Via Stilicone 10 - Peep-Hole

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Via Stilicone 10 - Peep-Hole
Via Stilicone 10 - 20154 Milan
Phone +39 02 87067410
www.peep-hole.org
[email protected]
Paolo Gioli
Inaugurazione sabato 9 aprile 2016, ore 18.00
Mostra dal 10 aprile al 28 maggio 2016
Peep-Hole presenta una mostra personale dell’artista Paolo Gioli.
Paolo Gioli dagli anni Sessanta porta avanti una complessa ricerca attorno alla genesi delle immagini, alla natura
dell’esperienza estetica e al funzionamento dei processi visivi. Costantemente improntata alla sperimentazione
tecnica e linguistica, la sua pratica artistica si muove con disinvoltura tra forme espressive differenti che
spaziano dal disegno alla pittura, dal film alla fotografia, all’insegna di una contaminazione continua che
impiega modalità di derivazione cinematografica per scopi fotografici, e un approccio marcatamente pittorico
nell’utilizzo dei materiali e nella scelta dei supporti.
Le sue complesse sperimentazioni sono diventate un punto di riferimento nell’ambito del cinema sperimentale
e della fotografia contemporanea: dalla riscoperta e l’uso radicale del foro stenopeico all’impiego di strumenti
auto-progettati o oggetti trovati per sottrarsi a qualsiasi legame con l’ottica e la meccanica, dall’utilizzo
inconsueto dei materiali Polaroid trasferiti sui più svariati supporti come carta da disegno, tela, seta serigrafica,
alle indagini sui processi di sviluppo o sulla tecnica del fotofinish.
Tuttavia la complessità del suo lavoro non è circoscrivibile esclusivamente all’interno della sfera cinematografica
o fotografica. La sua continua sfida verso le infinite possibilità di ricavare immagini da circostanze spontanee,
legate alla natura, al corpo o a oggetti esistenti, è stata portata avanti all’interno di un campo d’indagine ampio
in cui il cinema incontra la pittura, la pittura incrocia la fotografia e viceversa.
La mostra presenta un corpo di opere che datano dagli anni Sessanta alla fine degli anni Duemila, a
rappresentare i nuclei fondanti e i temi ricorrenti della produzione di Paolo Gioli, attraverso una selezione
che evidenzia il fondamentale spostamento dalla pittura al cinema e alla fotografia. Alcune serie chiave della
sua produzione come i Fotofinish, le Autoanatomie, le Naturae e gli Omaggi, si affiancano in mostra a lavori
più inediti come alcuni dipinti e disegni realizzati negli anni Sessanta, in un percorso che attraversa in modo
trasversale la vasta produzione dell’artista dimostrando come il passaggio da un linguaggio a un altro, da un
medium o da una tecnica all’altra sia sempre fluido, biunivoco e senza soluzione di continuità.
Paolo Gioli (Sarzano di Rovigo, 1942. Vive e lavora a Lendinara, Rovigo) dopo aver frequentato l’Accademia
di Belle Arti a Venezia, alla fine del 1967 si trasferisce a New York dove vive per circa un anno e inizia ad
interessarsi al cinema e alla fotografia. Tornato in Italia nel 1968, si stabilisce a Roma dal 1969 al 1975. Nel
1969 realizza il suo primo film, mentre in fotografia comincia a utilizzare la tecnica del foro stenopeico, e
successivamente del fotofinish e dell’emulsione Polaroid trasferita su diversi supporti. Dagli anni Ottanta
partecipa a diverse mostre ed eventi espositivi. Tra le principali mostre personali ricordiamo quella all’Istituto
Nazionale della Grafica-Calcografia di Roma (1981), al Musée Nicéphore Nièpce di Châlon s/Saône e al
Centre Georges Pompidou di Parigi (1983), alla George Eastman House, Rochester (1986), a Palazzo Fortuny
di Venezia e al Museo Alinari di Firenze (1991), al Palazzo delle Esposizioni di Roma (1996), al Museo di
Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, Milano (2008). Dal 1974 a oggi ha partecipato alle principali
rassegne di cinema sperimentale oltre che ad importanti mostre internazionali come la Biennale di Venezia.
Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più grandi musei europei e statunitensi, tra cui Centre Georges
Pompidou Parigi, Art Institute Chicago, MoMA New York, Minneapolis Institute of Art, Istituto Nazionale per
la Grafica Roma, Museo di Fotografia Contemporanea Cinisello Balsamo (MI).
Peep-Hole ringrazia Paolo Vampa.
Un ringraziamento speciale a Daniele Fragapane per la consulenza curatoriale.
Peep-Hole
Registered office - Via Noe 2 20133 Milano - CF 95180390163 -
PI 03645130166
PRIMO PIANO
Sala I
Il lavoro di Paolo Gioli tocca tutti i generi classici della
storia dell’arte, dal nudo all’autoritratto, dalla natura morta
al paesaggio, elaborati di volta in volta in chiave del tutto
personale e attraverso l’impiego di linguaggi, tecniche e
materiali differenti. Resta costante in tutta la sua produzione
l’interesse per il corpo e uno dei motivi più ricorrenti è
senz’altro quello del torso, particolare anatomico sottoposto
dall’artista a continue analisi e scomposizioni, a partire
dai disegni e i dipinti degli esordi, fino a più recenti cicli
fotografici. Nella serie di grandi disegni a carboncino su carta,
intitolati 1° Gruppo delle Creature e realizzati tra il 1962 e
il 1963, l’artista esplora il tema del nudo spingendosi verso
anamorfosi anatomiche che abbandonano progressivamente
ogni connotazione figurativa. I torsi, ispirati ai crocefissi
duecenteschi, subiscono una distorsione e un trattamento
quasi radiografico che si traduce in una costante tensione
tra pieni e vuoti, positivo e negativo. Il modo diverso in cui
Gioli affronta la fisicità della figura nei dipinti a olio di grandi
dimensioni – realizzati a metà degli anni Sessanta – riflette
l’avvenuto incontro con la Pop Art americana alla Biennale
del 1964, che si traduce in uno spostamento di interesse verso
la composizione dell’immagine. Le metamorfosi anatomiche
dei precedenti disegni diventano, in dipinti come Grande
nudo coricato sul lato destro (1965) e Cristo morto (1965),
giustapposizioni di forme geometriche in cui la figura umana
perde ogni connotazione organica per farsi quasi meccanica.
Grandi campiture piatte dai colori accesi e dalla lucentezza
metallica schermano le sagome dei corpi e l’immagine nasce
da una scomposizione e ricomposizione, da un sezionare
e un sovrapporre che allude già a un’idea di montaggio
cinematografico. Il torso torna a essere protagonista in lavori
più recenti, come la serie dei Toraci e delle Vessazioni. In
Toraci (2007, 2010) Gioli affronta l’iconografia classica del
corpo “martirizzato”, scomponendo le anatomie impresse sulla
pellicola fotosensibile attraverso la luce e trasfigurandole in
immagini evanescenti dalla forte carica espressiva. Anche
nella serie Vessazioni (2007) l’azione dell’artista sembra
martirizzare toraci e membra di corpi deposti, in cui il
richiamo alla statuaria classica si mescola a riferimenti alle
prime avanguardie del Novecento.
Sala II
L’esperienza a New York, dove Gioli vive per circa un anno
tra la fine del 1967 e l’autunno del 1968, segna un passaggio
fondamentale nella ricerca dell’artista. Da quel momento in poi
il suo percorso sarà contrassegnato dal continuo intersecarsi
di pittura, cinema e fotografia, linguaggi che nel lavoro di
Gioli sono strettamente interconnessi, al punto che ogni
forma espressiva implica sempre e inevitabilmente le altre
due. Il film e le opere su tela degli anni Settanta presentati in
questa sala – serigrafie con interventi manuali e dipinti a olio
con inserti fotografici – testimoniano in modo emblematico
la natura di queste sovrapposizioni linguistiche, mostrando
come Gioli faccia cinema partendo dalla fotografia per finire
nella pittura, o viceversa come dipinga partendo dal cinema
per finire nella fotografia. La composizione di un’immagine
stratificata attraverso l’utilizzo di più media sta alla base del
film Immagini disturbate da un intenso parassita (1970),
uno dei primi realizzati da Gioli e tra i più complessi e
faticosi lavori dell’artista sulle immagini-video. In quest’opera
Peep-Hole
l’immagine, prodotta a partire da un quadrato e da altre forme
geometriche che derivano da esso, viene trasformata da una
serie di interventi apportati sullo schermo stesso del video,
utilizzato dall’artista come lavagna luminosa. Un film-collage
che rivela, come altre sue produzioni cinematografiche di
quegli anni, numerosi livelli di immagini nell’immagine e
di schermi nello schermo. L’idea di schermo è centrale nel
lavoro di Gioli in quanto elemento che dà consistenza fisica
all’immagine, sia essa pittorica o cinematografica, serigrafica
o fotografica. Uno dei principi fondanti della sua poetica è
l’idea che l’immagine possieda un’intrinseca autonomia fisica
e che in virtù di questo abbia la potenzialità di trasferirsi da
un luogo a un altro, migrando dallo schermo cinematografico
alla tela e al supporto fotografico. Proprio a partire da questa
convinzione, nella prima metà degli anni Settanta Gioli utilizza
il termine “schermo”, comunemente attribuito al linguaggio
filmico, per intitolare una serie di dipinti a olio con inserti di
carta fotografica (Schermo-Schermo, 1974) e alcune opere
serigrafiche ottenute da un collage di frammenti di fotogrammi
ingranditi e poi successivamente trattatati con del colore e
delle mascherature con ritagli di carta (Schermo-Schermo,
1975). Se questi lavori sono esemplificativi delle commistioni
dirette tra pittura, cinema e fotografia che contraddistinguono
la pratica di Gioli, Scomponibile (1970) testimonia come il suo
approccio stesso alla pittura sia da un certo momento in poi
marcatamente ispirato al linguaggio frazionato della pellicola
fotografica e del montaggio filmico.
Sala III
Tutte le opere di Gioli sono in un certo senso progettate e
composte con un approccio da pittore, come testimoniato
dall’interesse e l’attenzione per la composizione, o dal
modo in cui concepisce e tratta la materia – basti pensare
al suo manipolare il materiale Polaroid come fosse
pigmento pittorico. Questo conferma non solo l’importanza
fondamentale che la produzione pittorica degli esordi riveste
all’interno del suo percorso, ma anche come l’esperienza
della pittura – solo apparentemente rimossa in anni di
continue indagini e sperimentazioni all’interno di altri
territori linguistici – riaffiori in modo insistente e costante
in ognuna delle successive fasi della sua vasta produzione. Il
capoluogo veneto – dove si trasferisce all’inizio degli anni
Sessanta per studiare all’Accademia Libera del Nudo – con il
suo ricchissimo patrimonio visivo storico e contemporaneo,
rappresenta per Gioli il territorio simbolico dell’introduzione
all’arte e alla sua storia, il luogo in cui si forma quella
sorprendente ed eterogenea riserva di memorie e suggestioni
a cui attingerà costantemente. La molteplicità di riferimenti
rintracciabili nei suoi dipinti testimonia la vastità della cultura
visiva che alimenta la sua opera, in cui l’arte antica di chiese,
musei e palazzi veneziani si mescola a quella delle avanguardie
custodite nei libri dell’archivio storico della Biennale e a quella
della Pop Art americana che, sempre a Venezia, Gioli ha modo
di conoscere da vicino. I dipinti in mostra, tutti realizzati tra
il 1966 e il 1969, sono tra le sue più rappresentative opere
pittoriche degli inizi. Si tratta di tele dimensionalmente
importanti, dipinte a olio, tutte contraddistinte da un’estrema
policromia e dalla giustapposizione di vaste campiture
geometriche, caratterizzate da stesure piatte di colori dai
toni accesi. I riferimenti che vi si possono rintracciare sono
molteplici così come i soggetti da cui prendono le mosse: che
si tratti di un paesaggio come le navi che attraversano il canale
della Giudecca – in Trittico blu (1966) – o della rivisitazione
di una scena dipinta nel Trecento da Buffalmacco – in
Scomponibile (1966) – ogni immagine viene trasfigurata in
visionarie architetture geometriche e complesse composizioni
a sequenza, scomposta e ricomposta attraverso un processo
di tipo quasi meccanico e resa in vorticose proiezioni che
perdono ogni traccia di riferimento al reale. In questo tentativo
di comprimere e frazionare più istanti temporali attraverso
una successione di immagini che crea un unico campo visivo,
sono già evidenti i prodromi di un interesse crescente per il
cinema e la fotografia. A segnare simbolicamente il progressivo
passaggio di Gioli dalla pittura a questi linguaggi è un’opera a
carboncino e pastello del 1968 intitolata emblematicamente
The Big Lens: il ritratto di un gigantesco obiettivo che svela
la sua impellente necessità di indagare gli elementi primari
del dispositivo fotografico e di avvicinarsi agli studi delle
leggi fisiche dell’ottica, delle strutture psicopercettive e delle
modalità storiche di ripresa.
PIANO TERRA
Sala IV
Nella vasta produzione fotografica di Gioli una parte
significativa è quella dedicata alla sperimentazione del
fotofinish. Il fotofinish è una tecnica di ripresa semi-scientifica,
frequentemente usata in ambito sportivo per determinare
l’esatto ordine di arrivo in una competizione: attraverso
il dispositivo del fotofinish la pellicola scorre a velocità
costante e viene impressionata solo in corrispondenza di una
fenditura verticale rivolta, nel caso di una corsa per esempio,
sul traguardo. Sono molti gli artisti che si sono interessati a
questa tecnica, operando spesso una spettacolarizzazione di
quello che è l’aspetto più caratteristico del fotofinish, ovvero
la distorsione delle figure. Per Gioli la sperimentazione di
questo dispositivo corrisponde alla naturale evoluzione della
propria ricerca sul foro stenopeico. Il “punto trasparente”,
attraverso cui la luce entra nella fotocamera trasportando
con sé le immagini, si fa “linea trasparente” generando
figure che sono il risultato della registrazione di molteplici
gesti e movimenti, quelli compiuti dal soggetto davanti alla
fotocamera e quelli compiuti dall’artista che la muove. È su
questa linea, situata su una lastrina di metallo che sostituisce
l’otturatore, che l’artista interviene in modo quasi ossessivo, con
continui sdoppiamenti, amputazioni e incisioni. Per realizzare
il fotofinish Gioli mette a punto un personale dispositivo:
una comune fotocamera, privata del proprio meccanismo
interno, che permette di controllare manualmente lo scorrere
della pellicola durante la ripresa, come attraverso l’utilizzo di
una cinepresa. In questo modo si creano più movimenti in
tempo reale: il movimento manuale della fotocamera, quello
della pellicola e quello del soggetto ripreso. Sono due i cicli
fotografici concepiti attraverso questa tecnica: il gruppo delle
Figure dissolute, che risale agli anni Settanta, e quello di Volti
attraverso, realizzato tra il 1987 e il 2002. Nella prima serie
i soggetti ripresi sono personaggi quotidiani trasfigurati in
quelle che lo stesso Gioli definisce “cronofigure protocinetiche”.
Le dissonanze fra il gesto dell’operatore e il movimento
della figura, i frequenti rallentamenti, le accelerazioni e le
improvvise interruzioni generano infatti nei soggetti una serie
di raddoppiamenti, dilatazioni e compressioni che vanno
Peep-Hole
ben al di là della semplice deformazione per spingersi a vere
e proprie decostruzioni e ricomposizioni della figura. Nella
serie Volti attraverso gli esperimenti iniziali si sviluppano in
direzioni sempre più complesse e articolate. La linea-fessura
tradizionale del fotofinish è sostituita da un frammento di
immagine: l’artista dispone adesso nella finestrella d’entrata
della fotocamera alcuni elementi di natura organica, come
piccoli insetti o frammenti vegetali, attraverso cui l’immagine
del soggetto ripreso è “costretta” a passare e, così filtrata, a
subire un’inesorabile trasformazione.
Sala V
Il corpo torna con insistenza nella ricerca di Gioli anche
come immagine del desiderio e dell’erotismo, attraverso
una cospicua serie di opere che hanno tutte come soggetto
il nudo femminile. Quello dell’erotismo è un tema che si
lega spesso in modo inscindibile alle indagini di Gioli sui
fondamenti storici, culturali e ideologici della fotografia, per
questo l’esplorazione ravvicinata e quasi tattile di particolari
anatomici come il seno o il sesso femminile va di pari passo al
complesso procedimento mentale e tecnico nella composizione
dell’immagine. È nel 1977 che Gioli inizia a fare uso del
materiale Polaroid, sperimentando tecniche di trasferimento
su supporti diversi come la carta da disegno e la seta, talvolta
anche la tela e il legno. Nella serie delle Autoanatomie (1987),
ad esempio, l’artista trasferisce su seta serigrafica l’impronta
lasciata dalla luce sulla pellicola fotosensibile, recuperando
la tecnica “a strappo” dell’affresco: “l’immagine – dice Paolo
Gioli – staccata dai propri reagenti, dal suo negativo come una
pelle dalla carne viva, perde lo smalto-fissatore-protettivo che
viene assorbito dalla trama della tela o dallo spessore della
carta”. A essere rappresentati sono i simboli della sessualità
femminile, immagini archetipiche capaci di conservare
inalterato il loro potere evocativo anche nelle complesse
composizioni geometriche in cui vengono giustapposte. Questa
sovrapposizione di tecniche e supporti non ha niente a che fare
con il collage, si tratta di “strati di materia”: materia pittorica
e fotografica che Gioli rielabora all’insegna di una costante
e reciproca contaminazione. Il gesto stesso di trasferire una
materia che è il simbolo del consumo immediato e di immagini
familiari su materiali nobili e antichissimi, è una questione
centrale negli esperimenti di Gioli sulla Polaroid. Anche nel
ciclo delle Naturae (2007) l’artista giunge all’immagine finale
attraverso questa stratificazione di linguaggi diversi, trattando
la pellicola polaroid come una superficie pittorica. Si tratta
in questo caso di ritratti frontali del sesso femminile in cui
è inserito un fiore, immagini ambigue di “eccentriche vulve
svelate da uno schermo-sipario” in cui maschile (il desiderio) e
femminile (l’oggetto del desiderio) coincidono. Gioli interviene
sulla superficie sensibile con molteplici tecniche (sfregamenti,
tagli, pressioni, trasferimenti su altri supporti), e copre talvolta
la metà superiore dell’immagine con uno strato di pittura
acrilica combinando, ancora una volta, la meccanica del
processo fotografico con la gestualità della pittura. Reiterando
la rappresentazione dello stesso soggetto, Gioli sperimenta
anche l’ottenimento di un’immagine fotografica attraverso la
tecnica del negativo impressionato per contatto riflesso. Nelle
opere intitolate Vulva (2004) l’artista arriva all’immagine
colpendo con il flash un foglio di carta a contatto con
l’anatomia femminile che, attraversato dalla luce, trattiene il
riflesso prodotto.
Sala VI
Sala VIII
cinematografia. Per entrambi la fotografia si lega soprattutto al
tema del corpo e al suo movimento e rappresenta un nuovo e
fondamentale strumento attraverso cui indagarlo, analizzarlo
e scomporlo. Gioli, oltre a rendere omaggio ai due grandi
innovatori, intraprende un’intensa riflessione sulle potenzialità
del processo visivo, facendo affiorare nessi e collegamenti in
una costruzione compositiva quasi teatrale. L’incontro tra
la connotazione artistica della ricerca scientifica di Marey e
gli esiti tecnico-scientifici dell’arte di Eakins rappresentano
per Gioli l’idea di un’arte capace di includere ogni disciplina.
Un’altra importante serie di omaggi è quella dedicata a
Joseph Nicéphore Niépce, ricercatore francese vissuto agli
inizi dell’Ottocento a cui viene attribuito il fondamentale
passaggio dall’incisione alla fotografia. L’artista ripercorre
la storia di quello che considera l’inventore assoluto della
tecnica fotografica lavorando a partire dal ritratto del cardinale
D’Amboise, una delle poche immagini ricondotte con certezza
a Niépce. Questa è per Gioli un’occasione per confrontare
la propria creatività con quella del grande innovatore, di
paragonare le prove di Niépce con le sue sperimentazioni
sulla materia Polaroid, tanto da giungere a una progressiva
immedesimazione con il proprio modello. Le opere dedicate
a Alphonse Poitevin, precoce sperimentatore del colore,
costituiscono per Gioli un’ideale prosecuzione di quelli
dedicati a Niépce. Si tratta di studi sul volto, così come avviene
anche negli omaggi dedicati a Julia Margaret Cameron, la
fotografa inglese celebre per i suoi evanescenti ritratti in
cui restituisce la sognante atmosfera dell’epoca vittoriana.
In questa serie, intitolata Cameron Obscura (1981), l’artista
indaga le enigmatiche e sfuggenti fisionomie femminili
ritratte dalla Cameron, agendo su di esse con una serie di
delicati sdoppiamenti e ritmiche frammentazioni. Tutte le
opere ascrivibili alla categoria degli omaggi sono accomunate
da una complessa stratificazione di tecniche e supporti.
Spesso, a partire da immagini fotocopiate o fotografate e
poi sviluppate attraverso diapositive in bianco e nero, Gioli
realizza una prima immagine per contatto e per proiezione.
Su di essa applica delle mascherine di carta sagomate che una
volta impressionate produrranno una serie di geometrie e
tagli e, infine, attraverso la materia plasmabile e fotosensibile
della Polaroid, avviene il trasferimento su carta da disegno e
su preziosi frammenti di seta. Queste “rivisitazioni” hanno
un ruolo importante all’interno del percorso compiuto da
Gioli nella misura in cui costituiscono un ulteriore modo di
andare alle radici del linguaggio fotografico: le immagini e le
vicissitudini dei protofotografi sono interiorizzate e rielaborate
da Gioli in prolungate ricerche che trasformano questi modelli
in altri modelli, a testimoniare come il suo sguardo rivolto
al passato non sia mai nostalgico, e come il confronto con la
storia avvenga all’insegna di una sperimentazione e una ricerca
senza fine.
Negli anni Ottanta Gioli realizza un ciclo di opere in cui rende
“omaggio” ad artisti del passato, come Courbet, van Gogh,
Dürer, Signorelli, Piero della Francesca o Mantegna, e realizza
film dedicati a Talbot, Muybridge, Londe, Duchamp. Ma i
personaggi su cui si sofferma maggiormente sono i pionieri
della fotografia come Niépce, Bayard, Cameron, Poitevin,
Marey e Eakins che tanto hanno rappresentato per le origini
di questa disciplina. Nel ciclo di Polaroid intitolato Eakins/
Marey. L’uomo scomposto (1982-83) Gioli cerca di fondere
Eakins (l’uomo) con Marey (l’azione) mettendo in relazione
due grandi e incompresi sperimentatori ottocenteschi: da un
lato Thomas Eakins, pittore realista americano ignorato dal
suo tempo e pioniere nel campo della fotografia; dall’altro
Etienne Jules Marey, noto fisiologo francese, precursore della
Paolo Gioli
Inaugurazione sabato 9 aprile dalle ore 18.00
In mostra dal 10 aprile al 28 maggio 2016
Peep-Hole, Via Stilicone 10 – 20154 Milano
Mercoledì – sabato 14.30 – 19.00 o su appuntamento
[email protected] | T. +39 0287067410 | M. +39 3450774884
Press info: Stefania Scarpini, [email protected]
A metà degli anni Novanta Gioli lavora a una serie di fotografie
in bianco e nero il cui titolo, Sconosciuti (1994), allude
all’identità ignota dei soggetti rappresentati. L’artista attinge
a un fondo fotografico, risalente all’immediato dopoguerra,
donatogli da uno studio a fine attività: si tratta di negativi – su
lastre e pellicole – con i ritratti anonimi di uomini e donne
eseguiti per i documenti d’identità. Ciò che più interessa
l’artista, oltre all’indeterminatezza dei soggetti, è l’abile
intervento di ritocco – pratica comune in quel periodo – che,
eseguito con una sapienza quasi artigianale, aveva lo scopo di
abbellire e rasserenare i volti ritratti. Gioli interviene su questi
materiali illuminando con luce radente il retro del negativo
e svelando così, attraverso delle macro-riprese dei riflessi
ottenuti, le innumerevoli manipolazioni a cui i soggetti erano
stati sottoposti. Con un’attitudine quasi archeologica Gioli
riporta alla luce le fitte stratificazioni di segni, tracce, impronte
depositati su quelle immagini, e nello svelare il laborioso
trattamento di ritocco, conferisce a questi volti una nuova
identità o, come la definisce Gioli, una “contro identità”. Queste
“fisionomie ribaltate” nascono dunque dall’inconsapevole
sovrapporsi di più autorialità: quella del fotografo,
dell’anonimo ritoccatore e dell’artista che parte dal verso – il
lato nascosto e privo di significato – di quelle immagini
trovate per costruire la sua immagine. Questa ricerca prosegue
con il film Volto sorpreso al buio (1995). Realizzato con la
tecnica dello stop-motion a partire dagli stessi fotogrammi
della precedente serie fotografica, il film mostra volti anonimi
che si sdoppiano e si fondono in un unico flusso cinetico, fino
a far emergere dal buio un singolo volto fluttuante.
Sala VII
Nel 2009 Gioli, forzando nuovamente i confini tra fotografia
e cinema, ritorna sulle immagini che aveva ottenuto con
la tecnica del fotofinish per realizzare il film Il finish delle
figure (2009), in cui quelle immagini statiche in un certo
senso si rianimano. L’artista fa scorrere i rullini da 35mm che
aveva impresso con la tecnica del fotofinish per costruire un
racconto cinetico, un film ricavato da immagini fotografiche
che possono essere definite un “non-film”: immagini fisse ma
nate con un procedimento di natura cinematografica, dove
lo scorrimento di ripresa manuale è uguale a quello di una
cinepresa senza essere una cinepresa.
Peep-Hole