PER I FREELANCE

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PER I FREELANCE
VITA GRAMA
di Marco Cagnotti
PER I FREELANCE
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Padroncini. Sfruttatori. Magari pure evasori fiscali, visto che non hanno una busta paga
ma rilasciano fattura… se e quando la rilasciano. Dunque privilegiati, oltretutto perché
liberi di gestire come vogliono il proprio tempo. Così i lavoratori indipendenti sono spesso
stati visti da Sinistra. Poi però scopri che molti di loro si indebitano non per comprarsi la
Porsche, ma per tirare avanti la baracca. Che molti a fine mese si ritrovano con meno soldi
dei propri dipendenti. Che per loro la crisi è una tragedia, perché bisogna licenziare quelli
che ormai, più che subordinati, sono degli amici. Che tanti, tantissimi lavoratori autonomi
sono sfruttati dai propri committenti, trovandosi alla mercé del ricatto più bieco. E allora
ti chiedi se forse la Sinistra non li ha dimenticati. E ti domandi perché. E che cosa si può
fare (sempre che si possa fare qualcosa) per aiutarli. Noi ne abbiamo parlato con Christian
Marazzi.
Chi sono i nuovi indipendenti?
Dei nuovi indipendenti, noti anche
come lavoratori autonomi o freelance,
si comincia a parlare negli Anni Ottanta, a seguito di una trasformazione
evidente dell’organizzazione delle imprese. Che, sull’onda del postfordismo, cominciano a esternalizzare i
processi di produzione.
Ovvero?
Ovvero il subappalto, l’outsourcing.
Lo scopo è snellire le imprese, che
così possono concentrarsi sul nucleo
dei dipendenti davvero strategici.
Esternalizzare alcune mansioni permette di ridurre i costi sociali e del lavoro, scaricandoli però sulle spalle
degli ex dipendenti. Perciò siamo di
fronte a una trasformazione davvero
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
CHI È
Nato nel 1951, Christian Marazzi è economista, docente universitario, politico. Ha
studiato a Padova, alla London School of
Economics e alla City University of London.
Ha insegnato nelle Università di Padova,
New York, Losanna, Ginevra. Ha lavorato per
12 anni presso il Dipartimento Opere Sociali
in qualità di economista ricercatore. È docente presso il Dipartimento di scienze
aziendali e sociali della Scuola universitaria
professionale della Svizzera italiana (SUPSI).
È autore di numerosi studi sulle trasformazioni
del
mondo del lavoro e
sulla finanziarizzazione dell’economia.
strutturale del sistema produttivo: la
fabbrica classica viene disarticolata,
despazializzata. E viene sostituita con
una specie di impresa neofeudale,
nella quale al centro c’è il «signore»
e all’esterno stanno i «vassalli».
Tutto questo in nome della flessibilità.
Sì, ma intesa non soltanto in senso
strettamente occupazionale o salariale. Importa soprattutto la possibi-
come addetti ai servizi per le imprese.
Se in Svizzera ci troviamo il 75% della
popolazione attiva impiegata nel terziario è anche perché c’è stato questo
fenomeno.
In termini quantitativi, di quante
persone stiamo parlando?
E il loro lavoro come si caratterizza?
Quali sono le conseguenze dell’arrivo dei nuovi indipendenti?
Per esempio il gonfiamento statistico
del settore terziario. Infatti molti ex
dipendenti del settore secondario, nel
momento in cui vengono esternalizzati come consulenti, agenti, assicuratori, grafici, rientrano nel terziario
In maniera molto variegata. Io
chiamo «pluriverso» quest’universo
frastagliato e multiforme. All’inizio
del decennio scorso qui alla SUPSI
con Angelica Lepori ho svolto una ricerca sulle nuove forme del lavoro in
Ticino. Abbiamo così scoperto che c’è
sempre una maggioranza di lavoratori a tempo indeterminato, un 12% a
tempo determinato, un 6% su chiamata. Questo pluriverso, conseguenza
del nuovo capitalismo, ha reso difficile per i sindacati la rappresentanza
degli interessi di queste persone, con
una pluralità di statuti professionali,
di contratti, di condizioni di mobilità.
Un pluriverso con problemi peculiari.
Certamente. Anzitutto gli indipendenti lavorano molto: fino a 12-14 ore
al giorno, per 6 e perfino 7 giorni alla
settimana. E una parte del loro lavoro
consiste proprio nel trovare lavoro.
Quindi c’è sempre un aspetto comunicativo, relazionale del loro operato,
anche se, per esempio, sono occupati
nel settore artigianale. C’è anche una
profonda opacità nel loro sguardo sul
futuro. Per loro è molto difficile fare
progetti di vita a medio-lungo termine, nell’incertezza delle condizioni
di lavoro. Per questo spesso viene
coinvolto l’ambito familiare nell’attività professionale: il lavoro autonomo
porta all’attivazione di micro-reti sociali, molto utili per essere operativi.
Poi c’è il problema della copertura assicurativa. In Svizzera un quarto e in
Ticino un terzo dei nuovi indipendenti
non hanno né il secondo né il terzo pilastro, perché non se li possono permettere. Molti altri avevano il
secondo pilastro ma l’hanno svuotato
per affrontare le spese di gestione
dell’azienda. È chiaro che in questo
modo si prepara la futura povertà,
provocata dal cumulo di lacune assicurative che si manifesteranno
quando poi queste persone andranno
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«Incassare a volte è un problema»
Sono titolare di uno studio di comunicazione visiva dal 2004. Ho iniziato da solo e oggi lo studio ha un
team che comprende, oltre a me in
veste di direttore e coordinatore,
quattro professionisti formati nel
settore della comunicazione visiva
e tre apprendisti. Per ottenere
mandati in un territorio piccolo
come il Ticino, è essenziale disporre di relazioni nel proprio
ramo. Questi rapporti agevolano i
primi contatti, ma è palese che per
mantenere la continuità è fondamentale offrire qualità e professionalità. Io ci riesco mettendo a
disposizione dello studio la mia irrefrenabile passione, che si trasforma in energia positiva e
soprattutto in molte ore di lavoro.
A prescindere dal buon andamento
attuale dello studio, un problema è
avere la disponibilità da parte delle
banche per ottenere prestiti o linee
di credito senza dover dare delle
garanzie «di ferro» che uguagliano
o addirittura oltrepassano quanto
richiesto. È frustrante soprattutto
all’inizio, quando servono soldi per
mettere in piedi uno studio. Un secondo problema serio è l’incasso.
C’è in giro gente poco seria e inaffidabile e talvolta si perdono cifre
anche importanti per lavori che
non vengono pagati. D’altra parte
per me è fondamentale onorare i
miei impegni finanziari verso i fornitori e i collaboratori. Con questo
principio si instaura un rispetto reciproco, determinante per il buon
andamento dello studio. Andamento che dipende, com’è ovvio,
dai mandati stabili che permettono
di pianificare il futuro in modo costruttivo.
Non ho mai avuto bisogno della politica, per fortuna. Ma penso sia
fondamentale che la politica e i
partiti siano più sensibili ai problemi del mondo del lavoro. Di
tutto il mondo del lavoro: dei dipendenti ma anche dei piccoli imprenditori come me. Un corretto
equilibrio e un rispetto fra tutti le
parti rafforza tutti, sia sul piano
economico sia su quello dei rapporti personali.
Giovanni Sciuchetti, art director
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
In Svizzera i lavoratori indipendenti
rappresentano il 14% della popolazione attiva. In Ticino siamo nella
media nazionale: circa il 15%. Fra
loro c’è anche il 7% degli autonomi
tradizionali, che lavoravano da soli
già prima della trasformazione: i contadini, i commercianti, gli artigiani, i
liberi professionisti.
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lità di scaricare sui nuovi lavoratori
indipendenti tutte le oscillazioni congiunturali. Infatti, in caso di crisi,
sono loro i primi a subire i contraccolpi della recessione.
«Per la politica è come
se non esistessimo»
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
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Il lavoro: è questo il mio problema
principale. Infatti, se non lo trovo,
devo spendere la liquidità a disposizione. Finora, per fortuna, non ho
mai dovuto chiedere dei crediti alle
banche. Per trovare lavoro devo
avere una rete di conoscenze, devo
farmi conoscere e ovviamente devo
essere concorrenziale. Ma il lavoro
non basta: bisogna anche riuscire a
farselo pagare. Se non incasso, la
mia ditta non va avanti. In compenso però i miei fornitori pretendono di essere pagati subito. Al
massimo concedono sette giorni di
tempo. Non solo: siccome ho assunto un dipendente, devo anche
pagare i suoi oneri sociali. Come
piccola ditta, devo pure pagare le
tasse per gli apprendisti… anche se
in pensione e potranno disporre solo
dell’AVS. Inoltre, accanto all’incertezza del reddito, ci sono le spese professionali, che per i dipendenti sono a
carico del datore di lavoro ma che i
freelance si devono accollare totalmente: il cellulare, l’automobile, il
computer, le riviste specializzate, i
corsi di aggiornamento… Per molte
professioni, l’alleggerimento e la dematerializzazione degli strumenti tecnologici hanno modificato le modalità
del lavoro: portando sempre con sé
un telefonino non è più necessario
avere un ufficio. Ma quegli strumenti
hanno costi molto elevati e spesso non
deducibili fiscalmente. Ai quali vanno
ad aggiungersi gli oneri sociali, tutti a
carico del lavoratore. Infine c’è il problema del credito, difficile da ottenere
non potendo fornire garanzie di reddito. Sentiamo in continuazione di
gente che chiude la propria attività
perché non può affrontare crediti a
tassi di interesse assurdi… sempre se
riesce a ottenere dei crediti in una situazione di crisi diffusa. Ecco allora
che molto spesso l’indebitamento privato si spiega alla luce di questi problemi: non per il consumo voluttuario,
ma per il mantenimento di un livello
di vita dignitoso.
non ho diritto ad avere degli apprendisti. E in più l’assegno per i
figli, invece di riceverlo, mi tocca
pagarlo.
Non ho rapporti con la politica. Né
la Destra né la Sinistra si occupano
delle piccole ditte. Se consideriamo
quello che dicono di noi i mass
media, concludiamo che per la politica le piccole ditte potrebbero
anche sparire dalla faccia della
Terra. Invece vorremmo più considerazione. Vorremmo che, invece
di ostacolarci, la politica ci sostenesse di più. Ma qualche volta ci
sembra di non essere nemmeno cittadini svizzeri, per quanto poco la
politica si occupa di noi.
Ramo Ramic, artigiano
Fra questi problemi, la precarietà
del lavoro e l’incertezza del reddito
riportano alla memoria lo sfruttamento dei lavoratori all’epoca della
prima rivoluzione industriale.
Senza dubbio. Non dimentichiamo
che cosa ha preceduto la prima rivo-
luzione industriale: il commerciante
portava le materie prime nelle case
per la lavorazione a domicilio. Questa
condizione è stata superata con la
concentrazione dei dipendenti nelle
fabbriche, tutti sotto lo stesso tetto. È
proprio la fabbrica diffusa che ha
dato origine alla prima rivoluzione industriale.
Sicché questo è un ritorno al passato.
Sì, oggi stiamo tornando indietro, con
il proliferare del lavoro indipendente,
intermittente, a tempo determinato, e
nel contempo con il forte indebolimento dei sindacati, confrontati con
la precarizzazione e la perdita dei
contratti collettivi.
Nella grande fabbrica diffusa e flessibile questi nuovi soggetti autonomi
vengono visti da alcuni settori del
mondo sindacale un po’ come dei crumiri. Una certa ideologia tende a rappresentarli come dei liberi professionisti i cui interessi sono in conflitto
con quelli dei lavoratori subordinati.
In realtà, però, questi nuovi indipendenti sono a propria volta dei lavoratori eterodiretti, perché dipendono da
mandati e committenze di imprese
medie e grandi. Nel sindacato c’è
dunque un problema di cultura politica, oltre che di analisi socioeconomica. E spesso si creano divisioni
laddove invece bisognerebbe trovare
dei denominatori comuni sia per gli
indipendenti sia per i lavoratori subordinati.
Ci sono poi i partiti e i movimenti
della Sinistra. Non hanno ignorato
anche loro la nuova realtà degli indipendenti?
I problemi dei freelance sono stati
evocati in qualche programma elettorale, ma in realtà non c’è mai stato un
lavoro vero e proprio su questo
fronte. Infatti avrebbe comportato un
cambiamento radicale delle categorie
e del linguaggio politico, oltre che
degli strumenti di comunicazione.
Non si sono mai fatti i conti con quello
che è un vero e proprio mutamento
antropologico e culturale. Perché è
vero che alcuni indipendenti sono diventati tali perché costretti, ma nella
transizione c’è anche un elemento
non trascurabile di emancipazione
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Già, i sindacati. Proprio l’organizzazione sindacale, dall’epoca della
prima rivoluzione industriale, ha
permesso di ottenere dei diritti e
delle sicurezze per i lavoratori. Oggi
in che relazione si pongono i sindacati con i freelance?
Ti si rompe lo sciacquone. Tu telefoni all’idraulico, lui esegue la riparazione e poi ti presenta la fattura.
E tu paghi. Se la cifra è troppo alta,
la prossima volta ne chiamerai uno
meno esoso. Ma sarà sempre lui
che scriverà la cifra in fondo alla
fattura. Così anche per tutti gli
altri: dal grafico che prepara una
locandina per il tuo negozio, all’avvocato divorzista che ti difende
dalle pretese dell’ex coniuge, fino
all’architetto che ristruttura il tuo
rustico. Tutti professionisti che decidono il valore del proprio lavoro.
Con un’eccezione: il giornalista
freelance. Infatti il valore dei suoi
articoli lo decide l’editore. Cioè il
cliente. E se al giornalista non
piace… beh, si accomodi, «ché fuori
dalla porta c’è la fila di gente che
vuole scrivere».
Delirio? Macché: è la squallida realtà della libera professione nell’editoria. Così si spiega come mai,
per esempio, in quasi 14 anni di lavoro per il «Corriere del Ticino» il
mio compenso sia stato ridotto del
67%. Sì, hai capito bene: a parità di
lavoro, la cifra che prendevo per la
cura di una pagina di scienza nel
2012 era pari a un terzo di quella
che prendevo nel 1998. Ora immagina che il tuo stipendio venga decurtato di due terzi. Che effetto fa?
Non è bello, vero? E senza dubbio
ti stupisci che un giornalista professionista abbia potuto accettare queste umilianti decurtazioni. Ma sai
com’è… prima la crisi del 2002, poi
il calo della pubblicità, poi la terribile, infinita crisi del 2008… e insomma, «o mangi la minestra
oppure prego, quella è la finestra».
Sicché si accetta tutto pur di lavorare.
Già, lavorare. È tanto bello essere
un libero professionista: io l’ho
fatto per 17 anni. Ero padrone del
mio tempo. Lavoravo quando volevo. Se non volevo, non lavoravo.
Mica dovevo timbrare. Che pacchia,
eh? Già, già. Peccato però che,
quando il lavoro non c’era, io perdessi il sonno per l’angoscia.
Quando invece c’era, allora pigliavo
tutto quel che capitava, perché non
si sa mai ed è sempre bene mettere
fieno in cascina. Così ingolfavo le
mie giornate con 10, 12, perfino 14
ore di lavoro. E i weekend non esistevano più.
Senza contratto, alla mercé del ricatto, il giornalista freelance vive
nella totale incertezza del domani.
Non sa quanto guadagnerà il mese
prossimo. Anzi, non sa nemmeno se
guadagnerà qualcosa. Perché c’è
anche la simpatica abitudine di pagare con ritardi mostruosi o addirittura di non pagare affatto.
Questo è il motivo che mi ha indotto
ad abbandonare le collaborazioni
con le testate italiane: impiegavo un
terzo del mio tempo per il recupero
crediti. Alcuni editori pagavano due
anni (due anni!) dopo la pubblicazione. Altri, nonostante le mie infinite insistenze, tacevano, sparivano, fallivano. Tuttora, dieci anni
dopo l’ultimo articolo scritto per
una rivista italiana, ho alcune migliaia di euro di crediti in sospeso.
Che faccio? Intento una causa civile
che durerà anni? Ma va’ là: non ne
vale la pena. S’impicchino. E di recente l’andazzo comincia a diffondersi anche sul mercato svizzero:
preoccupante davvero.
Intanto però i soldi servono. Per la
spesa e le bollette e l’affitto, com’è
ovvio. Ma pure per gli oggetti e i
servizi indispensabili per il lavoro.
Il freelance non ha un cellulare di
servizio. Né un’auto aziendale. Né
un computer comprato e aggiornato dall’editore. Si rompe il portatile? Il freelance se ne compra uno
nuovo. Pure l’ADSL se la paga da
solo. E che dire degli abbonamenti
ai giornali e alle riviste? Tutti di
tasca propria. Per non parlare delle
trasferte: i rarissimi rimborsi spese
si ottengono solo dopo piagnistei e
umilianti elemosine.
Eppure il cuore continua a battere
a Sinistra. Fa fatica, però. Perché le
persone, specie quelle progressiste,
guardano il libero professionista
come se fosse un privilegiato. Così,
quando lui vede i sindacati mobilitare le folle per difendere i salari e
i posti di lavoro dei dipendenti…
beh, un po’ gli rode. Si sente solo.
Dimenticato. Quelli fanno casino
per il carovita o un legittimo aumento, e magari proprio in quel
momento lui, il freelance, deve subire una riduzione dei compensi del
50%. Certo, il sindacato c’è anche
per lui. Solo che, se interviene su
un editore per difendere il giornalista, la collaborazione viene interrotta su due piedi.
Ma allora chi me l’ha fatto fare?
L’amore per il lavoro, che rimane il
più bello del mondo. Parecchi anni
fa mi capitò di dire a un direttore,
freelance pure lui e quindi sulla
mia stessa barca: «Corrado, questo
lavoro mi piace così tanto che lo
farei gratis». E lui mi rispose: «Anch’io, Marco. Ma se non lo diciamo
all’editore è meglio».
Marco Cagnotti, giornalista,
ex freelance
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
«Il prezzo lo decide il cliente»
dal lavoro subordinato. Emancipazione che dà spazi di libertà, di cui
pure bisogna tenere conto. Allora il
problema non è quello di ritrasformare i freelance in salariati, bensì
quello di autonomizzare di più i lavoratori dipendenti, di emanciparli
dalla loro subordinazione.
E la Sinistra non sa farlo ?
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La Sinistra ha non uno ma due piedi
saldamente nella cultura del Novecento e fatica a uscirne. Continua a
interpretare il mondo del lavoro secondo schemi vecchi, superati. È ben
vero che c’è stato un aumento del lavoro salariato, ma sono cambiate le
sue forme, anche in senso culturale.
Nelle pieghe della precarietà e dell’individualizzazione ci sono spinte che
non trovano espressione ma vanno
verso il superamento del lavoro salariato. Ed è questa la parte più diffi-
cile. Purtroppo però su questo terreno
i sindacati e i partiti di Sinistra non ci
sono, perché sono nati e cresciuti e
hanno trovato la propria forza nel
mondo del lavoro dipendente. Tutte le
loro forme di organizzazione e di lotta
vengono da lì, perciò non sono attrezzati per affrontare questa nuova realtà. Tuttavia il problema è più ampio
e coinvolge non solo la Sinistra. Sono
proprio i partiti tradizionali che non
sono più percepiti come rappresentanti dei nuovi modi di vivere nell’economia. E questo li rende perdenti di
fronte al populismo, che prende le
scorciatoie della semplificazione e cavalca questi processi.
In che modo il populismo si collega
al mutamento nelle forme della produzione?
Quando ti trovi preso nella morsa fra
il tuo committente, la grande im-
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
«Il futuro è oggi»
Io sono entrata in politica quando
avevo 15 anni, con il Movimento
giovanile progressista. Da allora
molte cose sono cambiate, sia nella
Sinistra sia nell’agricoltura. Quello
che spesso ho vissuto è un rapporto
difficile, quasi schizofrenico, segnato da pregiudizi reciproci. Nella
politica c’è senza dubbio un legame
con l’agricoltura, ma è un legame
molto intellettuale, molto teorico.
Nel mondo contadino c’è invece il
contatto diretto con il lavoro sul
prodotto. Ma l’agricoltura e il territorio si salvano se c’è il prodotto,
così come il prodotto si salva se ci
sono il territorio e l’agricoltura. Se
manca la comprensione reciproca,
il risultato sono vicende dolorose
come quella dell’inceneritore, che
a mio avviso è una ferita aperta e
insanabile fra la Sinistra e il mondo
contadino. Quando devo votare non
mi rivolgo di sicuro alla Lega, ma
l’inceneritore è qualcosa che io non
posso perdonare al Partito Socialista.
Nel mio lavoro quotidiano io non mi
sento abbandonata ai miei problemi. Almeno non dai consumatori, che riscoprono il legame con il
proprio territorio. Ciò non toglie,
però, che lo Stato potrebbe fare di
più per sostenere i prodotti locali,
per esempio privilegiandoli sistematicamente nelle mense. Inoltre
potrebbe ridurre il fardello burocratico, che ormai arriva a raddoppiare il nostro lavoro. Se devo
investire ore e ore in ufficio o pagare qualcuno per occuparsi delle
scartoffie, non posso poi ricaricare
i costi sul prodotto. Non solo: è frustrante incontrare funzionari arroganti e menefreghisti che non
capiscono che ogni ora trascorsa in
ufficio è un’ora rubata all’azienda,
e dunque ci può capitare di dover
dare risposte in ritardo. Ma le scadenze sembrano essere diventate
una specie di religione punitiva.
Non è nel mio carattere arrovellarmi sul futuro. Non serve a
niente, perché i problemi più gravi
sono fuori dal nostro controllo.
Certo, i problemi finanziari sono un
assillo costante e con la liquidità
siamo sempre sul filo del rasoio. Le
riserve sono scarse o nulle e, pur
con le facilitazioni del credito agricolo, avere linee di credito dalle
banche è diventato sempre più difficile. Ma come contadina so che
per noi è sempre stato così: ogni
giorno può capitare qualcosa di
brutto o qualcosa di bello, siamo in
una condizione di crisi permanente. Insomma, ho un allenamento mentale all’incertezza e
sono già contenta se riesco ad arrivare a fine mese e a pagare i salari
dei miei collaboratori e gli interessi
alle banche. Perciò, se proprio devo
guardare al futuro, preferisco pensarci in termini di evoluzione del
mio lavoro, di rinnovamento dei
miei prodotti, di progetti per e con
la natura. Che ha ancora la pazienza di sopportarci.
Angela Tognetti, contadina
presa, e lo Stato, sotto forma di prelievo fiscale che non vedi bilanciato
da servizi utili per la tua vita e la tua
professione, è forte la tentazione di
vedere il grande capitale e lo Stato
come nemici. Ed ecco: proprio questi
sono gli ingredienti classici del populismo. Quando guardi alle garanzie
pensionistiche e alla sicurezza del
posto fisso di chi ha un lavoro salariato e le confronti con la tua condizione di freelance,
vedi un abisso.
Creare delle corporazioni?
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No, non si tratta di reinventare ordini
professionali o corporazioni. Non si
coglierebbe la natura nuova del lavoro indipendente, che è aggregabile
nella misura in cui si rispettano le differenze in questo pluriverso di attività
che hanno molto in comune ma anche
grandi diversità. Perciò si dovrebbero
sperimentare forme di aggregazione
inedite perché inedite sono le forme
professionali. Forme di aggregazione
che cominciano ad apparire più sotto
forma di coalizioni che di veri e propri
sindacati.
In conclusione, fin qui la Sinistra ha
dunque fallito con i freelance?
Che fare, dunque?
Anzitutto bisognerebbe considerare
i freelance come degli interlocutori,
senza demonizzarli. E poi mostrare
l’umiltà di ascoltarli, di considerare i
loro problemi più ricorrenti: la copertura assicurativa, i rapporti con lo
Stato sociale, l’insicurezza economica, il credito… Per farlo, bisogna
andare oltre i pregiudizi e le rappresentazioni caricaturali che spesso a
Sinistra si hanno sui nuovi indipendenti. E compiere un passo verso di
loro, senza aspettarsi che siano loro a
muoversi verso la Sinistra. Insomma,
bisogna che la Sinistra si metta al servizio della causa dei freelance, senza
pretendere che loro si mettano al servizio della Sinistra. Anche perché ci
sono battaglie tipiche della Sinistra
delle quali ai nuovi indipendenti non
potrebbe importare di meno. È come
se, rispetto al loro mondo, la Sinistra
vivesse su Marte. Ecco perché, senza
tanta spocchia, bisogna fare un passo
verso questa gente, che peraltro contribuisce parecchio alla creazione di
ricchezza. Infine bisogna intraprendere un lavoro di mappatura di questo nuovo territorio, che si spinge
dalla costruzione alla moda, dalla comunicazione all’artigianato, fino alla
sanità e alla formazione. Mappare per
capire e per dare voce. E anche per
studiare nuove forme di organizzazione.
Confronti, 12 giugno 2013, numero 52
Allora per i movimenti populisti diventa facile trasformare il rancore, la
rabbia, la frustrazione in xenofobia e
razzismo e additare i funzionari dello
Stato come «fuchi con il sedere al
caldo».
La Sinistra non ha mai voluto fare
questo passo al di fuori del Novecento, al di fuori della concezione tradizionale delle lotte economiche e
sociali. Un passo che mettesse in discussione il lavoro salariato. Eppure
proprio il superamento del lavoro dipendente era fra gli obiettivi dei movimenti sociali degli Anni Settanta.
Ecco allora che il postfordismo, il superamento della fabbrica, dal punto
di vista del capitale è stato un’invenzione geniale e diabolica, perché ha
saputo metabolizzare le aspirazioni
dei movimenti di Sinistra. In qualche
modo, ha capitalizzato la rivoluzione.