Derive urbane fin de siècle
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Derive urbane fin de siècle
§ PARAGRAFO RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI Paragrafo Rivista di Letteratura & Immaginari pubblicazione semestrale Redazione FABIO CLETO ([email protected]), DANIELE GIGLIOLI ([email protected]), MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE ([email protected]), FRANCESCO LO MONACO ([email protected]), STEFANO ROSSO ([email protected]), AMELIA VALTOLINA ([email protected]) Ufficio 211 Università degli Studi di Bergamo P.za Rosate 2, 24129 Bergamo tel: +39-035-2052744 / 2052706 email: [email protected] web: www.unibg.it/paragrafo La responsabilità delle opinioni e dei giudizi espresso negli articoli è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione Questo numero è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università di Bergamo © Università degli Studi di Bergamo ISBN 88-87445-88-5 Edizioni Sestante / Bergamo University Press Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo tel. 035-4124204 - fax 035-4124206 email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo Paragrafo I (2006) Sommario PRESENTAZIONE 5 FORME §1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo 9 §2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista dell’aldilà 31 §3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso della possibilità 53 GENERI §4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia italiana (1903-2005) 75 §5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione in Mulholland Drive di David Lynch 99 §6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton - Una proposta d’analisi 123 TEMI §7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele nella letteratura italiana del Novecento 145 §8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle 167 §9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento 179 I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO 199 § 8 Michela Gardini Derive urbane fin de siècle L’opposizione romantica tra natura e città tende a svanire nel corso della seconda metà dell’Ottocento privilegiando una riflessione sempre più incentrata sulla realtà urbana.1 Tale prospettiva, inaugurata da Baudelaire, non manca a sua volta di farsi foriera di un’antitesi di fondo, contrapponendo da una parte la città moderna, tentacolare e massimamente seduttiva e, dall’altra, la città d’antan, nella direzione, quest’ultima, non solo di un passato archeologico, ma anche mitologico e archetipico. Parigi è naturalmente il luogo in cui questi contrasti trovano, soprattutto sul finire del secolo, la loro più intensa manifestazione.2 Specularmente al desiderio di rifugiarsi nelle città del passato, quali le città orientali e la stessa Roma imperiale, anche il filone utopico sullo sfondo di Parigi è da leggersi come inadeguatezza al presente e fuga in un mondo altro, questa volta proiettato nel futuro. È quanto emerge, secondo Marie-Claire Bancquart,3 da Paris (1896) di Zola, dove la città assume 1 La riflessione più illuminante ed esauriente a tal riguardo risale certamente a Walter Benjamin, che ha indagato il rapporto tra la città moderna, la folla e gli scrittori dell’Ottocento. Da segnalare anche il testo di Karlheinz Stierle, La Capitale des signes. Paris et son discours (Paris: Éditions de la Maison des Sciences de l’homme, 2001), che, sulla scia di Benjamin, ha rivisitato il mito di Parigi. 2 Numerosissimi sono gli studi miranti a ripercorrere le tracce del mito di Parigi. Ricordiamo, oltre alle opere di Benjamin, per quanto concerne l’Ottocento, Pierre Citron, La poésie de Paris dans la littérature française de Rousseau à Baudelaire, Paris: Éditions de Minuit, 1961; Nathan Kranowski, Paris dans les romans d’Émile Zola, PUF, 1968; MarieClaire Bancquart, Paris fin-de-siècle (1979), Paris: La Différence, 2002; per il Novecento, sempre di Bancquart, Paris des Surréalistes (1973), Paris: La Différence, 2004; infine gli studi trasversali di Giovanni Macchia, Il mito di Parigi, Torino: Einaudi, 1965 e Le rovine di Parigi, Milano: Mondadori, 1985. 3 Cfr. Marie-Claire Bancquart, Paris fin-de-siècle, cit. PARAGRAFO I (2006), pp. 167-78 168 / MICHELA GARDINI un valore emblematico. Ma l’afflato utopico-rivoluzionario della capitale trova forse la sua più adeguata formulazione nel Tableau de Paris (1882) di Jules Vallès, che, già nel titolo allusivo all’omonimo testo di Louis-Sébastien Mercier, si inserisce consapevolmente nel solco delle utopie del XVIII secolo. Vallès invita a squarciare il velo polveroso che attanaglia Parigi nella morsa del passato, simboleggiato dal Quartier Latin, dalle università e dai licei, tutti luoghi che come prigioni impediscono all’energia cittadina di manifestarsi. Laddove si ergeva il Palais des Tuileries, demolito proprio nel 1882, Vallès invoca la futuristica costruzione di un immenso palazzo di cristallo contenente venti industrie in venti case di vetro, immagine che ricorda peraltro il celebre falansterio concepito da Charles Fournier. “L’utopista – scrive Raymond Trousson – sogna una trasparenza dove ciascuno è uno specchio: tutti si riflettono e si rinviano mille volte la propria immagine felice, unanime ed integra. L’anima dell’utopiano è una lastra liscia che fa scintillare lo sguardo collettivo”.4 L’eredità di tale sguardo utopico verrà raccolta all’inizio del XX secolo dai poeti unanimisti che crearono realmente una comunità, chiamata l’Abbaye, sul modello fournieriano, vera e propria ville unanime, all’insegna della trasparenza e dell’apertura positiviste. La città, utopicamente trasformata in un falansterio di cristallo con Vallès, diventa realmente un’immensa vetrina in occasione delle Expositions. Parigi ormai, scrive Philippe Hamon, è “una città organizzata panotticamente dall’amministrazione che la suddivide geometricamente in viali illuminati, dove la società si mette in mostra ed offre a se stessa lo spettacolo quotidiano dei suoi riti, delle sue mode, delle sue vetrine, della sua etichetta mondana”.5 Ma il panoptismo, come afferma Foucault, ha inciso sottilmente sul tessuto sociale, col risultato che “la nostra società non è [più] quella dello spettacolo, ma della sorveglianza”,6 ciò che spiegherebbe anche il rapido diffondersi del romanzo poliziesco, riflesso di una società concepita nella sua interezza come un’immensa trama poliziesca: un occhio indagatore scruta la città, facendosi breccia tra la nebbia e la coltre notturna.7 4 Raymond Trousson, Voyages aux pays de nulle part, Bruxelles: Éditions de l’Université, 1999, p. 18. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia. 5 Philippe Hamon, Expositions. Littérature et architecture au XIXe siècle, Paris: José Corti, 1989, p. 14. 6 Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975), trad. it. di Alcesti Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino: Einaudi, 1976, p. 236. 7 Il romanzo poliziesco, invenzione della letteratura moderna, è un genere strettamente urbano. Si vedano Jacques Dubois, Le roman policier ou la modernité, Paris: Nathan, DERIVE URBANE FIN DE SIÈCLE / 169 Tuttavia il filone utopico rappresenta solo uno dei molteplici semblants di Parigi nella seconda metà dell’Ottocento. In testi quali L’Œuvre (1886) di Zola, Double (1889) di Poictevin, Le Soleil des morts (1898) di Mauclair, per citare solo alcuni esempi, Parigi appare come una città dai contorni sempre più indefiniti, una città sospesa tra sogno e realtà, avvolta nella nebbia e nell’ombra, seppellita sotto la neve, fuggente e mutevole come l’acqua della Senna. Questa indecidibilità di Parigi trasforma la città in un mirabile spazio ambiguo, non più femminilizzato e da conquistare come in Balzac, ma nemmeno virile, piuttosto un androgino decadente, all’insegna della sterilità e della morte. In questa prospettiva assume un particolare significato quello spazio entre-deux per eccellenza che è la periferia, un “paesaggio che cerca di essere la campagna dietro a un muro che dà riparo a tre milioni di esistenze e che si impregna di esse, freme dei loro respiri”.8 Nella seconda metà dell’Ottocento la periferia rappresenta la grande novità dell’immaginario parigino, come conseguenza del vasto sviluppo urbano risalente all’intervento di Haussmann. Figura dunque nella letteratura da una parte come testimonianza dei mutamenti storici, politici e sociali di un’epoca, ma dall’altra facendosi carico della nuova sensibilità estetica, che induce Mauclair a definirla barresianamente “mélancolique beauté”.9 Le passeggiate del protagonista del suo romanzo, André de Neuze, si svolgono ormai lontano dal centro, a Neuilly, “misteriosa e taciturna”. La “natura insudiciata” di quest’angolo di periferia esercita sul personaggio un fascino ben più forte dei quartieri centrali: “L’isola della Grande-Jatte e i suoi tremoli grigi, Asnières e le sue fabbriche, i pendii di Courbevoie e le loro ville rosa e verdi, la distesa curva della Senna con i suoi promontori di pioppi, la pace claustrale del par1992; Jean-Noël Blanc, Polarville. Images de la ville dans le roman policier, Presses universitaires de Lyon, 1991. In particolare, Jacques Dubois e André Rouillé (in L’Empire de la photographie, Bruxelles: Fernand Nathan-Labor, 1983) si soffermano sulle analogie tra romanzo poliziesco e tecnica fotografica: sia l’uno che l’altra, infatti, si caratterizzano per la diffusione di massa e la riproduzione senza fine. Inoltre, Dubois sottolinea il contributo offerto dalla fotografia alla nascente criminologia. Si veda, a tal proposito, Georges DidiHuberman, L’Invention de l’hystérie: Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière, Paris: Macula, 1982. 8 Camille Mauclair, Le Soleil des morts, in AA.VV., Romans fin-de-siècle, 1890-1900, Paris: Robert Laffont, 1999, p. 924. 9 Il fascino malinconico della periferia è stato esaurientemente analizzato da Pascaline Mourier-Casile in “Promenades ex-centriques (Esthétique fin de siècle de la banlieue)”, in Jeannine Guichardet (a cura di), Errances et parcours parisiens de Rutebeuf à Crevel, Paris: Université de la Sorbonne-Nouvelle, 1986, pp. 147-56. 170 / MICHELA GARDINI co di Neuilly erano lo sfondo appropriato al suo desiderio di tranquillità così come al suo mutevole impressionismo”.10 La pittura non mancherà di mostrarsi sensibile al medesimo rinnovamento estetico, come testimonia la proliferazione di tele ambientate nella periferia parigina (vd. ad esempio Quai de la Seine à Clichy di Signac, Île de la Grande Jatte e Passerelle d’Argenteuil di Sisley, Fabrique près de Pontoise di Pissarro, Le dimanche d’été à la Grande Jatte di Seurat). L’affresco della periferia si compie, in ultima analisi, nell’evocazione del paesaggio industriale. Ma per lo più veicola un’immagine di decadenza e di sfacelo: i macchinari, anziché testimoniare di un radioso progresso sono arrugginiti, il terreno tutt’intorno è incolto e deserto (Mauclair e Poictevin), infeconde vestigia della città industriale trionfante e prometeica enfatizzata da Verhaeren.11 Quello che qui chiamiamo entre-deux equivale alla nozione di ‘nonluogo’ teorizzata da Marc Augé12 per definire la ‘surmodernità’. La periferia decadente, con i suoi terrains vagues, le sue fabbriche, strade e ferrovie si configura come prodromo privilegiato dei nonluoghi tipicamente novecenteschi, sulla base della comune assenza di ‘identità’, ‘relazionalità’ e ‘storicità’. La periferia è priva di memoria, diversa quindi anche dalla città baudelairiana che, come ha illustrato Starobinski, integra il nuovo e l’antico. In questo consiste inoltre, sempre secondo Augé, la differenza tra modernità e surmodernità, proprio perché la prima si fonda sulla coesistenza di passato e presente, allorché la seconda annulla la dimensione storica. La crisi del centro, a sua volta, produce come conseguenza la frammentazione della visione urbana. Allo sguardo dominatore di Balzac che mette in bocca a Eugène de Rastignac la celebre sfida à nous deux maintenant!, lanciata a Parigi dominata con lo sguardo dall’alto del Père-Lachaise, succede lo sguardo interrotto di Huysmans che, nel breve testo La Bièvre (1890), si rammarica dell’impossibilità di spingere lo sguardo sino al Panthéon e al Val-de-Grâce partendo dal quartiere della Bièvre, a causa delle nuove costruzioni che si ergono in Rue de Tolbiac. La veduta d’insie10 Camille Mauclair, op. cit., p. 931. Émile Verhaeren, con la raccolta di poesie Les Villes tentaculaires (1895) si pone in controtendenza rispetto all’estetica decadente della città malinconica, enfatizzando invece l’aspetto trionfante e virile della città industriale. L’autore belga risulta in tal modo piuttosto l’anticipatore del Futurismo italiano e russo. 12 Cfr. Marc Augé, Non-lieux (1992), trad. it. di Dominique Rolland, Nonluoghi, Milano: Elèuthera, 1993, e Id., L’impossible voyage. Le tourisme et ses images (1997), trad. it. di Alfredo Salsano, Disneyland e altri nonluoghi, Torino: Bollati Boringhieri, 1999. 11 DERIVE URBANE FIN DE SIÈCLE / 171 me, unitaria, d’ispirazione rinascimentale, svanisce progressivamente sfociando in una visione frammentaria, come apparirà anche figurativamente, agli albori del Novecento, nel quadro di Delaunay La ville de Paris (191012). Parlare della città come di un corpo organico non è più possibile, come testimonia la rappresentazione della città sempre più per sineddoche, come nel caso di Roma nei Contes de la décadence romaine (1898) di Richepin, dove si assiste al truculento smembramento della città che non esiste più in quanto tale, bensì ne esistono gli emblemi, quali il quartiere della Suburra, il Circo e la Cloaca. La mutilazione dei corpi dati in pasto alle bestie feroci nell’arena costituisce quindi piuttosto la mise en abîme dello smembramento dionisiaco della città stessa, alla luce dell’estetica decadente della disjonction, secondo la definizione di Jankelevitch.13 Nella rappresentazione surrealista di Parigi, il mercato delle pulci di periferia diventa con André Breton una sineddoche esemplare, a testimoniare la concezione anti-funzionale della città, dove tutti quegli oggetti “fuori moda, frammentari, inutilizzabili, quasi incomprensibili, perversi”14 rispondono, secondo Francesco Orlando, ad un imperativo polemicamente antiborghese; la città abdica alla propria funzione pragmatica, strutturandosi contrastivamente come scena dell’inconscio e del ritorno del rimosso.15 Il passaggio immediatamente successivo alla defunzionalizzazione dei luoghi è la malattia, che diventa un elemento privilegiato nella rappresentazione della città decadente. Il testo già menzionato di Huysmans, La Bièvre, mette in scena un frammento di Parigi malato, infestato da microbi ed escrescenze di ogni sorta. La Bièvre o, meglio, quel che resta del corso d’acqua di un tempo, è “senza fiato”, “l’acqua in lutto” è “malata, febbricitante e in lacrime”, agonizzante lancia “i suoi ultimi rantoli”, mentre le case che vi si affacciano sono antropomorficamente “ventri 13 Cfr. Vladimir Jankélévitch, “La Décadence”, Revue de Métaphysique et de Morale, 55:4, ottobre-dicembre 1950, pp. 337-65. 14 André Breton, Nadja (1928), trad. it. di Giordano Falzoni, Nadja, Torino: Einaudi, 1972, p. 46. 15 Cfr. Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino: Einaudi, 1993. Cfr. anche Lino Gabellone, che individua nel marché aux puces un esempio di eterotopia, sulla base della definizione che in Les mots et les choses ne dà Michel Foucault in contrapposizione all’utopia: “il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili, nella dimensione senza legge né geometria dell’eteroclito”. Lino Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, Torino: Einaudi, 1977, p. 68. 172 / MICHELA GARDINI gonfi”, soverchiate da “tetti impazziti”.16 Nella stessa ottica di compiacimento difronte alla materia in decomposizione, Jean Lorrain così ritrae la città della Valletta nel racconto La dame turque (1898): “Si pensa anche a un vasto lazzaretto, un lazzaretto per i lebbrosi di tutto l’universo, davanti alle silhouettes in rovina, tanto sembrano selvagge e dorate, di questa città senz’alberi, senz’erba, senza verde”.17 Evidentemente, il campo lessicale della malattia disegna tutto un universo antiproduttivo che si pone in forte contrasto con la logica borghese, sfociando in una vera e propria poetica dell’antinatura e della mostruosità. Questo aspetto, enfatizzato anche dalla frequentazione dei luoghi di relegazione, quali ospedali, asili per alienati mentali, o addirittura conventi, cimiteri, ossari, caratterizza largamente l’immaginario urbano fin de siècle. Non dimentichiamo neppure Barrès, per il quale la città di Aigues-Mortes (Le jardin de Bérénice, 1891) è indissociabile dalla febbre che sale dai suoi stagni e dove le case sono “pallide” e i giardini “gracili”, esattamente come a Venezia, celebrata da Barrès stesso (Amori et dolori sacrum, 1900) come “una bellezza che va verso la morte”. Dalla città malata alla città morta il passo è breve. Sempre Parigi, nei testi già citati, è sottoposta ad un percorso di devitalizzazione, per lo più attraverso la ricorrente immagine finale di un cimitero di periferia che trasforma la capitale in un vasto spazio di morte (L’Œuvre, L’Assommoir, Le Soleil des morts), passando attraverso altri segni evidenti di sterilità, quali la neve, le vie deserte e il soverchiante silenzio. Perfino un quartiere come Montmartre, conosciuto e frequentato almeno dagli artisti, racchiude un angolo di città morta, ed è qui che il protagonista del romanzo di Mauclair si sente trasportato a Bruges, paradigma incontestato della città morta fin de siècle: Amava questa città strana, morta, dove non va nessuno, che persino molti artisti nemmeno sospettano e che, al di sopra della vistosa accozzaglia di colori delle birrerie e dei music-hall che cingono la sua base, delimitando la Parigi frequentata, si staglia potente e tenebrosa, in pieno cielo, eroicamente povera […]. André de Neuze, da tempo, aveva assaporato questo fascino disfatto di Montmartre sconosciuto. Quella sera, vi penetrò ancora più avidamente. L’infinito silenzio di quelle viuzze entrò nel suo animo. Nessuno. Ad una vecchia finestra, fra due ante sconnesse, pal16 Joris-Karl Huysmans, La Bièvre (1890), in Id., Œuvres complètes, Paris: Plon, 1925, pp. 11-22. 17 Jean Lorrain, La dame turque, Paris: Hatier, 1996, p. 41. DERIVE URBANE FIN DE SIÈCLE / 173 pitava un chiarore indeciso. La via del Mont-Cenis, bianca di luna, saliva, si apriva sul cielo, sbarrata da alti confini neri. La via Saint-Vincent era come scolpita nel silenzio […]. Il giovane giunse alla piccola place du Tertre […]. Era una di quelle piazze come se ne vedono nelle città del Nord, o in certi borghi delle Fiandre, e André de Neuze vi ritrovava un angolo di Bruges.18 Il testo fondatore del mito di Bruges è il romanzo di Rodenbach Brugesla-morte, pubblicato nel 1892. La città vi appare massimamente defunzionalizzata, una città-museo immortalata in una dimensione atemporale più che ancorata al passato, teatro perfetto per la rappresentazione della triade dell’assenza, del desiderio e del fantasma. Se, da una parte, il protagonista Hugues Viane crede di aver ritrovato la sposa morta in Jane, giovane ballerina di teatro scorta nel dedalo delle vie di Bruges, dall’altra, in realtà, è la città nella sua interezza a costituirsi come il doppio della donna amata e perduta, in una progressiva ofelizzazione dello spazio (“L’aveva riveduta meglio, meglio ascoltata, aveva ritrovato nei canali, a filo d’acqua, il suo volto di Ofelia fuggitiva”). Bruges finisce per divenire una città-tomba, “anche lei sepolta nei canali orlati di pietra”.19 Lungi dallo strutturarsi, quindi, come uno spazio sociale, Bruges si offre come interlocutore esclusivo del protagonista, ormai racchiuso in una dimensione solipsistica, consegnato integralmente al suo statuto di vedovo. Bruges, estremamente improduttiva, è una città d’arte, ma i monumenti artistici oggetto dell’interesse di Hugues Viane potenziano ulteriormente il carattere mortifero della città. Infatti, si tratta per lo più di chiese colme di tombe e di quadri raffiguranti l’agonia di Cristo. Da ciò deriva la valenza simbolica della città, luogo liminale tra il mondo visibile e il mondo invisibile della morte e dell’inconscio. La città si affranca, così, da una dimensione precipuamente umana per consegnarsi completamente alla pietra e all’acqua. Se la pietra, da una parte, veicola già di per sé un’idea di sterilità, dall’altra anche l’acqua stagnante dei canali di Bruges possiede per sempre l’immagine della sposa defunta (“Ofelia fuggitiva”), riattualizzando il mito di Narciso. Nella stereotipizzazione di Bruges convergono manifestamente le ricerche mallarmeane sulla poesia. È in particolare intorno alla definizione di 18 Camille Mauclair, op. cit., pp. 961-962. Georges Rodenbach, Bruges-la-morte, trad. it. di Piero Bianconi, Bruges la morta, Milano: Rizzoli, 1955, p. 16. 19 174 / MICHELA GARDINI ‘nozione pura’ che Mallarmé prima, Rodenbach poi fondano un linguaggio basato sull’assenza, che trova le formulazioni più salienti nei campi lessicali del bianco e del vuoto, di cui la parola dentelle (merletto, pizzo) costituisce la sintesi più efficace. Nella propria casa Hugues Viane ha appeso delle “impenetrabili tende di pizzo, tatuaggi di gelo aderenti ai vetri”,20 mentre nel secondo romanzo di Rodenbach, sempre a Bruges dedicato, Le Carillonneur (1897), la pietra stessa è assimilata al merletto: “Poiché il Palazzo adesso era un merletto di pietra, bisognava che diventasse un museo di merletto”.21 Vent’anni più tardi Paul Klee dipingerà delle città-merletto (villes-dentelles secondo la definizione di Marcel Brion), fragili e instabili perché costruite sul vuoto, simili a “delle tele di ragno sospese nella luce, come trappole tese alla ragione dall’immaginazione”.22 E proprio dalla pittura proviene un contributo fondamentale alla definizione di Bruges come città dell’assenza. Pensiamo in particolare al ciclo di quadri che Khnopff ha dedicato alla città belga, dove il recupero pittorico di Bruges assume la connotazione di un vero e proprio ritorno alle origini, a quell’età mitica che è l’infanzia. Da qui il desiderio di immobilizzare la città in una dimensione atemporale, in cui lo scorrere del tempo venga neutralizzato a vantaggio di una rappresentazione quasi surreale. Doppio pittorico dei romanzi di Rodenbach, i quadri di Khnopff mettono in scena, in maniera preponderante, l’acqua, la pietra ed altre superfici riflettenti, quali il vetro, cui è affidata un’impressione di vuoto e di assenza, per l’appunto. D’altra parte, i motivi decorativi delle vetrate disegnate da Khnopff non assomigliano forse a dei fini merletti? Inoltre, l’abolizione pressoché totale della presenza umana finisce per annunciare la città metafisica di De Chirico, in un percorso di crescente devitalizzazione. Ed è in quest’ottica che prende corpo la peculiarità di Bruges rispetto all’altro modello di città decadente rappresentato da Venezia. Scrive Jean De Palacio: “La morte di Bruges non è la stessa di quella di Venezia, alla quale la si paragona spesso. Non si fonda sul disfacimento, ma sulla trasparenza. Città fantasma, diafana e traforata, luogo di specchi e riflessi, Bruges perde via via consistenza, sempre in procinto di scomparire […]. Al cromatismo veneziano si oppone così la decolorazione di Bruges”.23 20 Ivi, p. 79. Georges Rodenbach, Le Carillonneur, Bruxelles: Le Cri, 2000, p. 89. 22 Marcel Brion, L’Art fantastique, Paris: Albin Michel, 1989, p. 78. 23 Jean de Palacio, “Bruges-la-morte: ville sur le papier?”, in Id., Figures et formes de la décadence, Paris: Séguier, 1994, p. 241. 21 DERIVE URBANE FIN DE SIÈCLE / 175 La decolorazione di Bruges si attua in due fasi. Nel primo romanzo, infatti, Rodenbach dà forma ad una città-Pierrot, una città in bianco e nero che diventa grigia proprio dalla fusione dei due contrari: “un grigio che pareva fatto con il bianco delle cuffie delle monache e il nero delle tonache dei preti”.24 Jean Lorrain se ne ricorderà allorché scriverà Monsieur de Bougrelon (1897), dove Amsterdam rappresenta manifestamente una variante di Bruges: Amsterdam, è sempre acqua e case dipinte in bianco e nero, tutta vetro, con frontoni scolpiti e tende di pizzo; nero e bianco che si sdoppiano nell’acqua. Dunque è sempre acqua, acqua morta, acqua marezzata e acqua grigia, viali d’acqua interminabili, canali protetti da dimore simili a domino enormi.25 Il bianco ed il nero si annullano dunque nel grigio uniformante, luogo di non contraddizione, spazio di morte, suprema reductio ad unum. Ma è col secondo romanzo, Le Carillonneur, che Rodenbach imprime alla città un’irreversibile decolorazione: il bianco impregna di sé le vie, i muri, le case, i giardini, i cigni, la luce, la musica. Attraverso questo processo di “albogenesi”, secondo l’interpretazione di De Palacio, Bruges diventa un enorme foglio bianco, une ville sur le papier: il bianco è “invadente, tentacolare, come i margini della pagina che vincono sul nero e dicono l’impossibilità quasi patologica di mettere nero su bianco […]. Bruges diventerebbe così come la metafora dell’opera scritta, bella ma fragile, città di merletto o di carta”.26 L’immaginario orientale spinge alle estreme conseguenze questa rappresentazione che finisce per confluire in una riflessione metaletteraria. Pierre Loti, nei suoi viaggi in Oriente, è sedotto dal sentiment de la décoloration27 che emana dalla città, un sentimento che gli permette di vivere i suoi viaggi secondo l’illusione di un percorso a ritroso, una sorta di regressione verso un paesaggio tanto più puro quanto più sterile. In quest’ottica, descrivendo la moschea imperiale di Ispahan, Loti ne enfatizza l’aspetto glaciale: “sembra di ghiaccio; non solo una pace, come sempre, emana dalle sue vicinanze, ma si ha anche l’illusione che sprigioni del freddo”.28 24 Rodenbach, Bruges la morta, cit., p. 40. Jean Lorrain, Monsieur de Bougrelon, in AA.VV., Romans fin-de-siècle, cit., p. 107. 26 Jean de Palacio, op. cit., p. 221. 27 Pierre Loti, Fantôme d’Orient (1892), Paris: Calmann-Lévy, 1923, p. 142. 28 Pierre Loti, Vers Ispahan (1904), Exeter: University of Exeter, 1989, p. 123. 25 176 / MICHELA GARDINI Se già nella prima metà dell’Ottocento l’Oriente rappresentava l’alterità, la possibilità di un ailleurs ricettacolo dei sogni e dei desideri dello scrittore occidentale, sul finire del secolo l’Oriente assurge gradualmente a metafora della condizione dell’artista decadente e della sua scrittura, all’insegna della cifra comune della sterilità.29 Ecco perché l’immaginario urbano orientale della fin de siècle trova nella città morta e nella città bianca le due figure privilegiate. Ad Alessandria, Istanbul, Ispahan, ecc. sembra che il tempo si sia fermato, simili più a delle necropoli che a delle città viventi. Così Alessandria nel romanzo di Pierre Louÿs Aphrodite (1896): La spiaggia era deserta, morta la città. […] Nulla esisteva, oltre il silenzio. […] La prospettiva della via disegnavasi in linee architettoniche pure, non turbate da un carro, da un cavallo, da uno schiavo. Alessandria era una vasta solitudine, un simulacro di città vetusta, abbandonata da secoli.30 Istanbul, in Aziyadé (1879) di Pierre Loti, è “desolata e morta sotto quest’ultimo vento d’inverno”,31 mentre a Ispahan “tutto è disabitato, caduco e funebre”.32 All’interno di questa poetica della città morta si inserisce l’immagine della città bianca, a sua volta in rapporto dialettico con il biancore dei personaggi femminili, anch’essi simulacri di morte. Aziyadé, “bianca come una fanciulla morta”, “fredda come una statua di marmo” abita in una casa posta in una “grande piazza deserta di Mehmed-Fatih, circondata da una serie di piccole cupole morte che hanno il biancore di un sudario”.33 Chrysis, nel romanzo citato di Pierre Louÿs, assomiglia ad una statua, evocando l’elemento della mineralizzazione anch’esso associato tanto al paesaggio quanto ai personaggi femminili; un tema, questo, caro ai decadenti perché funzionale alla vocazione autoreferenziale dell’arte. La città e la donna si vogliono sottratte a qualsiasi finalità produttiva. La scena che viene rappresentata davanti all’“ampia parete bianca” di Alessandria, nel romanzo di Louÿs, si presta particolarmente ad una ri29 L’aspetto della sterilità come mito, con particolare riferimento all’opera di Pierre Louÿs, è sviluppato da Mariella Di Maio in Pierre Louÿs e i miti decadenti, Roma: Bulzoni, 1979. 30 Pierre Louÿs, Aphrodite, trad. it., Afrodite, Milano: S.A.C.S.E., 1935, p. 67. 31 Pierre Loti, Aziyadé, Paris: Calmann-Lévy, 1923, p. 247. 32 Pierre Loti, Vers Ispahan, cit., p. 96. 33 Pierre Loti, Aziyadé, cit., p. 146. DERIVE URBANE FIN DE SIÈCLE / 177 flessione metaletteraria: “Erano giunte davanti al Ceramico. Da un capo all’altro, l’ampia parete bianca era arabescata di scritti. Quando un amante desiderava presentarsi a una cortigiana, bastava ch’egli scrivesse i due nomi col prezzo proposto”.34 Da una parte il muro, sineddoche della città, e la cortigiana vengono associati dal comun denominatore del biancore, dall’altra lo scrittore e l’amante partecipano entrambi dell’atto della scrittura. La cortigiana, quindi, costituisce per l’amante ciò che la pagina bianca significa per lo scrittore, e cioè una sfida. Quanto alla pagina bianca, lo scrittore cerca di possederla attraverso la scrittura, tuttavia resta un ostacolo da superare. Il bianco rivela, in ultima analisi, tutta la contradditorietà dell’artista decadente: da una parte esso si erge a simbolo della sua stessa arte, areferenziale, dall’altra dice anche la condizione di smacco e d’impotenza rispetto alla logica della produttività borghese. Un ulteriore contributo originale alla definizione dell’immaginario orientale fin de siècle viene offerto dal racconto già citato di Jean Lorrain La dame turque, che determina una svolta all’interno del genere. In prima battuta l’Oriente vi subisce un rovesciamento di prospettiva tale da creare piuttosto un mito dell’Occidente: l’Oriente non seduce più l’Europa, avviene invece il contrario. Leggiamo: Ah! Parigi! Era il sogno di Shiamé Esmirli. Lei e lui, Bascia, avrebbero tanto voluto venirvi. Parigi! La città dove ci sono dei vestiti così belli e dove le donne sono libere! Shiamé e lui erano pronti a seguirci; lei acconsentiva a non rivedere mai più Beirut e, lui, mai più Alessandria, se solo avessimo voluto portarli con noi.35 La “decostruzione dell’orientalismo”36 si compie in rapida successione. Lo testimonia il fatto che è soltanto a bordo del battello che Jean nota la bellezza della città, in questo caso Tripoli: “Tripoli per i nostri addii si era fatta bella”, dopo la delusione provata il primo giorno. Ma ciò che sgretola il mito orientale è la scelta di parlare dell’Oriente da un nonluogo: il battello appunto. L’Oriente non è più consono a porre termine all’erranza dell’artista decadente, l’esilio è la sua unica condizione possibile. Scrive Sophie Basch: 34 Pierre Louÿs, op. cit., p. 31. Jean Lorrain, La dame turque, cit., p. 53-54. 36 Cfr. Sophie Basch, “La dame turque ou la Déconstruction de l’orientalisme”, in Jean Lorrain, La dame turque, cit.. 35 178 / MICHELA GARDINI Il narratore e la dama turca, questi due esseri “scollati dalla terra, che guardano dietro e davanti” hanno provato sino a che punto l’Oriente era inabitabile. Inabitabile dietro al viaggiatore che si allontana deluso di non aver incontrato in Oriente una terra più favorevole alla sua malinconia; inabitabile davanti a Shiamé Esmirli, incerta della sorte che l’aspetta al ritorno, votata forse ad una interminabile erranza. Inabitabile per l’Occidentale, e per gli Orientali nati dalla sua immaginazione.37 Con l’opale che Shiamé getta nel mare in chiusura del testo, è tutto l’orientalismo che Lorrain getta fra i flutti, dopo che Jean aveva rifiutato di portare l’anello che la donna, come segno della sua devozione, gli aveva offerto. Spetterà ad Albert Camus nella Peste (1947) testimoniare del definitivo sgretolamento del mito orientale, mettendo in scena una città, Oran, completamente priva delle seduzioni tradizionalmente attribuite, con l’eccezione di Lorrain, alle città orientali. Da subito il lettore viene messo sull’avviso che Oran è una città ordinaria, per lo più brutta. Dopo questo esordio sotto tono, la tensione cresce cristallizzandosi proprio sulla città poiché, con la diffusione del contagio, essa diviene una città-prigione, il cui fondamento mitologico è sempre pronto a ripresentarsi sotto forma di minaccia, come ci avverte l’autore stesso nel saggio L’été (1954): “Orano è un gran muro circolare e giallo, coperto da un cielo duro. Da principio si erra nel labirinto, si cerca il mare come il filo di Arianna. Ma si gira in tondo in vie selvagge e opprimenti, e, alla fine, il Minotauro divora gli oranesi”.38 Nel corso del Novecento l’immaginario orientale sopravviverà, profondamente rinnovato, in due filoni: da una parte la letteratura francofona magrebina, dall’altra la letteratura post-coloniale, con i romanzi di Marguerite Duras dedicati al ciclo dell’Indocina. Ma si fa strada, ormai, un nuovo mito: il Nuovo Mondo e la città di New York.39 37 Ivi, p. 16. Albert Camus, L’été, trad. it. di Sergio Morando in Il rovescio e il diritto. Nozze. L’estate, Milano: Bompiani, 1995, p. 108. 39 Patrice Terrone, nel suo articolo “La ville du Nouveau monde: ‘toujours plus loin’”, Iris, 17, 1999, pp. 75-90, sviluppa ampiamente l’immaginario del Nuovo Mondo, con riferimento non solo ai testi letterari (Malraux, Céline, Auster) ma anche alla serie di quadri di Piet Mondrian dedicati a New York. 38