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Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Rapporto introduttivo alla ricerca su Il processo di europeizzazione della P.A Pubblica Amministrazione e processo di europeizzazione: quali valori e quali prassi. Responsabile: Prof.ssa Maria Rosaria Ferrarese 2005 L’internazionalizzazione della Pubblica Amministrazione Di Luigi Cominelli . Dal diritto internazionale all’internazionalizzazione del diritto C’era una volta il diritto internazionale, si potrebbe dire. Gli studenti del passato studiavano il diritto internazionale come proiezione della sovranità dello stato, ossia come autolimitazione che gli stati si davano, sottoponendosi a norme stabilite in accordo con altri stati. Tutta una serie di condizioni esterne accompagnavano questa teorizzazione: ad esempio, gli accordi interstatali erano in numero limitato, coinvolgevano pochi stati, ed erano preceduti da round allestiti per l’occasione tra gli stati contraenti. Oggi gli accordi internazionali sono tantissimi, hanno un carattere spiccatamente multilaterale (si pensi alla WTO che registra l’adesione di 51 stati) e coesistono con istituzioni internazionali saldamente insediate, che gestiscono con continuità i rapporti tra i paesi interessati dall’accordo. Una delle conseguenze di questo nuovo assetto è la quasi impossibilità di esercitare quella che Hirshmann chiama la exit-option. E’ vero che nel Trattato istitutivo dell’Unione, ad esempio, la possibilità del recesso è contemplata, ma è una possibilità più teorica che pratica, data la convenienza a restare, innanzitutto per ragioni di carattere economico, ma altresì di immagine. Dunque gli stati sono legati l’uno all’altro in maniera fortemente interdipendente e vedono diminuire il proprio volto sovrano a vantaggio di un volto “contraente” che si combina con qualche difficoltà con il vecchio concetto di sovranità statale ( 1 ). Inutile aggiungere che, a ridosso di tale fenomeno, non solo cresce il rilievo ed il potere delle burocrazie internazionali, ma le stesse burocrazie nazionali vengono largamente interessate dall’esistenza di questi accordi e dalle varie vicende, anche conflittuali, che li accompagnano. Paradossalmente, questo massiccio cambiamento dello scenario internazionale sembra tracciare al contempo una sorta di apoteosi e di contestuale decadenza del diritto internazionale. Da una parte lo scenario internazionalistico appare straordinariamente animato e vivace, assai arricchito rispetto al passato di nuove presenze e di nuove dinamiche; dall’altra, vi è, in questa eccessiva animazione, un profondo cambiamento, che attenta a quei presupposti che erano tipici del diritto internazionale, innanzitutto quello della piena e totale autonomia dello stato, sotto l’egida della sovranità. Proprio la presenza di nuovi soggetti, di nuove dinamiche normative, di nuove condizioni di contesto sottraggono al diritto internazionale molta parte dei tradizionali presupposti, lo 1 Rinvio al mio Le organizzazioni internazionali e gli stati “contraenti”, in “Rassegna italiana di Sociologia”, n. 2/2003. riempiono di nuovi caratteri, di contorni incerti, di profili misti, facendo apparire una sorta di sua profonda crisi. Di questa contraddittoria situazione sembra dar conto una espressione che sempre più largamente viene usata e che dà nome a questa ricerca: “internazionalizzazione” e specialmente “internazionalizzazione del diritto”. In apparenza, l’espressione sembra descrivere una semplice prosecuzione del compito tradizionalmente svolto dal diritto internazionale ed è invece l’indicazione di un sostanziale cambiamento di quel programma, per almeno due ragioni. In primo luogo, il diritto internazionale faceva pensare ad un assetto relativamente fermo e stabilizzato: un assetto normativo fatto di accordi, di norme consuetudinarie e di principi giuridici generali, che reggeva i rapporti tra gli stati in generale e tra specifici stati in particolare. L’internazionalizzazione è un processo, un movimento che non ha un chiaro punto di arrivo, e che coincide con tutte le vicende che si sviluppano lungo il suo percorso. Essa convive con il diritto internazionale tradizionalmente inteso, ma dà luogo a nuove dinamiche e percorsi. In secondo luogo, ed è forse questo l’aspetto più importante, questa espressione contiene una semantica rovesciata rispetto all’altra: mentre il diritto internazionale lasciava pensare ad una situazione relativamente stabilizzata, che implicava chiusura, l’internazionalizzazione lascia pensare ad una condizione tendenzialmente instabile, ad un processo aperto e disponibile a registrare nuovi percorsi e vie inedite. L’internazionalizzazione dunque designa una situazione di apertura, di disponibilità, di dialogo. Ci si può chiedere che differenza vi sia tra internazionalizzazione e globalizzazione: è impossibile stabilire una netta differenza di significato, poiché i due concetti hanno molto in comune. Si può tuttavia cogliere una importante sfumatura semantica tra i due termini. Nel primo caso si allude piuttosto ad un processo di esposizione di ciò che è interno ad influenze e pressioni provenienti da altri stati e culture. La globalizzazione lascia pensare invece piuttosto a qualcosa di potente che, dall’esterno, coinvolge ciò che è interno, modificandolo più o meno sensibilmente. Un’altra significativa sfumatura semantica sta nel fatto che l’internazionalizzazione ha una portata più limitata, indica un’apertura, ma un’apertura relativa. La globalizzazione ha una portata ed un peso più significativi, senza confini, che sembra addirittura prescindere dagli stati. E’ evidente che la situazione di internazionalizzazione implica profondi cambiamenti e che i cambiamenti hanno costi di vario genere. Infatti alcuni si limitano a negare il cambiamento, per evitare tali costi, determinando quella situazione che l’economia caratterizza come path dependency: se, continuando a camminare sul solco già tracciato, invece che cambiare strada, si evitano i costi e si eludono i rischi che sono propri del cambiamento, al contempo, si perdono le opportunità che dallo stesso cambiamento derivano. E’ questa in qualche modo la situazione in cui versa oggi la stessa P.A., sospesa tra accettazione e rifiuto delle implicazioni che comporta il processo di internazionalizzazione. L’Europa tra internazionalizzazione e globalizzazione Qui si inserisce il discorso sull’Europa, che sta a mezza strada tra globalizzazione ed internazionalizzazione. Per un verso, l’Unione prende avvio attraverso una classica organizzazione internazionale di tipo post-onusiano; per un altro verso, essa sembra aver interpretato ante litteram alcuni tratti e tendenze del processo di globalizzazione, specialmente nel suo superamento delle dinamiche tipiche delle organizzazioni internazionali, e nel suo andare molto al di là di esse. La letteratura per lo più identifica questo andare molto al di là delle classiche organizzazioni internazionali nel superamento della pura interstatualità, attraverso la messa in comune di parti della sovranità. Ma forse c’è anche dell’altro. L’Europa è laboratorio di un modello specifico, poiché rappresenta anche un inedito punto di incontro tra due importanti tradizioni istituzionali, quale quella europeo-continentale e quella di common law. Questo aspetto non sempre viene sottolineato come merita: se è vero infatti che le due tradizioni apparentemente resistono, in realtà una grande contaminazione ha avuto luogo sul suolo europeo ed essa ha profonde ricadute anche in tema di pubblica amministrazione. Si può vedere in Europa l’elaborazione di una nuova concezione della Pubblica Amministrazione che deve sia alla tradizione anglosassone che a quella continentale, anche se in misura disuguale. Questa concezione molto deve alla tradizione anglosassone su un duplice fronte: ossia sia in tema di open government sia in tema di cultura del mercato. In altri termini, da una parte all’idea che i processi amministrativi e di governo debbano essere come case di vetro, trasparenti ed accessibili ad un tempo; dall’altra all’idea che essi funzionano meglio se sono esposti anche a logiche, dinamiche e valutazioni di tipo economico. Lo spirito riformatore che ha investito la Pubblica Amministrazione nel nostro paese e in Europa risente significativamente di entrambe queste influenze. Sia le riforme indirizzate alla trasparenza e all’accesso (riforme di natura partecipativa), sia la riforma della dirigenza in direzione manageriale, che hanno profondamente cambiato il volto della nostra P.A. derivano da uno sguardo rivolto alle tradizioni anglosassoni. E’ però una innovazione europea l’idea della P.A ome dispensatrice di beni essenziali per l’esercizio pieno della cittadinanza. L’inclusione di alcuni diritti come quello ad “una buona amministrazione” ( 2 ), che ha allargato il catalogo dei diritti, acquista senso nell’ambito di una configurazione tipicamente europea dello status di cittadinanza. Dunque l’Europa oggi si presenta come un universo istituzionale che ha profondamente rimescolato le sue culture ed ha adottato, per usare un ossimoro che è stato forgiato con riferimento ad altre circostanze, un metodo improntato ad una sorta di “pragmatismo cartesiano”. Ciò che è certo, è che, riscrivendo i tratti della Pubblica Amministrazione, si riscrive anche un pezzetto non solo del diritto amministrativo, che assume tratti assai diversi dal passato ( 3 ), ma anche dell’assetto costituzionale complessivo, ridefinendo in senso attivo e partecipativo una cittadinanza che nel passato era assai più statica ed ingessata. Ciò che ne deriva è un aumento della soglia di responsabilizzazione della P.A., paradigmaticamente rappresentata dal “diritto ad una buona amministrazione” sancito dalla carta costituzionale europea. Nonostante tale carta sia oggi ancora soggetta ad incerto destino, accade che, così come altre parti di quella scrittura costituzionale continuano a vivere nella prassi istituzionale dei paesi dell’Unione, anche quel diritto tenda a radicarsi sempre più nella coscienza pubblica, del nostro e di altri paesi europei, anche se viene ancora largamente disatteso. Del resto, quel diritto già trova, in ambito comunitario una importante proiezione nell’istituzione dell’Ombudsman, che permette a tutti, almeno con riferimento alle istituzioni comunitarie, di avere lo stesso atteggiamento del mugnaio che si augurava: “ci saranno dei giudici a Berlino”! Esiste una nozione europea di pubblica amministrazione? Ma esiste una nozione europea di pubblica amministrazione? Questo interrogativo ha animato non poco il dibattito tra gli studiosi, senza poter ricevere risposte chiare e definitive. In un panorama caratterizzato da grandi diversità ed asimmetrie normative, il dato più evidente è l’osmosi tra i diritti amministrativi nazionali e il diritto amministrativo europeo. 2 In proposito, si veda R. Bifulco, nel commento all’art. 41.Diritto ad una buona amministrazione, in R. Bifulco-M. Cartabia-A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carte dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Mulino, Bologna 2001, p. 285. Inoltre, A. Zito, Il “diritto ad una buona amministrazione” nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e nell’ordinamento interno, in “Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, 2002. 3 Si veda S. Cassese, Tendenze e problemi del diritto amministrativo, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, Fasc. 4/2004 , e Id., Il diritto amministrativo globale, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, Fasc. 2/2005. Inoltre, E. Chiti, Integrazione europea, Il Mulino, Bologna 2003. Ma, com’è stato notato, “il ritardato decollo del diritto amministrativo europeo, inteso come ambito della riflessione scientifica, spiega perché manchi un corpo di nozioni sviluppato ed esteso a tutte le principali componenti dell’amministrazione ( 4 ). Tuttavia non sono mancate nuove elaborazioni. Una nuova nozione è quella di “organismo di diritto pubblico”, che era sconosciuta al diritto italiano, e che si è affacciata sia attraverso il diritto comunitario scritto, sia attraverso la giurisprudenza dei giudici comunitari ( 5 ). L’alterità di tale nozione comunitaria consiste nella sua valenza essenzialmente funzionale, che serve ad individuare i soggetti tenuti all’osservanza del diritto comunitario. Tale nozione, tuttavia, rispondendo sia al principio di supremazia del diritto comunitario, sia al principio di integrazione, ha esercitato anche una diretta influenza sugli Stati membri dell’Unione, contribuendo a delineare cambiamenti sensibili specialmente in alcune materie come quella degli appalti, a seguito di recepimento e attuazione della direttiva comunitaria in materia ( 6 ). Ancor più, l’integrazione amministrativa tra i paesi europei ha ormai chiari caratteri giuridici che permettono lo sviluppo di un approccio teorico alla materia ( 7 ). Ma, al di là delle nozioni giuridiche, vecchie e nuove, è chiaro che una nuova concezione della pubblica amministrazione va emergendo in ambito comunitario e che essa si proietta in modi variabili anche all’interno degli stati. Ovviamente, non si tratta di una nozione chiara e limpida, proprio perché essa non può più contare su chiari contorni giuridici. Si assiste in tal senso al tramonto del tradizionale profilo sociologico della P.A., magistralmente ritratto dall’analisi weberiana. In quel ritratto, il burocrate era impegnato in un dialogo soprattutto con le norme. Oggi, tutti i presupposti che facevano da sfondo a quel ritratto sono profondamente mutati, a partire dal contesto di legalità: com’è stato notato, il regime giuridico attuale non è più imperniato essenzialmente sul contesto di legalità, sia formale che sostanziale, che era tipico dell’Europa continentale: “tra gli atti manca la legge, intesa come complesso di istituti positivi e, prima ancora, come categoria teorica, sicché l’uso della locuzione <legislazione> non solo è priva di valore prescrittivo, ma è da soppesare con cautela anche sul piano conoscitivo” ( 4 8 ). E non è tutto: “un’altra profonda differenza G. Della Cananea, L’amministrazione europea, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2003, p. 1800. 5 M. P. Chiti, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, Cleub, Bologna 2000. 6 Si veda ivi, p. 86 e ss. 7 In tal senso è importante il contributo di E. Chiti-C. Franchini, L’integrazione amministrativa europea, Il Mulino, Bologna 2003. 8 Così G. Della Cananea, L’amministrazione europea, cit., p. 1874. consiste nella idoneità delle norme non scritte a fungere da parametro di legittimità” ( 9 ). Basti in proposito pensare al ruolo sempre più significativo che anche in questa materia ha finito per giocare la Corte di giustizia, con una giurisprudenza che continuamente compone e ricompone l’acquis communitaire. Questa presenza significativa della giurisprudenza nel delineare il paesaggio europeo della pubblica amministrazione ancora una volta prova quel carattere misto della configurazione, che vede ricongiungersi le sue due tradizioni giuridiche di civil e di common law. Non c’è dubbio, tuttavia, che questo incontro tra Cartesio e il pragmatismo non sia avvenuto esattamente a metà strada, e che siano stati i tratti della cultura anglosassone ad influenzare il modello europeo-continentale, più di quanto questi non abbiano influenzato quelli. Probabilmente, il rapporto ineguale tra le due componenti del mix lo si può mettere in rapporto con due aspetti del processo di globalizzazione, che paradossalmente coesistono, e che si possono così individuare: da una parte, nella crescente rilevanza del mercato come criterio di organizzazione anche di attività pubbliche e, dall’altra, nella crescente diffusione in Europa di quella cultura del costituzionalismo americano, da intendere come teoria dei limiti del potere. In altri termini, se il volto legalistico della P.A. viene ridisegnato dalla vita economica globale, che trasmette il bisogno di flessibilità e pragmatismo anche alle istituzioni, la cultura del costituzionalismo, dando all’idea dei diritti individuali uno spazio che nei vecchi stati non aveva, e ponendo i diritti in posizione chiave nei processi di legittimazione, contribuisce a riscrivere anche la collocazione istituzionale della P. A. Soprattutto questo secondo aspetto merita di essere rilevato, dato l’oggetto della presente ricerca. Via via che la società e la vita pubblica europea imparano sempre più a “prendere i diritti sul serio”, la P.A. diventa istituzione sempre più significativa per realizzare tale obiettivo, soprattutto in riferimento a diritti di cittadinanza e di natura economica. Correlativamente, la sua collocazione istituzionale, tradizionalmente ben insediata nella configurazione statale, registra un sensibile spostamento e passa a collocarsi sempre più a metà tra stato e società civile. Accade insomma alla P.A. un cambiamento simile e parallelo a quello registrato dalla magistratura e dalle corti, che, soprattutto a livello internazionale, svelano sempre più la propria vocazione di istituzioni di garanzia. A partire dallo scenario europeo, un simile cambiamento coinvolge anche la P.A., la cui trama garantista si colloca a presidio di una nuova idea di cittadinanza, intessuta di “diritti amministrativi” ( 9 10 ). Ed è Cfr. ibidem In tal senso, R. Bifulco, nel commento all’art. 41. Diritto ad una buona amministrazione, in R. Bifulco-M. Cartabia-A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. 10 proprio nella “individuazione di un catalogo di diritti/doveri nel rapporto cittadinoamministrazione” che si può individuare un ulteriore affievolimento del tradizionale volto legalistico, poiché “essa attribuisce rilievo giuridico all’attività più che agli atti” ( 11 ). E’ a partire da questi connotati, profondamente modificati, che si cercherà ora di dar conto dell’osmosi tra istituzioni comunitarie e istituzioni nazionali. La Pubblica Amministrazione come istituzione intermestic Dopo aver tracciato i principali connotati del nuovo volto della P. A., sull’onda del processo di armonizzazione europea, il compito non è esaurito. Non cambiano solo i tratti e la collocazione istituzionale della P.A.: cambiano anche il clima e le condizioni in cui essa è chiamata a svolgere i suoi compiti. Nel tramonto del profilo legalistico che la caratterizzava nel passato non c’è solo il venir meno delle norme scritte, ampiamente intese, ma vi è anche la sua immissione in un nuovo contesto di complessità istituzionale, determinato dall’affievolimento della funzione centralizzatrice degli stati e dalla nascita di nuove dinamiche che coinvolgono dall’esterno le attività statali. Si può parlare in proposito di una nuova dinamica di tipo interattivo, che era del tutto inconsueta nel passato, e che oggi coinvolge tutti i settori giuridici ( 12 ) e, di riflesso, le stesse attività amministrative. Dalla statica alla dinamica giuridica ed istituzionale, si potrebbe dire: sull’onda della moltiplicazione di soggetti, fonti e punti di riferimento che entrano nell’orizzonte del giurista o del pubblico amministratore, si sviluppa il ricorso ad una metodologia giuridica ed istituzionale dinamica ed interattiva. Laddove nel passato vi era un orizzonte coeso e coerente di fonti giuridiche, oggi si delinea un orizzonte assai più affollato ed incerto. L’incertezza si delinea anche a causa della sensibile attenuazione della ratio gerarchica che una volta stabiliva chiare scale di priorità. Ad esempio, nel rapporto tra stati ed enti sovranazionali, vi è spesso una implicita natura competitiva dei rapporti che non è governabile in base a chiare ragioni gerarchiche ( 13 ). Ad esempio, a dispetto di una gerarchia ormai ufficiale, che vorrebbe le corti europee gerarchicamente superiori a quelle 11 Così F.G. Scoca, voce Attività amministrativa, in “Enciclopedia del diritto”, vol. di aggiornamento VI, Giuffrè, Milano 2002, p. 75 e ss. 12 Per il diritto internazionale è più facile la teorizzazione di tale aspetto dinamico, anche in termini di game theory. Si veda B. Frischmann, A Dynamic Institutional Theory of Internazional Law, in “Buffalo Law Review”, vol. 51, 2003. Rinvio altresì al mio Le organizzazioni internazionali e gli stati “contraenti”, in “Rassegna italiana di Sociologia” 2002. 13 Rimando al mio Dalla concorrenza tra ordinamenti alla competizione giuridica diffusa, in A. Zoppini (a cura di), La concorrenza tra gli ordinamenti giuridici, Laterza, Roma-Bari 2004. nazionali, com’è stato notato, spesso “le “supreme” corti europee che formalmente rappresentano l’ultima possibilità di ricorso delle parti rappresentano solo un penultimo livello di significato” ( 14 ). Il carattere dinamico appare ancor più se si considera che oggi le attività statali sono contemporaneamente sottoposte ad una duplice pressione: sia verso la dimensione “ultrastatale”, come la chiama S. Cassese, sia verso la dimensione infrastatale. In entrambe queste tensioni vi è un implicito carattere di “denazionalizzazione”, che comporta effetti ampiamente analizzati specie da S. Sassen ( 15 ). E’ qui da segnalare come la singolare contestuale entrata in campo di punti di riferimento più o meno localistici e più o meno “globali”, per quanto non priva di una razionalizzazione formale e di criteri di ripartizione delle competenze, ponga nel complesso lo stato come una sorta di “arena” ( 16 ). La letteratura ha reso popolare il termine “glocale” per indicare una situazione di contaminazione tra locale e globale, che sempre più spesso è il modo di essere della globalizzazione ( 17 ). Come ben ha messo in rilievo Robertson, l’autore di questo fortunata crasi, tendenzialmente, non si dà una dimensione globale che prescinda del tutto dal locale, così come, al contrario, non si dà dimensione locale, che prescinda del tutto dal globale. Meno noto è un altro termine con cui si cerca di dar conto di queste nuove tendenze, e che appare particolarmente adatto a descrivere la situazione di esposizione internazionale della P.A.: ”intermestic”, un aggettivo che vuole caratterizzare situazioni e questioni che sono allo stesso tempo domestiche ed internazionali, e che si pongono in qualche punto intermedio tra queste due categorie ( 18 ). Questo termine appare particolarmente adatto non solo a catturare nuove realtà combinatorie tra luoghi e contesti diversi, che si creano lungo il processo di internazionalizzazione, ma anche il senso di mancanza di piena autonomia o di totale autosufficienza di uno come dell’altro polo della dicotomia. Come ben illustra l’esempio della contaminazione tra globale e locale, anche questo termine convoglia il significato della contaminazione e del compromesso tra spinte domestiche e spinte internazionali. Caratterizzare la P.A. come istituzione tendenzialmente intermestic significa dunque sottolineare la sua condizione di sospensione tra tentazioni domestiche ed influenze 14 Cfr. F.G. Scoca, voce Attività amministrativa, in “Enciclopedia del diritto”, cit., ibidem. S. Sassen, The State and Globalization: Detionalized Partecipation, in “Michigan Journal of International Law”, vol 25 (2004). 16 Traggo il termine da S. Cassese, La crisi dello stato, Laterza, Roma-Bari 2002, 17 In tal senso rimando a R. Robertson-K.E. White, La glocalizzazione rivisitata ed elaborata, in F. Sedda (a cura di), Glocal Sul presente a venire, Luca Sassella Editore, Roma 2004. 18 Si veda D. Thelen, Mexico, the Latin North American Nation: A Conversation with Carlos Rico Ferrat, in “Journal of American History”, vol 86 ( 1999). 15 internazionali. Ma per rendere conto di tale esposizione non basta far riferimento al contesto normativo che la riguarda: occorre tenere conto anche della rilevanza sempre maggiore assunta dalla dimensione giurisprudenziale nello sviluppo del diritto europeo. Specialmente l’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia non solo ha contribuito a delineare ante litteram una carta dei diritti in Europa, ma ha determinato anche una vera e propria riscrittura di alcuni articoli dei Trattati. Questa riscrittura ha riguardato, ad esempio, il tema dell’accesso ai posti nelle pubbliche amministrazioni, o è derivata da una interpretazione evolutiva di alcune disposizioni, ad esempio in tema di aiuti di stato o di definizione dell’impresa pubblica. Infine, è stata prodotta per via interamente giurisprudenziale nella materia della responsabilità extracontrattuale degli stati membri per violazione del diritto comunitario o in fatto di capacità di ’”effetto diretto” ( rilevano non poco per la P. A. ( 20 19 ) delle direttive: tutti aspetti che ). Attraverso il contributo giurisprudenziale della Corte di giustizia si può dunque rinvenire un’altra importante radice della dinamica intermestic, che investe le pubbliche amministrazioni nazionali, inclusa la nostra. Ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, per la funzione svolta da quella Corte come garante dell’integrazione europea, una funzione ormai consolidata nella pratica e ripetutamente analizzata dalla letteratura; ma anche per un’altra ragione, che sta nel carattere stesso dell’arena giudiziaria, che mette in contatto istanze opposte e che, nel permettere il dispiegamento del conflitto, permette anche logiche di avvicinamento e di compromesso tra le parti amministrative a cui si richiamano ( 21 o tra le tradizioni giuridiche ed ). L’internazionalizzazione come processo aperto e complesso. Si suole definire la globalizzazione anche come crescente assenza di un centro: non solo manca a livello globale una costruzione istituzionale parallela a quella statale, ma gli stati stessi perdono sempre più capacità ordinatorie ed accentratrici. Si sviluppa così, sempre più, 19 Questo cambiamento è particolarmente significativo e, com’è stato notato, “costituisce una vera rottura con il diritto internazionale pubblico. L’Europa qui rimette in causa la tradizionale congruenza tra potere e Stato”. Così M. C. Ponthoreau, L’internationalisation du droit public, Rapporto generale tenuto al Convegno su Internationalization of Public Law/L’internationalisation du Droit Public 20 Sui contributi giurisprudenziali si rinvia ancora a Chiti, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di P.A., cit., specie p. 37 e ss. 21 Mi sono soffermata su tali caratteri proprii della giurisdizione nel mio Il diritto al presente, Il Mulino, Bologna 2002. da un lato una concezione di “stato aperto” e dall’altro un’idea di “amministrazione multilaterale” ( 22 ). “Stato aperto” è poco meno di un ossimoro: il carattere tipico della sovranità statale era proprio la sua impermeabilità a forze e volontà esterne. Oggi questa accezione della sovranità è sempre più difficile da sostenere, via via che la rete degli accordi internazionali si fa fitta ed estesa a materie sempre più numerose. Ma agli accordi internazionali va aggiunta la qualità sovranazionale dell’organizzazione europea, che è un unicum. In Europa, dunque, gli stati hanno deciso di ridefinirsi come entità chiuse-aperte, che comunicano reciprocamente su alcuni temi dell’integrazione ( 23 e che imboccano la strada dell’armonizzazione e ). Da ciò ovvie ricadute sulla P.A., come si è già detto in precedenza. Ma, in che senso si può parlare di una “pubblica amministrazione multilaterale”? Essa è tale poiché “le amministrazioni nazionali divengono articolazioni di quella comunitaria nel momento in cui soddisfano ed esercitano competenze e compiti che attengono ad interessi della Comunità inerenti ad una medesima funzione” ( 24 ). Anche grazie al principio di sussidiarietà, che funge da criterio ordinatore del pluralismo delle amministrazioni, si sviluppa una inevitabile dinamica interattiva, destinata ad espandersi piuttosto che a contrarsi. La rilevanza di tale principio va sottolineata perché esso, oltre a contribuire al disegno di un’arena pubblica europea dinamica e interattiva ha contribuito ad attenuare anche il profilo gerarchico delle istituzioni europee, disegnando uno scenario parzialmente di carattere evolutivo. La P.A. esce profondamente ridefinita dal processo di integrazione europea anche per un altro aspetto, che la lega direttamente al profilo costituzionale dell’Europa. Essa vede accentuati il proprio ruolo e la propria responsabilità nella dinamica di integrazione europea. Il suo farsi “multilaterale” risponde a questa nuova investitura funzionale, che certo riguarda solo alcuni spezzoni dell’amministrazione, ma che non cessa di penetrare ogni giorno sempre più anche altre pratiche e professionalità amministrative. Naturalmente, il cammino verso l’internazionalizzazione non è né facile né senza ostacoli. Basti pensare ai problemi del multilinguismo in Europa. Ancor più, vi sono problemi di comunicazione giuridica tra tradizioni che hanno diversi presupposti e trascorsi, che attribuiscono significati non coincidenti alle parole, e che conservano accezioni anche divergenti di termini ed istituti ( 22 ). Inoltre, le resistenze statali verso una completa Si veda E. Sanna Ticca, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, Giuffrè, Milano 2004, p. 84 e ss. 23 Per uno sguardo esteso sulla integrazione normativa europea ed extraeuropea, M. Delmas-Marty, Critique de l’integration normative, Puf, Paris 2004. 24 Cfr. E. Sanna Ticca, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, cit., p. 88. armonizzazione sono ancora tante e forse non verranno meno mai del tutto. Tutte queste ragioni contribuiscono a variegare piuttosto che a ridurre le interazioni che sono all’origine della P.A. come istituzione intermestic, ed a rendere piuttosto complesso il contesto in cui essa opera. Si deva a un francese, Charles S. Ascher, uno dei primi tentativi di internazionalizzazione della P.A. in un lungo periodo che andò dagli anni 30 agli anni 60 del secolo scorso ( 25 ). Il suo tentativo portò a dialogare l’Europa con gli Stati Uniti, sul presupposto di un processo amministrativo con comuni radici e logiche. Oggi l’Europa è sul sentiero di una più coesa internazionalizzazione, attraverso strumenti e un progetto istituzionale molto avanzati. Il tentativo è di grande importanza e chiama la P. A. farsi parte di un progetto assai ambizioso: essere parte di una “internazionale di élite nazionali”, che pratica l’“internazionalizzazione come strumento di universalizzazione” ( 25 26 ). P.Y. Saunier, <Tel Mickey Mouse jouant au tennis…>. Charles S. Ascher et l’internationalization de la public administration, in “Actes de la Recherche en Sciences sociales”, n. 151-152. 26 Y. Dezalay, Les courtiers de l’international. Héritiers cosmopolites, mercenaires de l’imperialisme et missionaires de l’universel, in “Actes de la Recherche en Sciences sociales”, n. 151-152 Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Rapporto di ricerca L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Luigi Cominelli 1. La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni 1.1. Introduzione 1.2. Processi di convergenza e divergenza 1.3. Il New Public Management 2. La convergenza in Europa 2.1. I principi di buona amministrazione nella Carta di Nizza e nella proposta di Costituzione europea 2.2. La governance 2.3. Evoluzione amministrativa nei paesi europei 3. Le direzioni della convergenza 3.1. I diritti procedurali e di partecipazione 3.2. L’ombudsman e la difesa della buona amministrazione 3.3. Pubblica amministrazione e Alternative Dispute Resolution (Adr) 3.4. Le Carte dei servizi per il cittadino 3.5. Networks e “Quangos” 1. 1.1. La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni Introduzione L’internazionalizzazione sta coinvolgendo a ritmi accelerati tutti gli aspetti della vita pubblica e privata. Tendenze e movimenti globali, europei, nazionali e subnazionali, interagiscono in vari modi e si influenzano e si adattano a vicenda (Olsen 2001; Ferrarese 2000). L’internazionalizzazione sta anche cambiando il modo di governare e di amministrare degli stati (Lazar 2001; Botcheva e Martin, 2001). L’internazionalizzazione è un catalizzatore vitale per il cambiamento, perché minaccia direttamente chi si rifiuta di cambiare. Il risultato può consistere in una serie di drammatici mutamenti nei paradigmi di riferimento e nell’introduzione di nuovi attori e idee che scardinano i monopoli di policy e le path dependencies. Da che cosa sono causati i mutamenti che sconvolgono le politiche pubbliche, e di conseguenza il modo di gestire le amministrazioni? Si è parlato in proposito di perturbazioni sistemiche (eventi esterni come guerre, disastri, elezioni o cambiamenti di leadership), di sconfinamenti delle politiche fra subsistemi amministrativi, di apprendimento delle politiche da sistemi politici diversi (Howlett e Ramesh 2002, 36-37) e infine di forum-shopping tra le arene istituzionali in cui le politiche sono decise (Zoppini 2004). Il processo di internazionalizzazione, in particolare, si svolge in genere in due fasi: in un primo momento oscilla dalla stabilità verso l’instabilità, per poi periodicamente tornare a situazioni di relativa calma (Kubler, 2001). Un concetto di riferimento nell’analisi dei processi di internazionalizzazione, o meglio delle resistenze all’internazionalizzazione, è quello della “path dependence”. La path dependence è la difficoltà ad innovare dovuta alla fedeltà ai comportamenti e alle eredità istituzionali (Pierson 2000; Rose 1990). Le politiche del passato influenzano le politiche del presente in primo luogo a causa dei costi già sostenuti e degli investimenti effettuati che, cambiando, non sarà più possibile recuperare (sunk costs), e in secondo luogo a causa delle routine e delle “pigrizie” istituzionali o delle procedure sperimentate, che influenzano l’assunzione delle decisioni riducendo le opzioni disponibili (Weir 1992). Il cambiamento è economicamente costoso e psicologicamente faticoso. L’internazionalizzazione, attraverso percorsi diversi, ha fatto comunque breccia anche nel settore pubblico (Bell 1992): legal transplants, condivisione delle best practices e fissazione di obiettivi comuni a livello internazionale in campo monetario, ambientale, commerciale, sanitario, spesso a seguito di trattati internazionali che, a vario titolo, mirano all’armonizzazione. Una classe dirigente pubblica globale è in via di formazione, anche grazie alle agenzie internazionali permanentemente sotto i riflettori come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio ecc. (Albrow 1996, 123). Questi sono tutti allo stesso tempo cause ed effetti della pressione internazionale. Oggi questa pressione porta inevitabilmente le amministrazioni a convergere, ma non è stato sempre così. 1.2. Processi di convergenza e divergenza Il processo di internazionalizzazione, inteso come convergenza, non è una costante della storia e neppure del periodo storico moderno. Sabino Cassese individua una prima fase di convergenza degli ordinamenti giuridici europei tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo (Cassese 2003 e 1992). In quel periodo i sistemi giuridici comunicano tra di loro e possiamo parlare di un diritto comune europeo aperto e composto “del diritto comune romano, con la propria fonte nel ‘corpus juris giustinianeo’, del diritto feudale, del diritto dei commerci di terra e di mare e del diritto dei rapporti internazionali”. È frequente il ricorso alle auctoritates straniere e alla lex alii loci. Il lavoro dei giuristi è intriso di comparazione e la comparazione non è ancora un corpo separato. La rottura avviene nel diciannovesimo secolo, sull’onda dello statalismo e delle teorizzazioni giuridiche che ne derivarono. Un esempio di tale rottura è nel Code Napoléon, che nella sua foga razionalizzatrice esclude l’applicazione di ogni diritto straniero (Cassese 1992, 25-29). L’inversione di tendenza finirà per organizzarsi intorno al dualismo e alla divergenza fra sistemi giuridici di common law e sistemi giuridici di civil law (Garner 1929, 387). Nel sistema giuridico inglese il lavoro del giudice è più simile a quello di un arbitro neutrale. Il gioco viene lasciato a politici e amministratori. In Germania, ad esempio, come in molti altri paesi dell’Europa continentale, il sistema è opposto. La legge è garanzia di libertà e l’amministrazione può agire solo nei ristretti confini tracciati dalla legge (Bell 1992, 19). Un’ipotesi sulle origini di questa contrapposizione, forse troppo enfatizzata, sostiene come siano stati gli ideologi del liberalismo francese a esaltare lo spirito democratico del common law in funzione polemica contro il proprio governo. Tocqueville critica la natura arbitraria e autoritaria del governo francese, che non garantisce i diritti dei privati nei confronti dello stato, che non concede libertà di governo locale, che priva i sudditi del ricorso giudiziario contro i funzionari ed attribuisce poteri esorbitanti all’apparato burocratico giustificandoli formalmente con il diritto amministrativo. Il sistema inglese viene idealizzato per contrapposizione e trasformato in un modello astratto non del tutto corrispondente alla realtà dei fatti. Anche nel Regno Unito infatti le prerogative reali sono schiaccianti (The King can do no wrong), l’autonomia locale è tutto sommato limitata e le corti di giustizia sono lontane e costose. In Francia intanto i poteri del Parlamento sono stati ampliati, il Conseil d’Etat ha assunto la giurisdizione sugli apparati burocratici e il sistema amministrativo ha sviluppato garanzie a tutela dei privati che non sono inferiori a quelle previste dal diritto civile. La contrapposizione però si è fissata stabilmente (Cassese 1992, 27-29). Esaurita la spinta divergente, culminata forse in maniera non casuale con le due grandi guerre mondiali del ventesimo secolo, oggi gli stati subiscono due tipi di pressioni alla convergenza. Un primo tipo di spinta convergente è stata definita come “naturale” o spontanea. Un esempio è il decentramento e l’introduzione di livelli di governo intermedi tra lo stato centrale e le municipalità. Anche l’ideologia del libero mercato esercita pressioni per favorire la convergenza amministrativa secondo schemi non formalizzati (Bell 1992, 4). Un altro genere di spinta verso la convergenza è indotta dagli enti e dalle organizzazioni transnazionali. In Europa questa spinta è più forte grazie all’influenza delle istituzioni comunitarie, e in primo luogo della Commissione e della Corte di giustizia della Comunità europea. Gli ordinamenti nazionali riuniti dal diritto comunitario iniziano a guardare reciprocamente ai rispettivi sistemi giuridici per risolvere i problemi comuni (Koopmans 1991, 54). Gli elementi condivisi nel processo di convergenza a livello internazionale sono stati chiaramente schematizzati come segue (Cassese 1992, 30-31): 1) la legge rimane il riferimento principale, pure se viene accantonato il modello “neoassolutistico”: alle amministrazioni non è consentito solo ciò che è vietato, ma tutto quanto serva per raggiungere gli scopi istituzionali; 2) le aspettative giuridiche sono riconosciute come diritti non solo tra i privati, ma anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni; 3) nei confronti delle pubbliche amministrazioni è sempre prevista una tutela giurisdizionale, e anche nei sistemi dualistici a diritto amministrativo, dove essa è affidata a un giudice speciale, vi è comunque una certa uniformità di principi tra i due sottosistemi; 4) si instaura un rapporto di collaborazione e non più di dominazione tra il centro e la periferia; 5) ovunque viene riconosciuta cittadinanza a una branca speciale amministrativa del diritto. Oggi le direttrici della convergenza indirizzano gli stati e i governi verso la privatizzazione o la creazione di agenzie indipendenti per lo svolgimento dei servizi pubblici, verso la contrattualizzazione del rapporto di lavoro con i dipendenti pubblici e verso l’istituzione di agenzie di regolazione nel settore finanziario (Bell 1992, 4). Si è peraltro evidenziata anche una tendenza eccessiva a interpretare tutti gli sviluppi nel senso della convergenza ignorando i segnali di divergenza (Preforms 1998). Le possibili resistenze verso la convergenza vengono in molti casi proprio da alcune differenze distintive che separano sistemi di common law e di civil law. Nei paesi di common law l’istituzione di un regime speciale pubblicistico in un determinato settore deve essere giustificato con rigore, e non può essere compiuto con un generico richiamo al pubblico interesse (Bell 1992, 5). Inoltre, nella generalità dei casi l’amministrazione deve agire per le vie giudiziali ordinarie, e non dispone di un potere esecutivo d’imperio come nei paesi di civil law (Bell 1992, 21). Fra i movimenti spontanei di convergenza nel campo dell’intervento pubblico, il più rilevante è quello nato a partire degli anni ’70 e definito negli anni ’90 come New Public Management. Nella descrizione di chi lo ha studiato, il New Public Management porta a un vero e proprio cambiamento di paradigma nelle politiche di gestione della cosa pubblica. Originatosi e diffusosi capillarmente nei paesi anglosassoni, il New Public Management esercita oggi il suo impatto in tutto il mondo. 1.3. Il New Public Management Il New Public Management preconizza l’avvento dello stato manageriale (Sgroi et al. 2005; Aucoin 1990; Hood 1991). Il mondo occidentale negli anni ’70 si trova di fronte alla duplice sfida dell’inefficienza amministrativa e del deficit pubblico. Pochi sono disposti a negare che i servizi vadano migliorati, che i programmi di assistenza pubblica debbano essere amministrati meglio e che l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari vada promossa. Dagli anni ‘70 l’immagine dello stato che dirige la società unilateralmente con il monopolio del potere e della legislazione viene messa in crisi. Cade il sostegno al dirigismo centralista delle organizzazioni pubbliche (Kickert 1997, 735). La globalizzazione dei commerci si è già avviata da tempo ma è in questo periodo che probabilmente essa supera la sua soglia critica. La crisi economica indotta dall’aumento del prezzo del petrolio può considerarsi all’origine della crisi del tradizionale modo di pensare il settore pubblico nei paesi industrializzati. Si apre insomma il dibattito sulla pubblica amministrazione e i suoi costi. Al settore pubblico viene richiesto un recupero di efficienza. In diversi settori produttivi gli anni ’80 portano una notevole iniezione di cultura del mercato e della concorrenza. Nel settore delle banche e del trasporto aereo i cittadini si abituano a livelli di assistenza al cliente più alti. Le aspettative sulla qualità dei servizi salgono, e si fa strada la consapevolezza che il modo migliore per fare progressi non è necessariamente attraverso l’attività di una costosa burocrazia (Flynn 1995, 61). La burocrazia statale in un certo modo viene delegittimata, mentre il settore privato (profit e non profit) viene indefettibilmente rappresentato come il più efficace (Peters e Pierre 1998). A partire dagli anni ’80 nei paesi anglosassoni (sembra che a iniziare sia stata la Nuova Zelanda) vengono avviate una serie di riforme della pubblica amministrazione ispirate a un nuovo paradigma. La spinta verso il cambiamento viene favorita dalle nuove agende politiche neoliberali che individueranno nel mercato le modalità organizzative più soddisfacenti (Torres e Pina 2004, 447). Gli imperativi del New Public Management spingono al perseguimento di una netta separazione fra funzioni politiche e funzioni più strettamente amministrative27, all’introduzione della competizione e alla contrattualizzazione dei rapporti di fornitura di servizi pubblici, al ridimensionamento degli apparati amministrativi e alla loro divisione in unità organizzate per servizio o per prodotto, all’adozione di stili di gestione ispirati al management privato, alla definizione di standard di servizio formalizzati e facilmente verificabili, alla misurazione delle performance e al controllo sui risultati. Quali che fossero i valori di riferimento del settore pubblico, l’aspirazione a riformarlo ha assunto le connotazioni di una “pandemia” (Boyne 2003, 211), e i valori del New Public Management sono stati propagandati dalle più influenti organizzazioni transnazionali (Ocse, Fmi e Banca mondiale) come il metodo brevettato per costruire governi e amministrazioni moderni (Wollmann 2002, 152). Le soluzioni pratiche volte ad ottenere questi cambiamenti sono la devoluzione di poteri verso la periferia, il controllo sugli apparati pubblici per favorire l’assunzione di responsabilità, la garanzia della libertà di scelta agli utenti, il miglioramento della gestione delle risorse umane, l’ottimizzazione delle potenzialità informatiche e il miglioramento nella qualità della regolazione (Torres 2004, 100). Il New Public Managment è una metodologia che si inscrive nelle teorizzazioni cosiddette dello stato minimo, è un’affermazione della superiorità del settore privato ed è un tentativo di introdurre nel settore pubblico i meccanismi del mercato e della competizione (Rhodes 1997). Anche nell’amministrazione il ricorso all’iniziativa individuale è benefico perché promuove efficienza (Maesschalck 2004, 477). Per stimolare il ricorso ai meccanismi di mercato si ricorre alla privatizzazione (Flynn 1995, 62). I valori del settore privato sono riassunti nella dottrina delle tre “e”: economia, efficienza ed efficacia (Maesschalck 2004, 466). Il settore privato “tende a essere migliore nello svolgimento di attività economiche, nell’innovazione, nel replicare gli esperimenti di successo, nell’adattarsi ai cambiamenti più rapidi, nell’abbandonare le attività obsolete e nello svolgere compiti complessi o ad alto contenuto tecnico” (Osborne e Gaebler 1992, 45–46). Il New Public Managment giunge a dispiegare la sua influenza nei paesi del Nord Europa (dove sfida i concetti della “probità del settore pubblico”), nell’area di influenza amministrativa tedesca (dove mette in crisi “l’obbedienza amministrativa di stampo prussiano”) e in Francia e nei paesi dell’area mediterranea (dove pone in discussione l’idea di “interesse generale”) (Torres e Pina 2004, 458). 27 In Italia la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa in senso proprio è stata introdotta dal D.lgs. n. 29 del 1993 ed è oggi ribadita nel D.lgs. n. 165 del 2001 (Sgroi 2005). I critici delle nuove tendenze privatistiche e managerialistiche si raccolgono sotto quello che viene definito il movimento della Traditional Public Administration. Secondo questi oppositori del New Public Management la privatizzazione impedisce il lavoro di squadra nell’amministrazione e annulla la dimensione etica del decision making pubblico (Maesschalck 2004, 467 e 478). A lungo tuttavia nessuno è parso in grado di fornire nuove alternative al managerialismo anglosassone (Kickert 1997, 750), e chi contava su un rapido esaurimento delle spinte liberistiche indotte dall’internazionalizzazione è rimasto deluso (March e Olsen 1998). In ogni paese le teorie del New Public Management vengono filtrate e applicate con notevoli adattamenti alle peculiarità del caso e alle esigenze culturali locali. Non vi è dunque una tendenza globale verso un modello uniforme di New Public Management. Lo studio comparato condotto da Olsen e Peters (1996) su otto paesi conclude che l’ideologia del New Public Management non è stata universalmente accettata. Nei paesi presi in considerazione, le idee di managerialità, di imprenditorialità privata e di mercato competitivo non sono stati ancora pienamente adottati con uguale entusiasmo come modelli per il settore pubblico, e anzi in alcuni contesti vengono rifiutati con forza. 2. La convergenza in Europa 2.1. I principi di buona amministrazione nella Carta di Nizza e nella proposta di Costituzione europea Per esaminare il processo di convergenza, intesa come internazionalizzazione amministrativa, un’area privilegiata d’osservazione è indubbiamente l’Europa. La ragione per cui oggi in Europa il processo di convergenza viaggia a ritmi accelerati non è più la vicinanza geografica e la prossimità culturale dei paesi europei, ma piuttosto i meccanismi istituzionali volti all’integrazione europea. Sotto il grande ombrello dell’Unione convivono “famiglie” o aggregazioni di ordinamenti che si distinguono per caratteristiche omogenee anche per quanto riguarda lo stile amministrativo. Riguardo alla classificazione e all’incasellamento di questi ordinamenti, tuttavia, le opinioni talvolta divergono. Vi è ad esempio chi individua i tre modelli amministrativi principali nei modelli anglosassone, tedesco ed europeo-meridionale, pur riconoscendo alla Scandinavia e ai Paesi Bassi uno status particolare (Torres 2004). Altri invece, accanto allo stile anglosassone orientato al mercato e allo stile mediterraneo incentrato sulla famiglia, indicano tra i modelli principali lo stile scandinavo orientato allo stato (Balle Hansen e Lauridsen 2004, 514). Queste classificazioni debbono essere prese con il beneficio d’inventario, ma come vedremo ci aiutano in parte a spiegare i progressi e le difficoltà del settore pubblico in Europa. Gli sviluppi amministrativi a livello europeo lasciano ancora un grande spazio di autonomia alle istituzioni e ai soggetti nazionali. La capacità di penetrazione dei principi dell’integrazione europea negli stati nazionali non è ancora così incisiva e costante. La circolazione intraeuropea degli istituti e delle prassi amministrative è dunque ancora minore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare (Olsen 2001). Tuttavia essa non è più in discussione ed anzi nel dibattito internazionale la nascita di uno spazio amministrativo europeo è considerata come un dato di fatto. Le agenzie comunitarie e i comitati congiunti favoriscono la cooperazione tra funzionari europei e funzionari nazionali, che collaborano fianco a fianco (Nizzo 2002, 2). Il processo è favorito dalla struttura “a stella” dell’amministrazione comunitaria: dal corpo centrale organizzato in direzioni generali parte l’attività decentrata delle agenzie (Cassese 1992, 31). Al movimento di convergenza europeo contribuisce in ampia misura la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (Cassese 2003). La Corte ha individuato cosa si debba intendere per amministrazione pubblica nel diritto comunitario, ha enucleato i principi base del diritto amministrativo europeo e ha imposto principi e standard comuni per la pubblica amministrazione e i servizi pubblici (Nizzo 2002, 3-7). Le relazioni fra gli esecutivi nazionali e l’esecutivo europeo (la Commissione) sono ora decisamente saldi. La Commissione europea e tutte le agenzie e istituzioni europee tuttavia non sono amministrativamente autosufficienti, e necessitano di cooperare con le burocrazie nazionali per svolgere i loro compiti. La situazione non è sempre stata così chiara. Durante i primi trent’anni della sua storia, la Comunità era ritenuta pacificamente priva di un’amministrazione in senso proprio (Bignami 2004a, 4). Anche il Consiglio d’Europa e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno in qualche modo contribuito alla convergenza. Con una Risoluzione del 1977 riguardante la protezione dei diritti dei cittadini nei confronti degli atti delle autorità amministrative, il Comitato dei Ministri affermava il diritto dei privati ad essere ascoltati e ad avere accesso ai fatti rilevanti e all’assistenza legale, nonché i corrispettivi doveri delle amministrazioni di fornire le ragioni delle proprie decisioni e di approntare canali di reclamo di natura giurisdizionale. Una Raccomandazione del 1980 sull’esercizio dei poteri discrezionali da parte delle autorità amministrative ribadiva i principi di imparzialità, di proporzionalità e l’obbligo di rispettare tempi ragionevoli nell’emanazione dei provvedimenti (della Cananea 2003, 570). A livello comunitario la tutela nei confronti delle autorità amministrative è già garantita in via giurisdizionale dalla Corte di giustizia, a cui si è poi aggiunto il Tribunale di primo grado. Il Trattato di Maastricht del 1992 riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini europei a difendersi in via stragiudiziale contro i casi di cattiva amministrazione con il ricorso all’Ombudsman, a presentare una petizione al Parlamento europeo e a consultare i documenti in possesso delle istituzioni comunitarie. La proposta di Costituzione europea votata dalla Convenzione nel 2004, riprendendo integralmente la Carta di Nizza già approvata nel 2000, enuncia il primo nucleo delle garanzie “amministrative” per i cittadini europei. Oltre al diritto di essere ascoltati, di accedere ai fatti e di ricevere una motivazione per i provvedimenti, l’Articolo II-101 della Costituzione stabilisce il diritto di ricevere un indennizzo adeguato per i danni subiti ingiustamente da un’istituzione comunitaria o da un funzionario nello svolgimento delle proprie funzioni. La Carta di Nizza ha già trovato applicazione almeno in una decisione del Tribunale di primo grado delle Comunità europee28. In questa decisione si è affermato che l’art. 41 (art. II-101 della Costituzione) fornisce un’enunciazione dei principi generali comuni agli Stati membri in campo amministrativo. I rilievi critici sul tipo di operazione compiuta con questa dichiarazione comunitaria dei diritti umani non sono mancati. Alcune delle iniziative che miravano a stimolare il coinvolgimento dei 28 Causa T 54/1999, Max.mobil Telekommunikation Service GmbH c. Commissione europea. cittadini europei sembrano condannate in partenza. Il coinvolgimento dell’opinione pubblica nell’elaborazione della Carta dei diritti, al contrario di quelle che erano le intenzioni e di quanto dichiarato, è stato insoddisfacente. Secondo alcuni commentatori, si sarebbe dovuta usare una maggiore cautela prima di definire come un “dibattito a livello europeo” ciò che in fondo si è risolto in una consultazione di pochi politici, di alcuni giuristi e in un sito Internet29. Dopo la bocciatura della proposta di Costituzione in Francia e in Olanda la situazione sembra più che mai in sospeso. Possiamo stare certi che i modelli comunitari hanno comunque già iniziato a esercitare una forte pressione sulle amministrazioni nazionali. Pensiamo soprattutto agli apparati burocratici dei dieci nuovi stati membri che hanno fatto il loro ingresso nell’Unione il 1 maggio 2004. I nuovi membri sono per la maggior parte nuove democrazie di tipo occidentale che in precedenza appartenevano al blocco comunista e che dunque hanno ereditato un sistema amministrativo centralistico e autoritario. 2.2. La governance Alle sfide poste dal New Public Management l’Unione europea sembra aver risposto con la ricetta della governance. “Governance without government” è divenuto in molti paesi occidentali la nuova filosofia delle politiche pubbliche “negoziate”. Il presupposto di questo mutamento di paradigma è che gli attori privati influiscono sulla definizione delle politiche e sull’amministrazione con una forza che prima era inimmaginabile. Anche se la governance trova la sua ispirazione negli Stati Uniti, il dibattito sulla governance è in grande misura di origine europea, e si è concentrato nel Regno Unito e nei Paesi Bassi (Peters e Pierre 1998). Nel 2001 la Commissione pubblica il Libro bianco sulla governance europea (COM/2001/428). Il carico di lavoro della Commissione è aumentato notevolmente negli ultimi anni, ma si è voluto porre un limite alla crescita della Commissione in dimensioni. A questo si aggiunge che la popolarità dell’Unione non è alta. Di qui la necessità di incrementare la partecipazione pubblica, e stabilire contatti con i livelli di governo inferiori. Si è quindi reso necessario uno sforzo di maggiore cooperazione con i governi nazionali. In questo senso la governance europea rappresenta una specificazione del principio di sussidiarietà (Schout e Jordan 2005, 204). L’adozione di un nuovo modello di governance e la resistenza al New Public Management in diversi paesi dell’Europa occidentale è spiegabile con la forte tradizione corporativistica e legalistica dei paesi continentali. Il modello della governance si propone principalmente di amalgamare l’intervento pubblico con le risorse private, più che di introdurre la competizione nel settore pubblico, anche se la competizione in fondo viene accettata. L’intervento diretto dello stato 29 “Visigothenburgers”, The Economist, 21 giugno 2001. viene sostituito dalla capacità dello stato di influenzare le decisioni. Il risultato dell’adesione alla filosofia della governance a livello comunitario sarà un ritiro parziale delle istituzioni europee dal governo diretto, tramite l’adozione di politiche comunitarie meno dettagliate e di strumenti di coordinamento flessibili, la competizione tra gli stessi Stati membri e la delega di funzioni ai governi locali (Schout e Jordan 2005, 217). La Commissione ha elencato i sette principi fondamentali di una buona governance: partecipazione, responsabilità, efficacia, politiche coerenti, sussidiarietà, proporzionalità e accuratezza. Le idee che scaturiscono da questa visione si adattano piuttosto bene alle tendenze attuali in campo amministrativo, e tutto sommato non sono così dissimili rispetto ai dettami del New Public Management. Ciò che tuttavia il Libro bianco trascura è come affrontare i problemi che derivano dalla cooperazione transnazionale. Il bisogno di creare una cultura della cooperazione spontanea a livello nazionale può essere assecondato con iniziative semplici come: 1) creare siti web per migliorare i contatti; 2) istituire una formazione comune per i funzionari pubblici dei paesi membri; 3) stabilire programmi di gemellaggio fra nuovi e vecchi stati membri. Queste misure da sole peraltro rischiano di rivelarsi del tutto insufficienti (Schout e Jordan 2005, 207). Ci sembra ora utile passare in rassegna gli sviluppi recenti a livello comunitario e a livello nazionale di alcuni tra i principali stati europei, e verificare con mano i problemi o i segnali di convergenza. 2.3. L’evoluzione amministrativa nei paesi europei Il Regno Unito è visto a ragione come il capostipite e baluardo nel New Public Management in Europa. Nel corso degli anni ’80 Margaret Thatcher tolse potere ai centri di governo intermedi creatisi fra i vertici politici e il corpo amministrativo (sindacati, enti locali, gruppi professionali), avocando al centro la responsabilità di riformare lo stato (Torres e Pina 2004, 453). I sindacati dei dipendenti pubblici furono notevolmente ridimensionati e a capo delle agenzie amministrative vennero nominati top manager con rapporti a tempo determinato (Rhodes 1997). Le industrie già nazionalizzate e i servizi pubblici furono largamente privatizzati. I caratteri di pragmatismo e di managerialità già del resto presenti nell’organizzazione amministrativa britannica furono ancora più accentuati. Con il passaggio dal governo conservatore al New Labour nel 1997, il ruolo delle regole di mercato nei servizi pubblici passò dal dare disciplina e garantire la monetizzazione degli effetti della competizione, a essere fonte di innovazione e di rinnovamento per i servizi pubblici (Entwistle e Martin 2005, 223). Gli appalti pubblici e le procedure pubbliche di approvvigionamento si sono ispirate più a metodi collaborativi che a metodi strettamente competitivi. Nel 2000 è stato creato un Centro per la gestione e i policy studies all’interno del Cabinet Office (Sanderson 2002, 3). I paesi scandinavi per molti aspetti possono essere trattati unitariamente (Jorgensen 1996). Alcuni studiosi accomunano ad essi anche l’Olanda (Torres 2004 e Preforms 1998). I paesi della scandinavia e l’Olanda sono stati unitari in cui l’amministrazione pone una grande attenzione ai bisogni del cittadino, e vi è una tradizione risalente di consultazioni e negoziazioni tra i pubblici poteri e i privati (Torres 2004, 101). La direzione delle riforme amministrative nei paesi nordici è di un radicale decentramento della politica e dell’amministrazione, nel contesto di un settore pubblico che rimane comunque pervasivo e di un impegno dello stato a fornire prestazioni di welfare che si è ridimensionato solo in misura modesta (Preforms 1998, 158). La pubblica amministrazione scandinava rimane comunque di stampo fortemente legalistico (Jorgensen 1996). La Svezia è dotata di diverse agenzie pubbliche la cui indipendenza è garantita dalla Costituzione. I ministeri non hanno responsabilità dirette nelle decisioni delle agenzie e quindi non possono opporsi alle loro decisioni. I controlli vengono effettuati dalla giurisdizione amministrativa e dall’ombudsman. In Danimarca e Norvegia, al contrario, le agenzie pubbliche sono sottoposte a diretto controllo ministeriale. Norvegia e Svezia, a differenza della Danimarca, hanno segretari di stato di nomina politica ed elezioni parlamentari ogni quattro anni. In Danimarca il primo ministro può indire le elezioni politiche generali a sua discrezione. Queste differenze comportano differenti rapporti tra politici e funzionari amministrativi (Jorgensen 1996). In Norvegia e Danimarca nel corso degli anni ’80 è stato introdotto un sistema di gestione fondato sulla definizione degli obiettivi e la verifica dei risultati (Christensen e Laegreid 1998). Tutti i paesi nordici hanno adottato ottime iniziative per la verifica delle performance amministrative (Torres 2004, 104). Tra i paesi scandinavi alcuni ritengono che la Danimarca sia all’avanguardia per il decentramento (Preforms 1998). Rispetto alla Svezia la Danimarca ha uno stile più pragmatico e liberale, mentre la Svezia ha una lunga tradizione di analisi ufficiale delle politiche e diagnosi dei problemi amministrativi, con saldi legami tra l’accademia e la pratica (Jorgensen 1996). Nei Paesi Bassi, la tradizione istituzionale ha mirato da sempre al coinvolgimento della società civile nella fornitura dei servizi e nell’assunzione delle decisioni a livello locale (Kickert 1995). Norvegia e Finlandia sono forse rimaste indietro rispetto a Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, ma le dinamiche di riforma sono analoghe (Preforms 1998, 157). Nei paesi di area germanofona (Austria, Germania e Svizzera), il modello amministrativo rimane quello classico weberiano (Torres 2004). Il settore pubblico ha un profilo distintivo che lo colloca chiaramente al di fuori della sfera sociale ed economica. La pratica amministrativa è legata alla dottrina del Rechtstaat ed è fortemente legalistica. Gli uffici si rapportano tra di loro attraverso direttive dettagliate e sono organizzati secondo una gerarchia rigida. Il rapporto di impiego pubblico è caratterizzato dal tempo indeterminato e dalla sicurezza e intrasferibilità del posto di lavoro. I partiti reclutano la loro classe dirigente proprio tra i ranghi della pubblica amministrazione (Torres 2004, 101). La filosofia del New Public Management, basata sulla contrattualizzazione e la managerializzazione, incontra nella tradizione amministrativa tedesca ostacoli istituzionali, cognitivi e normativi. Peraltro, la tradizione amministrativa tedesca non è impermeabile alle riforme, e i funzionari conservano a ragione un buon grado di autostima a proposito della loro efficienza amministrativa (Wollmann 2001, 160). Un disegno di riforma complessiva è ulteriormente complicato dalla struttura federale di questi paesi, dove ogni regione tiene le redini delle proprie politiche amministrative e vi è una forte tradizione di autonomie locali (Wollmann 2001, 167). In Germania e in Austria non vi è stata ancora una estesa applicazione degli strumenti di controllo del bilancio per competenza e degli indicatori di performance (Torres 2004, 102). L’introduzione di strumenti contrattuali di diritto comune come metodo normale di gestione delle attività pubbliche è ancora allo stato embrionale. Gli studi sulla Germania individuano un misto tra strategie di conservazione e di modernizzazione (Pollitt e Bouckaert 2000, 178), e un cambiamento di tipo “incrementale e adattivo” (Wollmann 2001, 161). I modernizzatori sostengono che la Germania è in ritardo di 10 anni nel riformare il settore pubblico, ma la pubblica amministrazione è ancora pacificamente percepita come un campo distinto dalla società e dal settore privato (Wollmann 2001, 159). Anche il “trasloco” del governo federale da Bonn a Berlino, deciso nel 1991 e compiutosi nel 1999, non è stato sfruttato come occasione di riorganizzazione. A livello federale si discute su un ulteriore dimagrimento dei ministeri attraverso il trasferimento delle funzioni più propriamente amministrative, come la gestione dei fondi federali, alle agenzie già esistenti. Eppure a livello intra-organizzativo, e specie negli enti locali, anche la Germania ha avuto la sua iniezione di managerialità (Wollmann 2001, 165). In Svizzera lo status di funzionario pubblico è aperto e l’interscambio con il settore privato è piuttosto buono (Schedler 1997). Tuttavia i livelli salariali e l’inquadramento rigido rendono difficoltoso attrarre alcune tipologie specifiche di lavoratori (ad esempio programmatori o direttori finanziari). Ai livelli intermedi o al livello regionale della pubblica amministrazione, l’influenza dei consulenti del settore privato è stata determinante nell’introduzione di soluzioni tipiche del New Public Management (Torres 2004, 101 e 105). I paesi dell’Europa meridionale sono influenzati dal modello di amministrazione francese, fondato sulla centralità del diritto amministrativo e sull’erogazione di servizi di livello uguale in tutto il paese, ad opera di un apparato statale centrale. La gestione delle finanze pubbliche è sostanzialmente ancora accentrata, nonostante le recenti tendenze verso il federalismo e il regionalismo fiscale (Torres 2004, 104). In Francia il settore pubblico è stato solo scalfito dalla competizione. I principi del mercato e della valutazione individuale delle performance sono difficili da imporre in un contesto di pubblico impiego fortemente sindacalizzato (Guyomarch 1999, 177 e 185). Anche in Italia la pubblica amministrazione è da sempre caratterizzata dal modello weberiano, fondato sulla centralità del diritto amministrativo e sul formalismo giuridico (Capano 2003, 786). Le numerose riforme del settore pubblico che si sono susseguite a partire dagli anni ’90, si sono risolte spesso in un lungo elenco di testi normativi, che nei fatti sono stati reinterpretati in modo da conformarsi con l’egemonia del paradigma legalistico. Il decentramento è stato applicato in maniera dogmatica e ha portato ad una duplicazione dei livelli amministrativi. Sino alla fine degli anni ’80 il termine ‘efficienza’ non compariva praticamente in nessuna disposizione legislativa. L’analisi sull’impatto delle riforme a livello organizzativo viene effettuata molto raramente. Si è stimato inoltre che il 60% delle amministrazioni ha usato l’anzianità come criterio principale per decidere sulle promozioni. La valutazione sul rendimento di dirigenti e dipendenti pubblici ha costituito più che altro l’occasione per elargire gratifiche monetarie (Capano 2003, 792 e ss.). La Spagna rappresenta un esempio particolarmente interessante per altri versi. Fino al 1975 il paese è stato governato da un regime autoritario, che in controtendenza rispetto al resto di Europa ha limitato fortemente l’espansione del welfare state e delle strutture amministrative. Con la caduta del franchismo il regime democratico ha cercato di colmare il gap, e tra il 1975 e il 1995 la spesa per il settore pubblico è passata dal 24,4% al 45,5% del prodotto interno lordo. La Spagna dunque si è trovata alle prese con un settore pubblico in piena espansione proprio mentre in tutta Europa il New Public Management invocava il contenimento o la riduzione della spesa pubblica. Ancora a metà degli anni ’80, un’inchiesta tra i funzionari pubblici spagnoli metteva in evidenza una forte spaccatura tra chi sosteneva la necessità di riforme per recuperare efficienza, e chi affermava invece la necessità di rafforzare e garantire meglio lo status degli impiegati pubblici. In tempi recenti, il governo spagnolo ha introdotto diversi tra gli strumenti del New Public Management ma senza grandi risultati (Torres e Pina 2004, 446). L’ampio decentramento amministrativo e il forte rafforzamento dei sindacati hanno reso indubbiamente più complicato il percorso di cambiamento. L’adozione di provvedimenti una tantum, senza l’introduzione di un pacchetto di riforme completo, è stata un’altra causa del sostanziale fallimento dei riformatori. Anche in Spagna le privatizzazioni non sono state accompagnate da incentivi alla concorrenza. La managerializzazione dei dirigenti è proseguita a rilento, e le responsabilità di gestione non sono state definite chiaramente. Il sistema della finanza pubblica si incentra ancora esclusivamente sulla correttezza e sui vincoli formali nella gestione, piuttosto che sul controllo dei risultati. Tutte le riforme amministrative vengono negoziate, messe in pratica e gestite solo con l’accordo degli impiegati pubblici. L’attenzione maggiore viene riservata, come è intuibile, alle politiche del personale nonché al potere di acquisto e ai diritti professionali dei funzionari pubblici. I quadri amministrativi sono rigidamente separati ed è difficile stabilire sistemi di compenso fondati sul rendimento individuale, così come è difficile attribuire funzioni di responsabilità a personale esterno reclutato ad hoc (Torres e Pina 2004, 453-456). Per concludere questa breve rassegna, la foga riformatrice che coinvolge l’assetto delle pubbliche amministrazioni in tutti i paesi europei è multiforme. Quello delle riforme amministrative sembra tuttavia uno dei pochi settori in crescita in un campo pubblico altrimenti in declino (Peters 1997). Fino ad ora la strada delle riforme è stata tracciata dalle filosofie di intervento del New Public Management. Le riforme compiute nei paesi nordici e in Olanda potrebbero rappresentare un’alternativa al modello di modernizzazione del settore pubblico basato esclusivamente sui caratteri propri del mercato, fruibile specialmente dai paesi ad influenza tedesca e dell’area mediterranea, dove si è mantenuto un certo spirito burocratico nel reclutamento e nell’educazione dei funzionari pubblici. In questi paesi i funzionari sono e rimangono professionisti del diritto, e sono per natura riluttanti ad assumere decisioni. Nel Nord Europa e nei Paesi Bassi il predominio dei giuristi è stato grandemente diluito nella seconda metà del ventesimo secolo. I paesi del sud Europa hanno introdotto diverse misure che mirano a innalzare la qualità nei servizi pubblici. Per questo ci si è basati sulle direttive della European Foundation for Quality Management (Efqm), che fissano obiettivi di leadership, di attenzione verso i dipendenti e i cittadini, di collaborazione con altri enti e istituzioni, di sviluppo di indicatori di performance e di controllo dei risultati. Per quanto riguarda gli altri elementi del New Public Management più strettamente legati alla competizione, come la fornitura di servizi pubblici basata su una contrattazione competitiva e l’accentuazione dello stile managerialistico privato, i tre grandi modelli dell’Europa continentale (nordico-scandinavo, germanico, sud-europeo) sono chiamati a rimettere in discussione il ruolo del settore pubblico nella società, e dunque è presumibile che si incontreranno forti resistenze o rifiuti. Solo la Svezia ed entro certi limiti la Finlandia e l’Olanda sembrano aver preso iniziative concrete in questo senso (Torres 2004, 109). 3. Le direzioni della convergenza La convergenza internazionale delle pubbliche amministrazioni è favorita dall’accresciuta importanza dell’arena internazionale, e dunque dalla diminuita capacità dei governi di isolarsi economicamente e politicamente dalle pressioni globali. Queste pressioni si manifestano per tramite dei mercati internazionali e di organizzazioni come l’Unione europea. La convergenza e l’internazionalizzazione dei settori pubblici nazionali si svolgono lungo alcune direttrici principali che sono state ampiamente illustrate dalla dottrina (Peters e Pierre 1998): 1. Ideazione di nuovi strumenti di controllo e di responsabilizzazione: Cambia il ruolo dei rappresentanti eletti, che generalmente viene ridimensionato. La leadership politica è meno legata a un pubblico ufficio elettivo, e inizia a dipendere in maggiore misura dall’imprenditorialità politica. I leader politici assumono una responsabilità chiave nello sviluppare reti e “consorzi” di risorse pubbliche e private. L’unico ruolo di tipo tradizionale che rimane alla politica è quello di stabilire gli obiettivi e le priorità. 2. Ridimensionamento della separazione tra pubblico e privato: È necessario colmare il gap che si è creato tra lo stato e il resto della società. Chi opera sul mercato, sotto forte pressione, ha sviluppato modelli sofisticati di gestione e di allocazione delle risorse. Le burocrazie pubbliche sono rimaste isolate a lungo da ogni tipo di pressione. Il risultato di questo sono disorganizzazione e trascuratezza, inefficienza, ossessione per le procedure, indifferenza verso i bisogni degli utenti. Le teorie del New Public Management affermano che le tecniche di gestione efficienti sono le medesime in ogni settore, e non dovrebbero quindi venire differenziate a seconda della natura pubblica o privata dell’organizzazione (Peters 1996). 3. Maggiore enfasi sulla competizione: L’idea di sfruttare la competizione per creare maggiore efficienza e più attenzione verso i “clienti” nel settore pubblico è una chiara dimostrazione della penetrazione dei principi di derivazione aziendalistica. L’introduzione della competizione ha conseguenze di portata rilevante: richiede un allentamento dei controlli politici sul funzionamento del servizio e l’attribuzione di un’ampia discrezionalità decisionale a tutti i livelli dell’organizzazione. Grazie alla creazione di un mercato interno per tutti i servizi, la competizione consente a ogni unità organizzativa di valutare i propri costi in maniera molto più accurata. 4. Maggiore enfasi sul controllo dei risultati: Il controllo sui risultati viene introdotto con l’uso di indicatori quali la soddisfazione degli utenti, oppure introducendo attori privati o volontari nella produzione e nella fornitura dei servizi pubblici, per incentivare l’osservanza delle regole di buona amministrazione e l’adattamento alle esigenze dei cittadini. 5. Ideazione di nuovi strumenti e tecniche di direzione: Dirigere indicando la direzione, o “timonare” come su una barca (steering), è il compito chiave per il settore pubblico sia secondo le teorie della governance, sia secondo le teorie del New Public Managment (Rhodes 1997, 49). “Timonare” comporta stabilire le priorità e fissare gli obiettivi. Uno degli slogan più popolari è che lo stato dovrebbe concentrarsi “più a timonare e meno a remare”. Minimo comune denominatore di queste direttrici di intervento è uno stato che, se ancora non diventa “minimo”, è certamente più snello, meno costoso e potenzialmente più efficiente dello stato “weberiano”. Le direttrici di intervento si traducono in provvedimenti specifici di riforma inquadrabili in tre categorie: 1) “di mercato”, 2) “partecipativi”, 3) “di deregolazione”. Le riforme di mercato (Merusi 2002) comprendono tra le altre: l’introduzione del modello delle agenzie, che come abbiamo già detto tenta di separare l’amministrazione dalle decisioni politiche; compensi legati al merito per gli impiegati pubblici; creazione di un quasi-mercato interno separando fornitori e acquirenti nel settore pubblico; una contrattazione basata sul raggiungimento degli obiettivi, specie per il reclutamento degli alti dirigenti; l’adozione di un bilancio per competenza invece che per cassa, enfatizzando l’importanza del capitale disponibile e dei costi per gli oneri futuri; la revisione di ogni programma amministrativo sulla base di un’analisi dei costibenefici; la creazione di “sportelli unici” in tutti quei casi in cui è possibile eliminare duplicazioni di competenze. Le riforme di natura partecipativa mirano a migliorare la qualità dei servizi coinvolgendo nelle decisioni i lavoratori del settore e gli utenti (spesso ribattezzati “clienti”). Le riforme di partecipazione includono: i diritti procedurali dei cittadini nei confronti delle istituzioni; la gestione della qualità; il decentramento, che devolve la responsabilità dei progetti verso gli enti periferici; le carte dei cittadini o carte dei servizi, che stabiliscono i livelli minimi di qualità che ci si può attendere per i servizi resi. La deregolazione si basa sull’assunto che molte delle regole stabilite negli enti pubblici per la gestione del personale, del bilancio e degli approvvigionamenti sono inutili e andrebbero eliminate. Vi sono diverse somiglianze con le riforme di mercato, ma l’elemento centrale in questo caso è diverso. La deregolazione può prevedere: il cambiamento delle regole di gestione finanziaria, in modo da consentire alle agenzie di decidere con maggiore autonomia; l’attribuzione di maggiore autonomia alle singole unità amministrative su contratti di fornitura e appalti; l’eliminazione dei controlli rigidi sulle assunzioni, sulle promozioni e sui licenziamenti dei dipendenti pubblici (Peters 1997). Ogni tradizione amministrativa ha reagito in maniera differente nel recepire o rifiutare i diversi tipi di riforma. I cambiamenti nel settore pubblico dipendono certamente da diverse variabili culturali, che incidono sulla circolazione delle idee e delle politiche. I paesi geograficamente vicini e politicamente simili sono in questo agevolati. Le macro-regioni che vengono spesso utilizzate per classificare i sistemi amministrativi consentono in effetti di prevedere in maniera abbastanza accurata la diffusione delle innovazioni. La cultura anglo-americana si è dimostrata particolarmente incline alle riforme di mercato, mentre quella tedesca vi si è opposta con forza. La tradizione amministrativa scandinava si è dimostrata invece ricettiva verso le iniezioni di managerialità. Le riforme di deregolazione sono state attuate più di frequente in Australia e negli Usa rispetto all’Europa. Le riforme più comuni sono state quelle di tipo partecipativo, seguite dalla deregolazione interna negli enti pubblici. Questo ha riguardato soprattutto le politiche del personale pubblico. Il cambiamento più popolare sembra essere il decentramento, seguito a poca distanza dalla qualità. L’adozione degli sportelli unici e del bilanci per competenza non ha invece riscosso grande successo. Ora analizzeremo più nel dettaglio e attraverso esemplificazioni alcune di queste riforme. 3.1. I diritti procedurali e di partecipazione La nascita e l’evoluzione dei diritti di partecipazione può essere illustrata in modo esauriente facendo riferimento ai mutamenti avvenuti nelle procedure interne della Commissione europea riguardanti l’intervento dei cittadini. I diritti procedurali dinanzi alla Commissione sono sostanzialmente tre, e hanno coinciso ciascuno con altrettante fasi della storia della Comunità europea. Il primo tra questi diritti, cioè il diritto di essere ascoltati nel caso di sanzioni o di altre misure restrittive imposte dalla Commissione, è emerso negli anni ’70 nell’ambito delle procedure antitrust. In questa fase il ruolo promotore è stato assunto dalla Corte di giustizia, influenzata dalla concezione britannica del diritto degli amministrati ad essere ascoltati con garanzie analoghe a quelle di un giudizio (Bignami 2004b, 62). Il secondo dei diritti procedurali considerati è il diritto di accesso ai documenti e alla trasparenza delle istituzioni, che emerge nel corso degli anni ’90 (Harden 2001). La giurisprudenza delle corti comunitarie, oggi, parla di un diritto fondamentale di accesso ai documenti come principio generale del diritto dell’Unione (Harden 2001). L’impulso decisivo in questo senso è stato dato dalle pressioni e dall’esempio di quei paesi che già avevano una tradizione e una prassi amministrativa di open government: Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Finlandia30. 30 In Italia si è parlato di un esercizio contrattato delle pubbliche funzioni a proposito degli art. 10 e 11 della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo. Queste norme prevedono il diritto dei cittadini di prendere visione dei Il terzo e più recente stadio dei diritti procedurali ha una diretta derivazione statunitense, e riguarda la partecipazione diretta dei privati alle procedure legislative e di regolazione. Il dibattito nella Comunità è ancora incentrato sulle condizioni da rispettare per consentire a privati cittadini, associazioni o imprese, cioè a quella che viene denominata società civile, di partecipare in maniera più organica alle attività pubblico-istituzionali (Bignami 2004b, 62). La proposta di Costituzione europea ha sancito con l’art. I-47 il principio della “democrazia partecipativa”. Se il diritto ad essere ascoltati ha ormai trovato una definitiva consacrazione nell’art. II-101 della proposta di Costituzione e può essere considerato un diritto “stabile”, le altre due tipologie di diritti di partecipazione si trovano ancora in una fase fluida. Il diritto alla trasparenza e all’accesso ai documenti hanno una storia travagliata. Nei primi anni ’90, la posizione contraria all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht espressa dalla Danimarca trovò il suo fondamento proprio nella sfiducia verso Bruxelles riguardo alla capacità di auto-regolamentare discrezionalmente l’accesso ai documenti di governo. Solo con il Trattato di Amsterdam del 1996 l’ordinamento comunitario riconosce in via generale il diritto di accesso dei cittadini ai documenti detenuti dalle istituzioni, ma esclusivamente per le tre istituzioni principali, ossia Parlamento, Consiglio e Commissione31. Il diritto di accesso viene ribadito dalla Carta di Nizza, e solo nel 2001, dopo lunghi negoziati, viene adottato il Regolamento che ne disciplina l’esercizio32. Fino a tempi recenti le domande di accesso formulate dai cittadini non sono state molte, ma questo non significa che approntare regole ispirate all’apertura abbia un’importanza trascurabile (Harden 2001, 189). Il diritto di soggetti e di organizzazioni della società civile di partecipare ai procedimenti legislativi e decisionali inizia ad essere preso in considerazione verso la fine degli anni ’90. Cittadini, associazioni e gruppi di interesse fanno già sentire indirettamente la loro voce nella politica comunitaria, e quello che si chiede ora è di farli divenire legittimi partecipanti a tutti gli effetti. Come si è detto, la partecipazione democratica della società civile trova un riconoscimento chiaro nell’art. I-47 della proposta di Costituzione, ma l’attuazione pratica di questo diritto è ancora da definire. Le consultazioni con la società civile, da pratica amministrativa non vincolante creata dalla Commissione per uso interno, diverrebbero dunque una prerogativa costituzionalmente garantita da tutte le istituzioni. Rimane aperta la questione se tale diritto sarà interpretato fin da subito dalla giurisprudenza come vincolante e non invece come una disposizione programmatica (Bignami 2004b, 81-82). documenti del procedimento e di essere ascoltati, e qualora ne ricorrano i presupposti contemplano la possibilità di concludere accordi procedimentali e sostitutivi fra cittadino e pubblica amministrazione. 31 Art. 255, Trattato di Amsterdam, in GUCE (C340/97). 32 Regolamento CE del 30 maggio 2001, n. 1049/2001, riguardante l’accesso ai documenti del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione, in GUCE (L145/01). 3.2. L’ombudsman e la difesa della buona amministrazione Tra gli strumenti di promozione della qualità dell’azione amministrativa, l’ombudsman si è distinto nel secondo dopoguerra come l’istituto a più alta capacità di diffusione internazionale (Mortati 1974). Oggi più di 100 paesi nel mondo dispongono di un ombudsman o di un’autorità analoga a livello nazionale, senza contare quindi gli ombudsman istituiti a livello locale. L’istituto dell’ombudsman, meglio noto in Italia con il nome di “difensore civico”, è nato in Svezia nel 1809, e dopo più di un secolo di incubazione ha iniziato a diffondersi nei paesi scandinavi e poi in tutto il mondo. Le caratteristiche fondamentali dell’ombudsman sono oggi quelle di uno “sportello reclami” per il cittadino scontento del trattamento ricevuto dalla pubblica amministrazione. Con i poteri informali e di moral suasion di cui dispone (raccomandazioni alla pubblica amministrazione, relazioni ufficiali al parlamento, facoltà di proporre riforme) l’ombudsman è spesso in grado di risolvere in via negoziata le controversie tra l’amministrazione e i privati (Rowat 1973; Cominelli 2005), e di proporsi come istituzione per riformare le altre istituzioni. I costi contenuti e i tempi di intervento ridotti hanno reso l’ombudsman un’alternativa praticabile alla giurisdizione amministrativa (Leino 2004, 364). Dei 25 membri dell’Unione europea solo Italia e Germania, pure se dotati di ombudsman a livello regionale e locale, non dispongono oggi di un ombudsman a livello nazionale. Nel 1995 anche l’Unione europea ha nominato il primo ombudsman comunitario (denominato “Mediatore europeo” nella versione italiana dei trattati), competente a ricevere i reclami dei cittadini dell’Unione nei confronti delle istituzioni comunitarie. Nei primi dieci anni della sua attività l’ombudsman comunitario ha visto quadruplicarsi il numero dei reclami ricevuti, e ha ottenuto la modifica di numerose decisioni e prassi amministrative non pienamente rispondenti ai canoni della buona amministrazione. L’istituto dell’ombudsman ha avuto un notevole successo nelle organizzazioni statali e oggi si diffonde anche nelle organizzazioni internazionali. È uno strumento flessibile e una fonte permanente di proposte di riforma amministrativa. Le pressioni dell’Ombudsman europeo hanno fatto sì che la Carta di Nizza e la Costituzione incorporassero il diritto alla buona amministrazione, e ha spinto diverse istituzioni a prendere in considerazione la possibilità di vincolarsi a un “codice di buona amministrazione” per i propri funzionari. Ci si è chiesti se l’ombudsman non possa essere in grado di sviluppare e proporre autonomamente degli standard migliorativi della prassi amministrativa partendo dal punto di vista del cittadino. La strada migliore per l’ombudsman probabilmente è diversa, e consiste nel vigilare sulla qualità dell’amministrazione da un punto di vista non legalistico, promuovendo la cultura del servizio in campo amministrativo (Tomkins 2000). Se questo può non essere un problema per la cultura amministrativa nordica, le difficoltà si presentano con il modello amministrativo tedesco e con il modello francese e sud-europeo. L’ombudsman si adatta al contesto istituzionale e culturale in cui si trova, e modula i suoi interventi seguendo la stella polare del cambiamento e della buona amministrazione. Sempre più frequente negli ordinamenti nazionali è la precisazione di cosa costituisca “buona amministrazione”, effettuata a contrario attraverso la compilazione di casistiche di cattiva amministrazione. Il concetto di cattiva amministrazione è stato mutuato dal diritto inglese, e com’è naturale è più ampio rispetto alla categoria dell’illegittimità (Fernández de Landa Montoya 1996, 346). Oltre che nei paesi anglosassoni, il principio di buona amministrazione è usato anche in Danimarca, in Norvegia, in Finlandia e in Svezia (Kuusikko 2001, 458 e 462). 3.3. Pubblica amministrazione e Alternative Dispute Resolution (Adr) Nella sua opera di mediazione tra il cittadino e le amministrazioni l’ombudsman mette in pratica un sistema di Adr pubblicistico (Cadeddu 2004; Cominelli 2004). Le caratteristiche che distinguevano le controversie fra privati da quelle fra pubbliche amministrazioni e privati stanno svanendo (Chiti 2000a, 20). Ai privati viene assicurato sempre più spesso un ruolo attivo nel procedimento amministrativo. Divengono quindi più frequenti le ipotesi in cui l’esito del procedimento può essere determinato anche tramite accordi (Chiti 2000b, 307). Le pretese giuridiche sollevate, anche se invocate nell’interesse di un ente pubblico, possono essere considerate alla luce delle circostanze del caso concreto, senza che con questo venga meno il fine ultimo dell’interesse generale. Questo vale anche quando vi sia una fase contenziosa. Per citare uno degli sviluppi più recenti in questo campo, nel marzo del 2001 il governo del Regno Unito ha emanato una direttiva indirizzata alle amministrazioni nazionali, dettando alcune linee33 guida sulla gestione del contenzioso . Anche in campo pubblico dovrebbero essere utilizzate procedure di Alternative dispute resolution (arbitrato, conciliazione, mediazione) in tutti i casi in cui esse rappresentano il metodo di gestione della disputa più idoneo. A quattro anni di distanza dalla direttiva, un rapporto pubblicato dal Dipartimento per gli Affari Costituzionali del Regno Unito dimostra che l’incremento nell’uso dei metodi di Adr nel settore pubblico britannico è stato significativo. L’invito del governo inglese sembra dunque avere sortito il suo effetto. Le Adr oggi sono utilizzate in controversie sempre più complesse, e hanno portato a un risparmio che solo per il 2004 è stato stimato in 14 milioni di sterline (circa 21 milioni di euro). 33 Government’s ADR Pledge, Lord Irvine, 23 marzo 2001. L’iniziativa britannica ha un precedente nella legislazione federale statunitense. Nel 1990, l’Administrative Dispute Resolution Act (ADR Act) ha stabilito in capo alle agenzie amministrative federali l’obbligo di considerare gli strumenti alternativi prima di fare ricorso al contenzioso (Cominelli 2005, 79). Per tutelare gli interessi pubblicistici più rilevanti, l’ADR Act del 1996 ha elencato alcune ipotesi in cui il ricorso agli strumenti alternativi dovrebbe essere escluso (sec. 572, General authority): quando è necessario stabilire un precedente che abbia portata generale; quando la controversia potrebbe influire su politiche pubbliche che richiedono ulteriori passi prima della decisione definitiva; quando è necessario mantenere una regolazione speciale, e il procedimento di Adr non assicurerebbe la necessaria coerenza tra le singole decisioni riguardanti casi individuali; quando la questione coinvolge in modo significativo persone od enti che non sono parte del procedimento; quando è importante che della controversia rimanga una registrazione pubblica dettagliata; quando l’agenzia amministrativa interessata debba mantenere la facoltà di poter decidere sulla questione in base a nuove circostanze, e il procedimento di Adr interferisca con questa facoltà. L’utilizzo delle Adr in un contesto pubblico, e quando siano in gioco interessi di natura pubblica, potrebbe a breve cessare di essere un tabù. L’utilizzo di strumenti di derivazione privatistica può essere anche considerato una conseguenza dell’introduzione dei principi del decentramento (Madell 2005). Negli Stati Uniti l’aggiudicazione formale non è più il sistema d’elezione nei procedimenti decisionali delle agenzie, specialmente nella definizione delle politiche amministrative (Edles 2000, 554). La negoziazione fra poteri amministrativi e interessi privati avviene orizzontalmente, con procedure pubbliche regolamentate nella procedura ma libere quanto ai contenuti della discussione e ai risultati. Il modello europeo vede invece le istituzioni negoziare informalmente e privatamente con i gruppi di pressione, senza procedure pubbliche (Ziamou 2000, 46). 3.4. Le Carte dei servizi per il cittadino Le Carte dei servizi (o Carte del cittadino) sono un esperimento sorto da un’iniziativa del governo britannico conservatore di John Major, lanciato nel 1991 con l’intento di mettere in atto un programma decennale per il miglioramento dei servizi pubblici34. La Citizen’s Charter si proponeva di fissare standard qualitativi nell’erogazione dei servizi, di misurare la validità delle prestazioni e in ultima analisi di favorire il miglioramento della qualità, attraverso l’esercizio di una pressione da parte dell’opinione pubblica. Gli standard stabiliti nella carta potevano essere di tipo quantitativo (ad esempio tempi di attesa massimi) o di tipo qualitativo (ad esempio rispetto della privacy e della dignità dell’utente), e in caso di violazione era prevista una forma di risarcimento. Dai dieci anni 34 Cabinet Office, The Citizen’s Charter. Raising the standards, Londra, 1991. inizialmente previsti, l’iniziativa è stata portata avanti “solo” per cinque anni, ma con un discreto successo. Nonostante questo non sono mancate le critiche. Nella prospettiva del Traditional Public Managment, l’iniziativa rischiava di confondere in maniera pericolosa le aspettative del cittadino con quelle del cliente o del consumatore (Lo Schiavo 2000, 680-681). Negli anni seguenti altri paesi hanno seguito l’esempio della Citizen’s Charter: tra questi vi sono stati Francia, Belgio, Portogallo, Italia e Spagna (Torres e Pina 2004). L’iniziativa italiana è partita nel 1993 con il governo Ciampi, preceduta da un Libro bianco del Dipartimento della Funzione Pubblica35. La differenza sostanziale rispetto al modello inglese era tuttavia che non si previde uno standard per i servizi applicabile a livello nazionale, lasciando invece a ogni singolo ente la facoltà di fissare standard minimi propri. Oltre a questo, la conoscenza delle Carte dei servizi fra i cittadini italiani, almeno nelle fasi iniziali, è stata molto scarsa perché poco pubblicizzata. L’adozione delle Carte è stata ritardata di molti mesi o addirittura di anni. Un sondaggio compiuto nel 1998 dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha rivelato che la conoscenza delle Carte fra i cittadini variava a seconda del settore, e anche nei settori più virtuosi non superava mai il 10%. Nei servizi elettrici, gli standard di qualità erano stati stabiliti direttamente dagli operatori, con obiettivi non molto ambiziosi. I risarcimenti nel caso di disservizi erano emessi solo su richiesta, e vista la scarsa conoscenza degli standard, nella stragrande maggioranza dei casi tali risarcimenti non venivano nemmeno domandati. Poca attenzione è stata inoltre dedicata alla fase di messa in pratica e alla valutazione dei risultati delle Carte dei servizi. Nel Regno Unito l’implementazione del progetto venne affidata a una task force operativa permanente dotata di ottime risorse. Il Comitato incaricato della supervisione sulle Carte dei servizi in Italia non è stato dotato di uno staff permanente ed era formato da 3 esperti parttime, tanto che si parlò di “politica abbandonata” (Lo Schiavo 1998), anche se diverse esperienze locali ebbero un discreto successo (Lo Schiavo 2000, 691). Tuttavia, l’elemento di differenziazione più significativo rispetto ad altre esperienze è stato che nell’applicazione pratica italiana gli standard di qualità sono stati confusi con un diritto formalizzato ad un certo livello di prestazioni. Al contrario si è notato che il metodo migliore per rendere le Carte strumenti efficaci non è quello di creare obblighi vincolanti per gli enti erogatori dei servizi, ma piuttosto obblighi morali di responsabilità e di disponibilità verso i cittadini. Uno dei vantaggi delle Carte dei servizi nel Regno Unito è stato di riuscire a migliorare la qualità senza che fosse necessario mettere in atto grandi riforme legislative. I provvedimenti legislativi che stabiliscono nuovi diritti rischiano anzi di costituire un ostacolo allo sviluppo di servizi pubblici più 35 Dipartimento della funzione pubblica, La carte dei servizi. Proposte e materiali di studio, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1991. flessibili e responsive. Nel Regno Unito, i risultati della valutazione non sono serviti solo per irrogare sanzioni, ma anche e soprattutto per creare aspettative più alte. Le differenze nel legame fra “diritto” e “azione” sono riconducibili in buona parte anche al contesto culturale. Nel common law profile, la Carta dei servizi rappresenta uno strumento verificabile ispirato al New Public Management. Non si indicano aspettative giuridiche ma obiettivi da raggiungere, stabiliti dall’alto per massimizzare l’attenzione pubblica degli utilizzatori e dei dirigenti. Nel public law profile, la Carta dei servizi tende a confondere standard di qualità con diritti, e finisce per creare garanzie aggiuntive che di fatto spesso si rivelano poco efficaci nel sistema amministrativo (Lo Schiavo 2002, 695). 3.5. Networks e “Quangos” Le pressioni verso il cambiamento esercitate sulla pubblica amministrazione hanno prodotto una redistribuzione di competenze e responsabilità, che generalmente si è indirizzata verso la periferia, ma che spesso ha assunto anche una nuova struttura di rete o di network. La struttura gerarchica e piramidale del settore pubblico si è dimostrata sempre più spesso una modalità non del tutto adeguata al contesto dell’azione pubblica. I controlli gerarchici sono efficaci solo nei campi politicamente e tecnologicamente semplici, che richiedono compiti di intervento umano non complicati. Le politiche più complesse possono essere governate solo attraverso una continua negoziazione fra le parti interessate. La struttura reticolare che molte parti del settore amministrativo vanno assumendo rappresenta una forma ibrida e ampiamente informale dell’organizzazione collettiva della vita pubblica, che va oltre i confini delle organizzazioni formali e delle frontiere nazionali. La network analysis sembra per molti avere affiancato o sostituito la policy analysis (Bogason e Toonen 1998, 205-206). Le reti, le interdipendenze e i modi di governance e di risoluzione delle dispute non gerarchici diventeranno sempre più importanti nel futuro, e si assisterà a una continua frammentazione delle organizzazioni pubbliche e private, così come della società civile (Bogason e Toonen 1998, 225). Secondo taluni il governo “reticolare” è già di fatto dominante nelle politiche pubbliche. Anche se non ufficialmente, le aggregazioni di attori costituite da organizzazioni e istituzioni che formalmente non hanno il potere di indicare le politiche, nei fatti già ne controllerebbero la definizione. Le agenzie statali hanno ancora il potere di dare il loro imprimatur, ma le decisioni vere verrebbero già prese nel settore privato. E se le istituzioni pubbliche cercano di imporre il loro controllo, i networks sono in grado di resistere e organizzarsi per sottrarvisi (Peters e Pierre 1998). La gestione di un network è molto più complicata rispetto alla gestione di tipo gerarchico. Le difficoltà sono ancora più grandi in un contesto di politiche pubbliche come quello dell’Unione europea che, a causa di diversi fattori, è già complesso in partenza: i rapporti all’interno della Commissione, la necessità di esercitare pressioni allo stesso tempo verticalmente e orizzontalmente, la necessità di coordinare diverse amministrazioni nazionali, la difficoltà insita nel creare un quadro delle risorse disponibili a livello nazionale, la delicatezza nell’identificare e nel risolvere particolari debolezze nell’azione amministrativa dei singoli stati membri (Schout e Jordan 2005, 217). Diviene ancora più pressante l’esigenza di integrare gli strumenti di analisi delle politiche tradizionali con la ricerca interdisciplinare (Bogason e Toonen 1998, 225). Parte integrante dei network sono i cosiddetti quangos (quasi-autonomous nongovernmental organizations). I quangos sono organizzazioni che si collocano in quella ormai vasta zona grigia che si è formata tra i mercati e le gerarchie istituzionali di vecchio tipo (Greve 1999). Un esempio molto interessante di quango è Amtrak, la compagnia ferroviaria statunitense per il trasporto dei passeggeri. Amtrak è stata creata con una legge federale nel 1970, ma non è un dipartimento o un’agenzia federale, né un organismo collegato con il governo degli Stati Uniti, anche se riceve dei fondi dal Dipartimento dei Trasporti. Amtrak è una società costituita secondo il diritto del Distretto di Columbia, e fra i membri del consiglio d’amministrazione siede di diritto il segretario dei trasporti. I quangos sono quindi enti privati o misti esterni all’organizzazione statale, cui vengono delegati compiti pubblici. La più grande dote dei quangos è l’adattabilità e l’indipendenza di giudizio nel venire incontro ai bisogni della comunità. Ciò consente di rimediare alle falle di quello che è stato il metodo di adozione delle decisioni privilegiato dalle grandi organizzazioni pubbliche, e che è stato definito “sinottico” (Lindblom 1959). Il metodo più efficace di fronte alla complessità delle scelte da compiere si è dimostrato quello di dividere le politiche in campi di decisione distinti e circoscritti, assegnando ciascuno di essi ad attori differenti. I quangos sono estremamente flessibili e secondo alcuni sono un portato del New Public Management. Le relazioni dei quangos con il settore pubblico possono essere di natura contrattuale e talvolta anche gerarchica, o più facilmente un ibrido fra le due. Quello che di solito non sussiste è il legame diretto con l’organo legislativo. L’esercizio dell’amministrazione attraverso i quangos reimposta secondo modalità nuove il rapporto principal-agent in campo pubblico (Bertelli 2005). I governi cercano con maggiore continuità il soggetto ideale per attuare le loro politiche, anche al di fuori dell’amministrazione. La delega delle funzioni pubbliche viene compiuta con sempre maggiore attenzione alla particolare natura dei compiti che dovranno essere svolti. La gamma delle organizzazioni potenzialmente utilizzabili si amplia notevolmente. In questo modo l’utilizzo dei quangos permette di bypassare il sindacato dei poteri legislativi, la legislazione in materia di impiego pubblico ed entro certi limiti anche il controllo degli organi giudiziari (Bertelli 2005, 5). I quangos tendono a diventare molto popolari, perché sono visti con occhio favorevole da un’opinione pubblica sempre più scettica verso i metodi tradizionali della politica (Flinders 1999, 30). Dall’altro lato è anche possibile che con i quangos crescano i rischi di malversazioni: denaro pubblico e funzioni nella sostanza pubbliche vengono affidati a soggetti che non sono stati eletti e i cui legami con gli organi di controllo sono labili (Hirst 1995, 341). Riferimenti bibliografici Adler, M. T. e E. A. Posner (1999), “Rethinking Cost Benefit Analysis”, Yale Law Journal, 109: 165-247. Albrow, M. (1996), The global age: state and society beyond modernity, Cambridge, Cambridge University Press. Aucoin, P. (1990), “Administrative reform in public management paradigms, principles, paradoxes and pendulums”, Governance, 3 (2): 115-137. Balle Hansen, M. e J. Lauridsen (2004), “The Institutional Context of Market Ideology. A comparative analysis of the values and perceptions of local government CEOs in 14 OECD Countries”, Public Administration, 82 (2): 491-524. Barberis, P. (1998), “The New Public Management and a New Accountability”, Public Administration, 76 (Autumn): 451-470. 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