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Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Rapporto introduttivo alla ricerca su
Il processo di europeizzazione della P.A
Pubblica Amministrazione e processo di europeizzazione: quali valori e quali prassi.
Responsabile: Prof.ssa Maria Rosaria Ferrarese
2005
L’internazionalizzazione della Pubblica Amministrazione
Di Luigi Cominelli
.
Dal diritto internazionale all’internazionalizzazione del diritto
C’era una volta il diritto internazionale, si potrebbe dire. Gli studenti del passato studiavano
il diritto internazionale come proiezione della sovranità dello stato, ossia come autolimitazione che gli stati si davano, sottoponendosi a norme stabilite in accordo con altri stati.
Tutta una serie di condizioni esterne accompagnavano questa teorizzazione: ad esempio, gli
accordi interstatali erano in numero limitato, coinvolgevano pochi stati, ed erano preceduti
da round allestiti per l’occasione tra gli stati contraenti. Oggi gli accordi internazionali sono
tantissimi, hanno un carattere spiccatamente multilaterale (si pensi alla WTO che registra
l’adesione di 51 stati) e coesistono con istituzioni internazionali saldamente insediate, che
gestiscono con continuità i rapporti tra i paesi interessati dall’accordo. Una delle
conseguenze di questo nuovo assetto è la quasi impossibilità di esercitare quella che
Hirshmann chiama la exit-option. E’ vero che nel Trattato istitutivo dell’Unione, ad esempio,
la possibilità del recesso è contemplata, ma è una possibilità più teorica che pratica, data la
convenienza a restare, innanzitutto per ragioni di carattere economico, ma altresì di
immagine.
Dunque gli stati sono legati l’uno all’altro in maniera fortemente interdipendente e vedono
diminuire il proprio volto sovrano a vantaggio di un volto “contraente” che si combina con
qualche difficoltà con il vecchio concetto di sovranità statale (
1
). Inutile aggiungere che, a
ridosso di tale fenomeno, non solo cresce il rilievo ed il potere delle burocrazie
internazionali, ma le stesse burocrazie nazionali vengono largamente interessate
dall’esistenza di questi accordi e dalle varie vicende, anche conflittuali, che li
accompagnano.
Paradossalmente, questo massiccio cambiamento dello scenario internazionale sembra
tracciare al contempo una sorta di apoteosi e di contestuale decadenza del diritto
internazionale. Da una parte lo scenario internazionalistico appare straordinariamente
animato e vivace, assai arricchito rispetto al passato di nuove presenze e di nuove dinamiche;
dall’altra, vi è, in questa eccessiva animazione, un profondo cambiamento, che attenta a quei
presupposti che erano tipici del diritto internazionale, innanzitutto quello della piena e totale
autonomia dello stato, sotto l’egida della sovranità.
Proprio la presenza di nuovi soggetti, di nuove dinamiche normative, di nuove condizioni di
contesto sottraggono al diritto internazionale molta parte dei tradizionali presupposti, lo
1
Rinvio al mio Le organizzazioni internazionali e gli stati “contraenti”, in “Rassegna italiana di Sociologia”,
n. 2/2003.
riempiono di nuovi caratteri, di contorni incerti, di profili misti, facendo apparire una sorta di
sua profonda crisi.
Di questa contraddittoria situazione sembra dar conto una espressione che sempre più
largamente viene usata e che dà nome a questa ricerca: “internazionalizzazione” e
specialmente “internazionalizzazione del diritto”. In apparenza, l’espressione sembra
descrivere una semplice prosecuzione del compito tradizionalmente svolto dal diritto
internazionale ed è invece l’indicazione di un sostanziale cambiamento di quel programma,
per almeno due ragioni. In primo luogo, il diritto internazionale faceva pensare ad un assetto
relativamente fermo e stabilizzato: un assetto normativo fatto di accordi, di norme
consuetudinarie e di principi giuridici generali, che reggeva i rapporti tra gli stati in generale
e tra specifici stati in particolare. L’internazionalizzazione è un processo, un movimento che
non ha un chiaro punto di arrivo, e che coincide con tutte le vicende che si sviluppano lungo
il suo percorso. Essa convive con il diritto internazionale tradizionalmente inteso, ma dà
luogo a nuove dinamiche e percorsi. In secondo luogo, ed è forse questo l’aspetto più
importante, questa espressione contiene una semantica rovesciata rispetto all’altra: mentre il
diritto internazionale lasciava pensare ad una situazione relativamente stabilizzata, che
implicava
chiusura,
l’internazionalizzazione
lascia
pensare
ad
una
condizione
tendenzialmente instabile, ad un processo aperto e disponibile a registrare nuovi percorsi e
vie inedite. L’internazionalizzazione dunque designa una situazione di apertura, di
disponibilità, di dialogo.
Ci si può chiedere che differenza vi sia tra internazionalizzazione e globalizzazione: è
impossibile stabilire una netta differenza di significato, poiché i due concetti hanno molto in
comune. Si può tuttavia cogliere una importante sfumatura semantica tra i due termini. Nel
primo caso si allude piuttosto ad un processo di esposizione di ciò che è interno ad influenze
e pressioni provenienti da altri stati e culture. La globalizzazione lascia pensare invece
piuttosto a qualcosa di potente che, dall’esterno, coinvolge ciò che è interno, modificandolo
più o meno sensibilmente. Un’altra significativa sfumatura semantica sta nel fatto che
l’internazionalizzazione ha una portata più limitata, indica un’apertura, ma un’apertura
relativa. La globalizzazione ha una portata ed un peso più significativi, senza confini, che
sembra addirittura prescindere dagli stati.
E’ evidente che la situazione di internazionalizzazione implica profondi cambiamenti e che i
cambiamenti hanno costi di vario genere. Infatti alcuni si limitano a negare il cambiamento,
per evitare tali costi, determinando quella situazione che l’economia caratterizza come path
dependency: se, continuando a camminare sul solco già tracciato, invece che cambiare
strada, si evitano i costi e si eludono i rischi che sono propri del cambiamento, al contempo,
si perdono le opportunità che dallo stesso cambiamento derivano. E’ questa in qualche modo
la situazione in cui versa oggi la stessa P.A., sospesa tra accettazione e rifiuto delle
implicazioni che comporta il processo di internazionalizzazione.
L’Europa tra internazionalizzazione e globalizzazione
Qui si inserisce il discorso sull’Europa, che sta a mezza strada tra globalizzazione ed
internazionalizzazione. Per un verso, l’Unione prende avvio attraverso una classica
organizzazione internazionale di tipo post-onusiano; per un altro verso, essa sembra aver
interpretato ante litteram alcuni tratti e tendenze del processo di globalizzazione,
specialmente nel suo superamento delle dinamiche tipiche delle organizzazioni
internazionali, e nel suo andare molto al di là di esse. La letteratura per lo più identifica
questo andare molto al di là delle classiche organizzazioni internazionali nel superamento
della pura interstatualità, attraverso la messa in comune di parti della sovranità. Ma forse c’è
anche dell’altro.
L’Europa è laboratorio di un modello specifico, poiché rappresenta anche un inedito punto di
incontro tra due importanti tradizioni istituzionali, quale quella europeo-continentale e quella
di common law. Questo aspetto non sempre viene sottolineato come merita: se è vero infatti
che le due tradizioni apparentemente resistono, in realtà una grande contaminazione ha avuto
luogo sul suolo europeo ed essa ha profonde ricadute anche in tema di pubblica
amministrazione. Si può vedere in Europa l’elaborazione di una nuova concezione della
Pubblica Amministrazione che deve sia alla tradizione anglosassone che a quella
continentale, anche se in misura disuguale. Questa concezione molto deve alla tradizione
anglosassone su un duplice fronte: ossia sia in tema di open government sia in tema di
cultura del mercato. In altri termini, da una parte all’idea che i processi amministrativi e di
governo debbano essere come case di vetro, trasparenti ed accessibili ad un tempo; dall’altra
all’idea che essi funzionano meglio se sono esposti anche a logiche, dinamiche e valutazioni
di tipo economico. Lo spirito riformatore che ha investito la Pubblica Amministrazione nel
nostro paese e in Europa risente significativamente di entrambe queste influenze. Sia le
riforme indirizzate alla trasparenza e all’accesso (riforme di natura partecipativa), sia la
riforma della dirigenza in direzione manageriale, che hanno profondamente cambiato il volto
della nostra P.A. derivano da uno sguardo rivolto alle tradizioni anglosassoni. E’ però una
innovazione europea l’idea della P.A ome dispensatrice di beni essenziali per l’esercizio
pieno della cittadinanza. L’inclusione di alcuni diritti come quello ad “una buona
amministrazione” (
2
), che ha allargato il catalogo dei diritti, acquista senso nell’ambito di
una configurazione tipicamente europea dello status di cittadinanza.
Dunque l’Europa oggi si presenta come un universo istituzionale che ha profondamente
rimescolato le sue culture ed ha adottato, per usare un ossimoro che è stato forgiato con
riferimento ad altre circostanze, un metodo improntato ad una sorta di “pragmatismo
cartesiano”. Ciò che è certo, è che, riscrivendo i tratti della Pubblica Amministrazione, si
riscrive anche un pezzetto non solo del diritto amministrativo, che assume tratti assai diversi
dal passato (
3
), ma anche dell’assetto costituzionale complessivo, ridefinendo in senso
attivo e partecipativo una cittadinanza che nel passato era assai più statica ed ingessata. Ciò
che ne deriva è un aumento della soglia di responsabilizzazione della P.A.,
paradigmaticamente rappresentata dal “diritto ad una buona amministrazione” sancito dalla
carta costituzionale europea. Nonostante tale carta sia oggi ancora soggetta ad incerto
destino, accade che, così come altre parti di quella scrittura costituzionale continuano a
vivere nella prassi istituzionale dei paesi dell’Unione, anche quel diritto tenda a radicarsi
sempre più nella coscienza pubblica, del nostro e di altri paesi europei, anche se viene ancora
largamente disatteso. Del resto, quel diritto già trova, in ambito comunitario una importante
proiezione nell’istituzione dell’Ombudsman, che permette a tutti, almeno con riferimento
alle istituzioni comunitarie, di avere lo stesso atteggiamento del mugnaio che si augurava:
“ci saranno dei giudici a Berlino”!
Esiste una nozione europea di pubblica amministrazione?
Ma esiste una nozione europea di pubblica amministrazione? Questo interrogativo ha
animato non poco il dibattito tra gli studiosi, senza poter ricevere risposte chiare e definitive.
In un panorama caratterizzato da grandi diversità ed asimmetrie normative, il dato più
evidente è l’osmosi tra i diritti amministrativi nazionali e il diritto amministrativo europeo.
2
In proposito, si veda R. Bifulco, nel commento all’art. 41.Diritto ad una buona amministrazione, in R.
Bifulco-M. Cartabia-A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carte dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, Mulino, Bologna 2001, p. 285. Inoltre, A. Zito, Il “diritto ad una buona
amministrazione” nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e nell’ordinamento interno, in
“Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, 2002.
3
Si veda S. Cassese, Tendenze e problemi del diritto amministrativo, in “Rivista trimestrale di diritto
pubblico”, Fasc. 4/2004 , e Id., Il diritto amministrativo globale, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,
Fasc. 2/2005. Inoltre, E. Chiti, Integrazione europea, Il Mulino, Bologna 2003.
Ma, com’è stato notato, “il ritardato decollo del diritto amministrativo europeo, inteso come
ambito della riflessione scientifica, spiega perché manchi un corpo di nozioni sviluppato ed
esteso a tutte le principali componenti dell’amministrazione (
4
).
Tuttavia non sono mancate nuove elaborazioni. Una nuova nozione è quella di “organismo di
diritto pubblico”, che era sconosciuta al diritto italiano, e che si è affacciata sia attraverso il
diritto comunitario scritto, sia attraverso la giurisprudenza dei giudici comunitari (
5
).
L’alterità di tale nozione comunitaria consiste nella sua valenza essenzialmente funzionale,
che serve ad individuare i soggetti tenuti all’osservanza del diritto comunitario. Tale
nozione, tuttavia, rispondendo sia al principio di supremazia del diritto comunitario, sia al
principio di integrazione, ha esercitato anche una diretta influenza sugli Stati membri
dell’Unione, contribuendo a delineare cambiamenti sensibili specialmente in alcune materie
come quella degli appalti, a seguito di recepimento e attuazione della direttiva comunitaria in
materia (
6
).
Ancor più, l’integrazione amministrativa tra i paesi europei ha ormai chiari caratteri giuridici
che permettono lo sviluppo di un approccio teorico alla materia (
7
).
Ma, al di là delle nozioni giuridiche, vecchie e nuove, è chiaro che una nuova concezione
della pubblica amministrazione va emergendo in ambito comunitario e che essa si proietta in
modi variabili anche all’interno degli stati. Ovviamente, non si tratta di una nozione chiara e
limpida, proprio perché essa non può più contare su chiari contorni giuridici. Si assiste in tal
senso al tramonto del tradizionale profilo sociologico della P.A., magistralmente ritratto
dall’analisi weberiana. In quel ritratto, il burocrate era impegnato in un dialogo soprattutto
con le norme. Oggi, tutti i presupposti che facevano da sfondo a quel ritratto sono
profondamente mutati, a partire dal contesto di legalità: com’è stato notato, il regime
giuridico attuale non è più imperniato essenzialmente sul contesto di legalità, sia formale che
sostanziale, che era tipico dell’Europa continentale: “tra gli atti manca la legge, intesa come
complesso di istituti positivi e, prima ancora, come categoria teorica, sicché l’uso della
locuzione <legislazione> non solo è priva di valore prescrittivo, ma è da soppesare con
cautela anche sul piano conoscitivo” (
4
8
). E non è tutto: “un’altra profonda differenza
G. Della Cananea, L’amministrazione europea, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo,
Giuffrè, Milano 2003, p. 1800.
5
M. P. Chiti, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, Cleub,
Bologna 2000.
6
Si veda ivi, p. 86 e ss.
7
In tal senso è importante il contributo di E. Chiti-C. Franchini, L’integrazione amministrativa europea, Il
Mulino, Bologna 2003.
8
Così G. Della Cananea, L’amministrazione europea, cit., p. 1874.
consiste nella idoneità delle norme non scritte a fungere da parametro di legittimità” (
9
).
Basti in proposito pensare al ruolo sempre più significativo che anche in questa materia ha
finito per giocare la Corte di giustizia, con una giurisprudenza che continuamente compone e
ricompone l’acquis communitaire.
Questa presenza significativa della giurisprudenza nel delineare il paesaggio europeo della
pubblica amministrazione ancora una volta prova quel carattere misto della configurazione,
che vede ricongiungersi le sue due tradizioni giuridiche di civil e di common law. Non c’è
dubbio, tuttavia, che questo incontro tra Cartesio e il pragmatismo non sia avvenuto
esattamente a metà strada, e che siano stati i tratti della cultura anglosassone ad influenzare il
modello europeo-continentale, più di quanto questi non abbiano influenzato quelli.
Probabilmente, il rapporto ineguale tra le due componenti del mix lo si può mettere in
rapporto con due aspetti del processo di globalizzazione, che paradossalmente coesistono, e
che si possono così individuare: da una parte, nella crescente rilevanza del mercato come
criterio di organizzazione anche di attività pubbliche e, dall’altra, nella crescente diffusione
in Europa di quella cultura del costituzionalismo americano, da intendere come teoria dei
limiti del potere.
In altri termini, se il volto legalistico della P.A. viene ridisegnato dalla vita economica
globale, che trasmette il bisogno di flessibilità e pragmatismo anche alle istituzioni, la
cultura del costituzionalismo, dando all’idea dei diritti individuali uno spazio che nei vecchi
stati non aveva, e ponendo i diritti in posizione chiave nei processi di legittimazione,
contribuisce a riscrivere anche la collocazione istituzionale della P. A.
Soprattutto questo secondo aspetto merita di essere rilevato, dato l’oggetto della presente
ricerca. Via via che la società e la vita pubblica europea imparano sempre più a “prendere i
diritti sul serio”, la P.A. diventa istituzione sempre più significativa per realizzare tale
obiettivo, soprattutto in riferimento a diritti di cittadinanza e di natura economica.
Correlativamente, la sua collocazione istituzionale, tradizionalmente ben insediata nella
configurazione statale, registra un sensibile spostamento e passa a collocarsi sempre più a
metà tra stato e società civile. Accade insomma alla P.A. un cambiamento simile e parallelo
a quello registrato dalla magistratura e dalle corti, che, soprattutto a livello internazionale,
svelano sempre più la propria vocazione di istituzioni di garanzia. A partire dallo scenario
europeo, un simile cambiamento coinvolge anche la P.A., la cui trama garantista si colloca a
presidio di una nuova idea di cittadinanza, intessuta di “diritti amministrativi” (
9
10
). Ed è
Cfr. ibidem
In tal senso, R. Bifulco, nel commento all’art. 41. Diritto ad una buona amministrazione, in R. Bifulco-M.
Cartabia-A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti.
10
proprio nella “individuazione di un catalogo di diritti/doveri nel rapporto cittadinoamministrazione” che si può individuare un ulteriore affievolimento del tradizionale volto
legalistico, poiché “essa attribuisce rilievo giuridico all’attività più che agli atti” (
11
).
E’ a partire da questi connotati, profondamente modificati, che si cercherà ora di dar conto
dell’osmosi tra istituzioni comunitarie e istituzioni nazionali.
La Pubblica Amministrazione come istituzione intermestic
Dopo aver tracciato i principali connotati del nuovo volto della P. A., sull’onda del processo
di armonizzazione europea, il compito non è esaurito. Non cambiano solo i tratti e la
collocazione istituzionale della P.A.: cambiano anche il clima e le condizioni in cui essa è
chiamata a svolgere i suoi compiti. Nel tramonto del profilo legalistico che la caratterizzava
nel passato non c’è solo il venir meno delle norme scritte, ampiamente intese, ma vi è anche
la sua immissione in un nuovo contesto di complessità istituzionale, determinato
dall’affievolimento della funzione centralizzatrice degli stati e dalla nascita di nuove
dinamiche che coinvolgono dall’esterno le attività statali.
Si può parlare in proposito di una nuova dinamica di tipo interattivo, che era del tutto
inconsueta nel passato, e che oggi coinvolge tutti i settori giuridici (
12
) e, di riflesso, le
stesse attività amministrative. Dalla statica alla dinamica giuridica ed istituzionale, si
potrebbe dire: sull’onda della moltiplicazione di soggetti, fonti e punti di riferimento che
entrano nell’orizzonte del giurista o del pubblico amministratore, si sviluppa il ricorso ad una
metodologia giuridica ed istituzionale dinamica ed interattiva. Laddove nel passato vi era un
orizzonte coeso e coerente di fonti giuridiche, oggi si delinea un orizzonte assai più affollato
ed incerto. L’incertezza si delinea anche a causa della sensibile attenuazione della ratio
gerarchica che una volta stabiliva chiare scale di priorità. Ad esempio, nel rapporto tra stati
ed enti sovranazionali, vi è spesso una implicita natura competitiva dei rapporti che non è
governabile in base a chiare ragioni gerarchiche (
13
). Ad esempio, a dispetto di una
gerarchia ormai ufficiale, che vorrebbe le corti europee gerarchicamente superiori a quelle
11
Così F.G. Scoca, voce Attività amministrativa, in “Enciclopedia del diritto”, vol. di aggiornamento VI,
Giuffrè, Milano 2002, p. 75 e ss.
12
Per il diritto internazionale è più facile la teorizzazione di tale aspetto dinamico, anche in termini di game
theory. Si veda B. Frischmann, A Dynamic Institutional Theory of Internazional Law, in “Buffalo Law
Review”, vol. 51, 2003. Rinvio altresì al mio Le organizzazioni internazionali e gli stati “contraenti”, in
“Rassegna italiana di Sociologia” 2002.
13
Rimando al mio Dalla concorrenza tra ordinamenti alla competizione giuridica diffusa, in A. Zoppini (a
cura di), La concorrenza tra gli ordinamenti giuridici, Laterza, Roma-Bari 2004.
nazionali, com’è stato notato, spesso “le “supreme” corti europee che formalmente
rappresentano l’ultima possibilità di ricorso delle parti rappresentano solo un penultimo
livello di significato” (
14
).
Il carattere dinamico appare ancor più se si considera che oggi le attività statali sono
contemporaneamente sottoposte ad una duplice pressione: sia verso la dimensione
“ultrastatale”, come la chiama S. Cassese, sia verso la dimensione infrastatale. In entrambe
queste tensioni vi è un implicito carattere di “denazionalizzazione”, che comporta effetti
ampiamente analizzati specie da S. Sassen (
15
). E’ qui da segnalare come la singolare
contestuale entrata in campo di punti di riferimento più o meno localistici e più o meno
“globali”, per quanto non priva di una razionalizzazione formale e di criteri di ripartizione
delle competenze, ponga nel complesso lo stato come una sorta di “arena” (
16
).
La letteratura ha reso popolare il termine “glocale” per indicare una situazione di
contaminazione tra locale e globale, che sempre più spesso è il modo di essere della
globalizzazione (
17
). Come ben ha messo in rilievo Robertson, l’autore di questo fortunata
crasi, tendenzialmente, non si dà una dimensione globale che prescinda del tutto dal locale,
così come, al contrario, non si dà dimensione locale, che prescinda del tutto dal globale.
Meno noto è un altro termine con cui si cerca di dar conto di queste nuove tendenze, e che
appare particolarmente adatto a descrivere la situazione di esposizione internazionale della
P.A.: ”intermestic”, un aggettivo che vuole caratterizzare situazioni e questioni che sono allo
stesso tempo domestiche ed internazionali, e che si pongono in qualche punto intermedio tra
queste due categorie (
18
). Questo termine appare particolarmente adatto non solo a
catturare nuove realtà combinatorie tra luoghi e contesti diversi, che si creano lungo il
processo di internazionalizzazione, ma anche il senso di mancanza di piena autonomia o di
totale autosufficienza di uno come dell’altro polo della dicotomia. Come ben illustra
l’esempio della contaminazione tra globale e locale, anche questo termine convoglia il
significato della contaminazione e del compromesso tra spinte domestiche e spinte
internazionali.
Caratterizzare la P.A. come istituzione tendenzialmente intermestic significa dunque
sottolineare la sua condizione di sospensione tra tentazioni domestiche ed influenze
14
Cfr. F.G. Scoca, voce Attività amministrativa, in “Enciclopedia del diritto”, cit., ibidem.
S. Sassen, The State and Globalization: Detionalized Partecipation, in “Michigan Journal of International
Law”, vol 25 (2004).
16
Traggo il termine da S. Cassese, La crisi dello stato, Laterza, Roma-Bari 2002,
17
In tal senso rimando a R. Robertson-K.E. White, La glocalizzazione rivisitata ed elaborata, in F. Sedda (a
cura di), Glocal Sul presente a venire, Luca Sassella Editore, Roma 2004.
18
Si veda D. Thelen, Mexico, the Latin North American Nation: A Conversation with Carlos Rico Ferrat, in
“Journal of American History”, vol 86 ( 1999).
15
internazionali. Ma per rendere conto di tale esposizione non basta far riferimento al contesto
normativo che la riguarda: occorre tenere conto anche della rilevanza sempre maggiore
assunta dalla dimensione giurisprudenziale nello sviluppo del diritto europeo. Specialmente
l’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia non solo ha contribuito a delineare ante
litteram una carta dei diritti in Europa, ma ha determinato anche una vera e propria riscrittura
di alcuni articoli dei Trattati. Questa riscrittura ha riguardato, ad esempio, il tema
dell’accesso ai posti nelle pubbliche amministrazioni, o è derivata da una interpretazione
evolutiva di alcune disposizioni, ad esempio in tema di aiuti di stato o di definizione
dell’impresa pubblica. Infine, è stata prodotta per via interamente giurisprudenziale nella
materia della responsabilità extracontrattuale degli stati membri per violazione del diritto
comunitario o in fatto di capacità di ’”effetto diretto” (
rilevano non poco per la P. A. (
20
19
) delle direttive: tutti aspetti che
).
Attraverso il contributo giurisprudenziale della Corte di giustizia si può dunque rinvenire
un’altra importante radice della dinamica intermestic, che investe le pubbliche
amministrazioni nazionali, inclusa la nostra. Ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, per
la funzione svolta da quella Corte come garante dell’integrazione europea, una funzione
ormai consolidata nella pratica e ripetutamente analizzata dalla letteratura; ma anche per
un’altra ragione, che sta nel carattere stesso dell’arena giudiziaria, che mette in contatto
istanze opposte e che, nel permettere il dispiegamento del conflitto, permette anche logiche
di avvicinamento e di compromesso tra le parti
amministrative a cui si richiamano (
21
o tra le tradizioni giuridiche ed
).
L’internazionalizzazione come processo aperto e complesso.
Si suole definire la globalizzazione anche come crescente assenza di un centro: non solo
manca a livello globale una costruzione istituzionale parallela a quella statale, ma gli stati
stessi perdono sempre più capacità ordinatorie ed accentratrici. Si sviluppa così, sempre più,
19
Questo cambiamento è particolarmente significativo e, com’è stato notato, “costituisce una vera rottura con il
diritto internazionale pubblico. L’Europa qui rimette in causa la tradizionale congruenza tra potere e Stato”.
Così M. C. Ponthoreau, L’internationalisation du droit public, Rapporto generale tenuto al Convegno su
Internationalization of Public Law/L’internationalisation du Droit Public
20
Sui contributi giurisprudenziali si rinvia ancora a Chiti, L’organismo di diritto pubblico e la nozione
comunitaria di P.A., cit., specie p. 37 e ss.
21
Mi sono soffermata su tali caratteri proprii della giurisdizione nel mio Il diritto al presente, Il Mulino,
Bologna 2002.
da un lato una concezione di “stato aperto” e dall’altro un’idea di “amministrazione
multilaterale” (
22
).
“Stato aperto” è poco meno di un ossimoro: il carattere tipico della sovranità statale era
proprio la sua impermeabilità a forze e volontà esterne. Oggi questa accezione della
sovranità è sempre più difficile da sostenere, via via che la rete degli accordi internazionali si
fa fitta ed estesa a materie sempre più numerose. Ma agli accordi internazionali va aggiunta
la qualità sovranazionale dell’organizzazione europea, che è un unicum. In Europa, dunque,
gli stati hanno deciso di ridefinirsi come entità chiuse-aperte, che comunicano
reciprocamente su alcuni temi
dell’integrazione (
23
e che imboccano la strada dell’armonizzazione e
). Da ciò ovvie ricadute sulla P.A., come si è già detto in precedenza.
Ma, in che senso si può parlare di una “pubblica amministrazione multilaterale”? Essa è tale
poiché “le amministrazioni nazionali divengono articolazioni di quella comunitaria nel
momento in cui soddisfano ed esercitano competenze e compiti che attengono ad interessi
della Comunità inerenti ad una medesima funzione” (
24
). Anche grazie al principio di
sussidiarietà, che funge da criterio ordinatore del pluralismo delle amministrazioni, si
sviluppa una inevitabile dinamica interattiva, destinata ad espandersi piuttosto che a
contrarsi. La rilevanza di tale principio va sottolineata perché esso, oltre a contribuire al
disegno di un’arena pubblica europea dinamica e interattiva ha contribuito ad attenuare
anche il profilo gerarchico delle istituzioni europee, disegnando uno scenario parzialmente di
carattere evolutivo.
La P.A. esce profondamente ridefinita dal processo di integrazione europea anche per un
altro aspetto, che la lega direttamente al profilo costituzionale dell’Europa. Essa vede
accentuati il proprio ruolo e la propria responsabilità nella dinamica di integrazione europea.
Il suo farsi “multilaterale” risponde a questa nuova investitura funzionale, che certo riguarda
solo alcuni spezzoni dell’amministrazione, ma che non cessa di penetrare ogni giorno
sempre più anche altre pratiche e professionalità amministrative.
Naturalmente, il cammino verso l’internazionalizzazione non è né facile né senza ostacoli.
Basti pensare ai problemi del multilinguismo in Europa. Ancor più, vi sono problemi di
comunicazione giuridica tra tradizioni che hanno diversi presupposti e trascorsi, che
attribuiscono significati non coincidenti alle parole, e che conservano accezioni anche
divergenti di termini ed istituti (
22
). Inoltre, le resistenze statali verso una completa
Si veda E. Sanna Ticca, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, Giuffrè,
Milano 2004, p. 84 e ss.
23
Per uno sguardo esteso sulla integrazione normativa europea ed extraeuropea, M. Delmas-Marty, Critique de
l’integration normative, Puf, Paris 2004.
24
Cfr. E. Sanna Ticca, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, cit., p. 88.
armonizzazione sono ancora tante e forse non verranno meno mai del tutto. Tutte queste
ragioni contribuiscono a variegare piuttosto che a ridurre le interazioni che sono all’origine
della P.A. come istituzione intermestic, ed a rendere piuttosto complesso il contesto in cui
essa opera.
Si deva a un francese, Charles S. Ascher, uno dei primi tentativi di internazionalizzazione
della P.A. in un lungo periodo che andò dagli anni 30 agli anni 60 del secolo scorso (
25
). Il
suo tentativo portò a dialogare l’Europa con gli Stati Uniti, sul presupposto di un processo
amministrativo con comuni radici e logiche. Oggi l’Europa è sul sentiero di una più coesa
internazionalizzazione, attraverso strumenti e un progetto istituzionale molto avanzati. Il
tentativo è di grande importanza e chiama la P. A. farsi parte di un progetto assai ambizioso:
essere parte di una “internazionale di élite nazionali”, che pratica l’“internazionalizzazione
come strumento di universalizzazione” (
25
26
).
P.Y. Saunier, <Tel Mickey Mouse jouant au tennis…>. Charles S. Ascher et l’internationalization de la
public administration, in “Actes de la Recherche en Sciences sociales”, n. 151-152.
26
Y. Dezalay, Les courtiers de l’international. Héritiers cosmopolites, mercenaires de l’imperialisme et
missionaires de l’universel, in “Actes de la Recherche en Sciences sociales”, n. 151-152
Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Rapporto di ricerca
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE
DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Luigi Cominelli
1.
La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni
1.1.
Introduzione
1.2.
Processi di convergenza e divergenza
1.3.
Il New Public Management
2. La convergenza in Europa
2.1.
I principi di buona amministrazione nella Carta di Nizza e nella proposta di
Costituzione europea
2.2.
La governance
2.3.
Evoluzione amministrativa nei paesi europei
3. Le direzioni della convergenza
3.1.
I diritti procedurali e di partecipazione
3.2.
L’ombudsman e la difesa della buona amministrazione
3.3.
Pubblica amministrazione e Alternative Dispute Resolution (Adr)
3.4.
Le Carte dei servizi per il cittadino
3.5.
Networks e “Quangos”
1.
1.1.
La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni
Introduzione
L’internazionalizzazione sta coinvolgendo a ritmi accelerati tutti gli aspetti della vita pubblica e
privata. Tendenze e movimenti globali, europei, nazionali e subnazionali, interagiscono in vari modi
e si influenzano e si adattano a vicenda (Olsen 2001; Ferrarese 2000). L’internazionalizzazione sta
anche cambiando il modo di governare e di amministrare degli stati (Lazar 2001; Botcheva e
Martin, 2001). L’internazionalizzazione è un catalizzatore vitale per il cambiamento, perché
minaccia direttamente chi si rifiuta di cambiare. Il risultato può consistere in una serie di
drammatici mutamenti nei paradigmi di riferimento e nell’introduzione di nuovi attori e idee che
scardinano i monopoli di policy e le path dependencies.
Da che cosa sono causati i mutamenti che sconvolgono le politiche pubbliche, e di conseguenza il
modo di gestire le amministrazioni? Si è parlato in proposito di perturbazioni sistemiche (eventi
esterni come guerre, disastri, elezioni o cambiamenti di leadership), di sconfinamenti delle politiche
fra subsistemi amministrativi, di apprendimento delle politiche da sistemi politici diversi (Howlett e
Ramesh 2002, 36-37) e infine di forum-shopping tra le arene istituzionali in cui le politiche sono
decise (Zoppini 2004). Il processo di internazionalizzazione, in particolare, si svolge in genere in
due fasi: in un primo momento oscilla dalla stabilità verso l’instabilità, per poi periodicamente
tornare a situazioni di relativa calma (Kubler, 2001).
Un concetto di riferimento nell’analisi dei processi di internazionalizzazione, o meglio delle
resistenze all’internazionalizzazione, è quello della “path dependence”. La path dependence è la
difficoltà ad innovare dovuta alla fedeltà ai comportamenti e alle eredità istituzionali (Pierson 2000;
Rose 1990). Le politiche del passato influenzano le politiche del presente in primo luogo a causa dei
costi già sostenuti e degli investimenti effettuati che, cambiando, non sarà più possibile recuperare
(sunk costs), e in secondo luogo a causa delle routine e delle “pigrizie” istituzionali o delle
procedure sperimentate, che influenzano l’assunzione delle decisioni riducendo le opzioni
disponibili (Weir 1992). Il cambiamento è economicamente costoso e psicologicamente faticoso.
L’internazionalizzazione, attraverso percorsi diversi, ha fatto comunque breccia anche nel settore
pubblico (Bell 1992): legal transplants, condivisione delle best practices e fissazione di obiettivi
comuni a livello internazionale in campo monetario, ambientale, commerciale, sanitario, spesso a
seguito di trattati internazionali che, a vario titolo, mirano all’armonizzazione. Una classe dirigente
pubblica globale è in via di formazione, anche grazie alle agenzie internazionali permanentemente
sotto i riflettori come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione
Mondiale per il Commercio ecc. (Albrow 1996, 123). Questi sono tutti allo stesso tempo cause ed
effetti della pressione internazionale. Oggi questa pressione porta inevitabilmente le
amministrazioni a convergere, ma non è stato sempre così.
1.2.
Processi di convergenza e divergenza
Il processo di internazionalizzazione, inteso come convergenza, non è una costante della storia e
neppure del periodo storico moderno. Sabino Cassese individua una prima fase di convergenza
degli ordinamenti giuridici europei tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo (Cassese 2003 e
1992). In quel periodo i sistemi giuridici comunicano tra di loro e possiamo parlare di un diritto
comune europeo aperto e composto “del diritto comune romano, con la propria fonte nel ‘corpus
juris giustinianeo’, del diritto feudale, del diritto dei commerci di terra e di mare e del diritto dei
rapporti internazionali”. È frequente il ricorso alle auctoritates straniere e alla lex alii loci. Il lavoro
dei giuristi è intriso di comparazione e la comparazione non è ancora un corpo separato.
La rottura avviene nel diciannovesimo secolo, sull’onda dello statalismo e delle teorizzazioni
giuridiche che ne derivarono. Un esempio di tale rottura è nel Code Napoléon, che nella sua foga
razionalizzatrice esclude l’applicazione di ogni diritto straniero (Cassese 1992, 25-29). L’inversione
di tendenza finirà per organizzarsi intorno al dualismo e alla divergenza fra sistemi giuridici di
common law e sistemi giuridici di civil law (Garner 1929, 387).
Nel sistema giuridico inglese il lavoro del giudice è più simile a quello di un arbitro neutrale. Il
gioco viene lasciato a politici e amministratori. In Germania, ad esempio, come in molti altri paesi
dell’Europa continentale, il sistema è opposto. La legge è garanzia di libertà e l’amministrazione
può agire solo nei ristretti confini tracciati dalla legge (Bell 1992, 19).
Un’ipotesi sulle origini di questa contrapposizione, forse troppo enfatizzata, sostiene come siano
stati gli ideologi del liberalismo francese a esaltare lo spirito democratico del common law in
funzione polemica contro il proprio governo. Tocqueville critica la natura arbitraria e autoritaria del
governo francese, che non garantisce i diritti dei privati nei confronti dello stato, che non concede
libertà di governo locale, che priva i sudditi del ricorso giudiziario contro i funzionari ed attribuisce
poteri esorbitanti all’apparato burocratico giustificandoli formalmente con il diritto amministrativo.
Il sistema inglese viene idealizzato per contrapposizione e trasformato in un modello astratto non
del tutto corrispondente alla realtà dei fatti. Anche nel Regno Unito infatti le prerogative reali sono
schiaccianti (The King can do no wrong), l’autonomia locale è tutto sommato limitata e le corti di
giustizia sono lontane e costose. In Francia intanto i poteri del Parlamento sono stati ampliati, il
Conseil d’Etat ha assunto la giurisdizione sugli apparati burocratici e il sistema amministrativo ha
sviluppato garanzie a tutela dei privati che non sono inferiori a quelle previste dal diritto civile. La
contrapposizione però si è fissata stabilmente (Cassese 1992, 27-29).
Esaurita la spinta divergente, culminata forse in maniera non casuale con le due grandi guerre
mondiali del ventesimo secolo, oggi gli stati subiscono due tipi di pressioni alla convergenza. Un
primo tipo di spinta convergente è stata definita come “naturale” o spontanea. Un esempio è il
decentramento e l’introduzione di livelli di governo intermedi tra lo stato centrale e le municipalità.
Anche l’ideologia del libero mercato esercita pressioni per favorire la convergenza amministrativa
secondo schemi non formalizzati (Bell 1992, 4).
Un altro genere di spinta verso la convergenza è indotta dagli enti e dalle organizzazioni
transnazionali. In Europa questa spinta è più forte grazie all’influenza delle istituzioni comunitarie,
e in primo luogo della Commissione e della Corte di giustizia della Comunità europea. Gli
ordinamenti nazionali riuniti dal diritto comunitario iniziano a guardare reciprocamente ai rispettivi
sistemi giuridici per risolvere i problemi comuni (Koopmans 1991, 54).
Gli elementi condivisi nel processo di convergenza a livello internazionale sono stati chiaramente
schematizzati come segue (Cassese 1992, 30-31):
1) la legge rimane il riferimento principale, pure se viene accantonato il modello
“neoassolutistico”: alle amministrazioni non è consentito solo ciò che è vietato, ma tutto
quanto serva per raggiungere gli scopi istituzionali;
2) le aspettative giuridiche sono riconosciute come diritti non solo tra i privati, ma anche nei
confronti delle pubbliche amministrazioni;
3) nei confronti delle pubbliche amministrazioni è sempre prevista una tutela giurisdizionale, e
anche nei sistemi dualistici a diritto amministrativo, dove essa è affidata a un giudice
speciale, vi è comunque una certa uniformità di principi tra i due sottosistemi;
4) si instaura un rapporto di collaborazione e non più di dominazione tra il centro e la periferia;
5) ovunque viene riconosciuta cittadinanza a una branca speciale amministrativa del diritto.
Oggi le direttrici della convergenza indirizzano gli stati e i governi verso la privatizzazione o la
creazione di agenzie indipendenti per lo svolgimento dei servizi pubblici, verso la
contrattualizzazione del rapporto di lavoro con i dipendenti pubblici e verso l’istituzione di agenzie
di regolazione nel settore finanziario (Bell 1992, 4). Si è peraltro evidenziata anche una tendenza
eccessiva a interpretare tutti gli sviluppi nel senso della convergenza ignorando i segnali di
divergenza (Preforms 1998). Le possibili resistenze verso la convergenza vengono in molti casi
proprio da alcune differenze distintive che separano sistemi di common law e di civil law. Nei paesi
di common law l’istituzione di un regime speciale pubblicistico in un determinato settore deve
essere giustificato con rigore, e non può essere compiuto con un generico richiamo al pubblico
interesse (Bell 1992, 5). Inoltre, nella generalità dei casi l’amministrazione deve agire per le vie
giudiziali ordinarie, e non dispone di un potere esecutivo d’imperio come nei paesi di civil law (Bell
1992, 21).
Fra i movimenti spontanei di convergenza nel campo dell’intervento pubblico, il più rilevante è
quello nato a partire degli anni ’70 e definito negli anni ’90 come New Public Management. Nella
descrizione di chi lo ha studiato, il New Public Management porta a un vero e proprio cambiamento
di paradigma nelle politiche di gestione della cosa pubblica. Originatosi e diffusosi capillarmente
nei paesi anglosassoni, il New Public Management esercita oggi il suo impatto in tutto il mondo.
1.3.
Il New Public Management
Il New Public Management preconizza l’avvento dello stato manageriale (Sgroi et al. 2005; Aucoin
1990; Hood 1991). Il mondo occidentale negli anni ’70 si trova di fronte alla duplice sfida
dell’inefficienza amministrativa e del deficit pubblico. Pochi sono disposti a negare che i servizi
vadano migliorati, che i programmi di assistenza pubblica debbano essere amministrati meglio e che
l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari vada promossa. Dagli anni ‘70 l’immagine
dello stato che dirige la società unilateralmente con il monopolio del potere e della legislazione
viene messa in crisi. Cade il sostegno al dirigismo centralista delle organizzazioni pubbliche
(Kickert 1997, 735). La globalizzazione dei commerci si è già avviata da tempo ma è in questo
periodo che probabilmente essa supera la sua soglia critica. La crisi economica indotta dall’aumento
del prezzo del petrolio può considerarsi all’origine della crisi del tradizionale modo di pensare il
settore pubblico nei paesi industrializzati. Si apre insomma il dibattito sulla pubblica
amministrazione e i suoi costi. Al settore pubblico viene richiesto un recupero di efficienza.
In diversi settori produttivi gli anni ’80 portano una notevole iniezione di cultura del mercato e della
concorrenza. Nel settore delle banche e del trasporto aereo i cittadini si abituano a livelli di
assistenza al cliente più alti. Le aspettative sulla qualità dei servizi salgono, e si fa strada la
consapevolezza che il modo migliore per fare progressi non è necessariamente attraverso l’attività
di una costosa burocrazia (Flynn 1995, 61). La burocrazia statale in un certo modo viene
delegittimata, mentre il settore privato (profit e non profit) viene indefettibilmente rappresentato
come il più efficace (Peters e Pierre 1998).
A partire dagli anni ’80 nei paesi anglosassoni (sembra che a iniziare sia stata la Nuova Zelanda)
vengono avviate una serie di riforme della pubblica amministrazione ispirate a un nuovo paradigma.
La spinta verso il cambiamento viene favorita dalle nuove agende politiche neoliberali che
individueranno nel mercato le modalità organizzative più soddisfacenti (Torres e Pina 2004, 447).
Gli imperativi del New Public Management spingono al perseguimento di una netta separazione fra
funzioni politiche e funzioni più strettamente amministrative27, all’introduzione della competizione
e alla contrattualizzazione dei rapporti di fornitura di servizi pubblici, al ridimensionamento degli
apparati amministrativi e alla loro divisione in unità organizzate per servizio o per prodotto,
all’adozione di stili di gestione ispirati al management privato, alla definizione di standard di
servizio formalizzati e facilmente verificabili, alla misurazione delle performance e al controllo sui
risultati. Quali che fossero i valori di riferimento del settore pubblico, l’aspirazione a riformarlo ha
assunto le connotazioni di una “pandemia” (Boyne 2003, 211), e i valori del New Public
Management sono stati propagandati dalle più influenti organizzazioni transnazionali (Ocse, Fmi e
Banca mondiale) come il metodo brevettato per costruire governi e amministrazioni moderni
(Wollmann 2002, 152).
Le soluzioni pratiche volte ad ottenere questi cambiamenti sono la devoluzione di poteri verso la
periferia, il controllo sugli apparati pubblici per favorire l’assunzione di responsabilità, la garanzia
della libertà di scelta agli utenti, il miglioramento della gestione delle risorse umane,
l’ottimizzazione delle potenzialità informatiche e il miglioramento nella qualità della regolazione
(Torres 2004, 100).
Il New Public Managment è una metodologia che si inscrive nelle teorizzazioni cosiddette dello
stato minimo, è un’affermazione della superiorità del settore privato ed è un tentativo di introdurre
nel settore pubblico i meccanismi del mercato e della competizione (Rhodes 1997). Anche
nell’amministrazione il ricorso all’iniziativa individuale è benefico perché promuove efficienza
(Maesschalck 2004, 477). Per stimolare il ricorso ai meccanismi di mercato si ricorre alla
privatizzazione (Flynn 1995, 62). I valori del settore privato sono riassunti nella dottrina delle tre
“e”: economia, efficienza ed efficacia (Maesschalck 2004, 466). Il settore privato “tende a essere
migliore nello svolgimento di attività economiche, nell’innovazione, nel replicare gli esperimenti di
successo, nell’adattarsi ai cambiamenti più rapidi, nell’abbandonare le attività obsolete e nello
svolgere compiti complessi o ad alto contenuto tecnico” (Osborne e Gaebler 1992, 45–46).
Il New Public Managment giunge a dispiegare la sua influenza nei paesi del Nord Europa (dove
sfida i concetti della “probità del settore pubblico”), nell’area di influenza amministrativa tedesca
(dove mette in crisi “l’obbedienza amministrativa di stampo prussiano”) e in Francia e nei paesi
dell’area mediterranea (dove pone in discussione l’idea di “interesse generale”) (Torres e Pina 2004,
458).
27
In Italia la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa in senso proprio è
stata introdotta dal D.lgs. n. 29 del 1993 ed è oggi ribadita nel D.lgs. n. 165 del 2001 (Sgroi 2005).
I critici delle nuove tendenze privatistiche e managerialistiche si raccolgono sotto quello che viene
definito il movimento della Traditional Public Administration. Secondo questi oppositori del New
Public Management la privatizzazione impedisce il lavoro di squadra nell’amministrazione e
annulla la dimensione etica del decision making pubblico (Maesschalck 2004, 467 e 478). A lungo
tuttavia nessuno è parso in grado di fornire nuove alternative al managerialismo anglosassone
(Kickert 1997, 750), e chi contava su un rapido esaurimento delle spinte liberistiche indotte
dall’internazionalizzazione è rimasto deluso (March e Olsen 1998).
In ogni paese le teorie del New Public Management vengono filtrate e applicate con notevoli
adattamenti alle peculiarità del caso e alle esigenze culturali locali. Non vi è dunque una tendenza
globale verso un modello uniforme di New Public Management. Lo studio comparato condotto da
Olsen e Peters (1996) su otto paesi conclude che l’ideologia del New Public Management non è
stata universalmente accettata. Nei paesi presi in considerazione, le idee di managerialità, di
imprenditorialità privata e di mercato competitivo non sono stati ancora pienamente adottati con
uguale entusiasmo come modelli per il settore pubblico, e anzi in alcuni contesti vengono rifiutati
con forza.
2. La convergenza in Europa
2.1.
I principi di buona amministrazione nella Carta di Nizza e nella proposta
di Costituzione europea
Per esaminare il processo di convergenza, intesa come internazionalizzazione amministrativa,
un’area privilegiata d’osservazione è indubbiamente l’Europa. La ragione per cui oggi in Europa il
processo di convergenza viaggia a ritmi accelerati non è più la vicinanza geografica e la prossimità
culturale dei paesi europei, ma piuttosto i meccanismi istituzionali volti all’integrazione europea.
Sotto il grande ombrello dell’Unione convivono “famiglie” o aggregazioni di ordinamenti che si
distinguono per caratteristiche omogenee anche per quanto riguarda lo stile amministrativo.
Riguardo alla classificazione e all’incasellamento di questi ordinamenti, tuttavia, le opinioni talvolta
divergono. Vi è ad esempio chi individua i tre modelli amministrativi principali nei modelli
anglosassone, tedesco ed europeo-meridionale, pur riconoscendo alla Scandinavia e ai Paesi Bassi
uno status particolare (Torres 2004). Altri invece, accanto allo stile anglosassone orientato al
mercato e allo stile mediterraneo incentrato sulla famiglia, indicano tra i modelli principali lo stile
scandinavo orientato allo stato (Balle Hansen e Lauridsen 2004, 514). Queste classificazioni
debbono essere prese con il beneficio d’inventario, ma come vedremo ci aiutano in parte a spiegare
i progressi e le difficoltà del settore pubblico in Europa.
Gli sviluppi amministrativi a livello europeo lasciano ancora un grande spazio di autonomia alle
istituzioni e ai soggetti nazionali. La capacità di penetrazione dei principi dell’integrazione europea
negli stati nazionali non è ancora così incisiva e costante. La circolazione intraeuropea degli istituti
e delle prassi amministrative è dunque ancora minore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare
(Olsen 2001). Tuttavia essa non è più in discussione ed anzi nel dibattito internazionale la nascita di
uno spazio amministrativo europeo è considerata come un dato di fatto. Le agenzie comunitarie e i
comitati congiunti favoriscono la cooperazione tra funzionari europei e funzionari nazionali, che
collaborano fianco a fianco (Nizzo 2002, 2). Il processo è favorito dalla struttura “a stella”
dell’amministrazione comunitaria: dal corpo centrale organizzato in direzioni generali parte
l’attività decentrata delle agenzie (Cassese 1992, 31).
Al movimento di convergenza europeo contribuisce in ampia misura la Corte di Giustizia delle
Comunità Europee (Cassese 2003). La Corte ha individuato cosa si debba intendere per
amministrazione pubblica nel diritto comunitario, ha enucleato i principi base del diritto
amministrativo europeo e ha imposto principi e standard comuni per la pubblica amministrazione e i
servizi pubblici (Nizzo 2002, 3-7). Le relazioni fra gli esecutivi nazionali e l’esecutivo europeo (la
Commissione) sono ora decisamente saldi. La Commissione europea e tutte le agenzie e istituzioni
europee tuttavia non sono amministrativamente autosufficienti, e necessitano di cooperare con le
burocrazie nazionali per svolgere i loro compiti. La situazione non è sempre stata così chiara.
Durante i primi trent’anni della sua storia, la Comunità era ritenuta pacificamente priva di
un’amministrazione in senso proprio (Bignami 2004a, 4).
Anche il Consiglio d’Europa e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno in qualche modo
contribuito alla convergenza. Con una Risoluzione del 1977 riguardante la protezione dei diritti dei
cittadini nei confronti degli atti delle autorità amministrative, il Comitato dei Ministri affermava il
diritto dei privati ad essere ascoltati e ad avere accesso ai fatti rilevanti e all’assistenza legale,
nonché i corrispettivi doveri delle amministrazioni di fornire le ragioni delle proprie decisioni e di
approntare canali di reclamo di natura giurisdizionale. Una Raccomandazione del 1980
sull’esercizio dei poteri discrezionali da parte delle autorità amministrative ribadiva i principi di
imparzialità, di proporzionalità e l’obbligo di rispettare tempi ragionevoli nell’emanazione dei
provvedimenti (della Cananea 2003, 570).
A livello comunitario la tutela nei confronti delle autorità amministrative è già garantita in via
giurisdizionale dalla Corte di giustizia, a cui si è poi aggiunto il Tribunale di primo grado. Il
Trattato di Maastricht del 1992 riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini europei a difendersi
in via stragiudiziale contro i casi di cattiva amministrazione con il ricorso all’Ombudsman, a
presentare una petizione al Parlamento europeo e a consultare i documenti in possesso delle
istituzioni comunitarie.
La proposta di Costituzione europea votata dalla Convenzione nel 2004, riprendendo integralmente
la Carta di Nizza già approvata nel 2000, enuncia il primo nucleo delle garanzie “amministrative”
per i cittadini europei. Oltre al diritto di essere ascoltati, di accedere ai fatti e di ricevere una
motivazione per i provvedimenti, l’Articolo II-101 della Costituzione stabilisce il diritto di ricevere
un indennizzo adeguato per i danni subiti ingiustamente da un’istituzione comunitaria o da un
funzionario nello svolgimento delle proprie funzioni.
La Carta di Nizza ha già trovato applicazione almeno in una decisione del Tribunale di primo grado
delle Comunità europee28. In questa decisione si è affermato che l’art. 41 (art. II-101 della
Costituzione) fornisce un’enunciazione dei principi generali comuni agli Stati membri in campo
amministrativo.
I rilievi critici sul tipo di operazione compiuta con questa dichiarazione comunitaria dei diritti
umani non sono mancati. Alcune delle iniziative che miravano a stimolare il coinvolgimento dei
28
Causa T 54/1999, Max.mobil Telekommunikation Service GmbH c. Commissione europea.
cittadini europei sembrano condannate in partenza. Il coinvolgimento dell’opinione pubblica
nell’elaborazione della Carta dei diritti, al contrario di quelle che erano le intenzioni e di quanto
dichiarato, è stato insoddisfacente. Secondo alcuni commentatori, si sarebbe dovuta usare una
maggiore cautela prima di definire come un “dibattito a livello europeo” ciò che in fondo si è risolto
in una consultazione di pochi politici, di alcuni giuristi e in un sito Internet29.
Dopo la bocciatura della proposta di Costituzione in Francia e in Olanda la situazione sembra più
che mai in sospeso. Possiamo stare certi che i modelli comunitari hanno comunque già iniziato a
esercitare una forte pressione sulle amministrazioni nazionali. Pensiamo soprattutto agli apparati
burocratici dei dieci nuovi stati membri che hanno fatto il loro ingresso nell’Unione il 1 maggio
2004. I nuovi membri sono per la maggior parte nuove democrazie di tipo occidentale che in
precedenza appartenevano al blocco comunista e che dunque hanno ereditato un sistema
amministrativo centralistico e autoritario.
2.2.
La governance
Alle sfide poste dal New Public Management l’Unione europea sembra aver risposto con la ricetta
della governance. “Governance without government” è divenuto in molti paesi occidentali la nuova
filosofia delle politiche pubbliche “negoziate”. Il presupposto di questo mutamento di paradigma è
che gli attori privati influiscono sulla definizione delle politiche e sull’amministrazione con una
forza che prima era inimmaginabile. Anche se la governance trova la sua ispirazione negli Stati
Uniti, il dibattito sulla governance è in grande misura di origine europea, e si è concentrato nel
Regno Unito e nei Paesi Bassi (Peters e Pierre 1998).
Nel 2001 la Commissione pubblica il Libro bianco sulla governance europea (COM/2001/428). Il
carico di lavoro della Commissione è aumentato notevolmente negli ultimi anni, ma si è voluto
porre un limite alla crescita della Commissione in dimensioni. A questo si aggiunge che la
popolarità dell’Unione non è alta. Di qui la necessità di incrementare la partecipazione pubblica, e
stabilire contatti con i livelli di governo inferiori. Si è quindi reso necessario uno sforzo di maggiore
cooperazione con i governi nazionali. In questo senso la governance europea rappresenta una
specificazione del principio di sussidiarietà (Schout e Jordan 2005, 204).
L’adozione di un nuovo modello di governance e la resistenza al New Public Management in
diversi paesi dell’Europa occidentale è spiegabile con la forte tradizione corporativistica e
legalistica dei paesi continentali. Il modello della governance si propone principalmente di
amalgamare l’intervento pubblico con le risorse private, più che di introdurre la competizione nel
settore pubblico, anche se la competizione in fondo viene accettata. L’intervento diretto dello stato
29
“Visigothenburgers”, The Economist, 21 giugno 2001.
viene sostituito dalla capacità dello stato di influenzare le decisioni. Il risultato dell’adesione alla
filosofia della governance a livello comunitario sarà un ritiro parziale delle istituzioni europee dal
governo diretto, tramite l’adozione di politiche comunitarie meno dettagliate e di strumenti di
coordinamento flessibili, la competizione tra gli stessi Stati membri e la delega di funzioni ai
governi locali (Schout e Jordan 2005, 217).
La Commissione ha elencato i sette principi fondamentali di una buona governance: partecipazione,
responsabilità, efficacia, politiche coerenti, sussidiarietà, proporzionalità e accuratezza. Le idee che
scaturiscono da questa visione si adattano piuttosto bene alle tendenze attuali in campo
amministrativo, e tutto sommato non sono così dissimili rispetto ai dettami del New Public
Management.
Ciò che tuttavia il Libro bianco trascura è come affrontare i problemi che derivano dalla
cooperazione transnazionale. Il bisogno di creare una cultura della cooperazione spontanea a livello
nazionale può essere assecondato con iniziative semplici come: 1) creare siti web per migliorare i
contatti; 2) istituire una formazione comune per i funzionari pubblici dei paesi membri; 3) stabilire
programmi di gemellaggio fra nuovi e vecchi stati membri. Queste misure da sole peraltro rischiano
di rivelarsi del tutto insufficienti (Schout e Jordan 2005, 207).
Ci sembra ora utile passare in rassegna gli sviluppi recenti a livello comunitario e a livello nazionale
di alcuni tra i principali stati europei, e verificare con mano i problemi o i segnali di convergenza.
2.3.
L’evoluzione amministrativa nei paesi europei
Il Regno Unito è visto a ragione come il capostipite e baluardo nel New Public Management in
Europa. Nel corso degli anni ’80 Margaret Thatcher tolse potere ai centri di governo intermedi
creatisi fra i vertici politici e il corpo amministrativo (sindacati, enti locali, gruppi professionali),
avocando al centro la responsabilità di riformare lo stato (Torres e Pina 2004, 453). I sindacati dei
dipendenti pubblici furono notevolmente ridimensionati e a capo delle agenzie amministrative
vennero nominati top manager con rapporti a tempo determinato (Rhodes 1997). Le industrie già
nazionalizzate e i servizi pubblici furono largamente privatizzati. I caratteri di pragmatismo e di
managerialità già del resto presenti nell’organizzazione amministrativa britannica furono ancora più
accentuati. Con il passaggio dal governo conservatore al New Labour nel 1997, il ruolo delle regole
di mercato nei servizi pubblici passò dal dare disciplina e garantire la monetizzazione degli effetti
della competizione, a essere fonte di innovazione e di rinnovamento per i servizi pubblici (Entwistle
e Martin 2005, 223). Gli appalti pubblici e le procedure pubbliche di approvvigionamento si sono
ispirate più a metodi collaborativi che a metodi strettamente competitivi. Nel 2000 è stato creato un
Centro per la gestione e i policy studies all’interno del Cabinet Office (Sanderson 2002, 3).
I paesi scandinavi per molti aspetti possono essere trattati unitariamente (Jorgensen 1996). Alcuni
studiosi accomunano ad essi anche l’Olanda (Torres 2004 e Preforms 1998). I paesi della
scandinavia e l’Olanda sono stati unitari in cui l’amministrazione pone una grande attenzione ai
bisogni del cittadino, e vi è una tradizione risalente di consultazioni e negoziazioni tra i pubblici
poteri e i privati (Torres 2004, 101). La direzione delle riforme amministrative nei paesi nordici è di
un radicale decentramento della politica e dell’amministrazione, nel contesto di un settore pubblico
che rimane comunque pervasivo e di un impegno dello stato a fornire prestazioni di welfare che si è
ridimensionato solo in misura modesta (Preforms 1998, 158). La pubblica amministrazione
scandinava rimane comunque di stampo fortemente legalistico (Jorgensen 1996).
La Svezia è dotata di diverse agenzie pubbliche la cui indipendenza è garantita dalla Costituzione. I
ministeri non hanno responsabilità dirette nelle decisioni delle agenzie e quindi non possono
opporsi alle loro decisioni. I controlli vengono effettuati dalla giurisdizione amministrativa e
dall’ombudsman. In Danimarca e Norvegia, al contrario, le agenzie pubbliche sono sottoposte a
diretto controllo ministeriale. Norvegia e Svezia, a differenza della Danimarca, hanno segretari di
stato di nomina politica ed elezioni parlamentari ogni quattro anni. In Danimarca il primo ministro
può indire le elezioni politiche generali a sua discrezione. Queste differenze comportano differenti
rapporti tra politici e funzionari amministrativi (Jorgensen 1996). In Norvegia e Danimarca nel
corso degli anni ’80 è stato introdotto un sistema di gestione fondato sulla definizione degli obiettivi
e la verifica dei risultati (Christensen e Laegreid 1998).
Tutti i paesi nordici hanno adottato ottime iniziative per la verifica delle performance
amministrative (Torres 2004, 104). Tra i paesi scandinavi alcuni ritengono che la Danimarca sia
all’avanguardia per il decentramento (Preforms 1998). Rispetto alla Svezia la Danimarca ha uno
stile più pragmatico e liberale, mentre la Svezia ha una lunga tradizione di analisi ufficiale delle
politiche e diagnosi dei problemi amministrativi, con saldi legami tra l’accademia e la pratica
(Jorgensen 1996). Nei Paesi Bassi, la tradizione istituzionale ha mirato da sempre al coinvolgimento
della società civile nella fornitura dei servizi e nell’assunzione delle decisioni a livello locale
(Kickert 1995). Norvegia e Finlandia sono forse rimaste indietro rispetto a Danimarca, Svezia e
Paesi Bassi, ma le dinamiche di riforma sono analoghe (Preforms 1998, 157).
Nei paesi di area germanofona (Austria, Germania e Svizzera), il modello amministrativo rimane
quello classico weberiano (Torres 2004). Il settore pubblico ha un profilo distintivo che lo colloca
chiaramente al di fuori della sfera sociale ed economica. La pratica amministrativa è legata alla
dottrina del Rechtstaat ed è fortemente legalistica. Gli uffici si rapportano tra di loro attraverso
direttive dettagliate e sono organizzati secondo una gerarchia rigida. Il rapporto di impiego pubblico
è caratterizzato dal tempo indeterminato e dalla sicurezza e intrasferibilità del posto di lavoro. I
partiti reclutano la loro classe dirigente proprio tra i ranghi della pubblica amministrazione (Torres
2004, 101).
La
filosofia
del
New
Public
Management,
basata
sulla
contrattualizzazione
e
la
managerializzazione, incontra nella tradizione amministrativa tedesca ostacoli istituzionali,
cognitivi e normativi. Peraltro, la tradizione amministrativa tedesca non è impermeabile alle
riforme, e i funzionari conservano a ragione un buon grado di autostima a proposito della loro
efficienza amministrativa (Wollmann 2001, 160).
Un disegno di riforma complessiva è ulteriormente complicato dalla struttura federale di questi
paesi, dove ogni regione tiene le redini delle proprie politiche amministrative e vi è una forte
tradizione di autonomie locali (Wollmann 2001, 167). In Germania e in Austria non vi è stata
ancora una estesa applicazione degli strumenti di controllo del bilancio per competenza e degli
indicatori di performance (Torres 2004, 102). L’introduzione di strumenti contrattuali di diritto
comune come metodo normale di gestione delle attività pubbliche è ancora allo stato embrionale.
Gli studi sulla Germania individuano un misto tra strategie di conservazione e di modernizzazione
(Pollitt e Bouckaert 2000, 178), e un cambiamento di tipo “incrementale e adattivo” (Wollmann
2001, 161). I modernizzatori sostengono che la Germania è in ritardo di 10 anni nel riformare il
settore pubblico, ma la pubblica amministrazione è ancora pacificamente percepita come un campo
distinto dalla società e dal settore privato (Wollmann 2001, 159). Anche il “trasloco” del governo
federale da Bonn a Berlino, deciso nel 1991 e compiutosi nel 1999, non è stato sfruttato come
occasione di riorganizzazione. A livello federale si discute su un ulteriore dimagrimento dei
ministeri attraverso il trasferimento delle funzioni più propriamente amministrative, come la
gestione dei fondi federali, alle agenzie già esistenti. Eppure a livello intra-organizzativo, e specie
negli enti locali, anche la Germania ha avuto la sua iniezione di managerialità (Wollmann 2001,
165).
In Svizzera lo status di funzionario pubblico è aperto e l’interscambio con il settore privato è
piuttosto buono (Schedler 1997). Tuttavia i livelli salariali e l’inquadramento rigido rendono
difficoltoso attrarre alcune tipologie specifiche di lavoratori (ad esempio programmatori o direttori
finanziari). Ai livelli intermedi o al livello regionale della pubblica amministrazione, l’influenza dei
consulenti del settore privato è stata determinante nell’introduzione di soluzioni tipiche del New
Public Management (Torres 2004, 101 e 105).
I paesi dell’Europa meridionale sono influenzati dal modello di amministrazione francese, fondato
sulla centralità del diritto amministrativo e sull’erogazione di servizi di livello uguale in tutto il
paese, ad opera di un apparato statale centrale. La gestione delle finanze pubbliche è
sostanzialmente ancora accentrata, nonostante le recenti tendenze verso il federalismo e il
regionalismo fiscale (Torres 2004, 104).
In Francia il settore pubblico è stato solo scalfito dalla competizione. I principi del mercato e della
valutazione individuale delle performance sono difficili da imporre in un contesto di pubblico
impiego fortemente sindacalizzato (Guyomarch 1999, 177 e 185). Anche in Italia la pubblica
amministrazione è da sempre caratterizzata dal modello weberiano, fondato sulla centralità del
diritto amministrativo e sul formalismo giuridico (Capano 2003, 786). Le numerose riforme del
settore pubblico che si sono susseguite a partire dagli anni ’90, si sono risolte spesso in un lungo
elenco di testi normativi, che nei fatti sono stati reinterpretati in modo da conformarsi con
l’egemonia del paradigma legalistico. Il decentramento è stato applicato in maniera dogmatica e ha
portato ad una duplicazione dei livelli amministrativi. Sino alla fine degli anni ’80 il termine
‘efficienza’ non compariva praticamente in nessuna disposizione legislativa. L’analisi sull’impatto
delle riforme a livello organizzativo viene effettuata molto raramente. Si è stimato inoltre che il
60% delle amministrazioni ha usato l’anzianità come criterio principale per decidere sulle
promozioni. La valutazione sul rendimento di dirigenti e dipendenti pubblici ha costituito più che
altro l’occasione per elargire gratifiche monetarie (Capano 2003, 792 e ss.).
La Spagna rappresenta un esempio particolarmente interessante per altri versi. Fino al 1975 il paese
è stato governato da un regime autoritario, che in controtendenza rispetto al resto di Europa ha
limitato fortemente l’espansione del welfare state e delle strutture amministrative. Con la caduta del
franchismo il regime democratico ha cercato di colmare il gap, e tra il 1975 e il 1995 la spesa per il
settore pubblico è passata dal 24,4% al 45,5% del prodotto interno lordo. La Spagna dunque si è
trovata alle prese con un settore pubblico in piena espansione proprio mentre in tutta Europa il New
Public Management invocava il contenimento o la riduzione della spesa pubblica. Ancora a metà
degli anni ’80, un’inchiesta tra i funzionari pubblici spagnoli metteva in evidenza una forte
spaccatura tra chi sosteneva la necessità di riforme per recuperare efficienza, e chi affermava invece
la necessità di rafforzare e garantire meglio lo status degli impiegati pubblici.
In tempi recenti, il governo spagnolo ha introdotto diversi tra gli strumenti del New Public
Management ma senza grandi risultati (Torres e Pina 2004, 446). L’ampio decentramento
amministrativo e il forte rafforzamento dei sindacati hanno reso indubbiamente più complicato il
percorso di cambiamento. L’adozione di provvedimenti una tantum, senza l’introduzione di un
pacchetto di riforme completo, è stata un’altra causa del sostanziale fallimento dei riformatori.
Anche in Spagna le privatizzazioni non sono state accompagnate da incentivi alla concorrenza. La
managerializzazione dei dirigenti è proseguita a rilento, e le responsabilità di gestione non sono
state definite chiaramente. Il sistema della finanza pubblica si incentra ancora esclusivamente sulla
correttezza e sui vincoli formali nella gestione, piuttosto che sul controllo dei risultati. Tutte le
riforme amministrative vengono negoziate, messe in pratica e gestite solo con l’accordo degli
impiegati pubblici. L’attenzione maggiore viene riservata, come è intuibile, alle politiche del
personale nonché al potere di acquisto e ai diritti professionali dei funzionari pubblici. I quadri
amministrativi sono rigidamente separati ed è difficile stabilire sistemi di compenso fondati sul
rendimento individuale, così come è difficile attribuire funzioni di responsabilità a personale
esterno reclutato ad hoc (Torres e Pina 2004, 453-456).
Per concludere questa breve rassegna, la foga riformatrice che coinvolge l’assetto delle pubbliche
amministrazioni in tutti i paesi europei è multiforme. Quello delle riforme amministrative sembra
tuttavia uno dei pochi settori in crescita in un campo pubblico altrimenti in declino (Peters 1997).
Fino ad ora la strada delle riforme è stata tracciata dalle filosofie di intervento del New Public
Management. Le riforme compiute nei paesi nordici e in Olanda potrebbero rappresentare
un’alternativa al modello di modernizzazione del settore pubblico basato esclusivamente sui
caratteri propri del mercato, fruibile specialmente dai paesi ad influenza tedesca e dell’area
mediterranea, dove si è mantenuto un certo spirito burocratico nel reclutamento e nell’educazione
dei funzionari pubblici. In questi paesi i funzionari sono e rimangono professionisti del diritto, e
sono per natura riluttanti ad assumere decisioni. Nel Nord Europa e nei Paesi Bassi il predominio
dei giuristi è stato grandemente diluito nella seconda metà del ventesimo secolo.
I paesi del sud Europa hanno introdotto diverse misure che mirano a innalzare la qualità nei servizi
pubblici. Per questo ci si è basati sulle direttive della European Foundation for Quality
Management (Efqm), che fissano obiettivi di leadership, di attenzione verso i dipendenti e i
cittadini, di collaborazione con altri enti e istituzioni, di sviluppo di indicatori di performance e di
controllo dei risultati.
Per quanto riguarda gli altri elementi del New Public Management più strettamente legati alla
competizione, come la fornitura di servizi pubblici basata su una contrattazione competitiva e
l’accentuazione dello stile managerialistico privato, i tre grandi modelli dell’Europa continentale
(nordico-scandinavo, germanico, sud-europeo) sono chiamati a rimettere in discussione il ruolo del
settore pubblico nella società, e dunque è presumibile che si incontreranno forti resistenze o rifiuti.
Solo la Svezia ed entro certi limiti la Finlandia e l’Olanda sembrano aver preso iniziative concrete
in questo senso (Torres 2004, 109).
3. Le direzioni della convergenza
La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni è favorita dall’accresciuta
importanza dell’arena internazionale, e dunque dalla diminuita capacità dei governi di isolarsi
economicamente e politicamente dalle pressioni globali. Queste pressioni si manifestano per tramite
dei mercati internazionali e di organizzazioni come l’Unione europea. La convergenza e
l’internazionalizzazione dei settori pubblici nazionali si svolgono lungo alcune direttrici principali
che sono state ampiamente illustrate dalla dottrina (Peters e Pierre 1998):
1. Ideazione di nuovi strumenti di controllo e di responsabilizzazione:
Cambia il ruolo dei rappresentanti eletti, che generalmente viene ridimensionato. La leadership
politica è meno legata a un pubblico ufficio elettivo, e inizia a dipendere in maggiore misura
dall’imprenditorialità politica. I leader politici assumono una responsabilità chiave nello sviluppare
reti e “consorzi” di risorse pubbliche e private. L’unico ruolo di tipo tradizionale che rimane alla
politica è quello di stabilire gli obiettivi e le priorità.
2. Ridimensionamento della separazione tra pubblico e privato:
È necessario colmare il gap che si è creato tra lo stato e il resto della società. Chi opera sul mercato,
sotto forte pressione, ha sviluppato modelli sofisticati di gestione e di allocazione delle risorse. Le
burocrazie pubbliche sono rimaste isolate a lungo da ogni tipo di pressione. Il risultato di questo
sono disorganizzazione e trascuratezza, inefficienza, ossessione per le procedure, indifferenza verso
i bisogni degli utenti. Le teorie del New Public Management affermano che le tecniche di gestione
efficienti sono le medesime in ogni settore, e non dovrebbero quindi venire differenziate a seconda
della natura pubblica o privata dell’organizzazione (Peters 1996).
3. Maggiore enfasi sulla competizione:
L’idea di sfruttare la competizione per creare maggiore efficienza e più attenzione verso i “clienti”
nel settore pubblico è una chiara dimostrazione della penetrazione dei principi di derivazione
aziendalistica. L’introduzione della competizione ha conseguenze di portata rilevante: richiede un
allentamento dei controlli politici sul funzionamento del servizio e l’attribuzione di un’ampia
discrezionalità decisionale a tutti i livelli dell’organizzazione. Grazie alla creazione di un mercato
interno per tutti i servizi, la competizione consente a ogni unità organizzativa di valutare i propri
costi in maniera molto più accurata.
4. Maggiore enfasi sul controllo dei risultati:
Il controllo sui risultati viene introdotto con l’uso di indicatori quali la soddisfazione degli utenti,
oppure introducendo attori privati o volontari nella produzione e nella fornitura dei servizi pubblici,
per incentivare l’osservanza delle regole di buona amministrazione e l’adattamento alle esigenze dei
cittadini.
5. Ideazione di nuovi strumenti e tecniche di direzione:
Dirigere indicando la direzione, o “timonare” come su una barca (steering), è il compito chiave per
il settore pubblico sia secondo le teorie della governance, sia secondo le teorie del New Public
Managment (Rhodes 1997, 49). “Timonare” comporta stabilire le priorità e fissare gli obiettivi. Uno
degli slogan più popolari è che lo stato dovrebbe concentrarsi “più a timonare e meno a remare”.
Minimo comune denominatore di queste direttrici di intervento è uno stato che, se ancora non
diventa “minimo”, è certamente più snello, meno costoso e potenzialmente più efficiente dello stato
“weberiano”. Le direttrici di intervento si traducono in provvedimenti specifici di riforma
inquadrabili in tre categorie: 1) “di mercato”, 2) “partecipativi”, 3) “di deregolazione”.
Le riforme di mercato (Merusi 2002) comprendono tra le altre: l’introduzione del modello delle
agenzie, che come abbiamo già detto tenta di separare l’amministrazione dalle decisioni politiche;
compensi legati al merito per gli impiegati pubblici; creazione di un quasi-mercato interno
separando fornitori e acquirenti nel settore pubblico; una contrattazione basata sul raggiungimento
degli obiettivi, specie per il reclutamento degli alti dirigenti; l’adozione di un bilancio per
competenza invece che per cassa, enfatizzando l’importanza del capitale disponibile e dei costi per
gli oneri futuri; la revisione di ogni programma amministrativo sulla base di un’analisi dei costibenefici; la creazione di “sportelli unici” in tutti quei casi in cui è possibile eliminare duplicazioni di
competenze.
Le riforme di natura partecipativa mirano a migliorare la qualità dei servizi coinvolgendo nelle
decisioni i lavoratori del settore e gli utenti (spesso ribattezzati “clienti”). Le riforme di
partecipazione includono: i diritti procedurali dei cittadini nei confronti delle istituzioni; la gestione
della qualità; il decentramento, che devolve la responsabilità dei progetti verso gli enti periferici; le
carte dei cittadini o carte dei servizi, che stabiliscono i livelli minimi di qualità che ci si può
attendere per i servizi resi.
La deregolazione si basa sull’assunto che molte delle regole stabilite negli enti pubblici per la
gestione del personale, del bilancio e degli approvvigionamenti sono inutili e andrebbero eliminate.
Vi sono diverse somiglianze con le riforme di mercato, ma l’elemento centrale in questo caso è
diverso. La deregolazione può prevedere: il cambiamento delle regole di gestione finanziaria, in
modo da consentire alle agenzie di decidere con maggiore autonomia; l’attribuzione di maggiore
autonomia alle singole unità amministrative su contratti di fornitura e appalti; l’eliminazione dei
controlli rigidi sulle assunzioni, sulle promozioni e sui licenziamenti dei dipendenti pubblici (Peters
1997).
Ogni tradizione amministrativa ha reagito in maniera differente nel recepire o rifiutare i diversi tipi
di riforma. I cambiamenti nel settore pubblico dipendono certamente da diverse variabili culturali,
che incidono sulla circolazione delle idee e delle politiche. I paesi geograficamente vicini e
politicamente simili sono in questo agevolati. Le macro-regioni che vengono spesso utilizzate per
classificare i sistemi amministrativi consentono in effetti di prevedere in maniera abbastanza
accurata la diffusione delle innovazioni. La cultura anglo-americana si è dimostrata particolarmente
incline alle riforme di mercato, mentre quella tedesca vi si è opposta con forza. La tradizione
amministrativa scandinava si è dimostrata invece ricettiva verso le iniezioni di managerialità. Le
riforme di deregolazione sono state attuate più di frequente in Australia e negli Usa rispetto
all’Europa. Le riforme più comuni sono state quelle di tipo partecipativo, seguite dalla
deregolazione interna negli enti pubblici. Questo ha riguardato soprattutto le politiche del personale
pubblico. Il cambiamento più popolare sembra essere il decentramento, seguito a poca distanza
dalla qualità. L’adozione degli sportelli unici e del bilanci per competenza non ha invece riscosso
grande successo. Ora analizzeremo più nel dettaglio e attraverso esemplificazioni alcune di queste
riforme.
3.1.
I diritti procedurali e di partecipazione
La nascita e l’evoluzione dei diritti di partecipazione può essere illustrata in modo esauriente
facendo riferimento ai mutamenti avvenuti nelle procedure interne della Commissione europea
riguardanti l’intervento dei cittadini. I diritti procedurali dinanzi alla Commissione sono
sostanzialmente tre, e hanno coinciso ciascuno con altrettante fasi della storia della Comunità
europea.
Il primo tra questi diritti, cioè il diritto di essere ascoltati nel caso di sanzioni o di altre misure
restrittive imposte dalla Commissione, è emerso negli anni ’70 nell’ambito delle procedure antitrust.
In questa fase il ruolo promotore è stato assunto dalla Corte di giustizia, influenzata dalla
concezione britannica del diritto degli amministrati ad essere ascoltati con garanzie analoghe a
quelle di un giudizio (Bignami 2004b, 62).
Il secondo dei diritti procedurali considerati è il diritto di accesso ai documenti e alla trasparenza
delle istituzioni, che emerge nel corso degli anni ’90 (Harden 2001). La giurisprudenza delle corti
comunitarie, oggi, parla di un diritto fondamentale di accesso ai documenti come principio generale
del diritto dell’Unione (Harden 2001). L’impulso decisivo in questo senso è stato dato dalle
pressioni e dall’esempio di quei paesi che già avevano una tradizione e una prassi amministrativa di
open government: Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Finlandia30.
30
In Italia si è parlato di un esercizio contrattato delle pubbliche funzioni a proposito degli art. 10 e 11 della legge n.
241 del 1990 sul procedimento amministrativo. Queste norme prevedono il diritto dei cittadini di prendere visione dei
Il terzo e più recente stadio dei diritti procedurali ha una diretta derivazione statunitense, e riguarda
la partecipazione diretta dei privati alle procedure legislative e di regolazione. Il dibattito nella
Comunità è ancora incentrato sulle condizioni da rispettare per consentire a privati cittadini,
associazioni o imprese, cioè a quella che viene denominata società civile, di partecipare in maniera
più organica alle attività pubblico-istituzionali (Bignami 2004b, 62). La proposta di Costituzione
europea ha sancito con l’art. I-47 il principio della “democrazia partecipativa”.
Se il diritto ad essere ascoltati ha ormai trovato una definitiva consacrazione nell’art. II-101 della
proposta di Costituzione e può essere considerato un diritto “stabile”, le altre due tipologie di diritti
di partecipazione si trovano ancora in una fase fluida. Il diritto alla trasparenza e all’accesso ai
documenti hanno una storia travagliata. Nei primi anni ’90, la posizione contraria all’entrata in
vigore del Trattato di Maastricht espressa dalla Danimarca trovò il suo fondamento proprio nella
sfiducia verso Bruxelles riguardo alla capacità di auto-regolamentare discrezionalmente l’accesso ai
documenti di governo. Solo con il Trattato di Amsterdam del 1996 l’ordinamento comunitario
riconosce in via generale il diritto di accesso dei cittadini ai documenti detenuti dalle istituzioni, ma
esclusivamente per le tre istituzioni principali, ossia Parlamento, Consiglio e Commissione31. Il
diritto di accesso viene ribadito dalla Carta di Nizza, e solo nel 2001, dopo lunghi negoziati, viene
adottato il Regolamento che ne disciplina l’esercizio32. Fino a tempi recenti le domande di accesso
formulate dai cittadini non sono state molte, ma questo non significa che approntare regole ispirate
all’apertura abbia un’importanza trascurabile (Harden 2001, 189).
Il diritto di soggetti e di organizzazioni della società civile di partecipare ai procedimenti legislativi
e decisionali inizia ad essere preso in considerazione verso la fine degli anni ’90. Cittadini,
associazioni e gruppi di interesse fanno già sentire indirettamente la loro voce nella politica
comunitaria, e quello che si chiede ora è di farli divenire legittimi partecipanti a tutti gli effetti.
Come si è detto, la partecipazione democratica della società civile trova un riconoscimento chiaro
nell’art. I-47 della proposta di Costituzione, ma l’attuazione pratica di questo diritto è ancora da
definire. Le consultazioni con la società civile, da pratica amministrativa non vincolante creata dalla
Commissione per uso interno, diverrebbero dunque una prerogativa costituzionalmente garantita da
tutte le istituzioni. Rimane aperta la questione se tale diritto sarà interpretato fin da subito dalla
giurisprudenza come vincolante e non invece come una disposizione programmatica (Bignami
2004b, 81-82).
documenti del procedimento e di essere ascoltati, e qualora ne ricorrano i presupposti contemplano la possibilità di
concludere accordi procedimentali e sostitutivi fra cittadino e pubblica amministrazione.
31
Art. 255, Trattato di Amsterdam, in GUCE (C340/97).
32
Regolamento CE del 30 maggio 2001, n. 1049/2001, riguardante l’accesso ai documenti del Parlamento Europeo, del
Consiglio e della Commissione, in GUCE (L145/01).
3.2.
L’ombudsman e la difesa della buona amministrazione
Tra gli strumenti di promozione della qualità dell’azione amministrativa, l’ombudsman si è distinto
nel secondo dopoguerra come l’istituto a più alta capacità di diffusione internazionale (Mortati
1974). Oggi più di 100 paesi nel mondo dispongono di un ombudsman o di un’autorità analoga a
livello nazionale, senza contare quindi gli ombudsman istituiti a livello locale. L’istituto
dell’ombudsman, meglio noto in Italia con il nome di “difensore civico”, è nato in Svezia nel 1809,
e dopo più di un secolo di incubazione ha iniziato a diffondersi nei paesi scandinavi e poi in tutto il
mondo.
Le caratteristiche fondamentali dell’ombudsman sono oggi quelle di uno “sportello reclami” per il
cittadino scontento del trattamento ricevuto dalla pubblica amministrazione. Con i poteri informali e
di moral suasion di cui dispone (raccomandazioni alla pubblica amministrazione, relazioni ufficiali
al parlamento, facoltà di proporre riforme) l’ombudsman è spesso in grado di risolvere in via
negoziata le controversie tra l’amministrazione e i privati (Rowat 1973; Cominelli 2005), e di
proporsi come istituzione per riformare le altre istituzioni. I costi contenuti e i tempi di intervento
ridotti hanno reso l’ombudsman un’alternativa praticabile alla giurisdizione amministrativa (Leino
2004, 364).
Dei 25 membri dell’Unione europea solo Italia e Germania, pure se dotati di ombudsman a livello
regionale e locale, non dispongono oggi di un ombudsman a livello nazionale. Nel 1995 anche
l’Unione europea ha nominato il primo ombudsman comunitario (denominato “Mediatore europeo”
nella versione italiana dei trattati), competente a ricevere i reclami dei cittadini dell’Unione nei
confronti delle istituzioni comunitarie. Nei primi dieci anni della sua attività l’ombudsman
comunitario ha visto quadruplicarsi il numero dei reclami ricevuti, e ha ottenuto la modifica di
numerose decisioni e prassi amministrative non pienamente rispondenti ai canoni della buona
amministrazione.
L’istituto dell’ombudsman ha avuto un notevole successo nelle organizzazioni statali e oggi si
diffonde anche nelle organizzazioni internazionali. È uno strumento flessibile e una fonte
permanente di proposte di riforma amministrativa. Le pressioni dell’Ombudsman europeo hanno
fatto sì che la Carta di Nizza e la Costituzione incorporassero il diritto alla buona amministrazione,
e ha spinto diverse istituzioni a prendere in considerazione la possibilità di vincolarsi a un “codice
di buona amministrazione” per i propri funzionari.
Ci si è chiesti se l’ombudsman non possa essere in grado di sviluppare e proporre autonomamente
degli standard migliorativi della prassi amministrativa partendo dal punto di vista del cittadino. La
strada migliore per l’ombudsman probabilmente è diversa, e consiste nel vigilare sulla qualità
dell’amministrazione da un punto di vista non legalistico, promuovendo la cultura del servizio in
campo amministrativo (Tomkins 2000). Se questo può non essere un problema per la cultura
amministrativa nordica, le difficoltà si presentano con il modello amministrativo tedesco e con il
modello francese e sud-europeo.
L’ombudsman si adatta al contesto istituzionale e culturale in cui si trova, e modula i suoi interventi
seguendo la stella polare del cambiamento e della buona amministrazione. Sempre più frequente
negli ordinamenti nazionali è la precisazione di cosa costituisca “buona amministrazione”,
effettuata a contrario attraverso la compilazione di casistiche di cattiva amministrazione. Il concetto
di cattiva amministrazione è stato mutuato dal diritto inglese, e com’è naturale è più ampio rispetto
alla categoria dell’illegittimità (Fernández de Landa Montoya 1996, 346). Oltre che nei paesi
anglosassoni, il principio di buona amministrazione è usato anche in Danimarca, in Norvegia, in
Finlandia e in Svezia (Kuusikko 2001, 458 e 462).
3.3.
Pubblica amministrazione e Alternative Dispute Resolution (Adr)
Nella sua opera di mediazione tra il cittadino e le amministrazioni l’ombudsman mette in pratica un
sistema di Adr pubblicistico (Cadeddu 2004; Cominelli 2004). Le caratteristiche che distinguevano
le controversie fra privati da quelle fra pubbliche amministrazioni e privati stanno svanendo (Chiti
2000a, 20). Ai privati viene assicurato sempre più spesso un ruolo attivo nel procedimento
amministrativo. Divengono quindi più frequenti le ipotesi in cui l’esito del procedimento può essere
determinato anche tramite accordi (Chiti 2000b, 307). Le pretese giuridiche sollevate, anche se
invocate nell’interesse di un ente pubblico, possono essere considerate alla luce delle circostanze
del caso concreto, senza che con questo venga meno il fine ultimo dell’interesse generale. Questo
vale anche quando vi sia una fase contenziosa.
Per citare uno degli sviluppi più recenti in questo campo, nel marzo del 2001 il governo del Regno
Unito ha emanato una direttiva indirizzata alle amministrazioni nazionali, dettando alcune linee33
guida sulla gestione del contenzioso . Anche in campo pubblico dovrebbero essere utilizzate
procedure di Alternative dispute resolution (arbitrato, conciliazione, mediazione) in tutti i casi in cui
esse rappresentano il metodo di gestione della disputa più idoneo. A quattro anni di distanza dalla
direttiva, un rapporto pubblicato dal Dipartimento per gli Affari Costituzionali del Regno Unito
dimostra che l’incremento nell’uso dei metodi di Adr nel settore pubblico britannico è stato
significativo. L’invito del governo inglese sembra dunque avere sortito il suo effetto. Le Adr oggi
sono utilizzate in controversie sempre più complesse, e hanno portato a un risparmio che solo per il
2004 è stato stimato in 14 milioni di sterline (circa 21 milioni di euro).
33
Government’s ADR Pledge, Lord Irvine, 23 marzo 2001.
L’iniziativa britannica ha un precedente nella legislazione federale statunitense. Nel 1990,
l’Administrative Dispute Resolution Act (ADR Act) ha stabilito in capo alle agenzie amministrative
federali l’obbligo di considerare gli strumenti alternativi prima di fare ricorso al contenzioso
(Cominelli 2005, 79). Per tutelare gli interessi pubblicistici più rilevanti, l’ADR Act del 1996 ha
elencato alcune ipotesi in cui il ricorso agli strumenti alternativi dovrebbe essere escluso (sec. 572,
General authority): quando è necessario stabilire un precedente che abbia portata generale; quando
la controversia potrebbe influire su politiche pubbliche che richiedono ulteriori passi prima della
decisione definitiva; quando è necessario mantenere una regolazione speciale, e il procedimento di
Adr non assicurerebbe la necessaria coerenza tra le singole decisioni riguardanti casi individuali;
quando la questione coinvolge in modo significativo persone od enti che non sono parte del
procedimento; quando è importante che della controversia rimanga una registrazione pubblica
dettagliata; quando l’agenzia amministrativa interessata debba mantenere la facoltà di poter
decidere sulla questione in base a nuove circostanze, e il procedimento di Adr interferisca con
questa facoltà.
L’utilizzo delle Adr in un contesto pubblico, e quando siano in gioco interessi di natura pubblica,
potrebbe a breve cessare di essere un tabù. L’utilizzo di strumenti di derivazione privatistica può
essere anche considerato una conseguenza dell’introduzione dei principi del decentramento (Madell
2005). Negli Stati Uniti l’aggiudicazione formale non è più il sistema d’elezione nei procedimenti
decisionali delle agenzie, specialmente nella definizione delle politiche amministrative (Edles 2000,
554). La negoziazione fra poteri amministrativi e interessi privati avviene orizzontalmente, con
procedure pubbliche regolamentate nella procedura ma libere quanto ai contenuti della discussione
e ai risultati. Il modello europeo vede invece le istituzioni negoziare informalmente e privatamente
con i gruppi di pressione, senza procedure pubbliche (Ziamou 2000, 46).
3.4.
Le Carte dei servizi per il cittadino
Le Carte dei servizi (o Carte del cittadino) sono un esperimento sorto da un’iniziativa del governo
britannico conservatore di John Major, lanciato nel 1991 con l’intento di mettere in atto un
programma decennale per il miglioramento dei servizi pubblici34. La Citizen’s Charter si proponeva
di fissare standard qualitativi nell’erogazione dei servizi, di misurare la validità delle prestazioni e
in ultima analisi di favorire il miglioramento della qualità, attraverso l’esercizio di una pressione da
parte dell’opinione pubblica. Gli standard stabiliti nella carta potevano essere di tipo quantitativo
(ad esempio tempi di attesa massimi) o di tipo qualitativo (ad esempio rispetto della privacy e della
dignità dell’utente), e in caso di violazione era prevista una forma di risarcimento. Dai dieci anni
34
Cabinet Office, The Citizen’s Charter. Raising the standards, Londra, 1991.
inizialmente previsti, l’iniziativa è stata portata avanti “solo” per cinque anni, ma con un discreto
successo. Nonostante questo non sono mancate le critiche. Nella prospettiva del Traditional Public
Managment, l’iniziativa rischiava di confondere in maniera pericolosa le aspettative del cittadino
con quelle del cliente o del consumatore (Lo Schiavo 2000, 680-681).
Negli anni seguenti altri paesi hanno seguito l’esempio della Citizen’s Charter: tra questi vi sono
stati Francia, Belgio, Portogallo, Italia e Spagna (Torres e Pina 2004). L’iniziativa italiana è partita
nel 1993 con il governo Ciampi, preceduta da un Libro bianco del Dipartimento della Funzione
Pubblica35. La differenza sostanziale rispetto al modello inglese era tuttavia che non si previde uno
standard per i servizi applicabile a livello nazionale, lasciando invece a ogni singolo ente la facoltà
di fissare standard minimi propri.
Oltre a questo, la conoscenza delle Carte dei servizi fra i cittadini italiani, almeno nelle fasi iniziali,
è stata molto scarsa perché poco pubblicizzata. L’adozione delle Carte è stata ritardata di molti mesi
o addirittura di anni. Un sondaggio compiuto nel 1998 dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas
ha rivelato che la conoscenza delle Carte fra i cittadini variava a seconda del settore, e anche nei
settori più virtuosi non superava mai il 10%. Nei servizi elettrici, gli standard di qualità erano stati
stabiliti direttamente dagli operatori, con obiettivi non molto ambiziosi. I risarcimenti nel caso di
disservizi erano emessi solo su richiesta, e vista la scarsa conoscenza degli standard, nella
stragrande maggioranza dei casi tali risarcimenti non venivano nemmeno domandati.
Poca attenzione è stata inoltre dedicata alla fase di messa in pratica e alla valutazione dei risultati
delle Carte dei servizi. Nel Regno Unito l’implementazione del progetto venne affidata a una task
force operativa permanente dotata di ottime risorse. Il Comitato incaricato della supervisione sulle
Carte dei servizi in Italia non è stato dotato di uno staff permanente ed era formato da 3 esperti parttime, tanto che si parlò di “politica abbandonata” (Lo Schiavo 1998), anche se diverse esperienze
locali ebbero un discreto successo (Lo Schiavo 2000, 691).
Tuttavia, l’elemento di differenziazione più significativo rispetto ad altre esperienze è stato che
nell’applicazione pratica italiana gli standard di qualità sono stati confusi con un diritto
formalizzato ad un certo livello di prestazioni. Al contrario si è notato che il metodo migliore per
rendere le Carte strumenti efficaci non è quello di creare obblighi vincolanti per gli enti erogatori
dei servizi, ma piuttosto obblighi morali di responsabilità e di disponibilità verso i cittadini. Uno dei
vantaggi delle Carte dei servizi nel Regno Unito è stato di riuscire a migliorare la qualità senza che
fosse necessario mettere in atto grandi riforme legislative. I provvedimenti legislativi che
stabiliscono nuovi diritti rischiano anzi di costituire un ostacolo allo sviluppo di servizi pubblici più
35
Dipartimento della funzione pubblica, La carte dei servizi. Proposte e materiali di studio, Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato, Roma, 1991.
flessibili e responsive. Nel Regno Unito, i risultati della valutazione non sono serviti solo per
irrogare sanzioni, ma anche e soprattutto per creare aspettative più alte.
Le differenze nel legame fra “diritto” e “azione” sono riconducibili in buona parte anche al contesto
culturale. Nel common law profile, la Carta dei servizi rappresenta uno strumento verificabile
ispirato al New Public Management. Non si indicano aspettative giuridiche ma obiettivi da
raggiungere, stabiliti dall’alto per massimizzare l’attenzione pubblica degli utilizzatori e dei
dirigenti. Nel public law profile, la Carta dei servizi tende a confondere standard di qualità con
diritti, e finisce per creare garanzie aggiuntive che di fatto spesso si rivelano poco efficaci nel
sistema amministrativo (Lo Schiavo 2002, 695).
3.5.
Networks e “Quangos”
Le pressioni verso il cambiamento esercitate sulla pubblica amministrazione hanno prodotto una
redistribuzione di competenze e responsabilità, che generalmente si è indirizzata verso la periferia,
ma che spesso ha assunto anche una nuova struttura di rete o di network. La struttura gerarchica e
piramidale del settore pubblico si è dimostrata sempre più spesso una modalità non del tutto
adeguata al contesto dell’azione pubblica. I controlli gerarchici sono efficaci solo nei campi
politicamente e tecnologicamente semplici, che richiedono compiti di intervento umano non
complicati. Le politiche più complesse possono essere governate solo attraverso una continua
negoziazione fra le parti interessate.
La struttura reticolare che molte parti del settore amministrativo vanno assumendo rappresenta una
forma ibrida e ampiamente informale dell’organizzazione collettiva della vita pubblica, che va oltre
i confini delle organizzazioni formali e delle frontiere nazionali. La network analysis sembra per
molti avere affiancato o sostituito la policy analysis (Bogason e Toonen 1998, 205-206).
Le reti, le interdipendenze e i modi di governance e di risoluzione delle dispute non gerarchici
diventeranno sempre più importanti nel futuro, e si assisterà a una continua frammentazione delle
organizzazioni pubbliche e private, così come della società civile (Bogason e Toonen 1998, 225).
Secondo taluni il governo “reticolare” è già di fatto dominante nelle politiche pubbliche. Anche se
non ufficialmente, le aggregazioni di attori costituite da organizzazioni e istituzioni che
formalmente non hanno il potere di indicare le politiche, nei fatti già ne controllerebbero la
definizione. Le agenzie statali hanno ancora il potere di dare il loro imprimatur, ma le decisioni vere
verrebbero già prese nel settore privato. E se le istituzioni pubbliche cercano di imporre il loro
controllo, i networks sono in grado di resistere e organizzarsi per sottrarvisi (Peters e Pierre 1998).
La gestione di un network è molto più complicata rispetto alla gestione di tipo gerarchico. Le
difficoltà sono ancora più grandi in un contesto di politiche pubbliche come quello dell’Unione
europea che, a causa di diversi fattori, è già complesso in partenza: i rapporti all’interno della
Commissione, la necessità di esercitare pressioni allo stesso tempo verticalmente e orizzontalmente,
la necessità di coordinare diverse amministrazioni nazionali, la difficoltà insita nel creare un quadro
delle risorse disponibili a livello nazionale, la delicatezza nell’identificare e nel risolvere particolari
debolezze nell’azione amministrativa dei singoli stati membri (Schout e Jordan 2005, 217). Diviene
ancora più pressante l’esigenza di integrare gli strumenti di analisi delle politiche tradizionali con la
ricerca interdisciplinare (Bogason e Toonen 1998, 225).
Parte integrante dei network sono i cosiddetti quangos (quasi-autonomous nongovernmental
organizations). I quangos sono organizzazioni che si collocano in quella ormai vasta zona grigia
che si è formata tra i mercati e le gerarchie istituzionali di vecchio tipo (Greve 1999). Un esempio
molto interessante di quango è Amtrak, la compagnia ferroviaria statunitense per il trasporto dei
passeggeri. Amtrak è stata creata con una legge federale nel 1970, ma non è un dipartimento o
un’agenzia federale, né un organismo collegato con il governo degli Stati Uniti, anche se riceve dei
fondi dal Dipartimento dei Trasporti. Amtrak è una società costituita secondo il diritto del Distretto
di Columbia, e fra i membri del consiglio d’amministrazione siede di diritto il segretario dei
trasporti.
I quangos sono quindi enti privati o misti esterni all’organizzazione statale, cui vengono delegati
compiti pubblici. La più grande dote dei quangos è l’adattabilità e l’indipendenza di giudizio nel
venire incontro ai bisogni della comunità. Ciò consente di rimediare alle falle di quello che è stato il
metodo di adozione delle decisioni privilegiato dalle grandi organizzazioni pubbliche, e che è stato
definito “sinottico” (Lindblom 1959). Il metodo più efficace di fronte alla complessità delle scelte
da compiere si è dimostrato quello di dividere le politiche in campi di decisione distinti e
circoscritti, assegnando ciascuno di essi ad attori differenti.
I quangos sono estremamente flessibili e secondo alcuni sono un portato del New Public
Management. Le relazioni dei quangos con il settore pubblico possono essere di natura contrattuale
e talvolta anche gerarchica, o più facilmente un ibrido fra le due. Quello che di solito non sussiste è
il legame diretto con l’organo legislativo. L’esercizio dell’amministrazione attraverso i quangos
reimposta secondo modalità nuove il rapporto principal-agent in campo pubblico (Bertelli 2005). I
governi cercano con maggiore continuità il soggetto ideale per attuare le loro politiche, anche al di
fuori dell’amministrazione. La delega delle funzioni pubbliche viene compiuta con sempre
maggiore attenzione alla particolare natura dei compiti che dovranno essere svolti. La gamma delle
organizzazioni potenzialmente utilizzabili si amplia notevolmente. In questo modo l’utilizzo dei
quangos permette di bypassare il sindacato dei poteri legislativi, la legislazione in materia di
impiego pubblico ed entro certi limiti anche il controllo degli organi giudiziari (Bertelli 2005, 5).
I quangos tendono a diventare molto popolari, perché sono visti con occhio favorevole da
un’opinione pubblica sempre più scettica verso i metodi tradizionali della politica (Flinders 1999,
30). Dall’altro lato è anche possibile che con i quangos crescano i rischi di malversazioni: denaro
pubblico e funzioni nella sostanza pubbliche vengono affidati a soggetti che non sono stati eletti e i
cui legami con gli organi di controllo sono labili (Hirst 1995, 341).
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