POLAROID di Francesca Scotti e Alessandro Mavilio Polaroid. Se

Transcript

POLAROID di Francesca Scotti e Alessandro Mavilio Polaroid. Se
POLAROID
di Francesca Scotti e Alessandro Mavilio
Apparso su "Nuovi Argomenti" n° 58 (Mondadori editore)
Polaroid. Se ne sente parlare sempre meno, se ne possono toccare sempre più
raramente. Eppure sono le artefici di una magia fotografica moderna che l’aldilà
digitale non potrà mai minacciare. Le polaroid sono roba da gentiluomini. Lo
suggeriva qualcuno, negli anni Ottanta, proprio ai Giapponesi.
E nel 2012, da un Giappone che improvvisamente sperimenta le braccia del mondo,
proprio delle polaroid di crudo testo intendiamo presentare.
Dietro ogni immagine resterà sempre un quadrato nero, un fazzoletto magico, oscuro,
talvolta insensibile. Dall’altro lato, l’immagine immortale di una vita, una serata, un
istante, catturato forse senza troppe attenzioni, ma probabilmente nel suo attimo più
pungente, e insieme discreto. E che dire se i colori ci sembrano un po’ innaturali? Nulla.
La polaroid sviluppa le sue immagini alla luce del luogo dove è scattata.
Francesca
– polaroid 1 -
Nel mio appartamento a Kyoto, come in molte case giapponesi, d’inverno fa freddo.
Così vado a fare colazione in un piccolo caffè sotto casa. Oltre a me, quasi tutte le
mattine, ci sono diverse ragazze e qualche uomo in giacca e cravatta. Mi piacerebbe
scambiare qualche parola o qualche sguardo. Ma non ci sono ancora riuscita. Molte
delle ragazze sono indaffarate con il trucco. Non un maquillage normale, un’attività
meticolosa: sfoderano diversi attrezzi, pennelli, ciprie. C’è n’è una che ha un’aria più
simpatica delle altre, arriviamo quasi sempre allo stesso orario e ci sediamo a tavoli
vicini. Ho incrociato il suo sguardo solo per pochi istanti, ha gli occhi scuri, con un
taglio allungato che trovo bello. Un po’ glielo invidio. Apre uno specchietto costellato
di pietre luccicanti, si osserva. Si tasta le guance con le dita, come se non fossero le sue.
Quasi le scoprisse per la prima volta. Poi comincia a incollarsi ciglia, spennellarsi
polveri chiare e scure intorno agli occhi. Applica una sostanza trasparente alcuni
centimetri sotto le sopracciglia, si pizzica la pelle. Così fa comparire la riga della
palpebra che prima non c’era. Ogni mattina compie gli stessi gesti, con la stessa cura. E
mi accorgo che tutto è fatto per cercare di mimetizzare i suoi occhi a mandorla, le sue
guance ampie e il naso piccino. I suoi tratti orientali.
Essere belle significa avere tratti occidentali, occhi tondi e viso stretto? Molte delle
modelle sulle riviste sono occidentali e se sono orientali i loro tratti vengono spesso
ritoccati. Un risposta la trovo nella pubblicità di un nuovo miracoloso prodotto: un
corsetto facciale foderato di pelliccia rosa che, se indossato per tre dolorosissimi minuti
al giorno, promette una riduzione delle dimensioni del viso.
Oggi lei non è venuta a fare colazione e il suo tavolo resta vuoto. Ci sono altre ragazze
intorno che si truccano ma sento la sua mancanza. Dopo due giorni di assenza
finalmente la vedo comparire dalla vetrina, fa tintinnare lo scaccia spiriti sulla porta.
Alzo lo sguardo, mi verrebbe automatico salutarla ma lei non mi guarda, va dritta al
suo posto senza togliersi il grosso cappello di lana che ha calato in testa.
Ordina i pancake, come sempre. Ma questa volta non li sposta di lato per attrezzare la
sua specchiera provvisoria. Non estrae il suo astuccio e i trucchi. Mescola il latte freddo
al caffè lungo, fa colare lo sciroppo d’acero sul piatto. Si porta alle labbra piccoli
bocconi dolci e unti. Beve. Quando ha finito il piatto appoggia le mani sulle ginocchia.
Vedo le sue spalle che salgono e scendono a ritmo del respiro. Non la sto osservando in
maniera più insistente del solito ma forse questa volta se ne accorge perché con
lentezza si volta verso di me e fissa i suoi occhi nei miei. Sono gonfi, arrossati. Lividi
giallognoli sfumano sulle sue tempie. Dei cerotti chirurgici le coprono le palpebre. Ha
uno sguardo che sembra spaventato ma forse è solo innaturale. Fisso. Mi sorride
appena. Ma io sono a disagio e preferisco guardare altrove.
Alessandro
polaroid 2 -
Recentemente il custode del mio stabile è meno presente: forse solo due giorni alla
settimana contro i sei di qualche tempo fa. È abbastanza anziano ma come tutti i
vecchietti giapponesi non si fa mai mancare il lavoro. Quelle poche volte che lo vedo è
sempre curvo a lavare per terra, a spostare sacchi di spazzatura, a sistemare le biciclette,
a togliere ombre, ditate e macchie dai vetri usando pezze improbabili.
Mi chiama “il bianco” e quando ho preso possesso dell’appartamento mi ha tempestato
di domande sull’Italia e l’Antica Roma.
Quando qualcuno viene a trovarmi, sebbene lui non faccia nessun filtro in portineria e
anche se non gli si chiede nulla, è felice di dire: - Il bianco? Quinto piano!
Tempo fa, mentre rientravo in bicicletta, mi intercettò al parcheggio e mi chiese a
bruciapelo:
- Ma tu lo capisci il giapponese? – E comincio a lucidarmi il manubrio della bici, con
me ancora in sella.
E io risposi – Certo! Io e Lei parliamo sempre e solo in giapponese, mi sembra!
- No, io dico, lo sai leggere? – e si chinò a dare una ripulita al parafango.
- Uh, abbastanza.
- Ah sì, bravo! Allora che c’è scritto lì? – Si rialzò e indicò un cartello fuori in strada.
- “Asilo FUTABA”
- Bravo! Sei bravo! Sai leggere!
Poi ci pensò su un momento e aggiunse:
- Io non capisco invece la vostra lingua.
Mi scappò un sorriso smontando dalla bicicletta. Ma per andargli incontro gli dissi Non è difficile da leggere! È in caratteri romani, li usate anche voi giapponesi!
- Sì ma non capisco il significato… Le lettere non mi dicono niente.
- Beh…
- Come fate voi a capirci qualcosa con solo delle A delle B? Io vedo una A ma non
capisco cosa vuol dire… La A vuol dire qualcosa?
- E… No…
Riprese la scopa– Non ci capisco niente. Ma vabbe’, ormai sono anziano…
- Caldo, vero?
- Uh, da morire! – gli rispondo.
- In Italia adesso anche fa caldo?
- Sì!
- Ma io non capisco! Che senso ha un mondo così grande se poi le cose sono uguali
dappertutto?
Francesca
-polaroid 3-
Il locale di Hiro è buio e fumoso ma mi piace molto. Così tanto che da quando sono
arrivata qui a Kyoto è l’unico che frequento. Forse nella mia fedeltà c’è anche un po’ di
pigrizia o una sorta di imprinting.
Il bar è piccolo e si trova al secondo piano di un edificio malconcio. Ecco un’altra cosa
della quale continuo a scordarmi: il fatto che qui i negozi non si sviluppino solo in
orizzontale ma anche in verticale. Parrucchiere al quarto piano, ristorante al terzo e
agenzia immobiliare al secondo. Bisogna imparare ad alzare gli occhi.
Da Hiro ordino sempre una birra, lui si avvicina, mi appoggia un piccolo bicchiere
davanti. Sfodera delle bacchette usa e getta e, usando il retro, stappa la birra. Mi piace
quel suo gesto sicuro. Io ci ho provato una volta e le bacchette si sono spezzate tra le
mie mani.
Ci sono facce sempre nuove nel suo locale e solo qualcuno è una presenza costante
Spesso sono l’unica occidentale, come questa sera ad esempio. Ma non mi fanno sentire
troppo estranea. O meglio, dipende da quello che rispondo a una semplice domanda:
“Ciao di dove sei?”
Mi chiede la ragazza che occupa, insieme a un gruppo di amici, il tavolo alle mie spalle.
Mi volto sorridendo. Ho imparato che rispondere “indovina” è la cosa più apprezzata.
Americana? Francese? Ci sei quasi. Italiana? Esatto! E allora si scatena una sorta di
euforia per la mia provenienza. C’è chi in Italia c’è stato e chi vorrebbe andarci. Chi mi
racconta di aver letto Tabucchi (sgrano gli occhi) e chi mi dice che la nostra cucina è la
migliore del mondo, persino se mangiata qui a Kyoto. Decidono che sono socievole,
simpatica. Si alzano per sedersi accanto a me, mi offrono altra birra e ordinano qualche
piatto di sashimi da condividere. Passo una serata allegra, mi invitano al loro pic nic di
primavera il giorno dopo. Potrei cucinare un piatto italiano, ne sarebbero entusiasti.
*
Questa sera ho proprio bisogno di distrarmi e decido di andare da Hiro. Lui mi sorride
come sempre e stappa la birra con quel gesto delizioso. Il tappo colpisce il gruppo di
ragazzi e ragazze che siede vicino al bancone. Lui ride imbarazzato, e si scusa. E mi
scuso anch’io perché la birra è la mia. Questa volta è un ragazzo che mi chiede di dove
sono. Indovina. Americana? Francese? Quasi. Italiana? Ci sei vicino. Non so perché mi
sia venuta voglia di rispondere così. Lui guarda la ragazza seduta accanto in cerca di
aiuto. Lei gli suggerisce “Tedesca?” Sono austriaca, rispondo sorridendo. Ci siete
andati molto vicini. Il ragazzo mi guarda, annuisce. Annuiscono tutti e si dicono
qualcosa che non riesco a sentire, coperto da una vecchia canzone dei Japan. Mi
sorridono ancora. Ma presto tornano alla loro conversazione. Nessuno mi offre da bere,
nessuno mi invita a unirmi al gruppo.
Così mi trovo a bere da sola. Sono austriaca e bevo birra in solitudine. Quando vado al
bancone per pagare Hiro mi fissa con sguardo dolce: nemmeno a me è chiaro dove sia
l’Austria. Ma tu sei italiana, vero?
E se gli rispondessi che sono europea?
Alessandro
-Polaroid 4 -
-Volevo chiederti… Ci sono i poveri in Italia? Mi dice lei.
-Beh, sì…
-Sei mai stato a casa di un povero?
-Sì, mi è capitato qualche volta…
-Anche in Italia le case dei poveri puzzano di brodo?
-Uhm… Direi proprio di no…
-Ci sono i neri in Italia?
-Uffa… Sì.
-Ci sono anche in Italia? E gli Italiani cosa ne pensano?
-Quello che forse tu pensi di me!
-Ma tu sei bianco!
-E tu sei gialla!
-Io non sono gialla!
-E perché, io ti sembro bianco? Io sono rosaceo!
-Anche io sono rosacea!
-Bene, almeno noi siamo d’accordo, allora...
-Ci sono i Cinesi in Italia?
-Oh, sì… Ce ne sono tanti!
-Se io andassi in Italia, per strada, mi direbbero “ciainiizu, ciainiizu”?
-Non so, ma forse ti direbbero “giapaniizu, giapaniizu”…
-Come se la passano i Cinesi in Italia? No, dico… Cosa fanno?
-Ah! Beh, hanno ristoranti, vendono vestiti, oggetti, borse…
-Fanno le imitazioni anche in Italia?
-Sì, abbastanza!
-Ma questa è una cosa grave per l’economia! E gli Italiani non si arrabbiano? Prada,
Benetton tutti questi marchi importantissimi…
-Mah, non so che dirti….
-E voi cosa fate per evitare queste imitazioni?
-Ho sentito dire che adesso a noi… conviene imitare le imitazioni dei cinesi!
-Comunque, in Giappone, chi fa queste cose certamente va a finire all’Inferno!
-Addirittura? Io non credo…
-In Giappone ci va a finire certamente! E poi deve passare tanto tempo in pentoloni
pieni di aghi, vicino a mostri puzzolenti, senza potersi lavare mai…
-Mah, sarà…
-C’è l’Inferno in Italia?
-Sì, ma che io sappia nessuno ci va.
-Ce l’avete anche voi? Io pensavo che ci fosse solo qui in Giappone! E perché nessuno ci
va?
-Perché nessuno ci crede più, forse.
-Ma l'Inferno c’è! Non è un problema di crederci oppure no!
-Ma tu ci andresti?
-Ma io sono una brava ragazza, non faccio nulla di male. E poi, noi Giapponesi dopo
un po’ ci reincarniamo.
-Ah, ecco!
-Voi italiani vi reincarnate dopo morti?
-No, credo di no… Chi ce lo fa fare?
-Ma allora... reincarnatevi anche voi!
-Piccola si è fatto tardi, tra un po’ c’è l’ultimo treno…
-Ah sì, sì! Il treno, il treno…
Francesca
-Polaroid 5 -
La mia stanza da letto è fatta da quattro tatami e un armadio a muro con le ante
scorrevoli di carta dipinta. Ha quell’odore tipico delle case di Kyoto lievemente
palustre, sia che faccia caldo sia che faccia freddo. E’ inconfondibile. Anche se sono
immersa nel buio e potrei illudermi di essere ovunque questo odore non mi lascia
viaggiare: sono in Giappone, a Kyoto, nel mio appartamento di 50 metri quadri. Dormo
su un futon sottile ma consistente. Se allungo la mano oltre il letto non trovo il vuoto
come mi succedeva a Milano. Sento i giunchi intrecciati dei tatami, lisci al tatto. Mi
mancano gli odori di casa, mi mancano persino i rumori: l’ascensore, il cane del vicino
che abbaia. Il camion dei rifiuti che passa all’alba.
Oggi ho visto uno dei templi più belli di Kyoto, patrimonio dell’Unesco. E poi ho
camminato nel Castello di Nijio, ascoltando il pavimento a usignolo che, per mettere in
allerta gli abitanti in caso di intrusione, cinguettava a ogni passo. Mi sono riempita gli
occhi di Giappone: i ciliegi fioriti, l’intrico di fili elettrici che segmentano il cielo, le
tegole scure dei templi. Ma ora ho bisogno di sentirmi a casa, almeno per qualche
istante. Perchè per quanto questo paese sia con me accogliente, cortese e bendisposto
non mi sentirò mai perfettamente a mio agio. Chiudo gli occhi e vado alla ricerca di
immagini familiari, identitarie. E rimango stupita: perché le prime ad affiorare sono le
vie del centro di Parigi sfavillanti e poetiche. Le ho percorse tante volte ma non
credevo di amarle. E poi le vetrine di una pasticceria tedesca, i tavolini di ferro battuto
coperti di neve. I dolci non mi piacciono nemmeno eppure li immagino e mi
intenerisco come se fossero ricordi di infanzia. Ora – mi dico - tocca casa mia, l’Italia.
L’unico paese dove ho vissuto oltre al Giappone. E invece è il mare della Grecia dove
sono stata solo da ragazzina a comparire.
Non ho viaggiato tanto per l’Europa, eppure, mentre mi addormento nella notte
giapponese, è a lei che penso per sentirmi a casa.
Alessandro
-polaroid 6 -
Parlavo con una ragazza e il discorso è caduto sull’aspetto delle persone. “Gli orientali
appaiono giovani, gli occidentali sembrano più maturi”, si sa… Da qui il discorso è
fluito sulle fotografie e in particolar modo sulle fotografie dei documenti.
- Sono una disgrazia - ho banalmente esordito.
- Perché?
- Ah, no? E allora guarda questa mia foto sulla carta d’identità.
E ho estratto la mia carta di identità di residente straniero.
- A cosa ti serve questa carta?
- Personalmente a poco, ma devo portarla sempre con me. È la legge!
- Hai ragione: sembri più vecchio in questa foto!
- E tieni conto che è una foto del Duemila.
Dopo un attimo di pausa anche io le ho chiesto di mostrarmi la sua carta di identità.
Magari per riderne insieme.
-Io non ce l’ho.
-Dovresti portarla anche tu nel portafoglio.
-Io non ce l’ho proprio!
-Come? Non hai il documento di identità?
-No… Ho la tessera della biblioteca ma non porta la fotografia…
-Ma quella non vale! E la patente di guida?
-Non l’ho mai presa.
-A casa hai il passaporto?
-Non sono mai uscita dal Giappone. A cosa mi servirebbe?
D’improvviso, forse stupidamente, un’ombra mi è calata addosso. Chi è la persona di
fronte a me? Mi sono chiesto. E ancora, così per provocare, le ho domandato:
-E se ti ferma la polizia per un controllo?
-La polizia non ferma le persone come me! - e accenna un risolino di scherno.
-Va bene, ma mettiamo che hai un problema per strada e le autorità hanno bisogno di
controllare la tua identità…
Al mio pronunciare la parola “identità” lei ha come un attimo di smarrimento, e con
lentezza risponde:
-Se mi chiedono “chi sei”, io rispondo con il mio cognome e nome.
-Certo, d’accordo! Ma come dimostri legalmente la tua identità?
-Io… rispondo col mio cognome e nome.
Mi sono accorto di averla condotta in un’ansa della sua vita, della sua stessa società,
che sembra non aver mai esplorato. E incuriosito dal problema dell’identità le ho
chiesto ancora:
-Siamo d’accordo che non sarai mai fermata dalla polizia. Ma ci saranno persone, non
so, ubriachi, molestatori, ladri, che vengono fermati dalla polizia. Queste persone come
si dichiarano?
-Credo che se non dichiarano qualcosa vadano subito in prigione. E poi la polizia,
prima del nome, chiede l’indirizzo. Ci sarà qualcuno a casa, no?
-E se uno fornisce nome e indirizzo falsi?
-La polizia se ne accorge e resti in prigione finché non dici la verità! – E ride.
-Quindi chi viene fermato tende a dire la verità?
-Certo. Ma nessuno viene fermato. – insiste.
Questa conversazione ha spalancato una porta su un universo per me incredibile. Sono
in un Paese certo sovrappopolato, dove il problema dell’identità pare non essere
affrontato dalle autorità, a eccezione dei residenti stranieri. Tutto si svolge in un regime
di autocertificazione, c’è la libera circolazione degli individui, e la mancanza di un
documento di identità fa in modo che virtualmente chiunque possa essere chiunque.
Il passaporto è certamente un’istituzione creata ad hoc per i Paesi esteri, ma si scopre
che l’identità dei cittadini giapponesi in Giappone… non è così importante. È
certamente più utile per le autorità fare in modo che tutti i “signor chiunque” facciano
ciò che devono fare, più che preoccuparsi del delicato, sottilissimo problema della loro
identità. Lo capisco. D’improvviso capisco i passamontagna dei freddolosi, le
mascherine di carta per gli allergici e i timidi, le parrucche per ogni età, le operazioni in
banca fatte col casco integrale da motociclista, le donne in bici con una visiera per il
sole che ha la forma e le dimensioni di una protezione per saldatori. Capisco. Anzi, mi
è lampante.
Da quanto abbiamo osservato, sperimentato e descritto in questi “scatti” non emerge una
grande percezione di "Europa" da parte dei giapponesi. Forse tale coscienza manca davvero, o
forse noi non l'abbiamo potuta intercettare per una qualche inconsapevolezza da parte nostra
nei confronti del Giappone.
Del resto, dopo questa esperienza in Giappone, non ci aspettiamo che in Italia si possa misurare
una precisa conoscenza e coscienza dell'Asia. Ma riteniamo che una tale percezione la potrà
improvvisamente acquisire un giapponese che si trovi a viaggiare e interrogarsi profondamente
sull'Europa. Probabilmente, anche la più forte coscienza nazionale (e il Giappone ne ha una...
imponente) impallidisce se posta a un livello superiore di indagine.
In compenso, come per riflesso, durante la nostra ricerca ci siamo accorti di quanto in noi
italiani in Giappone, l'identità europea sia inaspettatamente forte. Per alcuni tratti persino più
intensa di quella nazionale, spesso ritenuta più robusta, colorita e irrinunciabile. Forse è stata
proprio la nostra distanza da casa e l'immersione in un altro contenuto a far venire a galla tutta
la potenza del nostro continente, contenitore per eccellenza di usanze e culture, e non solo di
storia o assetti politico-economici.
Nota bio
Alessandro Mavilio insegna all’Università Industriale di Kyoto dal 2004. È attivo nella
produzione di video in differenti campi e principalmente in quello artistico, educativo e di
archiviazione storica del presente.