Niente povertà senza equità. Ma è possibile l`equità senza giustizia?

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Niente povertà senza equità. Ma è possibile l`equità senza giustizia?
Niente povertà senza equità.
Ma è possibile l’equità senza giustizia?
Valori, ottobre 2005.
Un bambino nato in Svezia e una bambina nata in Sud Africa. Enorme il divario già alla nascita. In Sud Africa la
mortalità infantile nel 2004 era pari al 62 per mille. In Svezia lo stesso dato nel 2003 era 2,8.
Nthabiseng è una bambina sudafricana. Ha la pelle nera ed è nata in un’area rurale a 700 chilometri da Cape Town da genitori
poveri che non hanno ricevuto alcuna istruzione. Sven invece è un bambino bianco, nato in una famiglia di medio reddito in
Svezia e i suoi genitori hanno completato gli studi universitari. Due bambini le cui vite sono destinate a prendere strade
completamente diverse. Nthabiseng ha il 7,2% di probabilità di morire nel suo primo anno di vita, Sven solo lo 0,3%. Nthabiseng
ha davanti a sé una vita media di 50 anni, 30 in meno di Sven, che invece potrà ambire a compierne 80. Sven probabilmente
studierà per 12 anni, Nthabiseng sarà fortunata se frequenterà la scuola per un anno. Fattori come il sesso, la razza, il luogo di
nascita, il reddito e l’educazione dei genitori segneranno per sempre le loro vite e anche le nostre. A sostenerlo è la Banca
Mondiale nel suo prossimo rapporto, il World Development Report 2006 intitolato “Equity and Development”, equità e sviluppo,
realizzato da un nutrito team di economisti e coordinato da Francois Bourguignon, capo-economista della Banca mondiale (che il
mese prossimo, il 16 novembre, sarà in Italia, a Torino). L’equità è il tema centrale di questa edizione del rapporto. Gli economisti
della Banca mondiale si chiedono se esista equità all’interno dei singoli Stati e tra uno Stato e l’altro e se possa esistere sviluppo
senza equità. Risultato? Viviamo in un mondo ingiusto dove pochi hanno molto e moltissimi hanno quasi niente. Questo era noto
da tempo. La novità è che anche la Banca Mondiale si è accorta che l’equità è un fattore fondamentale e che non può esistere
sviluppo, anche economico, senza equità. Una conclusione a dir poco rivoluzionaria, se si considera che arriva dall’istituzione
portabandiera, insieme al Fondo monetario internazionale, della dottrina neoliberista. Per i sostenitori della teoria economica
liberista, infatti, non ha senso parlare di distribuzione equa o non equa delle risorse. È il mercato, attraverso la legge della
domanda e dell’offerta, a determinare l’allocazione della ricchezza e del benessere. Se il mercato decide che devono esistere ricchi
e poveri, pazienza, non è lecito intervenire. Sulla stessa lunghezza d’onda della Banca mondiale ci sono anche le Nazioni Unite, che negli ultimi
mesi hanno sfornato ben due rapporti dedicati al tema dell’ineguaglianza legata allo sviluppo: lo Human Development Report 2005 dell’Undp,
l’agenzia dell’Onu per lo sviluppo, e il Report on the World Social Situation 2005 intitolato “The Inequality Predicament” (scaricabili entrambi
dal sito internet dell’Onu www.un.org). Le conclusioni delle due ricerche delle Nazioni Unite sono analoghe a quelle della Banca mondiale:
serve maggiore equità per avere maggiore sviluppo. Ma le differenze tra gli approcci delle due istituzioni si fanno sentire. L’alone liberista della
Banca mondiale non è certo scomparso, anche se nell’ultimo rapporto la World Bank si è pericolosamente avvicinata a un mea culpa.
Quale equità?
«Esistono solo due categorie di persone al mondo: quelli che hanno e quelli che non hanno», dice Sancho Panza nel romanzo Don Quixote de la
Mancha di Miguel de Cervantes. Il punto però è capire da che cosa dipenda la possibilità di avere o non avere (reddito, ricchezza, benessere,
salute). Se cioè i risultati che è possibile raggiungere nella vita dipendano da un insieme di caratteristiche individuali come capacità, talento e
impegno, o invece dalle opportunità che ci vengono, o non vengono, offerte dall’esterno, come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la possibilità di
avere un lavoro o l’accesso al credito. Torniamo alla storia di Nthabiseng e Sven. Ipotizzando che i due abbiano la stessa intelligenza, la stessa
forza di volontà, lo stesso talento, avrebbero pari opportunità di raggiungere gli stessi obiettivi? Oppure il fatto di avere la pelle di un colore
diverso, di essere di sesso diverso, di essere nati in luoghi diversi e da genitori diversi condizionerà per sempre le loro vite, offrendo a Sven
opportunità che Nthabiseng non avrà mai? Secondo la Banca Mondiale, purtroppo, è vero il secondo scenario. Nthabiseng dovrà faticare molto
più di Sven per riuscire a studiare e, probabilmente, frequenterà scuole di peggiore qualità del suo coetaneo svedese. Una volta arrivata nel
mondo del lavoro per lei sarà più difficile ottenere un impiego, quasi impossibile raggiungere cariche dirigenziali, riceverà un salario più basso e,
se vorrà avviare un’attività imprenditoriale, per lei sarà arduo convincere una banca a concederle un finanziamento. Questo è ciò che la Banca
mondiale intende per mancanza di equità: avere le stesse capacità ma non poter raggiungere gli stessi traguardi a causa di differenze basate su
fattori come sesso, razza, luogo e ambiente di nascita. La Banca mondiale cioè non si preoccupa tanto di garantire uguali risultati a tutti. È giusto
che ciascuno abbia il reddito, l’istruzione e il lavoro che si merita in base alle proprie capacità e al proprio impegno, purché tutti abbiano a
disposizione le stesse opportunità. Questo è in sintesi il pensiero espresso da Francois Bourguignon nel World Development Report. In un mondo
equo deve essere garantita a tutti la possibilità di studiare, di ottenere un’assistenza sanitaria, un lavoro, l’accesso al credito e ogni altra
opportunità. Una teoria condivisa da molti economisti, come Sen, Romer, Dworkin o Rawls, ma non da tutti. L’Onu ad esempio segue una
diversa linea di pensiero. Il concetto di equità, infatti, può anche essere inteso in termini di risultato finale. Per le Nazioni Unite cioè non basta
assicurare a tutti pari opportunità – condizione comunque ritenuta necessaria – bisogna anche ridurre al minimo le ineguaglianze di reddito, sia
all’interno di un singolo Stato sia tra una Paese e l’altro.
Siamo tutti diseguali
L’80% del prodotto nazionale lordo mondiale giace nelle tasche di un miliardo di persone che vivono nei cosiddetti Paesi sviluppati. Gli altri 5
miliardi di persone che vivono, o meglio tentano di sopravvivere, nel Sud del mondo devono invece arrangiarsi con il restante 20%. Questa
immagine dovrebbe già riuscire a rendere un’idea dell’ineguaglianza che regna nel mondo, almeno per quanto riguarda le enormi
differenze di ricchezza tra un Paese e l’altro. Ma non è tutto. Che il reddito medio, il benessere, il livello di consumi siano diversi,
molto diversi, tra l’Italia e, ad esempio, l’Eritrea è facile da immaginare. Più sconcertante invece è che esistano enormi
ineguaglianze all’interno dei singoli Paesi tanto nel Sud quanto nel Nord del mondo. Il 10% più ricco della popolazione in
Sudafrica ha livelli di consumo 70 volte superiori rispetto a quelli del 10% più povero. In alcuni Paesi dell’America latina si
registrano forti differenze di salario tra uomini e donne e tra diverse etnie . E se si pensa che spostandoci in un Paese “ricco” le
cose possano cambiare ci si sbaglia di grosso. Negli Stati Uniti ci sono zone – lo dichiara l’ultimo rapporto dell’Onu sullo sviluppo
– dove il livello di povertà è paragonabile a quello dei Paesi in via di sviluppo. E la situazione non migliora se si considerano altri
fattori come la mortalità infantile, la speranza di vita o l’istruzione. Gli Stati Uniti, primi al mondo per la spesa per l’assistenza
sanitaria (il 13% del Pil), hanno zone in cui il tasso di mortalità infantile è pari a quello della Malesia . Un americano ricco,
appartenente al 5% della popolazione statunitense con il reddito più elevato, vive in media il 25% in più di un americano povero,
preso tra il 5% della popolazione con il reddito più basso. Ma c’è di più: il diritto alla salute negli Usa è una questione di razza. Lo
dimostrano i dati raccolti dall’agenzia per lo sviluppo dell’Onu, l’Undp. La percentuale di bambini neri che muoiono prima del
loro primo anno di vita è il doppio rispetto ai neonati bianchi. E durante tutta la vita l’accesso all’assistenza sanitaria è segnato da
profonde differenze razziali. Il modello sanitario statunitense è basato in larga parte su un sistema di assicurazioni private, coperte
per lo più dai datori di lavoro. Fatto sta che circa 45 milioni di americani non hanno una copertura assicurativa (dati Onu riferiti al
2003). E ogni anno, secondo una stima dell’Institute of Medicine, 18.000 americani muoiono prematuramente perché non sono
assicurati. Anche in questo caso l’appartenenza ai diversi gruppi etnici è un fattore rilevante. Il 13% degli americani bianchi non è
assicurato contro 21% degli Afro-americani e il 34% degli Ispano-americani. I numeri parlano chiaro. Viviamo in un mondo dove
l’equità è solo un barlume all’orizzonte. Ma l’aspetto più preoccupante è che negli ultimi anni anziché diminuire, l’ineguaglianza è
cresciuta. Dieci anni di aumento nelle disparità tra Paesi ricchi e poveri e tra diversi gruppi sociali all’interno di ogni Paese, come
rivela l’ultimo rapporto dell’Onu sullo sviluppo umano. Le differenze di reddito, di consumo, di istruzione, di salute si fanno
sempre più profonde. Il mondo cresce – sul fronte economia, tecnologia, innovazione - e diventa sempre più iniquo. Ma perché?
Questo è il punto cruciale. È proprio nell’individuare le ragioni che negli ultimi anni possono aver portato a un incremento
dell’iniquità che la Banca mondiale fa lo sforzo più grande e si avvicina ad ammettere le proprie responsabilità. “Sistematiche
politiche macroeconomiche come la liberalizzazione dei commerci, l’apertura dei mercati dei capitali, le privatizzazioni e le
riforme del settore finanziario possono aver provocato nel lungo termine un aumento dell’ineguaglianza e l’arricchimento di alcuni
gruppi a discapito di altri”. Non è esattamente un mea culpa ma gli assomiglia molto. Chi se non la Banca mondiale e il Fondo
monetario internazionale hanno favorito politiche di liberalizzazione dei commerci, di apertura dei mercati dei capitali e di
privatizzazione? Oggi invece proprio dalla Banca mondiale arriva un indicazione: prima di introdurre riforme liberiste, che
possano esporre un Paese all’aggressione della concorrenza esterna, è meglio valutarne attentamente l’impatto sociale.
Un triangolo per lo sviluppo
Ci può essere sviluppo senza equità? Per la prima volta la risposta a questa domanda da parte degli economisti della Banca
mondiale è un secco no. Nel lungo periodo equità e sviluppo sono legati indissolubilmente. E le ragioni di questo legame sono
molteplici. La prima è di natura prettamente economica. Una società dove non tutti hanno la possibilità di accedere liberamente a
fattori come l’istruzione, il lavoro, i mercati finanziari o gli investimenti, è necessariamente inefficiente. Una distribuzione
diseguale delle opportunità, infatti, provoca un’allocazione inefficiente delle risorse, una perdita di potenziale produttivo e un
funzionamento inefficiente dei mercati dei capitali, assicurativi e immobiliari. È questa la conclusione dell’analisi della Banca
mondiale. Nel breve periodo invece equità ed efficienza possono, ma non necessariamente, essere in contrasto fra loro. Si pensi ad
esempio all’istruzione. Raggiungere un elevato livello di alfabetizzatone è per un Paese una fonte di ricchezza. Gli studenti di oggi
saranno i ricercatori, gli imprenditori, i dirigenti di domani, che contribuiranno allo sviluppo del Paese. Ma garantire a tutti
un’istruzione ha un costo elevato. Non bisogna però essere miopi, ammonisce la Banca mondiale. I maggiori costi a cui si va
incontro oggi saranno più che bilanciati dai benefici futuri. La seconda motivazione alla base del ruolo fondamentale dell’equità
per lo sviluppo riguarda il legame tra povertà e ineguaglianza. Se l’ineguaglianza aumenta, aumenta la povertà, anche in presenza
di crescita economica. Ridurre l’ineguaglianza è l’unico modo per combattere la povertà. È la prima volta che la Banca mondiale
fa un’affermazione del genere. Fin dall’inizio degli anni ’90 ha fatto della lotta alla povertà la propria missione. Finora però la
parola equità non era mai stata pronunciata. La strategia per combattere la povertà prevedeva strumenti come la crescita della
ricchezza complessiva, gli aiuti per le popolazioni indigenti, l’aumento delle opportunità per i più poveri. Oggi invece arriva la
svolta. La Banca mondiale riconosce che povertà ed equità sono
due fattori strettamente correlati. Che i poveri sono poveri perché non hanno libero accesso all’istruzione, al sistema sanitario, al
credito, non hanno a disposizione infrastrutture e opportunità di accedere al mercato. Francois Bourguignon, capo-economista
della Banca mondiale, sostiene nei suoi studi che lo sviluppo si basa su tre pilastri: crescita economica, lotta alla povertà e
riduzione delle disuguaglianze. Di conseguenza pensare che sia necessario scegliere tra politiche orientate alla crescita economica
e politiche redistributive è sbagliato. Se ben integrate le due politiche sono due facce della stessa medaglia. Nel rapporto della
Banca mondiale compare una terza argomentazioneche spiega il legame imprescindibile tra equità e sviluppo. Un’argomentazione
di natura socio-politica, che finora la Banca mondiale non aveva mai preso in considerazione, l’Onu sì. La mancanza di equità è
fonte di conflitti, instabilità sociale e criminalità. Tensioni che, sostiene Bourguignon, possono restare latenti o esplodere in vere e
proprie rivolte o guerre civili. Ma, anche nel caso non dovessero manifestarsi, una diseguale distribuzione delle risorse tra diversi
gruppi sociali comporta diversi interessi da gestire, diverse politiche da attuare e, di conseguenza, un’inevitabile dispersione di
risorse pubbliche e un aumento dei costi. In entrambi i casi quindi, che i conflitti si manifestino o restino latenti, a pagarne le
conseguenze saranno la crescita e lo sviluppo.
Ricette per essere un po’ più uguali
Governi e istituzioni possono fare molto, dicono Banca Mondiale e Nazioni Unite, per costruire un mondo un po’ più equo. Sono
necessari interventi volti a garantire a tutti l’accesso a fattori primari come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, un lavoro, una terra
da coltivare. Disoccupazione, povertà e disuguaglianza sono condizioni collegate. Nel 2003 erano 186 milioni le persone senza un
lavoro nel mondo, il 6,2% del totale dei lavoratori. Politiche di liberalizzazione, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, hanno
peggiorato la situazione del mercato del lavoro, erodendo i minimi salariali, riducendo gli impieghi nel settore pubblico e
indebolendo le leggi a favore dei lavoratori. Secondo Bourguignon per contrastare la disuguaglianza sociale è necessaria una
riforma agraria che colpisca i latifondisti e garantisca a tutti gli agricoltori la possibilità di coltivare un pezzo di terra.
Fondamentale nell’ottica di un mondo basato sulle pari opportunità anche l’accesso alle infrastrutture. Le strade, la ferrovia,
l’elettricità, il telefono, l’acqua dovrebbero essere disponibili per tutti. Infine la ripartizione della ricchezza. La Banca mondiale fa
un passo indietro e, anziché continuare a dichiarare che sono le leggi di mercato a determinare la distribuzione della ricchezza e
che non servono interventi dall’esterno, afferma che sono necessarie politiche fiscali e redistributive per ridurre le ineguaglianze
sociali tra Paesi e all’interno di ogni Paese. Dello stesso parere le Nazioni Unite. “Programmi di trasferimento di reddito verso le
famiglie più povere sono fondamentali per modificare la struttura delle opportunità” si legge nel rapporto dell’Onu “The
Inequality Predicament”. Sulla carta queste sono le indicazioni della Banca mondiale e delle Nazioni Unite per eliminare
ingiustizia sociale e povertà dal mondo. Non resta che metterle in pratica. Nthabiseng non aspetta altro. .
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