leggi gli incipit

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leggi gli incipit
Premio Letterario
Nemo
Seconda Edizione 2009
PREMIO LETTERARIO PER INEDITI
PROMOSSO DA NEMO EDITRICE
I migliori incipit delle opere di narrativa
partecipanti al concorso
La pubblicazione degli incipit non è indicativa
delle decisioni finali della giuria del premio.
www.nemoeditrice.it
Il naufragio del treno
di Franco Bertoldi
Era una di quelle giornate in cui il giudizio sul tempo poteva
tranquillamente cambiare segno a seconda dell’umore di chi si
fosse voluto prendere la briga di discuterne.
A Suzanne non importava proprio niente del tempo. Pareva che
non le importasse di niente, per la verità. La sua probabile
disperazione l’aveva finalmente messa nella condizione di poter
superare qualsiasi condizionamento esterno. Aveva trasformato
il veleno in medicina, forse. Oppure si era spinta con tutte le
forze rimaste verso l’alto, quando aveva toccato il fondo. Fatto
sta che adesso era libera.
Libera di camminare con i piedi scalzi, libera di ciondolare da
una parte all’altra con la testa e le braccia, di canticchiare fra sé,
libera di saltare sul primo treno che passasse di là, e che forse
poteva condurla da Erika, la sua unica amica. Può sembrare
strano, ma la sua non era affatto una libertà… felice. Questo lo
avremmo capito solo dopo. Lì per lì sembrava soltanto una
ragazza… libera.
Bellissima. Aveva dei capelli che sembravano di plastica.
Nerissimi. Lunghissimi, perfettamente acconciati. Non ce n’era
uno fuori posto. Capelli disciplinati! Addestrati con costanza a
contenere gli stimoli, a contrastare l’irrefrenabile impulso di
scomporsi, di allontanarsi, di andarsene. Capelli di cera. E gli
occhi. Nerissimi anche loro. Impenetrabili. Due occhi
impertinenti. Che si permettevano il lusso di guardare dove
volevano, quello che volevano. Chi volevano. Ti si infilavano nei
tuoi, occhi, e scavavano fino a quando non erano sazi. Di
notizie, di informazioni. Su di te. Questo cercavano, e trovavano
sempre.
In questo, Suzanne era la più grande. Avrebbe saputo
raccontarti cose che tu nemmeno immaginavi. Di te. Lei le
capiva, bastava che ti fissasse negli occhi per un momento.
Faceva così, per capire se si poteva fidare o no. Con tutti quegli
uomini che aveva incontrato, sviluppare questo livello di
coscienza era stato indispensabile. Se voleva sopravvivere. E
finora ce l’aveva fatta. Adesso poteva farli riposare un po’, i suoi
occhi. Accoccolata nel suo posto, nel suo scompartimento, sul
suo treno. Dormiva. O faceva finta. Non aveva nessuna
intenzione di comunicare. Con nessuno.
Un sottile filo d’inquietudine
di Katia Brentani
HAPPY DAY
La mosca si posa sulla grata della finestra e zampetta indolente
riscaldata dai primi raggi del sole.
Non provo a scacciarla, mi limito a seguirla con gli occhi..
Incurante dell’attenzione, l’insetto continua a muoversi lento, poi
apre le ali e vola via, ronzando.
Sospiro. Desidero volare via anch’io, invece rimango inchiodato a
un vecchio materasso bitorzoluto.
“Tutta colpa del cane” penso e la rabbia monta come una marea.
Incontenibile.
− Vieni Happy, lascia stare le scarpe del signor Morisi.
Accenno un sorriso di circostanza e trattengo, a stento,
l’impulso di colpire quello stupido cane con un calcio ben
assestato.
Parlare di cane è un insulto alla razza canina. Le sue dimensioni
sono quelle di un topo di fogna: ha zampe corte, orecchie dritte
da volpe e occhi piccoli come punte di spilli.
L’antipatia è nata la prima volta che ci siamo incrociati nel
giardino del condominio.
Da subito ha tentato di mordermi le scarpe, di pelle e
costosissime.
Naturalmente adora mia moglie, le lecca festoso i piedi e
scodinzola abbaiando con convinzione.
Mia moglie è ricca, la vita altamente al di sopra delle mie
possibilità la devo a lei.
Quindi abbozzo, reprimendo l’impulso di schiacciarlo sotto le
suole delle scarpe come un mozzicone di sigaretta.
Come dicevo mia moglie è benestante, unica figlia, bruttina e
grassoccia, di un ricco imprenditore che ha fatto fortuna con i
contenitori per pizza, si è concessa il lusso di sposare un giovane
di belle speranze, di aspetto gradevole e spiantato.
Il sottoscritto, Davide Morisi.
Il Sultano di Sherazade - C’e’ @ per te
di Anna Maria Bruno
Da:
A:
sherazade
Alex
Oggetto:
Cc:
risposta messaggio
morgana sex
http://wpop14.libero.it/cgibin/rubrica_modifica_c.htm
Ricevuto
30/12/08 17:31
il:
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ciao,
avevo già visto il tuo annuncio su morganasex e oggi mi sono
collegata giusto allo scopo di ricercarlo.
Mi ha un po’ colpito, fin dall’altro giorno: a parte il bel corpo
nudo alla guida di un timone − che ti confesso, scatena un
certo languore immaginarsi lì, su una barca in mare aperto, a
soddisfare le voglie del suo splendido anfitrione −, alcune foto
mi hanno eccitato, come le due donne che ti leccano il cazzo,
altre invece rattristato, come i 4 corpi di 3 donne e un uomo
avvinghiati uno dietro l’altro.
A scriverti è una single che lo fa per due ragioni:
a) la prima è per darti prova che il sesso fatto tra un uomo e
una donna − anche senza Amore – sia quanto di meglio la vita
può offrire, specie poi nel caso in cui si è ambedue
sensualmente, intellettualmente e fisicamente dotati. Per
dimostrarti quindi che fare sesso con una sola donna può essere
molto più eccitante che farlo con tre o quattro insieme, ti scrivo
per invitarti nel mio splendido mondo della Lussuria.....
b) e il chè sembrerebbe un controsenso.......chiederti di darmi
mano a soddisfare un mio latente desiderio: quello di giocare al
sesso in tre e rigorosamente in FFM, come si dice in gergo
porno-telematico e come tu accenni parlando espressamente di
un’amica disponibile.
Non ti nascondo che la cosa mi ha sempre eccitato anche se non
l’ho poi mai messa in pratica: trovarmi con un uomo e una
donna che fisicamente mi piacciono entrambi e con cui
trovarmi a leccare il cazzo di lui insieme alla bocca di lei e
magari trovarmi anche bendata e al centro, senza sapere di chi
sono la bocca e le mani di chi mi tocca. Ma non l’ho mai fatto...
quindi non so se mi ecciterà come mi ha eccitato il pensarlo e se
mi piacerà oppure no, ma sono disposta a mettermi in gioco:
tutt’al più mi limiterò a guardare mentre scopate o magari me ne
vorrò andare schifata..chi lo sa..?
Chiedo però che prima di questo gioco − semmai dovesse
realizzarsi − si svolga prima e comunque un preliminare
incontro e gioco a due e, nello specifico, tra me e “il
nostromo” dietro al timone.
Ti invio qualche mia foto, tanto per darti una prima idea di chi
ti fa questa «proposta oscena» e visto che ci siamo, ti auguro
anche 2009 auguri di buon anno.
8 Mondi ImPossibili
di Giacomo Colossi
Ultimo viaggio
Sono già passati otto anni, ma mi sembra di essere partita ieri.
Ho dormito in crioibernazione, ho sognato, mi dice Cindarella.
Dicono sia molto intelligente, come programma. Parla
direttamente ai nostri cervelli, a cui è collegato tramite onde
radio. A dire il vero Cindarella controlla tutto, i sistemi di
bordo, i supporti vitali, la navigazione, e noi tre. Grande
invenzione, Cindarella. E’ la nostra madre adottiva…
I sogni di una cosmonauta in crio-ib possono svelare molti
segreti. Cindarella dice che spesso facevo sogni erotici, che
duravano ore. Nel mio lettino, dice Cindarella, sudavo e
gemevo. Ma credo che Vaghen il maniaco abbia anche sognato
di ammazzarci tutti.
Non so come abbiano fatto a reclutare un simile testa di cazzo
psicopatico.
Per fortuna sono capitata con Sidny, il capitano Mark Sidny, di
cui mi fido ciecamente. Ha esperienza. E’ il suo quinto viaggio
interstellare. Dormendo in crio-ib ha perso almeno vent’anni
della sua vita, vagando tra le stelle. E sulla Terra, naturalmente,
è rimasto solo come un cane di Kanope. Come me. Ma, come
dice il manuale dei viaggiatori dell’iperspazio, il tempo scorre in
modi diversi, per tutti noi.
Lo sanno anche le formiche di Fendal-4.
Come sanno che ogni scelta sbagliata si paga sempre. Molto
cara.
Dei suoi perfetti amori
di Adele Costanzo
Il primo e più duraturo dei suoi perfetti amori si perse nella
nebbia del mattino che impacchettava la stretta strada in discesa
e i muri delle case fuori dalla finestra. Nella compatta e
indifferenziata luce senza sorgente gli oggetti svanivano e i passi
di lui che s’allontanava lasciavano sul selciato il suono
discendente e sinistro che la vita emette in assenza del corpo.
Erano gli ultimi giorni di frimaio1 del milleottocentoquattro e
Lei non dubitava che fosse finita nel miglior modo possibile. Per
cui pensò, tra le lacrime, che quell’amore così perfetto, il primo,
sarebbe stato l’ultimo e che avrebbe passato il resto della sua
vita a cercare di ricordarlo e a rimpiangerlo. Ma si sbagliava.
Chiuse con cura i vetri perché non evaporassero, nella stanza, i
devi andare, sì devo; mai più, mai più; addio, addio per sempre;
devo scoprire chi m’ha tradito, che cosa importa te ne manca il
tempo; non dimenticarmi, non ti dimenticherò più perfetti mai
pronunciati e uditi, e quel dolore non meno perfetto delle risate,
dei giochi audaci, dei bronci, delle gelosie, dei pianti, delle
confidenze, delle cose non dette, degli inganni e di tutti gli
ingredienti di quel perfetto e perduto amore. Poi si sedette allo
specchio e, con un gesto deciso della mano, sgombrò la fronte
dai capelli e dai pensieri.
1
Mese del calendario rivoluzionario corrispondente al periodo compreso tra il 21 novembre e il 20 dicembre.
Far Far Away - Cercando Leyda
di Mario Di Martino
Quanta importanza ho dato nella mia vita ai soldi? In teoria
molto poca, in pratica tanta, in sostanza forse non troppa. Di
soldi ce ne sono sempre stati abbastanza, più per la costanza dei
miei genitori che per una vera ricchezza. In famiglia la morale è
stata sempre quella di collocare il denaro in in una posizione
molto bassa nella gerarchica dei valori.
Prima l’amore, il rispetto, la tolleranza, poi la cultura, la
saggezza, poi un sacco di altre cose. I soldi sono una
contingenza che appare solo molto dopo, una chiave necessaria
per aprire porte che questo mondo ostile chiude ai poveracci.
Però con un po’ più di soldi mi comprerei un portatile che non
ronzi tanto forte, e con un po’ di meno non avrei la tele accesa
su sky. E’ una questione complessa e spinosa, quella dei soldi,
perchè muove delle leve nascoste che spesso rimangono nella
penombra della coscienza.
Viaggiare è una grande fonte di ispirazione e una dieta
formidabile per la mente, ma senza i soldi per il biglietto non vai
da nessuna parte. Un’invidia irrefrenabile va a personaggi come
Hemingway o Orwell, che sembravano potersi spostare per il
mondo con una facilità estrema. Il mito delle compagnie low
cost è uno specchietto per le allodole, perchè se non decidi di
andare in Svezia tre mesi prima puoi fare poco. Certo,
Barcellona andata e ritorno con meno di cinquanta euro è
fantastico, ma il Brasile e il Belize restano ancora cosi lontani...
Racconti dal Medioevo Bolognese
di Wolfango Horn
La reliquia rubata
Uno scricchiolio. Un rumore inquietante che lo svegliò di colpo:
fra’ Bernardo si era appisolato, ma quel rumore – un cigolio,
uno sfregamento metallico – era riuscito a penetrare nella sua
mente, comunicandogli un acuto senso di allarme. Si sollevò
dalla sedia e diede un’occhiata da vicino al reliquiario di San
Domenico di cui gli era stata assegnata la sorveglianza. Si portò
istintivamente una mano sulla bocca per reprimere un grido di
disperazione. La cupola del reliquiario era un po’ sghemba,
come se non poggiasse correttamente sugli incastri, e il teschio
di San Domenico di Guzmán, fondatore dell’ordine dei
domenicani, che era contenuto al suo interno, era scomparso.
Fra’ Bernardo pensò rapidamente a come risolvere il guaio: se
avesse lanciato l’allarme, sarebbe stato certamente punito per la
sua sbadataggine, dileggiato per la sua goffaggine, allontanato
dal convento. Decise che non se lo poteva permettere, non
voleva davvero che accadesse. Aveva faticato come un mulo da
soma per entrare nell’ordine dei domenicani, e solo lui sapeva
quante difficoltà aveva dovuto superare per essere ammesso nel
monastero bolognese: doveva assolutamente difendere il suo
investimento e il suo futuro.
Gli incubi dei pesci
di Denis Larcher
Mi chiamo Alex. Abitavo in un insignificante paese incastrato
tra le Alpi. Lì avevo una ragazza. La mia ragazza si chiamava
Giorgia. Lei aveva un pesce. Quel pesce si chiamava Charlie.
Vivevamo in una casa consumata dal tempo, posta al limite di
questo villaggio scordato prima da Dio e poi, di seguito, da tutti
gli altri. Solo una decina di edifici rimanevano testardi a
baluardo dell’antico abitato, forse di origine medioevale,
seminato chissà da chi e perché secoli fa tra queste montagne.
Pochi avrebbero scelto di vivere lì oggi, e pure io, a dire il vero,
lo avrei evitato volentieri, ma quando i miei decisero di
regalarmi la vecchia casa dei nonni pur di tenermi lontano, mi ci
ritrovai intrappolato. Non era esattamente quello che sognavo,
però l’edificio si presentava in discrete condizioni ed io non
avevo un soldo in tasca per permettermi una qualsiasi
alternativa. Accettai quindi di buon grado il regalo, ultimo
segno d’amore paterno sopravvissuto alla delusione di mio
padre e al suo odio conseguente. Anche Giorgia mi odiava, così
come detestava pure il paese che ci ospitava. Sospetto che
nemmeno l’abitato stesso ci avesse in grande simpatia. Non si
trattava di una bella situazione.
Italia Arcana - Racconti italiani del fantastico e del mistero
di Biancamaria Massaro
La Leggenda del Re Guerriero
Quando gli Dei camminavano ancora sulla Terra, trattavano gli
esseri umani da loro pari perché condividevano lo stesso amore
per la natura. Poi tutto cambiò, perché gli umani cominciarono
a segare gli alberi per costruire le loro abitazioni e far posto alle
città.
Gli Dei, inorriditi da come il mondo che avevano tanto amato si
stesse trasformando, permisero a poco a poco che gli umani si
dimenticassero della loro esistenza, così da poterli abbandonare
senza rimpianti e rinchiudersi per sempre nel loro Regno,
l’Olimpo. A proteggere i boschi e le sorgenti in cui erano soliti
camminare, lasciarono le Ninfe, creature semidivine dall’aspetto
di bellissime fanciulle.
Le Ninfe evitano la compagnia degli umani, perché in passato
sono state spesso scambiate per streghe e arse sui roghi della
Santa Inquisizione. Se si risale ancora più indietro nel tempo, si
scopre invece che molti uomini si lasciarono incantare dalla loro
bellezza e, per convincerle ad amarli, offrirono loro immense
ricchezze.
Le Ninfe però non sono mai state attratte dall’oro e dai gioielli,
perciò hanno sempre rifiutato l’amore dei nobili e accettato
invece quello degli uomini semplici, suscitando – spesso e senza
averne mai l’intenzione – l’invidia dei primi e la rovina dei
secondi, come scoprirete tra breve.
Frammenti di Memoria
di Biancamaria Massaro
Ho 30 anni, sono una persona brillante, ho molti amici e il
lavoro che faccio mi piace. Sarebbe ora che mi sposassi e avessi
dei figli, ma Alice, la mia ragazza, dice che non sono ancora
pronto, che sono troppo immaturo.
Non sono d’accordo.
Forse lo sono molti miei coetanei che continuano a vivere con i
genitori, ma non io. Sono figlio unico, è vero, ma mio padre è
andato in galera che ero poco più di un bambino e per quasi
vent’anni non ha dato molte notizie di sé, per poi chiamarmi
quando era povero, malato e bisognoso di aiuto.
Nello stesso periodo ho perso pure mia madre: cadde davanti a
me in una scarpata senza che potessi aiutarla e il trauma è stato
così forte che non la ricordo neppure. Ormai è roba passata, ho
spiegato di nuovo qualche giorno fa alla mia fidanzata; adesso è
arrivato il momento di essere felice e di crearmi dall’inizio una
famiglia tutta mia. Alice tra le lacrime mi ha chiesto come
potessi pensare di farmene una nuova, se non accettavo ancora
la perdita di quella vecchia. Sempre piangendo poco dopo è
andata via.
Da allora non l’ho più rivista.
15 erostorie
di Guergana Radeva & Mirella Esse
Sherazade
K A M E N N A (di G.Radeva)
Rannicchiata nel grembo della grande madre Rodopa, sfigurato
dalla cicatrice cesarea che separava Bulgaria dalla Grecia, la
cittadina pittoresca di Trigrad fugava la sonnolenza estiva,
aspettando.
E anche questa volta il panair, la fiera paesana, arrivò puntuale,
destando scompiglio polveroso e appropriandosi per antico
diritto del giorno più lungo e luminoso dell’anno. Incrocio
imbastardito fra luna park, circo povero e katun gitano, il panair
animò la piazza di tende sgargianti e bancarelle straripanti, di
profumi caramellati e sfilacci zuccherini, di carillon sonanti e
grida di stagnini. I bambini accorsero numerosissimi e presero
d’assalto le altalene, colorando il mattino di gioia genuina.
Nel pomeriggio, frastornati da tanta baldoria e da merende
luculliane a base di dolciumi scoprirono, come per caso, il
cantastorie, seduto su una cassetta rovesciata, lo circondarono a
stormo arruffato e lì si acquietarono. Nessuno sapeva chi era
quell’uomo, da dove veniva, ne tantomeno dove era diretto.
Dicevano che fosse più bello che brutto, più giovane che
vecchio, più ricco che povero, ma erano soltanto opinioni, punti
di vista, che si smagliavano fragili, riversandosi nei propri
contrari appena lo si osservava da un’altra prospettiva. Era
semplicemente un uomo. Uno dei tanti uomini-ingranaggi del
panair.
Allo spuntar della zornitza, la stella mattutina, aiutava a
scaricare e montare lo scheletro mastodontico della festa, allo
spuntar della vecernitza, smontava e caricava, il movimento di
Venere era ciclico, nonché perpetuo come la ruota del suo
metabolismo, così si guadagnava il pane. Per il resto del tempo,
seduto su una cassetta della frutta, barattava favole. Ad ogni
bambino che gli raccontava una storia, lui regalava un’altra in
cambio. Era un affare equo, perciò il suo pubblico era sempre
numeroso. Andò così anche quel pomeriggio. I bambini
alzavano la mano, un po’ come a scuola, lui ne indicava uno a
caso e lasciava fluire la storia libera nel fresco cerchio d’ombra
del noce secolare.
La fatina dei denti
di Fabrizio Sola
− Cazzo bomber passa quella palla! – Scusa, sono in trance
agonistica.
Eravamo sotto di due gol e al campo della polisportiva Serenella
c’era un caldo pazzesco, il sudore dei nostri corpi si fondeva a
quello degli avversari.
Ogni tanto mi arrivavano delle ventate direttamente dalla mia
maglietta che ricordavano la puzza delle palestre, quella che,
quando entri ti sembra di soffocare e quando esci ti sembra di
essere sul Matchu-Pitchu, a 4000 metri d’altezza.
Poi il bomber ha inventato un gol d’antologia: addomestica un
pallone altissimo e carico d’effetto, dribbla il centrale e lascia
partire un siluro all’incrocio dei pali (bravo bomber). Il primo
tempo finisce così, con tutti che si trascinavano verso il mister.
Il mister ha vinto una gara di baffi, quando era giovane, alla
sagra di Castelvetro nella categoria “Più curati”.
Ci faceva giocare col pressing alto, il trequartista dietro le punte,
il mediano davanti alla difesa, lo stopper sotto al libero più due
tornanti, il tridente e un guardalinee di parte... tutti ci
temevano!
− Ok ragassi − (il mister aveva quella esse tipica degli abitanti di
Sassuolo) ci disse − ho tutto sotto controllo: esce Maltrinieri che
ha un risentimento all’adduttore e una caviglia in disordine, ed
entra Tugari -. Tutti ci guardammo toccandoci:
Tugari Paolo, detto l’ingegnere perché all’asilo non riusciva a
salire sullo scivolo, era notoriamente portatore di sfiga... su
quindici partite che conducevamo in vantaggio, col suo impiego
nella ripresa ne abbiamo perse tredici.
Ci girammo e vedemmo Paolino addormentato sulla panchina.
− Non disturbatelo che ieri è tornato tardi − ci disse sua madre
sottovoce al di là della rete metallica verde che divideva il
campo da gioco con lo spazio per gli spettatori: in pratica i
nostri parenti e quelli degli avversari che immancabilmente si
azzuffavano e si insultavano per dare il buon esempio a noi
ragazzi. C’era sempre il papà di Taccolini che tutte le volte che
iniziava la partita per incitarci urlava: − Avanti Savoia! −, e
dubito che sapesse bene il significato.
Il mister ci guardò lisciandosi i baffi, sembrava un gatto di
fronte ad un acquario.
Esposa de Satan
di Francesco Troccoli
La piccola folla assiepata attorno al tumulo fumante iniziò a
disperdersi, mentre brandelli di silenzio si posavano fra coloro
che avevano gridato, applaudito e mandato lodi ai santi. Il cielo
era livido, e una cenere grossa si librava nell’aria, che sapeva di
marcio e di bruciato.
Yusuf vide un branco di ragazzini allontanarsi dalla radura
correndo verso di lui, alla ricerca di un altro spettacolo da
consumare, e tirò su il bavero della casacca, per nascondere il
volto. Il colore della sua pelle era giusto di una tonalità più
marcata di quella di un andaluso, o di un castigliano del sud, ma
di quei tempi la prudenza non era mai troppa. Le bestiole
tirarono dritto, e lui riprese fiato.
Quando la catasta fu libera dagli avventori, Yusuf scoccò uno
sguardo intriso di rabbia e pietà verso l’informe bozzolo residuo
di quell’essere umano, che pure non stentò a riconoscere
colpevole di esser nato donna, e vivere libera e sola.
Ora doveva pensare soltanto a se stesso. Per tutte le vagabonde,
le povere in ispirito e le fuggiasche che sarebbero state
dichiarate esposas de Satan, lui non poteva far nulla, se non
compiangere la loro sorte.
Nemmeno pregare per raccomandare l’anima di quelle povere
disgraziate ad Allah, Jahvé o Cristo sarebbe servito a molto;
nella sua vita Yusuf aveva conosciuto troppi dei per sceglierne
uno a cui votarsi, e l’unica vera fede che aveva ereditato da suo
padre, mercante di spade in Cordova, era nella dottrina di
Avicenna e Averroè.
Mosse le briglie e riprese il trotto, lasciandosi alle spalle il bosco
vicino alla città di Oviedo, nel quale suo malgrado aveva
assistito all’orrendo sacrificio.
Aeroplanini
di Massimo Ubertone
Drriiiinn!!!
Per il fatto che da cinque giorni non ha più notizie di
Alessandro è così tesa che il suono del telefono o quello del
campanello di casa le fanno ogni volta l’effetto di una scossa
elettrica. Si precipita alla porta con il cuore in gola nella vaga
speranza di trovarlo lì, tranquillo, con la valigia appoggiata sul
pianerottolo. Apre senza neanche preoccuparsi di guardare
prima dallo spioncino.
Non è lui; è uno sconosciuto in soprabito scuro che con un
accento straniero difficile da identificare le chiede se è lei la
signora Olimpia. La chiama così, con il nome di battesimo. Lei
accenna un sì con la testa e l’uomo le mette in mano un pacco
sigillato con il nastro adesivo. Poi, senza darle neanche il tempo
di fargli una domanda, si infila nell’ascensore aperto, preme il
bottone e scompare.
Lei richiude la porta, oppressa dal presentimento di una
disgrazia, e corre in cucina a prendere le forbici adatte a tagliare
il nastro adesivo. Apre il pacco. Dentro, protetti da materiale di
imballaggio, ci sono altri due contenitori: uno, abbastanza
grande, fatto di materiale gommoso e ricoperto di uno strato di
nylon, sembra chiuso ermeticamente; l’altro, più piccolo, ha
un’etichetta adesiva con la scritta a pennarello nera: Per
Olimpia. La calligrafia è inconfondibilmente quella di suo
marito.
Capisce subito che si tratta di una cassetta sonora registrata, e il
suo sesto senso le dice che adesso ci sentirà la voce di
Alessandro. Pasticciando un po’ per la tensione nervosa tira
fuori la cassetta, la infila nel riproduttore dell’impianto Hi-Fi
che è vicino al divano e spinge il tasto “Play”. Il suo sesto
senso non sbaglia quasi mai. Dopo pochi secondi di fruscio che
le sembrano interminabili sente la voce un po’ rauca di Ale:
“ Ciao Olimpia, so che in questo momento dovrei essere lì con
te, e tu avresti il diritto di potermi guardare negli occhi mentre
ti dico quello che ti sto per dire...”
Olimpia ascolta senza muovere un muscolo, come se anche il
minimo movimento le potesse impedire di cogliere qualche
inflessione che le faccia capire se sta bene, se è in pericolo, o se
magari ad essere in pericolo è solo il loro matrimonio.
Polonia16
di Marco Maria Vilucchi
7 novembre 2008 ore 11:30
La sua doccia era un momento di intimità irrinunciabile, un rito
da eseguire in quel nido che era la sua cabina doccia, quella si,
nuova ed ultramoderna. Era un rito quotidiano, notturno,
rilassante e ritemprante. La stanchezza, l’ora tarda che la vedeva
rientrare tutte le notti a casa, non le impedivano di prendersi un
momento con se stessa e di restare dieci minuti sotto il getto
potente dell’acqua calda. Poi andava a dormire, e non era mai
prima dell’una e mezza, ma già una parte della stanchezza se ne
era andata nel tubo di scarico della sua cabina idromassaggio.
Giacomo si fermò un momento e tolse le dita dalla tastiera del
computer. A volte si domandava se in quello che scriveva gli
altri vedessero qualcosa di autobiografico. In un moto di leggera
stizza arricciò il naso, infastidito dal pensiero che ci fosse
qualcuno che immaginava le sensazioni e le emozioni da lui
descritte come espressioni della sua personalità. Il fatto che le
pensasse, che le descrivesse e le raccontasse non voleva affatto
dire che erano emozioni proprie. D’altra parte, il fatto che
sapesse descriverle indicava che erano nelle sue corde e che,
quindi, potenzialmente, potevano essere sue. Ma allora anche
chi descrive assassini e stupri è potenzialmente un assassino e
uno stupratore. Questi sono fatti miei, si disse, quasi che i lettori
fossero psicanalisti da strapazzo più intenti a fare dietrologia che
a valutare oggettivamente il suo lavoro.
Torquemada Bad blood
di Claudia Zani
Un momento prima se ne stavano giocondi e grassottelli a
becchettare
ai miei piedi spostandosi sulle loro zampette rosa. Muovevano a
scatti
le testoline dagli occhi rapaci, in cerca di un pezzo di pane
gentilmente offerto da qualche turista distratto.Un attimo dopo
erano
spariti. Rintanati nelle nicchie dell’imponente cattedrale alle mie
spalle, pronti a planare di nuovo per riprendere il banchetto
non
appena avessero avuto la certezza che il pericolo era passato. La
piazza era innaturalmente deserta e immobile come una
cartolina.
Ma compresi che stavano davvero arrivando quando orde di
senegalesi spaventati cominciarono a correre in ogni direzione.
Coi vestiti variopinti che sbatacchiavano come vele strappate
contro le lunghe gambe, si eclissarono tra i portici con enormi
sacchi di plastica issati sui crani rasati. Le schegge di ebano
impazzite mi vorticarono attorno per una frazione di secondo e
poi si gettarono alla ricerca di nascondigli sicuri per i loro
preziosi carichi di borse taroccate, occhiali scadenti, accendini
scarichi.
Erano macchie dai vividi colori che, come miraggi, si dissolsero
nella calura metropolitana. Era ancora presto. Alle due del
pomeriggio, in piena estate, difficilmente la piazza sarebbe stata
gremita dalla folla, ma quella desolazione poteva essere
attribuita unicamente al loro avanzare. La madonnina brillava in
tutto il suo aureo splendore sotto il sole cocente sorvegliando la
situazione dall’alto, ma non poteva fare molto per me, relegata
quaggiù tra i comuni mortali.