trovato gente così colta e raffinata, ma soprattutto così aperta ai valori della civiltà classica, sebbene pagana. Parlavano di Grecia in greco, di Roma in latino, mai una volta gli capitò di accapigliarsi su questioni di Bibbia o di Chiesa. "Dovreste andare in Italia" dicevano i Gesuiti. Winckelmann non chiedeva di meglio: l’Italia esercitava su di lui un richiamo sempre più perentorio. Ma non aveva i mezzi. Fu il Nunzio a offrirglieli. I1 cardinale Passionei cercava un bibliotecario di fiducia per la sua libreria, la più ricca di Roma. Le condizioni erano buone: vitto, alloggio e settanta ducati all’anno. C’era soltanto una piccola condizione da soddisfare: bisognava farsi cattolici: Winckelmann non ebbe la minima esitazione. Fece atto di abiura nella cappella stessa del Nunzio e a un amico che glielo rimproverava rispose: "A spingermi è stato l’amore del sapere, l’unica cosa che m’interessi". In realtà non aveva abiurato a nulla perché a nulla credeva. Winckelmann non era un ateo. Ma il suo Dio era, com’egli stesso diceva, "al di sopra di ogni chiesa, confessione o sètta". Riteniamo che abbia ragione il saggista inglese Pater, quando gli attribuisce una naturale inclinazione verso il cattolicesimo per quanto esso aveva saputo conservare della tradizione classica e pagana. La Bibbia non c’entrava. Ciò che rendeva Winckelmann fisiologicamente allergico a Lutero era il suo ripudio del Rinascimento. E ciò che lo attraeva della Chiesa di Roma non era una certa interpretazione di Dio, ma una certa interpretazione della vita, come di un bene supremo da godere coi sensi e con l’intelletto. Era, diceva Goethe, un pagano. Prima di partire, consegnò alle stampe un saggio critico: Pensieri sulla imitazione delle opere greche in pittura e scultura, in cui era già l’abbozzo del suo pensiero e che può essere considerato il breviario del movimento neo-classico. In fatto di arte, diceva pressappoco, non c’è più nulla da scoprire. I Greci hanno già detto tutto. Per raggiungere i vertici dell’eccellenza, non si può che ripercorrere i loro sentieri. Colui che c’è meglio riuscito è Raffaello. L’opera mise a rumore gli ambienti culturali di Dresda e giunse all’orecchio del Principe Elettore, cattolico devoto, che concesse a Winckelmann un vitalizio di duecento talleri all’anno più altri venti per il suo viaggio. Quando si presentò alla frontiera, i doganieri del Papa gli confiscarono i libri di Voltaire che si era portati al seguito. Era un benvenuto alquanto in contraddizione con l’idea che Winckelmann si era fatto della tolleranza della Chiesa e del gran conto in cui teneva la cultura. Ma l’incidente non appannò i suoi entusiasmi anche perché i libri gli furono subito dopo restituiti. Le opere d’arte del Vaticano e soprattutto i marmi di Michelangelo lo immersero in tale estasi che dimenticò persino di presentarsi al Passionei, dei cui stipendio del resto non aveva più bisogno. Infatti andò da lui solo per dirgli che non poteva accettare l’incarico: a Roma, gli disse, c’erano troppe cose da vedere e da studiare. E tutto vide e studiò, meno che Roma. La città moderna nei suoi aspetti pittoreschi e miserabili, il popolo, la società, il costume, non lo interessavano minimamente. L’Urbe, per lui, non era che una pinacoteca. Ma di questa esplorò ogni angolo, con teutonico puntiglio, e sempre in stato di trance. "Dio me lo doveva - andava ripetendo - dopo tutto quello che ho sofferto in gioventù." E a un amico di Dresda scriveva: " Tutto è niente, paragonato a Roma. Solo qui ho saputo che non sapevo nulla, prima di venirci". Abitava sul Pincio, ma di lì si trasferì in un appartamento del palazzo della Consulta che gli aveva procurato Archinto. Troppo occupato a setacciare palazzi e musei, frequentava poca gente, e di veri e propri amici se ne fece due soli, che condividevano i suoi interessi: il cardinale Albani, e un pittore boemo, Mengs, che come lui era rimasto prigioniero di Roma e come lui era destinato a lasciare una larga impronta nella cultura del tempo. Mengs razzolava col suo pennello come Winckelmann predicava. Era talmente innamorato di Raffaello che ne aveva assunto anche il nome, e accanto a lui i romani, per farlo contento, dovevano più tardi seppellirlo. Winckelmann diceva che anche Raffaello - quello vero - si sarebbe inchinato davanti a certi dipinti del suo omonimo continuatore. I critici d’oggi si mostrano molto meno indulgenti, e a Mengs pittore non attribuiscono un posto di primo piano. Ma a Mengs esteta non possono rifiutarlo. La sua opera Pensieri sulla bellezza e il gusto nella pittura ( 1762 ) esercitò sulla linea di Winckelmann una grossa influenza, e tuttora rappresenta uno dei sacri testi del neoclassicismo. Dopo aver scandagliato Roma e i suoi dintorni, Winckelmann andò a scoprire Napoli. V’incontrò Tanucci e Galiani, ma a sconvolgerlo fu Paestum. La serena maestosità di quei frontoni e colonne lo rese vieppiù certo delle proprie certezze e gli mise in corpo la smania di risalire alla fonte dell’Arte Assoluta: la Grecia. A Roma, dove rientrò per preparare il viaggio, trovò brutte novità: Albani era morto, il che l’obbligava a sgombrare dal palazzo della Cancelleria, e il Re di Prussia aveva scacciato dal trono di Dresda il Principe Elettore, il che lo privava del vitalizio. Ma nemmeno questi contrattempi lo distrassero dal suo miraggio. Doveva partire insieme a una turista inglese che prometteva di provvedere a tutto. Ma non sappiamo per quali motivi il progetto andò in fumo e Winckelmann in crisi. " Mi taglierei un dito - esclamò -, mi farei sacerdote di Cybele, pur di vedere quella terra." Per consolarsi, tornò a Napoli ad approfondire le sue esplorazioni sui cimeli dell’architettura e statuaria greca. La sua Lettera sulle antichità di Ercolano e il Resoconto sulle ultime scoperte di Ercolano sono la prima trattazione sistematica sull’argomento e richiamarono su Pompei l’interesse di tutti gli studiosi d’Europa. Come esperto di arte classica il suo prestigio era tale che non fu scosso nemmeno dalle due pàpere che prese quando, nel suo più impegnativo trattato, cui aveva lavorato per sette anni, riprodusse e illustrò come esemplari autentici di pittura greca due composizioni che Mengs gli aveva gabellato per tali, e che invece erano frutto del suo pennello. Gli avversari (ne aveva, naturalmente) ne approfittarono per invalidare tutta l’opera e qualificarla una "patacca". Ma non è vero. L’opera resta un alto esempio di saggismo: forse il primo in cui la critica d’arte diventa arte per i suoi valori stilistici. Winckelmann non era buon scrittore. Ma quando parla di arte lo diventa. Egli fu il primo a scoprire l’incidenza che il culto del Bello aveva avuto su tutta la vita della Grecia, la sua storia e il suo costume. Alcune sue intuizioni, come per esempio quella che l’arte greca non è che Ragione tradotta in marmo, rimangono. Nessuno, prima di lui, aveva afferrato con tanta chiarezza il passaggio dal "grande" stile di Fidia e di Mirone a quello "grazioso" di Prassitele. E nessuno aveva afferrato con altrettanta penetrazione l’interdipendenza fra il culto dell’arte e quello delle libertà greche. L’eco di questo libro (Storia dell’Arte antica), che Winckelmann aveva dedicato alla memoria di Mengs nonostante il brutto tiro che costui gli aveva fatto, arrivò fino in Prussia. Il Re Federico il Grande, amico di Voltaire, si atteggiava a patrono della cultura, e invitò Winckelmann a trasferirsi nella sua Corte di Berlino. Winckelmann chiese uno stipendio di duemila talleri. Federico ne offrì mille. E Winckelmann di rimando: "Vi risponderò come vi rispose quel castrato al quale rimproveraste di avanzare pretese superiori a quelle dei vostri migliori generali: Ebbene, Maestà, fate cantare i vostri generali! " In realtà Winckelmann, che non era per nulla avido, aveva in orrore Berlino e in grande antipatia quel sovrano che aveva cacciato dal trono il suo vecchio benefattore di Sassonia. In Germania tornò qualche anno dopo, ma solo a cercarvi qualche sovvenzione che gli consentisse d’intraprendere il sospirato viaggio in Grecia. A Monaco fu ricevuto con grandi onori, e a Vienna Maria Teresa e il principe Kaunitz lo colmarono di doni e lo invitarono a restare. Ma Winckelmann, che non aveva mai amato i suoi Paesi, dopo il lungo soggiorno in Italia li trovò ancora più sgraziati e inospitali. Dopo neanche un mese tornò sui suoi passi, e a Trieste, mentre aspettava una nave che lo riconducesse a Ancona, strinse amicizia con un altro viaggiatore, un tale Arcangeli. L’episodio è sempre rimasto avvolto un po’ nel mistero. Ma tutto lascia credere che si trattasse, come si suol dire, di una "amicizia particolare". Winckelmann aveva sempre concesso poco all’amore. Era troppo assorto nella contemplazione del Bello. Ma non c’è dubbio che il Bello, per lui, era quello di sesso maschile, come del resto lo era per i Greci. Le sue pagine traboccano di inni alla virile armonia degli Ercoli e dei David, mentre non se ne trova nessuno per la fragile grazia delle Veneri. Le uniche intimità che gli si conoscono sono quelle col suo allievo e compatriota Lamprecht e con un giovane romano ch’egli stesso ci ha descritto, con voluttuosa ammirazione, "alto, biondo e morbido come un atleta ateniese". Tutto questo non turbava minimamente la sua coscienza assolutamente refrattaria al senso cristiano del peccato. La sue etica era soltanto estetica. Ci sono quindi buoni motivi per supporre che la sue attrazione per l’Arcangeli avesse dei sottintesi erotici che il giovanotto mostrò di condividere. Questi una mattina entrò nella camera di Winckelmann, contigua alla sua, tentò d’imbavagliarlo per portargli via la borsa, e siccome l’altro reagì gl’inferse cinque pugnalate e si diede alla fuga. I1 ferito ebbe solo il tempo di ricevere i sacramenti e di dettare le ultime volontà fra cui c’era anche quella di perdonare all’assassino. Ma non fu esaudito. Catturato poco dopo, l’Arcangeli fu processato per direttissima e condannato al supplizio della ruota, uno dei più crudeli. L’opera critica che Winckelmann si lasciava dietro non è immune da errori e sordità. Avendo dovuto limitare le proprie esplorazioni all’Italia, egli scambiò per greca l’arte greco-romana, che è cosa alquanto diversa. La sue predilezione per la scultura lo rese piuttosto sordo alla pittura, di cui non fu buon giudice. E la sconfinata ammirazione per gli antichi, se da una parte lo aiutò a capirli, dall’altra lo indusse alla ostinata e sistematica negazione degl’impulsi creativi moderni. Secondo lui l’Arte doveva, come la lancetta di un orologio, ribattere sempre lo stesso quadrante, restando ancorata ai modelli di quella classica. Disprezzava i grandi maestri fiamminghi perché se n’erano distaccati e li definiva "grotteschi". Per lui tutto si riduceva a una questione di proporzioni e di simmetria. Qualunque emozione vi trapelasse era bestemmia. Naturalmente la critica moderna rifiuta queste estreme conclusioni. Ma resta ugualmente debitrice a Winckelmann di profonde e rivoluzionarie intuizioni. Fu lui a rivelare la Grecia all’Europa contemporanea. E fu grazie a lui che uomini come Goethe e Herder ne colsero l’ispirazione più profonda. Egli fu il primo a risalire alle origini del Rinascimento e a dargli, per così dire, il certificato anagrafico. Fu il primo cioè a cogliere i nessi fra critica e storia dell’Arte. Tutto il neoclassicismo che impronta il secolo non soltanto nelle arti plastiche, ma anche in letteratura e filosofia è, nel bene e nel male, figlio suo. Ma egli dettò anche un archetipo a tutti quegl’intellettuali nordici - e sono legione - che d’allora in poi presero a discendere le Alpi per cercare in Italia (e in Grecia) quell’armonia, quell’equilibrio, e forse anche quell’oblio che non trovavano in case propria. Byron era anche lui un Winckelmann con la scintilla della poesia. Lo era Schliemann. Lo furono, sia pure su un più modesto piano edonistico, gli scopritori e pionieri di Capri e Taormina, compreso Axel Munthe. Sono i grandi innamorati dell’Italia per quello che l’Italia rappresenta di antitetico alle loro romanticherie: la terra non soltanto del sole, ma anche delle linee nitide, delle forme composte e serene. L’Italia deve molto a questi uomini. Gli deve anche un’immagine di se stessa, molto migliore e più lusinghiera della sue realtà. Da: Storia d'Italia, Il Crepuscolo del 700 - Montanelli-Gervaso - Fabbri Editori