PER I FREELANCE
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PER I FREELANCE
VITA GRAMA di Marco Cagnotti PER I FREELANCE DOSSIER 4 Padroncini. Sfruttatori. Magari pure evasori fiscali, visto che non hanno una busta paga ma rilasciano fattura… se e quando la rilasciano. Dunque privilegiati, oltretutto perché liberi di gestire come vogliono il proprio tempo. Così i lavoratori indipendenti sono spesso stati visti da Sinistra. Poi però scopri che molti di loro si indebitano non per comprarsi la Porsche, ma per tirare avanti la baracca. Che molti a fine mese si ritrovano con meno soldi dei propri dipendenti. Che per loro la crisi è una tragedia, perché bisogna licenziare quelli che ormai, più che subordinati, sono degli amici. Che tanti, tantissimi lavoratori autonomi sono sfruttati dai propri committenti, trovandosi alla mercé del ricatto più bieco. E allora ti chiedi se forse la Sinistra non li ha dimenticati. E ti domandi perché. E che cosa si può fare (sempre che si possa fare qualcosa) per aiutarli. Noi ne abbiamo parlato con Christian Marazzi. Chi sono i nuovi indipendenti? Dei nuovi indipendenti, noti anche come lavoratori autonomi o freelance, si comincia a parlare negli Anni Ottanta, a seguito di una trasformazione evidente dell’organizzazione delle imprese. Che, sull’onda del postfordismo, cominciano a esternalizzare i processi di produzione. Ovvero? Ovvero il subappalto, l’outsourcing. Lo scopo è snellire le imprese, che così possono concentrarsi sul nucleo dei dipendenti davvero strategici. Esternalizzare alcune mansioni permette di ridurre i costi sociali e del lavoro, scaricandoli però sulle spalle degli ex dipendenti. Perciò siamo di fronte a una trasformazione davvero Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 CHI È Nato nel 1951, Christian Marazzi è economista, docente universitario, politico. Ha studiato a Padova, alla London School of Economics e alla City University of London. Ha insegnato nelle Università di Padova, New York, Losanna, Ginevra. Ha lavorato per 12 anni presso il Dipartimento Opere Sociali in qualità di economista ricercatore. È docente presso il Dipartimento di scienze aziendali e sociali della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). È autore di numerosi studi sulle trasformazioni del mondo del lavoro e sulla finanziarizzazione dell’economia. strutturale del sistema produttivo: la fabbrica classica viene disarticolata, despazializzata. E viene sostituita con una specie di impresa neofeudale, nella quale al centro c’è il «signore» e all’esterno stanno i «vassalli». Tutto questo in nome della flessibilità. Sì, ma intesa non soltanto in senso strettamente occupazionale o salariale. Importa soprattutto la possibi- come addetti ai servizi per le imprese. Se in Svizzera ci troviamo il 75% della popolazione attiva impiegata nel terziario è anche perché c’è stato questo fenomeno. In termini quantitativi, di quante persone stiamo parlando? E il loro lavoro come si caratterizza? Quali sono le conseguenze dell’arrivo dei nuovi indipendenti? Per esempio il gonfiamento statistico del settore terziario. Infatti molti ex dipendenti del settore secondario, nel momento in cui vengono esternalizzati come consulenti, agenti, assicuratori, grafici, rientrano nel terziario In maniera molto variegata. Io chiamo «pluriverso» quest’universo frastagliato e multiforme. All’inizio del decennio scorso qui alla SUPSI con Angelica Lepori ho svolto una ricerca sulle nuove forme del lavoro in Ticino. Abbiamo così scoperto che c’è sempre una maggioranza di lavoratori a tempo indeterminato, un 12% a tempo determinato, un 6% su chiamata. Questo pluriverso, conseguenza del nuovo capitalismo, ha reso difficile per i sindacati la rappresentanza degli interessi di queste persone, con una pluralità di statuti professionali, di contratti, di condizioni di mobilità. Un pluriverso con problemi peculiari. Certamente. Anzitutto gli indipendenti lavorano molto: fino a 12-14 ore al giorno, per 6 e perfino 7 giorni alla settimana. E una parte del loro lavoro consiste proprio nel trovare lavoro. Quindi c’è sempre un aspetto comunicativo, relazionale del loro operato, anche se, per esempio, sono occupati nel settore artigianale. C’è anche una profonda opacità nel loro sguardo sul futuro. Per loro è molto difficile fare progetti di vita a medio-lungo termine, nell’incertezza delle condizioni di lavoro. Per questo spesso viene coinvolto l’ambito familiare nell’attività professionale: il lavoro autonomo porta all’attivazione di micro-reti sociali, molto utili per essere operativi. Poi c’è il problema della copertura assicurativa. In Svizzera un quarto e in Ticino un terzo dei nuovi indipendenti non hanno né il secondo né il terzo pilastro, perché non se li possono permettere. Molti altri avevano il secondo pilastro ma l’hanno svuotato per affrontare le spese di gestione dell’azienda. È chiaro che in questo modo si prepara la futura povertà, provocata dal cumulo di lacune assicurative che si manifesteranno quando poi queste persone andranno 5 «Incassare a volte è un problema» Sono titolare di uno studio di comunicazione visiva dal 2004. Ho iniziato da solo e oggi lo studio ha un team che comprende, oltre a me in veste di direttore e coordinatore, quattro professionisti formati nel settore della comunicazione visiva e tre apprendisti. Per ottenere mandati in un territorio piccolo come il Ticino, è essenziale disporre di relazioni nel proprio ramo. Questi rapporti agevolano i primi contatti, ma è palese che per mantenere la continuità è fondamentale offrire qualità e professionalità. Io ci riesco mettendo a disposizione dello studio la mia irrefrenabile passione, che si trasforma in energia positiva e soprattutto in molte ore di lavoro. A prescindere dal buon andamento attuale dello studio, un problema è avere la disponibilità da parte delle banche per ottenere prestiti o linee di credito senza dover dare delle garanzie «di ferro» che uguagliano o addirittura oltrepassano quanto richiesto. È frustrante soprattutto all’inizio, quando servono soldi per mettere in piedi uno studio. Un secondo problema serio è l’incasso. C’è in giro gente poco seria e inaffidabile e talvolta si perdono cifre anche importanti per lavori che non vengono pagati. D’altra parte per me è fondamentale onorare i miei impegni finanziari verso i fornitori e i collaboratori. Con questo principio si instaura un rispetto reciproco, determinante per il buon andamento dello studio. Andamento che dipende, com’è ovvio, dai mandati stabili che permettono di pianificare il futuro in modo costruttivo. Non ho mai avuto bisogno della politica, per fortuna. Ma penso sia fondamentale che la politica e i partiti siano più sensibili ai problemi del mondo del lavoro. Di tutto il mondo del lavoro: dei dipendenti ma anche dei piccoli imprenditori come me. Un corretto equilibrio e un rispetto fra tutti le parti rafforza tutti, sia sul piano economico sia su quello dei rapporti personali. Giovanni Sciuchetti, art director Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 In Svizzera i lavoratori indipendenti rappresentano il 14% della popolazione attiva. In Ticino siamo nella media nazionale: circa il 15%. Fra loro c’è anche il 7% degli autonomi tradizionali, che lavoravano da soli già prima della trasformazione: i contadini, i commercianti, gli artigiani, i liberi professionisti. DOSSIER lità di scaricare sui nuovi lavoratori indipendenti tutte le oscillazioni congiunturali. Infatti, in caso di crisi, sono loro i primi a subire i contraccolpi della recessione. «Per la politica è come se non esistessimo» Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 DOSSIER 6 Il lavoro: è questo il mio problema principale. Infatti, se non lo trovo, devo spendere la liquidità a disposizione. Finora, per fortuna, non ho mai dovuto chiedere dei crediti alle banche. Per trovare lavoro devo avere una rete di conoscenze, devo farmi conoscere e ovviamente devo essere concorrenziale. Ma il lavoro non basta: bisogna anche riuscire a farselo pagare. Se non incasso, la mia ditta non va avanti. In compenso però i miei fornitori pretendono di essere pagati subito. Al massimo concedono sette giorni di tempo. Non solo: siccome ho assunto un dipendente, devo anche pagare i suoi oneri sociali. Come piccola ditta, devo pure pagare le tasse per gli apprendisti… anche se in pensione e potranno disporre solo dell’AVS. Inoltre, accanto all’incertezza del reddito, ci sono le spese professionali, che per i dipendenti sono a carico del datore di lavoro ma che i freelance si devono accollare totalmente: il cellulare, l’automobile, il computer, le riviste specializzate, i corsi di aggiornamento… Per molte professioni, l’alleggerimento e la dematerializzazione degli strumenti tecnologici hanno modificato le modalità del lavoro: portando sempre con sé un telefonino non è più necessario avere un ufficio. Ma quegli strumenti hanno costi molto elevati e spesso non deducibili fiscalmente. Ai quali vanno ad aggiungersi gli oneri sociali, tutti a carico del lavoratore. Infine c’è il problema del credito, difficile da ottenere non potendo fornire garanzie di reddito. Sentiamo in continuazione di gente che chiude la propria attività perché non può affrontare crediti a tassi di interesse assurdi… sempre se riesce a ottenere dei crediti in una situazione di crisi diffusa. Ecco allora che molto spesso l’indebitamento privato si spiega alla luce di questi problemi: non per il consumo voluttuario, ma per il mantenimento di un livello di vita dignitoso. non ho diritto ad avere degli apprendisti. E in più l’assegno per i figli, invece di riceverlo, mi tocca pagarlo. Non ho rapporti con la politica. Né la Destra né la Sinistra si occupano delle piccole ditte. Se consideriamo quello che dicono di noi i mass media, concludiamo che per la politica le piccole ditte potrebbero anche sparire dalla faccia della Terra. Invece vorremmo più considerazione. Vorremmo che, invece di ostacolarci, la politica ci sostenesse di più. Ma qualche volta ci sembra di non essere nemmeno cittadini svizzeri, per quanto poco la politica si occupa di noi. Ramo Ramic, artigiano Fra questi problemi, la precarietà del lavoro e l’incertezza del reddito riportano alla memoria lo sfruttamento dei lavoratori all’epoca della prima rivoluzione industriale. Senza dubbio. Non dimentichiamo che cosa ha preceduto la prima rivo- luzione industriale: il commerciante portava le materie prime nelle case per la lavorazione a domicilio. Questa condizione è stata superata con la concentrazione dei dipendenti nelle fabbriche, tutti sotto lo stesso tetto. È proprio la fabbrica diffusa che ha dato origine alla prima rivoluzione industriale. Sicché questo è un ritorno al passato. Sì, oggi stiamo tornando indietro, con il proliferare del lavoro indipendente, intermittente, a tempo determinato, e nel contempo con il forte indebolimento dei sindacati, confrontati con la precarizzazione e la perdita dei contratti collettivi. Nella grande fabbrica diffusa e flessibile questi nuovi soggetti autonomi vengono visti da alcuni settori del mondo sindacale un po’ come dei crumiri. Una certa ideologia tende a rappresentarli come dei liberi professionisti i cui interessi sono in conflitto con quelli dei lavoratori subordinati. In realtà, però, questi nuovi indipendenti sono a propria volta dei lavoratori eterodiretti, perché dipendono da mandati e committenze di imprese medie e grandi. Nel sindacato c’è dunque un problema di cultura politica, oltre che di analisi socioeconomica. E spesso si creano divisioni laddove invece bisognerebbe trovare dei denominatori comuni sia per gli indipendenti sia per i lavoratori subordinati. Ci sono poi i partiti e i movimenti della Sinistra. Non hanno ignorato anche loro la nuova realtà degli indipendenti? I problemi dei freelance sono stati evocati in qualche programma elettorale, ma in realtà non c’è mai stato un lavoro vero e proprio su questo fronte. Infatti avrebbe comportato un cambiamento radicale delle categorie e del linguaggio politico, oltre che degli strumenti di comunicazione. Non si sono mai fatti i conti con quello che è un vero e proprio mutamento antropologico e culturale. Perché è vero che alcuni indipendenti sono diventati tali perché costretti, ma nella transizione c’è anche un elemento non trascurabile di emancipazione 7 DOSSIER Già, i sindacati. Proprio l’organizzazione sindacale, dall’epoca della prima rivoluzione industriale, ha permesso di ottenere dei diritti e delle sicurezze per i lavoratori. Oggi in che relazione si pongono i sindacati con i freelance? Ti si rompe lo sciacquone. Tu telefoni all’idraulico, lui esegue la riparazione e poi ti presenta la fattura. E tu paghi. Se la cifra è troppo alta, la prossima volta ne chiamerai uno meno esoso. Ma sarà sempre lui che scriverà la cifra in fondo alla fattura. Così anche per tutti gli altri: dal grafico che prepara una locandina per il tuo negozio, all’avvocato divorzista che ti difende dalle pretese dell’ex coniuge, fino all’architetto che ristruttura il tuo rustico. Tutti professionisti che decidono il valore del proprio lavoro. Con un’eccezione: il giornalista freelance. Infatti il valore dei suoi articoli lo decide l’editore. Cioè il cliente. E se al giornalista non piace… beh, si accomodi, «ché fuori dalla porta c’è la fila di gente che vuole scrivere». Delirio? Macché: è la squallida realtà della libera professione nell’editoria. Così si spiega come mai, per esempio, in quasi 14 anni di lavoro per il «Corriere del Ticino» il mio compenso sia stato ridotto del 67%. Sì, hai capito bene: a parità di lavoro, la cifra che prendevo per la cura di una pagina di scienza nel 2012 era pari a un terzo di quella che prendevo nel 1998. Ora immagina che il tuo stipendio venga decurtato di due terzi. Che effetto fa? Non è bello, vero? E senza dubbio ti stupisci che un giornalista professionista abbia potuto accettare queste umilianti decurtazioni. Ma sai com’è… prima la crisi del 2002, poi il calo della pubblicità, poi la terribile, infinita crisi del 2008… e insomma, «o mangi la minestra oppure prego, quella è la finestra». Sicché si accetta tutto pur di lavorare. Già, lavorare. È tanto bello essere un libero professionista: io l’ho fatto per 17 anni. Ero padrone del mio tempo. Lavoravo quando volevo. Se non volevo, non lavoravo. Mica dovevo timbrare. Che pacchia, eh? Già, già. Peccato però che, quando il lavoro non c’era, io perdessi il sonno per l’angoscia. Quando invece c’era, allora pigliavo tutto quel che capitava, perché non si sa mai ed è sempre bene mettere fieno in cascina. Così ingolfavo le mie giornate con 10, 12, perfino 14 ore di lavoro. E i weekend non esistevano più. Senza contratto, alla mercé del ricatto, il giornalista freelance vive nella totale incertezza del domani. Non sa quanto guadagnerà il mese prossimo. Anzi, non sa nemmeno se guadagnerà qualcosa. Perché c’è anche la simpatica abitudine di pagare con ritardi mostruosi o addirittura di non pagare affatto. Questo è il motivo che mi ha indotto ad abbandonare le collaborazioni con le testate italiane: impiegavo un terzo del mio tempo per il recupero crediti. Alcuni editori pagavano due anni (due anni!) dopo la pubblicazione. Altri, nonostante le mie infinite insistenze, tacevano, sparivano, fallivano. Tuttora, dieci anni dopo l’ultimo articolo scritto per una rivista italiana, ho alcune migliaia di euro di crediti in sospeso. Che faccio? Intento una causa civile che durerà anni? Ma va’ là: non ne vale la pena. S’impicchino. E di recente l’andazzo comincia a diffondersi anche sul mercato svizzero: preoccupante davvero. Intanto però i soldi servono. Per la spesa e le bollette e l’affitto, com’è ovvio. Ma pure per gli oggetti e i servizi indispensabili per il lavoro. Il freelance non ha un cellulare di servizio. Né un’auto aziendale. Né un computer comprato e aggiornato dall’editore. Si rompe il portatile? Il freelance se ne compra uno nuovo. Pure l’ADSL se la paga da solo. E che dire degli abbonamenti ai giornali e alle riviste? Tutti di tasca propria. Per non parlare delle trasferte: i rarissimi rimborsi spese si ottengono solo dopo piagnistei e umilianti elemosine. Eppure il cuore continua a battere a Sinistra. Fa fatica, però. Perché le persone, specie quelle progressiste, guardano il libero professionista come se fosse un privilegiato. Così, quando lui vede i sindacati mobilitare le folle per difendere i salari e i posti di lavoro dei dipendenti… beh, un po’ gli rode. Si sente solo. Dimenticato. Quelli fanno casino per il carovita o un legittimo aumento, e magari proprio in quel momento lui, il freelance, deve subire una riduzione dei compensi del 50%. Certo, il sindacato c’è anche per lui. Solo che, se interviene su un editore per difendere il giornalista, la collaborazione viene interrotta su due piedi. Ma allora chi me l’ha fatto fare? L’amore per il lavoro, che rimane il più bello del mondo. Parecchi anni fa mi capitò di dire a un direttore, freelance pure lui e quindi sulla mia stessa barca: «Corrado, questo lavoro mi piace così tanto che lo farei gratis». E lui mi rispose: «Anch’io, Marco. Ma se non lo diciamo all’editore è meglio». Marco Cagnotti, giornalista, ex freelance Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 «Il prezzo lo decide il cliente» dal lavoro subordinato. Emancipazione che dà spazi di libertà, di cui pure bisogna tenere conto. Allora il problema non è quello di ritrasformare i freelance in salariati, bensì quello di autonomizzare di più i lavoratori dipendenti, di emanciparli dalla loro subordinazione. E la Sinistra non sa farlo ? DOSSIER 8 La Sinistra ha non uno ma due piedi saldamente nella cultura del Novecento e fatica a uscirne. Continua a interpretare il mondo del lavoro secondo schemi vecchi, superati. È ben vero che c’è stato un aumento del lavoro salariato, ma sono cambiate le sue forme, anche in senso culturale. Nelle pieghe della precarietà e dell’individualizzazione ci sono spinte che non trovano espressione ma vanno verso il superamento del lavoro salariato. Ed è questa la parte più diffi- cile. Purtroppo però su questo terreno i sindacati e i partiti di Sinistra non ci sono, perché sono nati e cresciuti e hanno trovato la propria forza nel mondo del lavoro dipendente. Tutte le loro forme di organizzazione e di lotta vengono da lì, perciò non sono attrezzati per affrontare questa nuova realtà. Tuttavia il problema è più ampio e coinvolge non solo la Sinistra. Sono proprio i partiti tradizionali che non sono più percepiti come rappresentanti dei nuovi modi di vivere nell’economia. E questo li rende perdenti di fronte al populismo, che prende le scorciatoie della semplificazione e cavalca questi processi. In che modo il populismo si collega al mutamento nelle forme della produzione? Quando ti trovi preso nella morsa fra il tuo committente, la grande im- Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 «Il futuro è oggi» Io sono entrata in politica quando avevo 15 anni, con il Movimento giovanile progressista. Da allora molte cose sono cambiate, sia nella Sinistra sia nell’agricoltura. Quello che spesso ho vissuto è un rapporto difficile, quasi schizofrenico, segnato da pregiudizi reciproci. Nella politica c’è senza dubbio un legame con l’agricoltura, ma è un legame molto intellettuale, molto teorico. Nel mondo contadino c’è invece il contatto diretto con il lavoro sul prodotto. Ma l’agricoltura e il territorio si salvano se c’è il prodotto, così come il prodotto si salva se ci sono il territorio e l’agricoltura. Se manca la comprensione reciproca, il risultato sono vicende dolorose come quella dell’inceneritore, che a mio avviso è una ferita aperta e insanabile fra la Sinistra e il mondo contadino. Quando devo votare non mi rivolgo di sicuro alla Lega, ma l’inceneritore è qualcosa che io non posso perdonare al Partito Socialista. Nel mio lavoro quotidiano io non mi sento abbandonata ai miei problemi. Almeno non dai consumatori, che riscoprono il legame con il proprio territorio. Ciò non toglie, però, che lo Stato potrebbe fare di più per sostenere i prodotti locali, per esempio privilegiandoli sistematicamente nelle mense. Inoltre potrebbe ridurre il fardello burocratico, che ormai arriva a raddoppiare il nostro lavoro. Se devo investire ore e ore in ufficio o pagare qualcuno per occuparsi delle scartoffie, non posso poi ricaricare i costi sul prodotto. Non solo: è frustrante incontrare funzionari arroganti e menefreghisti che non capiscono che ogni ora trascorsa in ufficio è un’ora rubata all’azienda, e dunque ci può capitare di dover dare risposte in ritardo. Ma le scadenze sembrano essere diventate una specie di religione punitiva. Non è nel mio carattere arrovellarmi sul futuro. Non serve a niente, perché i problemi più gravi sono fuori dal nostro controllo. Certo, i problemi finanziari sono un assillo costante e con la liquidità siamo sempre sul filo del rasoio. Le riserve sono scarse o nulle e, pur con le facilitazioni del credito agricolo, avere linee di credito dalle banche è diventato sempre più difficile. Ma come contadina so che per noi è sempre stato così: ogni giorno può capitare qualcosa di brutto o qualcosa di bello, siamo in una condizione di crisi permanente. Insomma, ho un allenamento mentale all’incertezza e sono già contenta se riesco ad arrivare a fine mese e a pagare i salari dei miei collaboratori e gli interessi alle banche. Perciò, se proprio devo guardare al futuro, preferisco pensarci in termini di evoluzione del mio lavoro, di rinnovamento dei miei prodotti, di progetti per e con la natura. Che ha ancora la pazienza di sopportarci. Angela Tognetti, contadina presa, e lo Stato, sotto forma di prelievo fiscale che non vedi bilanciato da servizi utili per la tua vita e la tua professione, è forte la tentazione di vedere il grande capitale e lo Stato come nemici. Ed ecco: proprio questi sono gli ingredienti classici del populismo. Quando guardi alle garanzie pensionistiche e alla sicurezza del posto fisso di chi ha un lavoro salariato e le confronti con la tua condizione di freelance, vedi un abisso. Creare delle corporazioni? 9 DOSSIER No, non si tratta di reinventare ordini professionali o corporazioni. Non si coglierebbe la natura nuova del lavoro indipendente, che è aggregabile nella misura in cui si rispettano le differenze in questo pluriverso di attività che hanno molto in comune ma anche grandi diversità. Perciò si dovrebbero sperimentare forme di aggregazione inedite perché inedite sono le forme professionali. Forme di aggregazione che cominciano ad apparire più sotto forma di coalizioni che di veri e propri sindacati. In conclusione, fin qui la Sinistra ha dunque fallito con i freelance? Che fare, dunque? Anzitutto bisognerebbe considerare i freelance come degli interlocutori, senza demonizzarli. E poi mostrare l’umiltà di ascoltarli, di considerare i loro problemi più ricorrenti: la copertura assicurativa, i rapporti con lo Stato sociale, l’insicurezza economica, il credito… Per farlo, bisogna andare oltre i pregiudizi e le rappresentazioni caricaturali che spesso a Sinistra si hanno sui nuovi indipendenti. E compiere un passo verso di loro, senza aspettarsi che siano loro a muoversi verso la Sinistra. Insomma, bisogna che la Sinistra si metta al servizio della causa dei freelance, senza pretendere che loro si mettano al servizio della Sinistra. Anche perché ci sono battaglie tipiche della Sinistra delle quali ai nuovi indipendenti non potrebbe importare di meno. È come se, rispetto al loro mondo, la Sinistra vivesse su Marte. Ecco perché, senza tanta spocchia, bisogna fare un passo verso questa gente, che peraltro contribuisce parecchio alla creazione di ricchezza. Infine bisogna intraprendere un lavoro di mappatura di questo nuovo territorio, che si spinge dalla costruzione alla moda, dalla comunicazione all’artigianato, fino alla sanità e alla formazione. Mappare per capire e per dare voce. E anche per studiare nuove forme di organizzazione. Confronti, 12 giugno 2013, numero 52 Allora per i movimenti populisti diventa facile trasformare il rancore, la rabbia, la frustrazione in xenofobia e razzismo e additare i funzionari dello Stato come «fuchi con il sedere al caldo». La Sinistra non ha mai voluto fare questo passo al di fuori del Novecento, al di fuori della concezione tradizionale delle lotte economiche e sociali. Un passo che mettesse in discussione il lavoro salariato. Eppure proprio il superamento del lavoro dipendente era fra gli obiettivi dei movimenti sociali degli Anni Settanta. Ecco allora che il postfordismo, il superamento della fabbrica, dal punto di vista del capitale è stato un’invenzione geniale e diabolica, perché ha saputo metabolizzare le aspirazioni dei movimenti di Sinistra. In qualche modo, ha capitalizzato la rivoluzione.