Reinventando Shangri-La. La cultura tibetana nell`immaginario

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Reinventando Shangri-La. La cultura tibetana nell`immaginario
Reinventando Shangri-La.
La cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo
Daniele Cologna
[Cologna D., 2011, “Reinventando Shangri-la. La cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo”,
Mondo Cinese n. 147, pp. 199-212]
Nota biografica:
L’autore insegna lingua e cultura cinese presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como. È socio
fondatore dell’Agenzia di ricerca sociale Codici.
ABSTRACT
Incorporating the cultural heritage and identity of its major ethnic minorities in a more overtly cross-cultural
definition of Chinese identity is a necessary gamble for the political leadership of the People’s Republic of
China. On one hand, it helps the successful marketing of its strategic policy aimed at opening up the
country’s poor, underpopulated West to economic development, unlocking the huge potential of the domestic
tourist market. On the other, it serves a key political purpose, as it allows the Cpc to uphold its commitment
to a multiethnic, yet united Chinese nation, thus empowering the government to counter separatist claims
through a more coherent cultural policy. But as it reinvents, or even fabricates, ethnic identity from the top,
the Chinese government needs to address a growing awareness of its diverse cultural heritage prompted from
below. The emblematic case of the renaming of a Tibetan district as “Shangri-La is used to exemplify the
hybridization of cultural imageries that is bringing Tibetan lore into the mainstream of China’s contemporary
cultural makeup.
Una lussuosa berlina tedesca è in sosta su una strada di montagna. A bordo una giovane coppia discute
aspramente, mentre attorno a loro si stende un paesaggio d’alta quota deserto e di rara bellezza: specchi
d’acqua purissima in cui si riflettono immense montagne e un cielo drammaticamente terso. I due sono
chiaramente di estrazione metropolitana, portano occhiali scuri, abiti e taglio di capelli sono all’ultima moda,
e la colonna sonora del loro viaggio è una versione sussurrata de La vie en rose. Ma la loro meta non è
Cortina, Saint Moritz, Aspen, o qualche altra celebre località di soggiorno montano favorita dalle élite
contemporanee: la cristallina desolazione che fa da sfondo al loro litigio è nientemeno che il tetto del mondo,
l’altopiano tibetano, che hanno raggiunto guidando per ore, o forse giorni, dopo essersi lasciati alle spalle
una delle moderne grandi città della Cina. I due in realtà sono ladri in fuga e il film è Tiānxià wúzéi
(“Un mondo senza ladri”), di Féng Xiǎogāng
, forse il regista cinese di maggior successo
commerciale degli ultimi dieci anni. Nel 2004 fece il pieno di incassi in Cina, sbaragliando anche
l’agguerrita concorrenza hollywoodiana. La trama mescola commedia e dramma per sfociare in una sorta di
racconto morale sulla necessità di proteggere l’innocenza in un mondo in cui prevale la disonestà. Il film,
girato soprattutto nelle aree tibetane del Gansu, in particolare la prefettura di Gannan e il monastero di
Labrang, deve molto del suo fascino visivo all’ambientazione tibetana, specialmente per la sua capacità di
evocare “una certa purezza morale perduta” nella Cina egotista e cinica del nuovo secolo. Il grande successo
di pubblico del film testimonia quanto il mito del Tibet come orizzonte perduto della spiritualità umana in
un’epoca di disincanto e corruzione, archetipo solidamente radicatosi nel subconscio dell’Occidente fin dal
primo Novecento, si sia ormai stabilmente insediato anche nella sensibilità cinese. Tuttavia, non si tratta di
un semplice calco dell’esotismo orientalista: questo film rinvia anche a una dimensione tutta cinese di questo
贼
冯小刚
1
天下无
纯净的心灵神圣的地方
processo di ridefinizione del Tibet come “luogo sacro della purezza dell’anima” (
chúnjìngde xīnlíng shénshèngde dìfang), in cui un ruolo non secondario è giocato dalla Politica di apertura
Xībù dàkāifǎ zhèngcè), implementata dal governo
allo sviluppo delle regioni occidentali (
cinese a partire dall’inizio degli anni Duemila. Incentrato sulla realizzazione di arditi progetti di
potenziamento delle infrastrutture dei trasporti, dell’industria estrattiva e del terziario, il piano riserva al
turismo di massa un ruolo trainante per lo sviluppo dell’economia locale.
西部打开发政策
冯小刚
Nel film di Féng Xiǎogāng
, la maggior parte dell’azione si svolge sul treno che collega l’altopiano
del Qinghai-Gansu con il capoluogo della Regione Autonoma Tibetana, lungo una linea ferroviaria che
nell’anno di uscita del film era al centro di uno dei progetti più ambiziosi della campagna per lo sviluppo
delle regioni occidentali. Si tratta appunto del completamento della ferrovia Qinghai-Tibet (
Qīngzàng Tiělù; tib. mtsho bod lcags lam), il primo collegamento diretto su rotaia a
raggiungere il Tibet. Ultimata nell’estate 2006, questa linea ferroviaria divenne subito un progetto-simbolo
della Cina che si prepara alle Olimpiadi del 2008 – che non a caso prevede ebbero in Tibet la tappa più
spettacolare del percorso della fiaccola olimpica, la cima del monte Everest o Chomolungma (
Zhūmùlǎngmǎ Fēng; tib. Jo mo glang ma) – ed è ancora oggi al centro di un’intensa campagna
promozionale intesa a sviluppare il turismo cinese verso le aree tibetane. Ma come è stato possibile
persuadere la media borghesia delle città più ricche del paese, l’unica componente della popolazione che può
realmente permettersi il lusso di viaggiare al di fuori delle feste comandate, come il capodanno cinese, a
recarsi in una regione tradizionalmente descritta come povera, desolata e potenzialmente ostile? Fino agli
anni Novanta l’immaginario riferito al Tibet prevalente tra i cinesi Han era quella di una terra selvaggia,
luòhòu, “arretrato”, era di certo l’aggettivo più usato in riferimento delle
economicamente arretrata (
regioni tibetane in quegli anni), culturalmente “barbara”1: di certo non la migliore premessa per lo sviluppo
turistico dell’area. Il trekking d’alta quota era fino a dieci anni fa appannaggio pressoché esclusivo di turisti
occidentali, perlopiù backpacker in cerca d’avventura, il cui immaginario tibetano si nutre di una vasta
panoplia di riferimenti più o meno mistificanti, che dall’esotismo spirituale dei teosofi ottocenteschi passa
per l’utopismo già proto-postmoderno di James Hilton, l’infatuazione beatnik e hippie per le religioni
orientali, la sensibilità per le culture minoritarie dell’alpinismo iconoclasta ed eco-consapevole degli anni
Ottanta, le velleità antropologiche del turismo-avventura degli anni Novanta, per arrivare all’impegno
religioso e politico associato al buddhismo lamaista dei movimenti filo-tibetani (con la militanza-simbolo di
Richard Gere). Il turismo di massa cinese, affrancatosi solo da poco dalla sua connotazione di pellegrinaggio
politico (il turismo “rosso” degli anni Settanta e Ottanta, alla scoperta dei luoghi sacri della Rivoluzione,
della Lunga Marcia e della guerra anti-giapponese), si era inizialmente diretto verso luoghi ameni: le spiagge
di Beidaihe e di Sanya, le montagne sacre e i monti famosi per i loro paesaggi “di rupi e d’acque”, le cittàgiardino del Jiangnan con i loro laghi e canali. Ma già negli anni novanta nascono iniziative a livello locale
che preludono a una possibilità di ottenere finanziamenti governativi sostanziosi per rilanciare aree fino a
quel momento considerate periferiche e remote, a partire dal Sudovest della Cina: le terre di matrice culturale
tibetana (o sino-tibetana, quando coinvolgono minoranze come i Naxi e gli Yi) del Sichuan e dello Yunnan.
青藏铁路
珠穆朗玛峰
落后
Lo Yunnan in particolare ha fatto da modello di sviluppo, dove l’idea portante è stata quella di attingere agli
elementi di attrazione che ne facevano un magnete di turismo internazionale fin dai primi anni novanta per
ridefinire poli turistici esotici ma “con caratteristiche cinesi”, in grado cioè di attirare il turismo interno. Una
scommessa oggi decisamente vinta, se si pensa che nel 2007 i turisti stranieri nella regione erano 4,6 milioni
contro un’impressionante dato di 89,9 milioni di turisti cinesi (dati dell’Ufficio Statistico Nazionale Cinese,
citati in Watts, 2010, p. 14, nota 9). Nel medesimo anno nella Regione Autonoma Tibetana le presenze
1
Interessante per esempio la spiegazione che adduce Tiley Chodag, autore di una guida storico-culturale al Tibet
promossa dal governo cinese nel 1988, nell’introduzione (il testo è tratto dalla traduzione inglese a cura di W. Tailing):
“However, over these years, I have been thinking of writing a book specifically introducing the land and the people of
Tibet. It is that I have come across a kind of misunderstanding of Tibet among friends at home and abroad. Many people
think it an out-of-the-place barren land isolated from the outside world and us Tibetans savagery and barbarous [sic].
As a Tibetan myself, I cannot ignore such misunderstanding and thus the desire of writing a book about Tibet became
stronger and stronger.” (il corsivo è mio). Cfr. Chodag T., Tibet. The Land and the People, Beijing, New World Press,
1988; vedi anche Dung-dkar B.’P., The Merging of Religious and Secular Rule in Tibet, Beijing, Foreign Languages
Press, 1991.
2
rilevate nei primi sette mesi dell’anno erano rispettivamente 206.923 per i turisti dall’estero e 2.504.023 per
quelli interni: in entrambi i casi il turismo internazionale è ormai meno del 10% del turismo interno (dati
ufficiali della Regione Autonoma Tibetana al luglio 2007, ultimi dati pubblicati2). E non basta: l’offerta di
turismo “avventura” e di turismo di gruppo in stile Great Outdoors oggi è sempre più mirata a una clientela
di backpacker cinesi d’Oltremare, inclusi i pacchetti “lusso” per clienti facoltosi provenienti da Hong Kong,
Taiwan e dai luoghi della diaspora cinese nel mondo. Il viaggio in Tibet è diventato uno status symbol
diffuso perfino tra i cinesi immigrati in Italia3. Luoghi simbolo del “modello Yunnan” furono innanzitutto le
antiche città di Dali e, soprattutto, di Lijiang, un antico borgo Naxi che è stato possibile preservare e
ristrutturare (pesantemente) dopo il terremoto che lo colpì nel 1996. Il governo cinese riuscì a ottenere fondi
dalla Banca Mondiale per la ricostruzione e il restauro in stile tradizionale della città, approfittandone nel
contempo per potenziare le infrastrutture di accesso e di ricezione turistica. Nel 1997 Lijiang ottenne
dall’Unesco lo status di sito patrimonio dell’umanità, e la collaborazione del governo centrale (o meglio, del
Pcc) con le autorità locali per la promozione del turismo interno verso quest’area del paese si iscrisse presto
in una più ampia cornice di sviluppo della Cina del Sudovest, dove avrebbe ricoperto un vero e proprio ruolo
di “testa di ponte” turistica4.
Come si è detto, questa cornice la fornisce, a partire dal suo lancio ufficiale nel 2000, la Politica per
l’apertura allo sviluppo delle regioni occidentali, nota anche con la traduzione ufficiale inglese di Western
Development Plan o con l’epiteto giornalistico anglosassone di Go West Campaign. È uno dei diversi grandi
progetti strategici di modernizzazione nazionale di cui è ritenuto fautore originale il nume tutelare dell’epoca
delle riforme, Deng Xiaoping. L’effettiva definizione delle sue linee guida sarà tuttavia realizzata ed
implementata dal Consiglio di Stato cinese nel 2000, sotto la guida dell’allora premier Zhu Rongji. Il piano,
che si pone l’ambizioso obiettivo di ridurre la forbice nel prodotto interno lordo, sia in termini assoluti sia
procapite, tra la ricca Cina costiera e le vaste ma economicamente arretrate regioni occidentali del paese5, si
articola in tre fasi distinte sull’arco di mezzo secolo (!): un dato che da solo rende l’idea di cosa si intenda in
Cina per “programmazione strategica”. La prima fase, conclusasi nel 2010, ha raggiunto l’obiettivo di
stabilire una base per lo sviluppo successivo: secondo dati pubblicati dall’agenzia Nuova Cina nel luglio
20106, il prodotto interno lordo delle regioni occidentali è quadruplicato (dai 1.670 miliardi di renminbi del
2000 ai 6.690 miliardi del 2009). Tuttavia, il divario tra il prodotto interno lordo delle regioni occidentali e
2
Cfr. il sito web ufficale: http://www.xzta.gov.cn/. Sorge il sospetto che l’arresto della pubblicazione dei dati relativi al
turismo in Tibet dopo il luglio 2007 non sia casuale: a partire dalla vigilia delle Olimpiadi, e in concomitanza con
l’accrescersi delle polemiche suscitate dalla ferrovia del Qingzang, i dati sul turismo cinese nelle aree tibetane sembrano
essere ormai considerati “dati sensibili”.
3
Nell’inverno 2010, in occasione di una delle cene che periodicamente allestiscono le associazioni d’imprenditori
cinesi di Milano, un giovane imprenditore cinese di successo (import-export di tessuti da tappezzeria) monopolizzò
l’attenzione della tavolata raccontando la sua avventura tibetana dell’estate prima, che aveva coinvolto cinque dei suoi
più importanti soci in affari in due settimane di trekking lungo le vie carovaniere “del tè e dei cavalli” (
chámǎ gǔdào) che dal Sichuan salgono verso l’altopiano tibetano, per culminare in un weekend all-inclusive in uno dei
più lussuosi alberghi di Lhasa.
4
In una recente intervista riportata dall’edizione online in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, Wang Junzheng, il
segretario generale del PCC di Lijiang testimonia l’importanza della pianificazione di medio e lungo periodo per lo
sviluppo del turismo nella città, a conferma di quanto l’esperienza locale si inquadri in una prospettiva generale di
sviluppo decisa a livello politico: “Lijiang, as a city with dozens of indigenous ethnic groups, rich national culture and
natural resources, will firmly seize the historic opportunity brought about by the Western Development Plan and the
plan to construct Yunnan province into a ‘bridgehead’ of China's opening up toward southwestern regions to enhance
the depth of openness, improve the level of openness, make efforts to promote the in-depth development of Lijiang's
openness, promote the transformation of economic development mode as well as to constantly enhance the vitality and
power of social and economic development” (cfr. Ma J., “Thoughts on the development of Lijiang City”, People’s
Daily Online, 8 ottobre 2010 [http://english.peopledaily.com.cn/90001/90780/91345/7159313.html]).
5
Il piano interviene su 17 diverse ripartizioni territoriali: sei regioni o “province” (Gansu, Guizhou, Qinghai, Shaanxi,
Sichuan eYunnan), cinque regioni autonome (Guangxi, Mongolia Interna, Ningxia, Tibet, and Xinjiang) e una
municipalità soggette al controllo diretto del governo (Chongqing). Queste ripartizioni comprendono un’area pari al
71,4% del territorio della R.P.C., ma ospitano solo il 28,8% della sua popolazione (dato riferito al 2002) e producono
soltanto il 19,9% del PIL (dato riferito al 2009).
6
Mu X., “China’s western region development plan a dual strategy”, Xinhuanet English News, 8 luglio 2010
[http://news.xinhuanet.com/english2010/china/2010-07/08/c_13390789.htm].
茶马古道
3
quello delle regioni costiere resta elevato e le significative misure volte ad attrarre investimenti
infrastrutturali nelle aree depresse dell’Ovest (incentivi fiscali rilevanti e disponibilità di fondi per imponenti
progetti di sviluppo locale) tuttora non bastano a temperare tale trend. La seconda fase, dal 2010 al 2030, di
sviluppo accelerato a partire dalle fondamenta poste nel corso del primo decennio di progettazione strategica,
intende capitalizzare gli esiti della prima fase per ottenere in tempi rapidi livelli più alti di industrializzazione,
urbanizzazione, preservazione ambientale e sviluppo della specializzazione nel settore dei servizi7. La terza
fase, dal 2031 al 2050, di promozione generale della modernizzazione dell’area a tutti i livelli, dovrebbe
infine permettere un’armonizzazione dello sviluppo socioeconomico tra l’Ovest e il resto del paese, con una
progressiva convergenza dei suoi principali indicatori.
La strategia generale verte chiaramente sullo sviluppo infrastrutturale e la messa a valore delle risorse
ambientali di queste immensa estensione di territorio, ma è chiaro che uno dei suoi snodi chiave, tanto per la
valorizzazione turistica, quanto per un’accresciuta capacità d’attrazione che i territori in questione
dovrebbero esercitare sulla popolazione cinese per dare impulso a movimenti demografici atti a favorire un
certo riequilibrio demografico, è di carattere socioculturale. Si sta infatti parlando di aree che sono
prevalentemente abitate da minoranze etniche (
shǎoshù mínzú, “etnie minoritarie”), e il
“riequilibrio” in questione non potrà che portarvi in massima parte nuovi residenti di etnia Han: una mossa
gravida di conseguenze in contesti già segnati da contese di carattere identitario. Esistono frange (o
quantomeno diffuse sensibilità, non sempre apertamente manifeste) autonomiste ed indipendentiste in seno
ad ognuna delle principali regioni autonome. Il caso tibetano e uighuro sono ben noti, ma anche tra i mongoli
della Mongolia Interna e gli Zhuang del Guanxi vi sono segnali di allarme di fronte all’espansione Han. Per
il comitato governativo che presiede all’implementazione del piano vi è dunque un’acuta percezione
dell’importanza di un accurato lavoro di propaganda culturale, che possa attingere a fenomeni culturali già in
atto per promuovere la percezione di una ibridazione culturale nel segno della comune appartenenza a uno
stato multi-nazionale. In altre parole: occorre dare forti segnali di attenzione per le specificità dei diversi
retaggi culturali, accentuandone però tutti quegli elementi trasversali che possono comporre il mosaico di un
retaggio condiviso.
少数民族
Uno degli effetti inattesi di questa sensibilità “necessaria” è la riscoperta e rivalutazione del sincretismo
religioso, nonché del valore che può assumere, in questo panorama di più intensa interazione degli Han con
le altre etnie del paese, un immaginario identitario positivo, per quanto esotizzante, edulcorato e storicamente
indeterminato, riferito alle culture “cinesi” 8 sì, ma nel contempo “non-Han”, perché non univocamente
riconducibili all’espressione culturale propria di tale etnia9. Questa ritrovata sensibilità per le radici culturali
non è in realtà un fenomeno recente: il cosiddetto “primitivismo cinese” o “passione per le radici”
xúngēn rè) fu un movimento letterario e artistico di primo piano già negli anni Ottanta10, con importanti
influenze sulla produzione culturale dei decenni successivi, i cui autori più rappresentativi (Acheng, Jia
Pingwa, Wang Anyi, Han Shaogong, Tashi Dawa, Mo Yan ecc.) hanno intessuto nelle loro opere di narrativa
riferimenti alle tradizioni spirituali confuciana, taoista e buddista, oppure a culture regionali minoritarie e al
loro folklore, spesso con un fitto lavoro preparatorio di ricerca filosofica ed etnografica. La trasposizione
filmografica di molti romanzi e racconti riconducibili a questa corrente artistica ha riscosso notevole
successo in Cina, ma ancor di più all’estero: forse un’indicazione della facilità con cui l’attenzione per
l’autenticità dei riferimenti culturali, tanto cara agli autori, si presti poi a una reificazione degli stessi in
chiave esotica ed estetizzante. Se ne percepisce l’eco anche in molta letteratura e filmografia contemporanea:
(寻根热
7
Per una disamina generale del Piano, cfr. Goodman D.S.G. (a cura di), China's Campaign to ‘Open up the West’.
National, Provincial and Local Perspectives, The China Quarterly Special Issues (No. 5), Cambridge, Cambridge
University Press, 2004.
8
Ovvero sussunte ormai nella corale, obbligatoria appartenenza alla comunità di destino che la moderna Repubblica
Popolare Cinese vuole essere per i suoi cittadini (intesi come “persone della Cina”,
).
9
Concetto peraltro doppiamente ambiguo, perché risente tanto dei limiti ermeneutici e normativi intrinseci della
categoria stessa di “etnia”, quanto della difficoltà di delineare con chiarezza quali elementi del retaggio culturale cinese
possano essere univocamente ascritti a un soggetto identitario storicamente e culturalmente determinato, mutevole nel
tempo e nello spazio, e infine poco incline a delimitazione fenotipica come quello evocato dall’etichetta “Han”.
10
中国人
寻根热
Cfr. He H.Y., “
xúngēn rè”, in Dictionary of the Political Thought of the People’s Republic of China, Armonk,
N.Y. – London, M.E. Sharpe, pp. 591-582.
4
宁肯
nel 2011, per esempio, il prestigioso premio Shi Nai’an per la letteratura è andato a un autore,
Nìng
Kěn, che può essere considerato un esponente “postmoderno” di questa corrente, per il suo romanzo Cielo
Tibet (
Tiān - Zàng). Ambientato a Lhasa, il romanzo mescola inquietudini filosofiche (il dibattito tra
uno dei personaggi del libro, un francese convertito al buddismo che si è insediato in un piccolo tempio
lamaista in Tibet, ed il proprio padre, filosofo scettico, è il cuore del romanzo) e sentimentali (una complessa
e paradossale relazione amorosa venata di masochismo e aneliti di purezza spirituale), con il cristallino
paesaggio tibetano a fare da sfondo. L’importanza della filosofia e della pratica buddista per lo sviluppo
narrativo del romanzo riflette una rinascita del buddismo lamaista che non è solo fenomeno di moda. Da
oltre vent’anni il lamaismo vive una fioritura senza precedenti nella storia della Rpc, tanto che diversi
studiosi ravvisano nel complesso panorama religioso della Cina contemporanea una vitalità crescente di
forme ibride di buddismo sino-tibetano, forse influenzate dall’opera missionaria di lama tibetani nella Cina
repubblicana 11 prerivoluzionaria e poi riscoperte da devoti vecchi e nuovi negli anni successivi alla
Rivoluzione Culturale. Questi sviluppi non sono certo avvenuti all’insaputa del Pcc, anzi: a partire da metà
anni Novanta la cura dedicata al ripristino e al restauro dei luoghi sacri e dei templi lamaisti – specie quelli
che potevano essere considerati non del tutto allineati con la corrente religiosa e politica del Dalai Lama12 – è
divenuta corollario indispensabile della valorizzazione turistica di molti di tali siti.
天•藏
–
La sintesi più emblematica e potente di questo nuovo immaginario in grado di amalgamare sia la tensione tra
rappresentazioni identitarie egemoniche e minoritarie, che il recupero o la reinvenzione di tradizioni culturali
e religiose antiche, con la nostalgia, tipica della condizione postmoderna, per la purezza e l’innocenza
perdute, la natura inviolata e la “vita semplice”, è certamente l’appropriazione e la trasposizione nel mondo
reale, in un luogo fisico e culturalmente già denso di riferimenti religiosi e immaginifici complessi13, del
mito di Shangri-La. Un mito tutto occidentale, immortalato dal romanzo Orizzonte perduto di James Hilton
(1933) e poi reso a tal punto famoso dal film che nel 1937 ne trasse il regista americano Frank Capra, da
configurarsi come riferimento stabile della fascinazione dell’Occidente moderno e postmoderno per la
cultura tibetana e quella “orientale” in genere 14 . Attingendo a un già cospicuo patrimonio di proiezioni
fantastiche sul Tibet come luogo d’elevazione spirituale e di segreta saggezza, in gran parte di matrice
teosofica e occultista, e ispirato probabilmente dalle affascinanti relazioni sull’idilliaco ambiente naturale ed
umano delle regioni tibetane dello Yunnan e del Sichuan (il Kham, tib. khams) che il botanico
americano di origine austriaca Joseph Rock pubblicò sul National Geographic Magazine negli anni Venti e
11
Cfr. in proposito i recenti saggi di Bianchi E. e Rinaldo A., “Cina e Tibet: Wutaishan come luogo di incontro”, in De
Troia P. (a cura di), La Cina e il mondo. Atti dell’XI Convegno dell’Associazione Italiana Studi Cinesi, Roma, 22-24
Febbraio 2007, Roma, Università di Roma La Sapienza, pp. 359-369 e Bianchi E., “The ‘Chinese lama’ Nenghai (18861967). Doctrinal Tradition and Teaching Strategies of a Gelukpa Master in Republican China”, in Kapstein M. (a cura
di), Buddhism Between Tibet and China, Somerville, MA, Wisdom Publications, pp. 295-346.
12
L’affascinante reportage di Raimondo Bultrini sulle divisioni interne al clero tibetano in Cina e in esilio (Bultrini R.,
Il demone e il Dalai Lama, Milano, Baldini e Castoldi Dalai Editore, 2008) indica proprio in alcune zone del Kham (a
Chatreng, nei pressi di Litang) una delle roccaforti della corrente interna alla scuola Gelugpa che si oppone al Dalai
Lama in seguito alla sua messa al bando del culto del demone protettore Dorje Shugden. Com’è facile immaginare,
questa corrente è tenuta in grande considerazione dal Pcc e gode dell’appoggio nemmeno troppo velato del governo
cinese, che prodiga sovvenzioni ai suoi monasteri.
13
Kolås Å., “Tourism and the Making of Place in Shangri-La”, in Tourism Geographies, Vol. 6, No. 3, pp. 262-278,
August 2004.
14
Per una rassegna ampia e dettagliata degli ingredienti fondativi del mito di Shangri-La e delle sue riverberazioni nella
cultura occidentale degli ultimi centocinquant’anni si veda Brauen M., Traumwelt Tibet: Westliche Trugbilder, Bern,
Verlag Peter Haupt, 2000; trad. ing. Dreamworld Tibet – Western Illusions, Trumbull, CT, Weatherhill, 2004.
Sull’impatto del mito di Shangri-La e delle sue complesse fonti mitopoietiche (i resoconti di viaggio dei primi visitatori
europei in Tibet, le fantasie teosofiche sulla sapienza iniziatica dell’Asia, le mitografie Bön e Vajrayana sui luoghi sacri
nascosti e su Shambhala, l’occultismo razzista e la sua influenza sul nazismo ecc.) sugli studi tibetani in Occidente e
sulle rappresentazioni culturali ivi prevalenti della religione lamaista e della “questione tibetana”, cfr. Dodin T., Räther
H. (a cura di), Imagining Tibet. Perceptions, Projections, and Fantasies, Somerville, MA, Wisdom Publications, 2001;
Lopez D.S. Jr., Prisoners of Shangri-La. Tibetan Buddhism and the West, Chicago – London, University of Chicago
Press, 1998; Schell O., Virtual Tibet. Searching for Shangri-La from the Himalayas to Hollywood, New York, Henry
Holt and Company, 2000.
5
Trenta 15 , Hilton diede corpo alla leggenda dei lama iniziati a una saggezza universale (un amalgama
umanista di buddismo e cristianesimo: il Gran Lama è in realtà un cappuccino francese). Utopia celata al
mondo in un monastero in cui vige un’armonia perfetta e dove le persone non invecchiano, in un ambiente
naturale intatto e di grande bellezza, nel rigetto della violenza e volgarità del mondo moderno, non poteva
non suscitare un forte appeal nei tormentati anni Trenta del Novecento. Nel film di Capra, il monastero del
Gran Lama ha però l’aspetto di un raffinato hotel in stile art decó: si tratta chiaramente di una fantasia
“orientalista” eurocentrica, con venature razziste e coloniali appena dissimulate da una generica ammirazione
per “la saggezza orientale”. I lama, infatti, sono guidati da un europeo cristiano, ascoltano Mozart e
possiedono “tutte le annate del Times fino a pochi anni fa”. Libro e film si possono anche leggere come
un’allegoria del turismo di lusso in luoghi esotici, tanto popolare presso le élite occidentali nel periodo tra le
due guerre, e forse è proprio questo elemento – che certamente deve qualcosa all’eccentrica figura di Joseph
Rock, che perfino durante le sue lunghe spedizioni attraverso le foreste di rododendri giganti del Kham non
si privava mai della sua vasca da bagno portatile e del piacere di una tavola ben apparecchiata, con tanto di
argenteria – ad essersi prestato così bene alla cooptazione di questo immaginario a finalità di promozione
turistica16 . Tuttavia, il mito occidentale di Shangri-La è anche qualcosa di più dell’utopismo esotista ed
etnocentrico che sottende all’opera di Hilton. Presenta infatti una stratigrafia semiotica assai complessa: lo
strato della finzione letteraria e cinematografica poggia su strati intermedi, anch’essi di matrice europea,
come l’antroposofia e l’occultismo, che però a loro volta fanno riferimento a un’eco indiana (Agarttha o
Agarthi17?) di un mito del Kalachakra-tantra tibetano (Shambhala), a sua volta modellato su un substrato più
profondo, quello del regno mistico di Olmolungring sacro al Bön, l’antica religione del Tibet prebuddista. Ed
anche lo strato di Hilton-Capra conoscerà ulteriori rielaborazioni: come si è detto, i movimenti di critica o di
rigetto della modernità degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento ne tempereranno
l’eurocentrismo, vi aggiungeranno la prospettiva estatica della psichedelia, un più profondo interesse per la
pratica buddista e più pronunciate sensibilità ambientaliste, per arrivare infine agli anni Novanta e Duemila,
che apporteranno al mito inusitate sinergie tra escapismo New Age, proselitismo lamaista e adesione
militante alla causa dell’indipendenza/autonomia tibetana. Ma senz’altro l’aggiunta più sorprendente a
questa straordinaria pastiche sarebbe stata la decisione, da parte del Consiglio di Stato, con l’avallo del
Partito comunista cinese, di accogliere le istanze presentate fin dal 1998 dalle autorità locali della Prefettura
Autonoma Tibetana di Diqing (
Díqìng Zàngzú Zìzhìzhōu; tib. Bde-chen Bod-rigs rang-skyong khul): il 17 dicembre 2001 il distretto autonomo tibetano di Zhongdian (cin.
Zhōngdiàn, “pascoli centrali”18; che per i tibetani è però il distretto di Gyalthang, tib. rgyal
迪庆藏族自治州
中甸
15
Rock scrisse una decina di articoli per il National Geographic Magazine, spesso corredati da splendide fotografie. È
probabile che gli articoli che più colpirono Hilton furono i due pubblicati nel 1930: Rock J., “Seeking the Mountains of
Mystery: An Expedition on the China-Tibet Frontier to the Unexplored Amnyi Machen range, One of Whole Peaks
Rivals Everest”, National Geographic Magazine, Vol. 57, pp. 131-185; e “Glories of the Minya Konka: Magnificent
Snow Peaks of the China-Tibetan Border are Photographed at Close Range by a National Geographic Society
Expedition”, National Geographic Magazine, Vol. 58, pp. 385-437. Vedi anche Goodman J., Joseph F. Rock and His
Shangri-La, Hong Kong, Caravan Press, 2006.
16
Lo compresero bene gli imprenditori – cinesi di Singapore, attivi fin dal 1971 – che nel 1992 fondarono a Hong Kong
il più grande gruppo alberghiero di lusso dell’Asia, cui diedero il nome di Shangri-La (www.shangri-la.com).
17
La città del Re del Mondo secondo gli occultisti francesi di fine Ottocento (cfr. Guénon R., Le Roi du Monde, Paris,
Gallimard, 1958; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi, 1977), la cui prima menzione ricorre in un’opera di Louis
Jacolliot (1837-1890), magistrato a Chandernagor – oggi Chandannagar – ex colonia francese nel Bengala indiano con
persuaso dell’origine indiana di tutte le principali istituzioni europee. Nel suo Les Fils de Dieu, del 1873, Jacolliot
raccolse la traduzione di testi sacri e di leggende, compresa quella di “Asgartha”, la “città del sole” sede di sovrani
temporali e spirituali che governavano sulle terre indiane prima dell’invasione degli Arii. Di una fantomatica Agarttha
parlerà anche il controverso insegnante di sanscrito dell’occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, e dopo di
lui altri improbabili personaggi assai popolari nei circoli dell’esoterismo in gran voga nell’Europa del primo Novecento,
come il Ferdinand Ossendowski autore di Bestie, Uomini e Dei. È possibile che la leggenda di Asgartha-AgartthaAgarthi ecc. non sia soltanto un invenzione letteraria di eccentrici francesi frastornati dalla Bell’Époque, ma una
narrazione corrotta del mito di Shambhala, la cui diffusione nel Bengala da parte di sadhu che avessero fatto il
pellegrinaggio al monte Kailash non è del tutto implausibile.
18
Esistono però etimologie alternative: gli “esperti” locali chiamati a redigere un rapporto che certificasse sul piano
filologico e storico la liceità dell’identificazione di Zhongdian come “l’unica vera Shangri-La” hanno suggerito che il
nome facesse originariamente riferimento a caratteri diversi:
Zhōngdiàn, ovvero “fedele al palazzo”, a suggello
6
忠殿
建塘镇 Jiàntáng zhèn ) potè così
香格里拉县 Xiānggélǐlā xiàn)
thang rdzong, dal nome della cittadina capoluogo di distretto, in cinese
finalmente mutare il proprio nome in “distretto di Shangri-La” (
19
Il 1998 si rivelò un anno cruciale per il territorio montano dello Yunnan al confine con Sichuan e Regione
Autonoma Tibetana, dove si collocano sia l’antica città di Lijiang che Zhongdian/Shangri-La. In quell’anno
infatti, a seguito di un rapporto ufficiale che mise in relazione le drammatiche alluvioni del bacino del fiume
Yangzi nel Sichuan con la deforestazione selvaggia e la conseguente erosione del suolo a monte, lungo i
ripidissimi fianchi delle gole dell’alto corso del fiume Yangzi, ormai incapaci di trattenere le copiose
precipitazioni delle periodiche piogge monsoniche, il governo centrale si persuase a vietare del tutto lo
sfruttamento forestale nella regione. Per la Prefettura Autonoma di Diqing, questa misura comportò la
perdita improvvisa della principale fonte di reddito per il territorio: urgeva dunque trovare risorse alternative.
Al turismo, in particolare, ci stavano pensando da tempo, fin da quando il terremoto di Lijiang diede a quella
cittadina la possibilità di ricollocarsi strategicamente non solo sul mercato turistico internazionale, ma anche
e soprattutto su quello interno. A Lijiang, protagonista di questa scommessa vinta– puntare sull’identità
tradizionale e sull’attrattività dell’immaginario che è possibile associarvi – sono stati diversi operatori e
imprenditori culturali e politici locali, ma nessuno ha avuto più peso di
Xuān Kē, un dinamico
musicista di origine tibetana, oggi ultraottantenne. Educato da missionari prima della rivoluzione, poi
internato in campi di rieducazione per ventun’anni dopo la rivoluzione, Xuan parla correntemente l’inglese,
cosa che gli ha permesso di leggere i libri di Joseph Rock e Peter Goullart20 che narrano della bellezza
idilliaca di Lijiang, e poi il romanzo di Hilton, tanto da convincersi che fosse proprio la vallata di Lijiang
descritta da Rock a ispirare l’Eden tibetano senza tempo di Orizzonte perduto. Già prima del terremoto,
Xuan usava i suoi riferimenti letterari, la sua conoscenza della cultura Naxi e tibetana e il suo talento
organizzativo per promuovere la sua celebre orchestra di musica tradizionale Naxi, i cui membri sono quasi
tutti ottuagenari, una delle principali attrazioni culturali della Lijiang pre-terremoto, quando i visitatori erano
quasi tutti stranieri. Le sue idee finirono per influenzare anche i quadri locali del Pcc, ma nacquero subito
dispute accese su quale dovesse essere l’area che potesse meglio corrispondere alla Shangri-La del romanzo,
senza preoccuparsi troppo del fatto che si trattasse di una finzione letteraria. Nella vicina Zhongdian, si
cominciò a studiare la plausibilità dell’attribuzione a tale distretto di questa “titolarità” fin dal 1996, quando
le autorità locali cominciarono a organizzare convegni di esperti (linguisti, storici, religiosi, ecc.) per mettere
in piedi una candidatura documentata e convincente. È evidente che la disputa aveva smaccate motivazioni
economiche, e dopo il 1998 la Prefettura di Diqing doveva assolutamente inventarsi qualcosa di nuovo e di
efficace per reggere il confronto con la vicina e ben più famosa Lijiang. La scelta di valorizzare il proprio
retaggio tibetano (Lijiang è in fin dei conti una città Naxi, con una lingua e una cultura proprie e diverse da
quelle tibetane) trovò evidentemente un’eco favorevole a Pechino, dove si stava già pensando a quali
strategie propagandistiche (leggi: di marketing turistico) impiegare per il rilancio del turismo interno
sull’altopiano tibetano. Progetti che comprendessero anche il recupero e il restauro di luoghi sacri, monasteri
e centri urbani tibetani avrebbero infatti espresso il valore aggiunto di testimoniare la sincerità della Cina del
nuovo corso nell’implementazione delle politiche di tutela e promozione delle minoranze, elemento
propagandistico cruciale della campagna per lo sviluppo dell’Ovest, dove le tensioni etniche, e in particolare
quella tibetano-cinese, hanno da tempo vasta risonanza all’estero e di conseguenza impattano anche sulle
relazioni internazionali della Rpc.
烜科
Per quale motivo dunque il Pcc, sia a livello locale che centrale, ha avallato quest’utopia esotizzante, il cui
etnocentrismo è così smaccatamente “coloniale” nella reificazione dell’altro da sé? Jonathan Watts, nel suo
recente libro di denuncia dedicato al dissesto ambientale in Cina21, è lapidario in proposito: “la risposta è un
della sottomissione delle locali popolazioni tibetane agli invasori Naxi, che in epoca Ming avevano il compito di
governare l’area per conto dell’imperatore cinese (Cfr. Hillman B., “Paradise Under Construction: Minorities, Myths
and Modernity in Northwest Yunnan”, Asian Ethnicity, Vol. 4, Nr. 2, 2003, p.177-178).
19
Per una ricostruzione minuziosa della genesi del mito di Shangri-La e della sua appropriazione in chiave turisticocommerciale cfr. Novati G., Il mito di Shangri-La in Cina e I paradossi della riappropriazione cinese dell’esotismo
orientalista europeo, tesi di laurea in Scienze della mediazione interlinguistica ed interculturale, Facoltà di
Giurisprudenza, Università degli Studi dell’Insubria, 2009.
20
Goullart P., Forgotten Kingdom, London, 1957, John Murray.
21
Watts J., When a Billion Chinese Jump. Voices from the Frontline of Climate Change, New York, Faber&Faber, 2010,
p. 13.
7
misto di vacuità etica, apertura culturale, pragmatismo politico e dinamismo economico – una combinazione
che si è rivelata un disastro per i valori tradizionali e per l’ambiente”. L’impegno esplicito per la difesa
dell’identità culturale tradizionale nei luoghi abitati da minoranze etniche non solo si presta a quel “consumo
di massa dell’altro” che nella programmazione turistica cinese prende ormai il nome di
mīnzú
lǚyóu, o “turismo etnico”, ma implica anche che l’altro venga in certa misura “addomesticato”, reso
appetibile e desiderabile dal turista urbano (di etnia Han)22: nel caso specifico di Zhongdian/Shangri-La, il
risultato è un’identità nuova, sino-tibetana, che i cinesi non etnicamente tibetani possono percepire come
elemento in qualche misura attinente, o perfino essenziale, della propria identità.
民族旅游
Anche se quello descritto è un caso piuttosto estremo, è di questi processi che si nutre l’incorporazione dei
retaggi culturali minoritari nel mainstream della cultura cinese contemporanea. I suoi effetti pop sono
certamente legati a forme di consumo e di mercificazione (le location tibetane nei film di cassetta,
l’inclusione di elementi tibetani nella moda - rosari buddisti, abbigliamento casual con motivi ornamentali o
scritte tibetane - e nella musica giovanili, ecc.), e la rappresentazione della “autenticità etnica” nei luoghi
simbolo dell’identità tibetana fornisce spesso esempi di kitsch estremo, tali da renderne gli abitanti comparse
di un parco a tema della tibetanità. Ma in modo sottile e imprevedibile, questi etnorami contemporanei
stimolano realmente un recupero di saperi, pratiche, e identità che rischiavano di scomparire senza traccia,
schiacciate non soltanto dalla realtà concreta della modernizzazione dell’Ovest tibetano, ma anche dalla
granitica retorica, di ascendenza in pari misura imperiale e stalinista, delle minoranze “primitive e arretrate”,
anacronistici relitti di società schiavistiche e feudali sconfitte dal socialismo. Hillmann e Kolås concordano
nel ravvedere nell’esempio della Shangri-La cinese l’apertura di un nuovo spazio di ribalta per la cultura
tibetana, che proprio in quanto nuovo oggetto di desiderio riacquista senso e potenza. Nell’estate del 2011,
uno dei principali settimanali illustrati cinesi23 ha dedicato ben cinquanta (!) pagine di reportage speciale,
fitto di accurate annotazioni storico-etnografiche, alla prefettura di Ngari, una delle zone più remote e
affascinanti del Tibet, sede dell’antico regno di Guge, studiato da Giuseppe Tucci nel 1935. Fu peraltro lo
stesso Tucci a proporre il misterioso regno di Shangshung (tib. zhang zhung, cin.
Xiàngxióng),
nelle terre alte a Nord di Ngari e ad Ovest del Monte Kailash, come la sede della mitica Olmolungring della
tradizione Bön (tib. bon), quella “terra nascosta” (tib. sbas yul) ricettacolo della saggezza
suprema che funse da modello per il mito di Shambhala nella dottrina del Kalachakra-tantra, una delle
fondamenta gnoseologiche del buddismo lamaista tibetano. È un esempio significativo del peso crescente
che nella società cinese di oggi va acquistando la nostalgia per una “cinesità” fatta non soltanto di progresso
economico e retorica nazionale, ma in grado di aprirsi a una meditazione più profonda sulla diversità
culturale di cui il retaggio cinese si è nutrito in passato, e sulla necessità di un suo recupero non solo sotto
forma di merce. È possibile che questo processo si riveli meno asimmetrico e pilotato (o pilotabile) di quanto
la dirigenza cinese avesse originariamente auspicato, e che le culture minoritarie possano prendersi spazi
inusitati, e perfino sottilmente sovversivi, nell’inconscio collettivo cinese.
象雄
22
Cfr. Hillman, cit. 179-181.
Jia D. (
Jiǎ Dōngtíng), "
.
Ālǐ mì jìng . Xúnzhǎo Xībù Xīzàng de
kuà xǐmǎlāyǎ shídài" (“Il paesaggio segreto di Ngari. Sulle tracce dell’epoca himalayana del Tibet orientale”),
Sānlián Shēnghuó Zhōukān, Nr. 36 /2011, pp. 46-104.
23
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阿里秘境 寻找西部西藏的跨喜马拉雅时代
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滋养 广袤高原
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