ARTICOLO 3 PER SULLE REGOLE
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ARTICOLO 3 PER SULLE REGOLE
PECUNIA E IMPERI di Davide Reina - 22 Aprile 2012 Quando il denaro diventa misura di tutte le cose ed unico obiettivo, la società degenera. La fine dell'impero della finanza sarà un bene per l'economia sempre, orinatoi. E si narra che, nel pronunciare quella frase, egli avesse posto sotto il naso del figlio una di quelle monete. Il punto è che entrambi facevano riferimento a un'attività perfettamente legale. Il "pecunia non olet" di Vespasiano non si riferiva certo alla provenienza lecita o illecita del denaro, bensì al luogo che generava il guadagno e ai suoi non certo gradevoli effluvi. Sta di fatto che quel pragmatico e onesto imperatore risanò, grazie a un'accorta gestione del patrimonio di stato, le finanze degli antichi romani. Ma l'impero romano ai tempi di Vespasiano era ancora un impero in cui l'antica legge romana "la pubblica utilità deve prevalere sulla privata" conteneva gli appetiti di potere dei singoli. Era un impero in cui valevano il principio enunciato da Cicerone, "nessuno sia al di sopra della legge affinché tutti possano essere liberi", e quello espresso da Seneca, "la salute dei cittadini sta nella legge" (salus civitatis in legibus sita est). La forza dell'impero romano si fondava sull'eccellenza del suo sistema normativo, e sul rispetto di quelle regole da parte dei suoi cittadini. Quando tutto questo incominciò a degradare, anche l'impero si avviò al declino. I sintomi più evidenti di questa decadenza furono il primato incontrastato del denaro al di sopra della legge, e la scomparsa di ogni giudizio etico in merito alla sua provenienza. La domanda ironica di Petronio "A che servono le leggi, quando solamente regna il denaro?" nel suo Satyricon, la frase (questa sì liquidatoria) di Giovenale "l'odore del lucro è buono, qualunque ne sia la provenienza" nelle sue Satire, colgono questi sintomi nei comportamenti dei loro compatrioti, fin dal primo secolo Dopo Cristo. Ma l'impero romano alla sua caduta (476 D.C.) era un mondo assai più corrotto di quello di Vespasiano o degli imperatori per adozione. Un mondo dove il denaro vinceva contro la legge e dove il motto latino "Hai un'asse, vali un'asse" (l'asse era una moneta romana), enunciato da Petronio secoli prima, era diventato l'unico metro di giudizio del cittadino romano. Si avverava, alla fine dell'Impero, la melanconica riflessione fatta da Seneca: "Dal momento in cui il denaro incominciò a essere onorato, il vero onore delle cose è caduto". Se guardiamo alla storia, è evidente come ci sia una relazione tra strapotere del denaro in una società e decadenza di quella società. Quando il denaro cessa di essere la misura di una cosa e un mezzo, per diventare prima la misura di tutte le cose, poi la cosa stessa, e infine l'unico obiettivo, allora la società degenera. Questo fenomeno non è nuovo, e porta sempre con sé anche lo strapotere di chi del denaro e della sua gestione fa un mestiere: le banche. Basti pensare a quanto scritto secoli fa da Thomas Jefferson, che quello strapotere aveva dovuto contrastare come Presidente degli Stati Uniti "Io credo che le banche siano più pericolose per la nostra libertà, degli eserciti armati. Se i cittadini americani permetteranno mai alle banche private di controllare l'emissione della moneta, prima con l'inflazione e poi con la deflazione, le banche priveranno gli americani di ciò che possiedono, fino al punto in cui i loro figli si ritroveranno senza nulla nel continente che i loro padri conquistarono. Il potere di emettere moneta dovrebbe essere tolto alle banche e ridato ai cittadini, ai quali esso correttamente appartiene". Come non notarvi un'analogia con l'attuale strapotere delle banche private nel mondo? Grande, al punto da obbligare gli stati a battere moneta (e quindi in pratica controllando loro l'emissione della moneta) per salvarle?. Come non rilevare, nell'uso scriteriato della finanza su finanza, nell'abnorme massa di derivati che letteralmente soffoca la nostra economia reale, l'evidenza di una società in cui il denaro è la misura di tutte le cose, ed è mezzo e fine insieme?. E non suonerebbe forse attuale ai giorni nostri la frase di Ovidio (43 A.C. - 17 D.C.) "Oggi si apprezza il prezzo. Le ricchezze danno onori, gli averi amicizie; e il povero giace sempre a terra"? L'impero romano ha impiegato oltre quattrocento anni, da quella frase, per giungere alla fine. L'impero della finanza su finanza ne ha impiegati quaranta, dai primi timidi tentativi organizzati di speculazione su scala internazionale innescati dall'avvento dei computer negli anni '70, alla speculazione sistematica e onnipresente dei giorni nostri. Adesso è finita. Il denaro onnipotente del nostro tempo sta soffocando l'economia reale. La velocità isterica con cui questa finanza giudica i risultati dell'economia reale è destinata a distruggerla. La finanza speculativa è inconciliabile con l'industria. Non possiede la pazienza e la lungimiranza necessarie per attendere, dopo corretta semina, il conseguente risultato di un'economia reale. Né possiede la cultura e la visione per permettere il rilancio dei sistemi industriali dei paesi europei, Italia in primis, secondo una nuova prospettiva storica e veramente europea. Se volessimo riavviare un sano percorso di sviluppo, la finanza speculativa dovrebbe essere fermata. E la disponibilità di denaro che ne deriverebbe (perché a quel punto il capitale sarebbe costretto a trovare altre vie più produttive, per generare un profitto) potrebbe essere impiegata per sviluppare, finalmente, l'economia reale. Purtroppo la finanza speculativa è ben lungi dall'essere fermata, ed essa rappresenta la ragione fondamentale della crisi dell'economia reale in atto in Europa. Ormai è chiaro, infatti, come ci sia una relazione diretta tra sviluppo abnorme degli strumenti derivati da un lato, restrizione del credito alle imprese e ai cittadini dall'altro. E se c'è una relazione di questo tipo, allora c'è anche una relazione tra sviluppo abnorme dei derivati da un lato e crisi e disoccupazione dall'altro. Perché in pratica i derivati sottraggono capitale che andrebbe invece destinato alle imprese e al lavoro produttivo. Quando poi in Italia c'è una disoccupazione giovanile del 33%, che diventa in Spagna del 55%, non solo si minano alla base le condizioni della pacifica convivenza civile, ma si determina uno stato di fatto dell'economia reale che è insostenibile e dolorosissimo per i cittadini. Perché questo accade? Ancora una volta, perché è abnorme ed eccessiva la pressione degli speculatori (fatta proprio attraverso i derivati) sui nostri governi, per il rientro del debito. Al punto tale da danneggiare il lavoro produttivo e l'impresa. La nuova guerra economica e sociale in Europa è quella della finanza speculativa contro il lavoro, della rendita da patrimonio finanziario contro il profitto d'impresa, degli speculatori contro i cittadini. C'è di che preoccuparsi. Eppure, la grandezza di questo problema non è tanto figlia della complessità del mondo o di un inesorabile declino del capitalismo, quanto della nostra incompetenza e dabbenaggine. Come abbiamo potuto, in tutti questi anni, attribuire a degli speculatori privi di scrupoli, a degli analisti finanziari inadeguati come preparazione professionale, a dei manager che governano agenzie di rating in palese conflitto d'interessi, il potere di condizionare le sorti di una nazione e le sue decisioni di politica economica e sociale?. E' pura follia. E' come se, per citare Cicerone, "Sus Minervam docet": è il porco che detta la lezione a Minerva. Un mondo alla rovescia e una situazione che, se non fosse tragica e non creasse tassi di disoccupazione da Repubblica di Weimar, sarebbe quasi ridicola. La finanza comanda. La capacità di condurre, giudicare e legiferare da parte della politica non è mai stata così bassa e così figlia (succube) delle circostanze e degli interessi costituiti. Oggi Rockefeller non incontrerebbe un giudice capace di obbligarlo a dividere in sette parti il suo impero. Infatti, né il CEO di J.P. Morgan né quello di Goldman Sachs lo hanno incontrato negli ultimi dodici mesi. Così avviene che le grandi banche americane rimangano tali e che passi indenne il principio scriteriato del "too big to fail". E così avviene che, dall'estate 2011, incredibilmente nessuna norma per ridurre l'uso dei derivati sia stata introdotta a livello internazionale. O che nessuna "Bretton Woods" per la regolamentazione della finanza globale sia stata ancora organizzata. O che, men che meno, si torni alla sana divisione obbligatoria tra banca di deposito e banca d'investimento. E purtroppo anche la proposta di legge per la ristrutturazione del mercato creditizio e finanziario americano, fatta dall'ultimo vero banchiere degno di questo nome, Paul Volcker (ahimè ultraottantenne), è stata stravolta e svilita dalle modifiche delle lobby che tutelano le banche d'affari a Washington. Nel frattempo un'ulteriore escalation degli investimenti speculativi si è compiuta ad opera degli hedge fund, dei trader e delle Investment Bank. Adesso è tardi. Stiamo per andare a sbattere. Il motivo è che quella specie di coperta di Linus per la schizofrenica finanza mondiale, che è la crescita continua della Cina, sta per diventare corta. La crescita cinese sta per fermarsi. E lo farà molto più rapidamente di quanto non pensiamo. E' probabile la Cina cresca meno del 6% già in uscita di 2012. Come mai? In primo luogo perché i cinesi più che spendere risparmiano, dato che vivono in uno stato privo di welfare dove assicurarsi, pagarsi le spese mediche, farsi una pensione costa molto. In secondo luogo perché le banche cinesi sono piene di cattivi prestiti che hanno elargito a piene mani alle loro imprese pubbliche. E qui i nodi stanno venendo al pettine, per cui quelle banche dovranno chiudere i rubinetti e sanare i loro bilanci. Questo rallenterà la crescita interna. E poi, perché al governo cinese incomincerà a convenire il crescere meno. Deve contenere le pressioni inflazionistiche e le bolle immobiliari. Inoltre, nei prossimi anni (anche se non lo dicono pubblicamente) ai cinesi più che vendere sempre più merci al resto del mondo interesserà acquistare i nostri asset (imprese, terreni, case) di paesi indebitati, a prezzo di saldo. Di conseguenza dirotteranno i loro sforzi e i loro investimenti. E' una questione di priorità. E per fare questo è meglio una crescita moderata che una forte. Quando questo robusto rallentamento della crescita cinese si verificherà, e cioè nei prossimi nove mesi, la finanza mondiale entrerà in crisi. Nella camminata sulla fune che ben rappresenta il fragile equilibrio della finanza globale, la crescita cinese ha fin qui svolto il ruolo del bilanciere. Sparito il bilanciere, il funambolo non potrà che cadere rovinosamente dalla fune. Senza rete di sicurezza. L'ignavia dei politici, la loro incompetenza e mancanza di leadership, l'ingordigia della finanza, non hanno ritenuto che fosse necessaria. Il fattore scatenante della crisi saranno le troppe scommesse al rialzo in derivati fatte sulla crescita cinese, come quelle sulle materie prime, che non andranno a buon fine. A questo fatto negativo, si sommeranno i problemi dei debiti pubblici a rischio in Europa e i nuovi buchi finanziari dei gangster-trader americani e delle loro banche d'investimento. A quel punto falliranno alcune delle grandi banche. La ragione è che gli stati non avranno più moneta da battere per salvarle come nel 2008-2009, perché saranno già troppo indebitati (proprio a causa dei salvataggi compiuti nel 2008-2009). Soltanto tre mesi fa, la banca centrale europea ha realizzato una grande operazione di espansione della base monetaria regalando miliardi di euro alle esangui casse delle banche europee. E queste ultime, come in un gioco delle tre carte, hanno interamente utilizzato questa somma per fare due cose: curare le loro magagne e acquistare i titoli dei loro altrettanto esangui governi. Adesso le borse scendono e gli spread tornano a salire perché gli analisti finanziari improvvisamente si rendono conto (ma va?) che le banche hanno troppi titoli di stato rischiosi in pancia, e che il credit crunch da loro operato nei confronti delle imprese, alle quali non una sola lira di quei miliardi di euro è stata concessa in credito, sta trasformando la crisi europea in depressione strutturale. Per ora, in una stagnazione. Nei prossimi mesi, e se qualcosa non cambia, in una stagflazione. Cioè il peggio che ci possa capitare: una decrescita del PIL associata a inflazione. In realtà, se consideriamo la diminuzione del PIL associata all'aumento dei prezzi al consumo e delle tariffe di carburanti e dell'energia, l'Italia è già in stagflazione da gennaio 2012. In questo gioco delle tre carte che vede stati e banche alleati da una parte del banco, quelli con la carta cattiva siamo noi cittadini, insieme con le imprese e i lavoratori, dall'altra parte del banco. In parole povere, la società e l'economia reali. Solo che nel 2008 il garante del gioco, cioè lo stato, aveva i soldi per coprire le magagne dei giocatori d'azzardo (le banche e gli speculatori). Adesso no: i soldi pubblici sono finiti. Chi troppo vuole nulla stringe. E allora nel 2012 fallirà il "cattivo" denaro. O meglio, falliranno i protagonisti della bisca della finanza globale: le banche e gli speculatori. Sarà uno tsunami che spazzerà via questa enorme quantità di pecunia puzzolente. E che ci lascerà più poveri ma più sani. Perché, dopo una simile sberla, ritorneremo a distinguere tra pecunia che puzza di marcio e pecunia che profuma di bucato. E il denaro sarà di nuovo e finalmente (speriamo), prestato a persone e imprese per bene, per fare cose utili e produttive e per generare altro denaro, ma sano. La fine dell'impero della finanza su finanza sarà un bene per l'economia. Come scrisse Virgilio: "Dalle rovine di tutto un passato fatto d'inganni, di furberie, di paure di turbe ignoranti, di interessi di caste, di oracoli, di sibille, di superstizioni religiose, per l'opera di uomini di alto intelletto e di animo generoso nasce rinnovato un grande e bell'ordine di cose, che consacra la libertà, l'eguaglianza e il vero".