lo specchio spagnolo. il doppio sguardo del liberalismo
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LO SPECCHIO SPAGNOLO. IL DOPPIO SGUARDO DEL LIBERALISMO ITALIANO DI INIZIO OTTOCENTO Premessa Nella storia del liberalismo italiano dei primi decenni del diciannovesimo secolo, i moti del 1820-21 rappresentano il primo momento in cui matura quella dissociazione tra moderati e democratici che si ripresenterà in maniera evidente nel 1848. Per questo è importante, nell'analisi del periodo napoleonico e della Restaurazione, identificare i punti comuni e le tensioni interne al liberalismo italiano. Questa analisi, oltre a quello della modernizzazione economica, deve centrarsi anche su due altri piani: la dimensione militare e quella politico-culturale. Appariranno chiare allora le relazioni di circolazione permanente e di scambio nel campo della cultura, dell'economia così come dei progetti politici e degli interventi amministrativi. A fronte di un'«Italia prima dell'Italia» si formula l'ipotesi di uno spazio comune europeo, almeno per quello che riguarda il discorso politico, costruito sull'onda della rivoluzione francese. In questo quadro, parlare di specchio spagnolo significa porre attenzione non solo alle dinamiche comparabili tra il Trienio liberal e i moti napoletani e piemontesi, ma anche alla lettura che dell'esperienza spagnola fece il settore repubblicano democratico: penso alla lettura della guerra antifrancese e della Costituzione di Cadice. La linea di ricerca, nella dimensione militare, passa per due punti: l'interpretazione di quella guerra e la sua eredità, nell'ambito di una generazione di formazione napoleonica. Si potrà così intendere la presenza di italiani in Spagna tanto nel 1808 come nel Trienio ad alleanze invertite. In relazione al discorso politico culturale, la riflessione si centra sulla diffusione che la Costituzione di Cadice ebbe in Italia per verificare se, oltre all'esistenza del «mito spagnolo», si possa parlare di una conoscenza diretta, in particolare nel circuito universitario, e di un suo uso tattico da parte dei circoli settari. In questo caso la Pepa potrebbe essere considerata come uno dei fattori di formazione culturale del movimento democratico nel periodo 182 Agostino Bistarelli che «partly by design and partly by accident»,1) produsse i primi politici professionali nella storia dell'Italia moderna. Emblematico di questo intreccio potrebbe essere il ruolo di Maurizio Quadrio, studente a Pavia, velita in Piemonte durante l'esperienza costituzionale del 1821, esule in Spagna, poi accanto a Mazzini e infine fondatore delle Società operaie di mutuo soccorso. Posi rivoluzione Se si vogliono analizzare entrambi i livelli, il militare e il politico, della società post-rivoluzionaria napoleonica prima e poi della Restaurazione, da un lato non si può ignorare la dimensione europea, e dall'altro non assumere la proiezione della lunga durata che dal 1789 si incrocia con le diverse tappe nel percorso di formazione nazionale (1820-21; 1830, 1848). All'interno del processo generato dall'espansione napoleonica, nei paesi coinvolti si pone un duplice problema di identità e di differenziazione nella costruzione di un proprio modello sociale che possa rispondere alle dinamiche messe in moto dalla rivoluzione. La proiezione territoriale è così utile non solo per la comparazione quanto piuttosto per capire le molteplici relazioni internazionali. La dimensione di analisi aggregante è quella del pubblico, inteso sia nella prospettiva istituzionale che in quella della socializzazione. Figure, processi, saperi: il tutto ruota attorno a una nuova dimensione del discorso politico. È stato segnalato come nell'età giacobina si assista in Italia a un'esplosione dell'interesse per la politica, e come in quel periodo praticamente si formino le correnti di pensiero moderato, nel senso ottocentesco, e democratico.2) Queste correnti « unite, e talvolta confuse, nel movimento "patriottico" sorto all'arrivo delle armate rivoluzionarie francesi si vennero in seguito sempre più differenziando ed articolando. I moderati e i democratici non erano degli ideologi, ma dei politici attivi». 3) Ci sembra dunque di fondamentale importanza analizzare questo livello, capire come nel processo storico reale venissero fatti i conti con le premesse teoriche, partendo dalla considerazione che «la scoperta della politica ed i relativi processi di acculturazione portati avanti dalla Repubblica in Francia ebbero 1) CLARA LOVETT, The democratic movement in Italy 1830-1876, Cambridge (Usa) London, 1982, p. 3. 2) ERNESTO LESO, I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa. XVII-XIX secolo, Atti del convegno, Lecce, 11-13 ottobre 1990, Firenze, 1992. 3) AURELIO LEPRE, Moderati e democratici nel processo risorgimentale italiano, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all'età contemporanea, diretta da Nicola Tranfaglia e Mario Firpo, vol. VIII, L'età contemporanea, 3, Dalla Restaurazione alla prima guerra mondiale, Torino, 1986, pp. 184-185. Lo specchio spagnolo 183 quindi anche in Italia un effetto propagatorio in una società impreparata a questi fenomeni, anche nei suoi gruppi d'élite intellettuale e dirigente. Ciò nonostante da quel momento, pur tra difficoltà e adattamenti, la nuova mentalità si espresse in un linguaggio condensato in alcune idee forza, con termini simbolici».4) La parola d'ordine della Costituzione spagnola, secondo i risultati delle nostre ricerche, è una delle più importanti di queste idee, attraverso la quale si è giocata la partita dell'egemonia da parte di quel «gruppo sociale formato da professionisti, medi proprietari terrieri, incipiente ceto imprenditoriale»5) all'interno del movimento liberale italiano. Parola d'ordine tanto più forte in quanto si coniugava all'impatto della guerra di indipendenza spagnola che l'armata italiana — uno dei veicoli del sentimento nazionale 6) — aveva avuto modo di conoscere direttamente. E del resto, sulla forza di questo connubio politico, dice molto anche il fatto che gli inglesi, in funzione anti napoleonica, facessero appello all'esempio della Spagna per provare «i principi democratici e disinteressati» della loro politica.7) Vediamo dunque il quadro all'interno del quale si inseriscono queste dinamiche. 4) RUGGERO DE LORENZO, Dalla scoperta della politica al tempo della politica: la dimensione italiana in età napoleonica, in Rassegna storica del Risorgimento, LXXXVII (2000), pp. 335-356, p. 349. 5) N ARCIS O N AD A , L a Res taur az ione i n Eur opa, i n La St ori a. I gr andi pr oble mi cit ., p. 17. Chiare sono anche le conclusioni a cui arriva il Dizionario nel suo capitolo su I ceti borghesi e i moti: «ciò che a tale gruppo maggiormente premeva, ed in questo si incontravano con i costituzionali più radicali, quelli cioè che propugnavano la Costituzione di Spagna, era un maggiore peso politico-economico del loro ceto» (GIUSEPPE MARSENGO - GIUSEPPE PARLATO, Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821, 2 voll., Torino, 1982-1986, p. 181). Sul rapporto tra componenti interne al movimento liberale e modello costituzionale preferito vedi anche le osservazioni contenute nel mio Vivere il Mito spagnolo. Gli esiliati italiani in Cataloña durante il Trienio Liberal, in Trienio, Madrid, nn. 32-33. 6) F. C. SCHNEID, Soldiers of Napoleon's Kingdom of Italy: Army, State and Society 1800-1815, Westview, 1995. 7) Vedi l'appello di Lord Bentinck del 14 marzo 1814 da Livorno. Anche Rath sottolinea che «gli ufficiali britannici, napoletani ed austriaci avevano fatto appello durante tutta la campagna d'Italia del 1813-14 ai sentimenti di indipendenza del popolo italiano» (R. F. RATH, l'amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto (1814-1821), in Archivio economico dell'unificazione italiana, vol. IX, f. 1, Torino, 1959, p. 3). In nota l'autore riporta le fonti di questa affermazione: il proclama di Hiller a Trento (26 ottobre 1813) conservato presso l'Archivio di Stato di Venezia (Polizia, V. A., n. 1138); il proclama di Bellegarde a Soave (4 febbraio 1814) citato in M. H. WEIL, Le prince Eugene et Murat, 1813-14, Paris, 1902, vol. IlI, pp. 647-48; e i documenti citati da A. SPRINGER, Geschichte Osterreichs seit dem Wiener Frieden, Leipzig, 1863-1865. In questa lotta politica a tutto campo, come ricorda lo stesso autore, il gruppo dei radicali lombardi, «desideroso dell'appoggio inglese ai propri progetti di costituzione» arrivava a prefigurare la nomina a sovrano nel nuovo regno italiano del duca di Cambridge o del duca di Clarence (p. 4). Del resto De Meester, insieme ad altri democratici milanesi, aveva firmato, nel 1814, un indirizzo al governo inglese al Bentinck «avente lo 184 Agostino Bistarelli Napoleone, nella Repubblica prima e nel Regno d'Italia poi, dalla borghesia e dalla nobiltà «aveva tratto un ceto di funzionari e di ufficiali, di magistrati e di intellettuali, che costituiva l'ossatura amministrativa, militare, giudiziaria e accademica del nuovo Stato; ma al tempo stesso aveva reso impossibile a questi uomini, quasi tutti di tendenze politiche moderate, di elaborare un proprio programma di governo adeguato alle esigenze italiane». La tendenza si era accentuata dopo il 1805, quando aveva voluto ridurre sempre più gli uomini politici che aveva intorno a semplici esecutori di ordini. Cosi negli anni che vanno dal 1810 al 1814 si assiste, per quello che riguarda la ripercussione politica del sentimento nazionale, alla formazione di una duplice opposizione, da una parte, proveniente dall'interno dell'esperienza bonapartista e, dall'altra, invece legata al vecchio repubblicanesimo, mentre permanevano poi, all'esterno del sistema, i gruppi legati alle dinastie spodestate. L'opposizione interna era anche alimentata dagli effetti, sullo sviluppo economico della borghesia, del sistema doganale e del blocco continentale che annullavano di fatto l'efficacia delle grandi riforme e dei grandi lavori pubblici. II luogo politico dove si incontrò questa opposizione fu quello costituito dalle sette. Con un felice gioco di parole è stato sottolineato il rapporto tra massoneria e liberalismo rovesciandone la visione poliziesca: la borghesia italiana «non fu liberale perché massonizzasse, ma si bene massonizzò perché istintivamente liberale».8) Sulla funzione delle sette si soffermano anche altri storici della Restaurazione. Scrive Nada, ad esempio, parlando della loro capacità di penetrazione, che «queste società si diffusero in particolar modo attraverso quelle che erano le sole istituzioni organiche dell'epoca: le università e l'esercito. Le università diventarono in tal modo il braccio culturale, per così dire, del movimento rivoluzionario, mentre i corpi militari ne diventarono il braccio armato ».9) Pur se piuttosto schematico, questo approccio ci sembra interessante visto che si può sostenere, per rimanere alla metafora, che nei moti del 1820-21 le due «braccia», si congiunsero creando un azione dirompente.10) Conviene quindi soffermarci brevemente su un aspetto teorico del discorso politico relativo ai temi in discussione. scopo di ottenere l'appoggio per la conservazione del regno d'Italia indipendente e costituzionale» (MARIO NAGARI, Il carteggio Beolchi-De Meester, Bellinzona, 1973, p. 33). 8) RENATO SORIGA, Settecento massonizante e massonismo napoleonico nel primo Risorgimento italiano, in bollettino della Società Pavese di Storia Patria, 1919, p. 30. 9) N. NADA, La Restaurazione cit., p. 17. 10) Lo stesso autore sottolinea poi il ruolo delle società segrete nei corpi militari «in quegli Stati assoluti a regime arbitrario dove l'esercito aveva una certa consistenza (Spagna, Due Sicilie, regno di Sardegna)». Lo specchio spagnolo 185 II discorso politico. Sul concetto Ha sottolineato Barberis che « se il liberalismo rivoluzionario — come movimento e come dottrina — appare la corrente più rappresentativa del liberalismo della Restaurazione, ciò è dovuto [...] ai legami che esso intrat tiene con la Grande Rivoluzione: legami personali della gran parte dei suoi esponenti, ben rappresentata da personaggi come Lafayette o Grégoire, ma soprattutto legami dottrinali. [...] Al Livello di astrazione della filosofia politica, in effetti, l'opera di questi scrittori si presenta soprattutto come un lavoro di rielaborazione, e di adattamento ad esigenze nuove, del discorso rivoluzionario: di quella parte del discorso rivoluzionario, almeno, che non si era screditata a seguito del Terrore».11) Si assiste così a una separazione interna nel filone dottrinale. «Il liberalismo rivoluzionario, come è stato conclusivamente mostrato da Bernard Manin, è un liberalismo del mercato, o dell'unità, che si oppone in quanto tale a un liberalismo dei contropoteri, e della pluralità; è dunque un liberalismo rigidamente individualistico, che ammette due soli attori sociali, l'individuo — portatore di interessi individuali — e lo stato — portatore dell'interesse generale — mentre esclude i gruppi intermedi, concepiti come portatori di interessi particolari incompatibili con i precedenti».12) Si tratta in sostanza di due diverse declinazioni del paradigma della limitazione del potere. Mentre per il liberalismo del mercato il potere si limita anzitutto indicando le aree entro cui può legittimamente esercitarsi, per quello dei contropoteri il potere si limita solo attraverso il potere. Quindi se quest'ultimo comporta una soluzione istituzionale, fondata sull'equilibrio di poteri che si controllano e si limitano a vicenda, il primo implica una soluzione culturale in senso ampio, consistente in una delimitazione concettuale della sfera di legittimo esercizio del potere. Un precipitato di queste distinzioni sta anche nell'intendere il senso del termine «costituzione»: il costituzionalismo dell'esperienza adotta come principio di funzionamento delle istituzioni il principio naturalistico della mano invisibile istituzionale (caratteristico del liberalismo dei contropoteri). II costituzionalismo della ragione adotta invece il principio artificialistico, volontaristico, della divisione del lavoro: la costituzione è una macchina in cui gli interessi individuali dei governanti sono strumentalizzati dal progettista all'interesse generale dei governati. Per il primo discorso, la costituzione (intesa come organizzazione politica istituita tramite un documento che contiene forma di governo e dichiarazione di diritti) può essere solo una scoperta empirica; per il discorso della ragione, una invenzione razionale. 11) MAURO BARBERIS, Sette studi sul liberalismo 1989, p. 49. 12) Ivi, p. 55. rivoluzionario, Torino, Giappichelli, 186 Agostino Bistarelli Si tratta di verificare se, con il riferimento a un progetto costituzionale concreto (nel nostro caso la Costituzione di Cadice) e a un'identità nazionale definita, non si sviluppi, nella Restaurazione italiana, un progetto liberale dei contropoteri, in cui assume un ruolo ben definito l'associazionismo politico (prima la setta e poi il partito), vista anche l'asserzione della Lovett citata inizialmente. E si tratta poi di capire se questa «invenzione razionale» possa essere esportabile o sia invece solo maturata in un situazione storica concreta: e se quindi è giusta la critica di Spaventa ai rivoluzionari napoletani del 1820 rispetto alla Costituzione spagnola. Infatti, secondo Spaventa, non si può concepire una costituzione come sovrastruttura destinata ad avere un'esistenza del tutto formale dal momento che il potere che su di essa vuole fondarsi deve basarsi sulla volontà del popolo. « Antistorico, quindi, il comportamento di quei rivoluzionari del 1820-21, emuli in ciò di coloro che fecero il Novantanove napoletano, che, per regolamentare i propri ordinamenti su modelli stranieri alla coscienza nazionale e popolare, non seppero, o peggio, non vollero comprendere l'esigenza di adeguarsi sempre alla volontà del popolo per il miglioramento delle istituzioni e per ottenere il maggior consenso. La costituzione di Cadice, idealizzata e mitizzata oltre misura per il presunto suo carattere democratico e progressista dai gruppi rivoluzionari, finiva col porli in una rotta di collisione a causa del suo contenuto apparentemente avanzato, non soltanto con la dinastia ed i suoi sostenitori monarchici ma anche, e forse soprattutto, con l'opinione moderata della quale una rivoluzione italiana, nella complessa situazione sociale della nazione, aveva allora assoluto bisogno».13) Il giudizio di Spaventa14) è una condanna politica per carbonari e murattiani perché questi « non raffigurando nella costituzione che un concetto generale di guarantigia, non riguardassero molto sottilmente alla natura del governo rappresentativo, alle condizioni storiche del paese nel quale voleva introdursi ed alla proporzionata distribuzione e flessibilità delle sue membre, ma se ne stessero contenti ad ogni cosa che diminuisse la potenza assoluta del principato borbonico. E che ciò sia molto verosimile, lo dimostra la condotta dei loro capi nelle vicissitudini varie della rivoluzione. Conciossiachè, con la stessa leggerezza con cui accettarono e favorirono da prima lo statuto spagnolo preconizzato ne' conciliaboli della setta, trattarono poi di scambiarlo con quello di Francia, più per rispetto al pericolo evidente di una guerra coi maggiori potentati 13) CARLO GHISALBERTI, Istituzioni e Risorgimento. Idee e protagonisti, Firenze, 1991, p. 119. 14) SILVIO SPAVENTA, Della riazione del governo di Napoli considerata nei suoi effetti, in Dal 1848 al 1861: lettere, scritti e documenti, pubblicati da Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1923. Lo specchio spagnolo 187 dell'Europa, che per intendere le vere e proprie condizioni del governo rappresentativo».15) Al di là del giudizio di merito espresso dal filosofo napoletano, ci interessa sottolineare ancora una volta come la Pepa venga descritta in quanto arma politica scelta da una strategia elaborata nella «setta», e come, a partire dal giudizio di Spaventa, vengano ripresi dalla storiografia i temi della mitizzazione e della idealizzazione del testo gaditano. Del mito spagnolo «Le immagini che animano il discorso nazional-patriottico risorgimentale sono le stesse che circolano ampiamente nei più diversi contesti nazionali dell'Europa di primo Ottocento. Si tratta di un fenomeno noto e ben comprensibile, se solo si considerano i frequenti contatti (volontari — tour di vario tipo — o forzati — l'esilio in terra straniera —) che moltissimi intellettuali romantici ebbero con i loro colleghi di altri paesi, anche senza soffermarci, ovviamente, sui più ovvi canali della lettura delle opere in originale o in traduzione».16) In questa interpretazione, che pure rileva lo spazio europeo come luogo di analisi, viene del tutto trascurata la circolarità continentale della produzione del discorso politico e il ruolo, in essa, dei fattori socio-economici. È come se gli artefici della nascita dell'immagine nazionale possano essere esclusivamente individuati negli intellettuali attraverso il lavoro letterario o artistico, in una sorta di sospensione astorica dei contesti territoriali. Questo tipo di impostazione, pur individuando il nodo dei miti come necessario nell'analisi interpretativa dei processi che portano alla costruzione del discorso nazionale, sembra dar ragion alla teoria di Barthes su di essi, come costruzioni semiologiche depuratrici del conflitto e della complessità. « Ogni sistema, semiologico è un sistema di valori; ora il consumatore del mito prende la significazione per un sistema di fatti »,17) e questo perché «il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, da loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione».18) Cerchiamo quindi di fornire qualche spiegazione a proposito del mito spagnolo in Italia, anche per segnalare l'operazione 15) S. S PAVENTA , Della riazione cit, p. 160. A LBERTO M ARIO B ANTI - R OBERTO B IZZOCCHI (a cura di), Immagini della nazione nell'Italia del Risorgimento, Roma, 2002, p. 12. 16) 17) R OLAND BARTHES , Miti d'oggi, Torino, 1974, p. 212. 18) Ivi, p. 223. 188 Agostino Bistarelli storiografica che sul suo uso ha cercato di depoliticizzarne i valori che ne erano alla base.19) Il discorso militare e la fascinazione della Pepa rappresentano due cardini della intimidad italiana con la Spagna, nel periodo che precede i moti del 1821.20) Spini argomenta che nella guerra spagnola per l'indipendenza i democratici italiani avevano isolato il carattere di guerra di popolo, guerra rivoluzionaria contro un esercito regio: per questo nella rivendicazione della Costituzione di Cadice, vista come eredità di quella guerra, viene messo in luce un antinapoleonismo progressista, non reazionario. Non a caso, a Milano, nelle drammatiche giornate del 1814, si inneggia all'indipendenza sotto il grido «la Spagna e la Germania hanno scosso il giogo francese; l'Italia deve fare altrettanto».21) Vediamo allora come, nella pubblicistica coeva, venga vista e adattata alle esigenze politiche italiane la carta uscita dalle Cortes. «Quest'opera maestra occuperà un dè più nobili posti nelle non meno vere, che inverosimili, Storie del Secolo decimonono; secolo forse fra tutti, il più ignominioso insieme ed il più glorioso per l'umana natura, abbassata dall'empietà e dalla scostumatezza al più cupo baratro dell'avvilimento, ed innalzata ad un tratto dalla religione e dall'onore al più sublime apice della gloria». Così nella prefazione della prima versione della Costituzione di Cadice tradotta in italiano di cui abbiamo notizia.22) E prima I9) Per tutte, vedi l'affermazione di Croce sulla costituzione di Cadice, «venuta al mondo troppo all'improvviso», e sul suo influsso sui moti italiani, «quando i carbonari di Napoli l'adottarono senza ben conoscerne l'origine e l'indole» (BENEDETTO CROCE, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari, 1965 (ma del 1932), p. 69 e p. 68). 20) Questa relazione si inserisce però in un fenomeno più vasto, quello che Carr descrive come l'immagine di una nazione ideale, forza naturale non contaminata per tutti i romantici europei (R. CARR, España 1808-1839, Barcelona, 1969, p. 113). Esplicito è anche Moreno Alonso che, ricordando i numerosi lavori usciti in tutto il continente nel periodo del Trienio Liberal sulla lotta per la libertà spagnola, sottolinea «el primero aspecto de este combate a muerte lo habia costituido la Guerra de la Indipendencia, cuyo mismo nombre tan elogiado por la publicistica e historiografia decimononicas- es un claro ejemplo de la lucha por la libertad patria. Tanto los liberales corno los tradicionalistas españoles consideraron el ejemplo de aquellos años como un mito, como la mas grande hazaña en la conquista de la libertad. Pero también en Europa produjo su efecto» (M. MORENO ALONSO, Quince cartas sobre el liberalismo historico español, in Revista de Estudios Politicos (Nueva epoca), 28, julio-agosto 1982, pp. 211-226, p. 211). 21) V. ARMAROLI, La Rivoluzione di Milano, in T. CASINI, La Rivoluzione di Milano nell'aprile 1814, Roma, 1897, p. 16. 22) Costituitone politica della Monarchia Spagnola promulgata in Cadice nel marzo del 1812, preceduta da tre Lettere Preliminari colle quali gli estensori di essa la diressero alle Corti, tradotta in italiano da Gianfresco Masdeu, barcellonese, storiografo della Spagna, gennaio 1814, Roma, Stamperia Luigi Perego Salvioni, Piazza di S. Ignazio num.° 153, p. 6. Juan L,o specchio spagnolo 189 si parla della Spagna come « nome che acquisterà presso i posteri per la sua impareggiabile Costituzione, in mezzo ad un labirinto di barbare guerre, e luttuosissime sventure, felicemente nata e perfezionata».23) È verificata anche l'esistenza di un'altra edizione della Costituzione, sempre del 1814, questa volta stampata a Milano dai Tipi Sonzogno e Compagni, 24) e che potrebbe anche essere la fonte per il commento critico di Giandomenico Romagnosi agli articoli 171 e 172 della Costituzione di Cadice.25) Nella versione pubblicata a Napoli nel 1820, dunque di grande significato politico concreto, c'è un significativo avviso. « La presente traduzione ordinata dal Governo potrà forse avere di quelle imperfezioni che dipendono dalle difficoltà inerenti a questa specie di lavori, e dalla brevità del tempo impiegato per l'esecuzione: ma si può assicurare che, per quanto le circostanze di urgenza l'han permesso, vi si è posta tutta la cura per conservarne il vero senso, e renderlo identico a quello del testo. Per questo riguardo alcune parole spagnole si sono conservate nella loro originalità, e dando solo alle medesime la desinenza italiana: ciò che è sembrato necessario tanto per qualche parola che indica la divisione territoriale delle provincie, quanto per quelle che indicano impieghi, o qualche qualità politica poiché tali parole non possono facilmente rendersi con vocaboli perfettamente corrispondenti, se ne presentano per l'intelligenza le seguenti DICHIARAZIONI [in maiuscolo nel testo, ndr]: aggiuntamento, alcalde, Francisco de Masdeu è anche autore di una Historia critica de España y de la cultura española. Obra composta y publicada en italiano, e di un Discurso sobre las pretensiones de la Francia, la libertad y la igualidad. 23) Ivi, p. 3. 24) Significativamente una copia di questa edizione integrale è rilegata insieme alla Costituzione francese del 1814 e a quella della repubblica romana del 1798. Abbiamo potuto consultare la copia conservata presso la Biblioteca Caetani di Roma. Anche il Torta parla di una traduzione a Milano della Costituzione di Cadice con in calce un auspicio che la lettura spingesse gli italiani non solo alla curiosità ma anche alla meditazione e al sentimento (CARLO TORTA, La rivoluzione piemontese del 1821, Roma-Milano, 1908, p. 127). È probabile che il Torta faccia riferimento a questa edizione anche se nella copia da noi consultata non c'è traccia dell'appello citato. 25) GIANDOMENICO ROMAGNOSI, La Scienza delle Costituzioni, Firenze, 1850. L'opera venne pubblicata postuma in Italia ma è certa la sua scrittura nel confine tra età napoleonica e Restaurazione (vedi infra la citazione del lavoro della Polenghi). La critica agli articoli sui poteri del re in tema di guerra e alleanze offensive si basava essenzialmente sulla mancata prevenzione. Secondo Romagnosi era infatti insufficiente il controllo a posteriori delle Cortes: «con ciò si toglierà forse il male che fu fatto, o per imperizia, o per pusillanimità, per arroganza, per ambizione, per vendetta o per corruzione?». Il tema era tanto più importante perché la guerra veniva concepita da Romagnosi solo per «necessità di assicurare o di difendere la nazionale indipendenza» (paragrafo 41, parte seconda). 190 Agostino Bistarelli Corti, compromissari, Capi di famiglia o di casa, udienza, parrocchia, partito ».26) Ci sembra evidente come queste brevi note in qualche modo contraddicano la ricostruzione di un'acritica assunzione operata da persone sprovvedute. È fondamentale al riguardo il lavoro di Juan Ferrando Badia che ha come oggetto « concretamente considerar la influencia de dicha Constitucion en los comienzos del Risorgimento».27) Nel vivo della battaglia politica, in piena lotta per il potere, divengono più marcati gli appelli che fanno riferimento al valore intrinseco del testo di Cadice che diviene insegnamento universale. Cosi nel Piemonte dei moti: «La Costituzione di Spagna, questa santa legge che il Dio stesso della giustizia volle che fosse adottata in quelle generose contrade, perché fosse di scampo a tutti i popoli d'Europa onde sottrarsi agli artigli del dispotismo, è la legge che dovete sostenere, è la legge il cui nome dovete portare sugli stendardi delle legioni Bresciane, e che sventolando su di esse fra l'esercito italiano, deve essere lo spavento dello straniero. Essa è la legge per cui sola dovete combattere».28) È forte e inevitabile il richiamo alla guerra: del resto, come nota Ferrando, «la guerra de España no es solo el prototipo de guerra que los italianos debian hacer a Austria para defender su indipendencias, sino también el prototipo de la guerra de los pueblos contra los ejercitos reales. La guerra de España de 1808 es aquella de donde surge la Consitucion de Cadiz de 1812 ».29) E così, sulla guerra spagnola è possibile tornare senza dolorosi interrogativi, quando il cammino è compiuto, e si tratta di consolidare i valori e i simboli del percorso risorgimentale. Il lato militare dello specchio spagnolo può compiere il miracolo di riunificare due esperienze conflittuali nel nome della retorica bellica. È esplicito uno dei primi catechismi laici dell'Italia post26) Costituzione Politica della Monarchia Spagnola, tradotta per ordine del Governo, Edizione Uffiziale, Napoli, 1820. 27) J. FERRANDO, La Constitucion Española de 1812 en los comienzos del "Risorgimento", Roma-Madrid, 1959, p. 10. Il saggio si centra soprattutto sulla rivoluzione napoletana del 1820, ma poi analizza anche quella piemontese e le ripercussioni in Europa. Su questo punto essenziale è la lettura del saggio di ALFONSO SCIROCCO, Parlamento e opinione pubblica a Napoli nel 1820-21: l'adattamento della Costituzione, in Clio, a. XXVI (1990), pp. 569-578. Ma è da segnalare soprattutto, per il discorso che abbiamo appena fatto, la presenza di due appendici, una dedicata ai documenti delle rivoluzioni, la seconda ad un'analisi comparativa tra la Costituzione napoletana del 1821 e quella spagnola del 1812, «que ofrece al lector una vision clara y objetiva de la influencia real de la Constitucion de Cadiz en el Reino de las Dos Sicilias», p. 13). 28) Invito degl'insorti Piemontesi ai Bresciani, 1821, in F. A. GUALTERIO, Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche, Firenze, Le Monnier, 1851, voi. I, Documenti. 29) J. FERRANDO, La Constitucion Española de 1812 cit., p. 10. Lo specchio spagnolo 191 unitaria: «Nella Spagna il geloso affetto della famiglia ispirò atti di grande eroismo. Le guerre nazionali di quel popolo, dalla lunghissima contro i Mori, alla breve ma generosissima contro Napoleone, furono per così dire intimate, mantenute, ravvivate in nome della famiglia. E le donne vi ebbero parte principalissima. Soldati! Quando affrontate la morte sul campo dell'onore, non spendete solo la vita per la patria, la spendete per le vostre donne, per le vostre madri, per le vostre sorelle; e soprattutto pe' figli che avrete, quando, adempiuto il vostro dovere di soldati, vorrete adempiere quello di marito e di padre».30) E ancora, nel capitolo Ricordi del valore italiano ci sono paragrafi dedicati ad episodi che coinvolgono i soldati italiani in Spagna con le truppe napoleoniche contro gli spagnoli durante la loro guerra di indipendenza ma anche, come segno bifronte di continuità e di rovesciamento delle alleanze, quelli degli italiani durante il Trienio liberal. «Nella guerra di Spagna del 1821 e 1822 il nome italiano suonò di nuovo glorioso e temuto in que' luoghi che, sotto Napoleone, erano stati teatro del nostro valore. E nel 21 e 22 fu per causa nobilissima; e gli italiani vi andarono volontari o cacciati dal mal successo della rivoluzione piemontese; vi andarono per finire la vita miseramente travagliata, e i più la finirono, alcuni pochi scamparono per combattere poi, con egual gloria e miglior fortuna, le patrie battaglie. Gli italiani muovevano primi ad ogni assalto; non che, essendo stranieri e ed esuli, fossero da chi comandava votati primi alla morte, ma perché primi volevano essere».31) Il libro ricorda gli episodi di Vich, della battaglia di Madrid, della Tordera (dove fu protagonista Pacchiarotti), di Pineda e poi cita esplicitamente il colonnello Olini (che ritroveremo anche più avanti) a cui aveva già dedicato un paragrafo, il 22, per le gesta a Sagunto con i francesi di quindici anni prima. La generazione dei cattivi maestri e dei cattivi scolari? « Dovunque si guardi sulla carta d'Europa, e quasi ad ogni momento, l'Ottocento presenta l'immagine composita ma chiara di una gioventù inquieta, o ribelle: giovani, negli anni Venti, tanti adepti della Carboneria francese o italiana, come i più tra i decabristi russi ». 32) Così scrive Sergio Luzzatto per i giovani rivoluzionari ottocenteschi sulla base di un ampio 30) 31) 32) G. DE CASTRO, Il libro del soldato italiano. Letture per le scuole risorgimentali, Milano, 1888 (ma del 1873), p. 14. Ivi, p. 75. SERGIO LUZZATTO, Giovani ribelli e rivoluzionari (1789-1917), in G. L EVI - J. C. SCHMITT, Storia dei giovani, Roma, 2000, voi. II, pp. 233-310, p. 233. 192 Agostino Bistarelli lavoro «e con una base di solidi riferimenti». 33) Coloro che parteciparono ai moti del 1820-21 possono essere visti sotto questa inquadratura? Possiamo definire una generazione quella del 1821 così come si è fatto per quella del 1848?34) Le cose non sembrano cosi semplici. Si è infatti rilevato che «se possiamo parlare d'una generazione del 1821, raccogliendo sotto tale etichetta tutti coloro che gettarono in Italia la prima sfida ai governi della Restaurazione (collegandosi per lo più al modello dell'insurrezione e della Costituzione spagnola, ma anche delle correnti liberali francesi ed alla Charte), dovremo rilevare quanto strettamente si fondono in quella sfida l'eredità dell'attivismo napoleonico, e le più varie forme di patriottismo, locale od unitario, dinastico o repubblicaneggiante ».35) Del resto, scrive ancora Luzzatto, «la trasmissione di ogni esperienza rivoluzionaria ha implicato l'incontro tra i veterani e le nuove leve; e tale incontro ha spesso rischiato di assomigliare ad uno scontro dove la posta in gioco non consisteva semplicemente nell'attualità politica delle rispettive idee, ma nell'età sociale che gli uni attribuivano agli altri ».36) Dopo la rivoluzione francese e il periodo napoleonico divenne urgente ridefinire i ruoli della giovinezza, della maturità e della vecchiaia: «non per caso, dalle logge massoniche alle sette Carbonare, dalla Chiesa sansimoniana alle icarie di Cabet, riformatori e rivoluzionari, convertiti ed utopisti si affannano nella ricerca di una formula associativa che concili l'aspirazione egualitaria contenuta nell'idea di fratellanza con l'ordine gerarchico garantito dal riconoscimento di una qualche paternità».37) Questa osservazione ci sembra pertinente visto anche l'approfondimento fatto sulle sette come luoghi politici, ma ora segnaliamo come in realtà per il periodo che andiamo studiando sembri più proprio parlare di un accavallarsi di due generazioni, al tempo stesso politiche e anagrafiche: coloro che sono pienamente nella generazione napoleonica (per formazione e/o per esperienza bellica) e coloro arrivati all'adolescenza con la Restaura33) R. BALZANI, 1 giovani del Quarantotto: profilo di una generazione, in Contemporanea, a. III, n. 3 (luglio 2000), pp. 403-416, p. 403. 34) Riprendendo la definizione di Philip Ariès, generazione come misura del cambiamento avvenuto nella storia contemporanea, e proponendo tre parametri di valutazionc (espressione di una consapevole identità giovanile, esistenza di uno scontro tra vecchi e giovani, status riconosciuto dalle generazioni successive). Balzani sostiene, centrando soprattutto l'analisi sul ruolo svolto dalla politica di Mazzini, che «quella del '48 fu, dunque, nel senso pieno una generazione» (p. 408). 35) E. PASSERIN D'ENTREVES, Il mito napoleonico nell'Europa della Restaurazione, in Rivista italiana di studi napoleonici, 1979, n. 1, pp. 9-23, p. 17. 36) 37) S. LUZZATTO, Giovani ribelli e rivoluzionari cit., p. 238. Ivi, p. 234 e cita il saggio di j. R. Gillis uscito a New York nel 1974 e tradotto in italiano con ii titolo I giovani e la storia, Milano, 1981. Lo specchio spagnolo 193 zione. Nella nostra popolazione di esuli, 33) il 70% è nato dopo il fatidico 1789 e quindi potenzialmente candidato all'iscrizione alla Giovane Italia, ma sono ancora in molti gli appartenenti alla cultura e alla esperienza postrivoluzionaria (circa il 52% proviene da classi coinvolte nella leva napoleonica). 39) La nostra ipotesi è che l'intersezione tra queste generazioni sia costituita in gran parte dal ruolo ricoperto dalle istituzioni educative e formative nel loro radicamento nella società civile, e dai luoghi in cui si è esercitata la trasmissione di cultura politica, il movimento settario in primo luogo. Vediamo di esplicitare le basi di questa ipotesi. Un particolare intreccio tra discorso generazionale e influenza dell'esperienza postrivoluzionaria e napoleonica è quello descritto da un lavoro settoriale, il saggio di Simonetta Polenghi si occupa infatti di orfani ed educazione, e che utilizziamo come punto di partenza, non solo per il suo interesse, ma anche perché in esso si intravede un circuito biografico tra le esperienze di alcuni degli esuli che andiamo studiando e che intendiamo approfondire. Durante la seconda Cisalpina, Pietro Teuliè fonda, sulla base dell'esperienza francese, un collegio dedicato all'educazione militare degli orfani di guerra. L'iniziativa partiva dalla convinzione che «garantire uno status adeguato ai soldati e agli ufficiali, che corrispondesse al loro nuovo ruolo di difensori della patria e non di mercenari, significava anche tutelare i loro figli». 40) L'orfanotrofio viene istituito a Milano il 15 gennaio 1802 nel fabbricato di San Luca, di fronte a Porta Ludovica. Nel 1807 viene riorganizzato una prima volta e poi di nuovo nel 1811, quando assume anche un nuovo nome, Collegio Reale degli Orfani Militari, e si allarga agli orfani dei funzionari civili. I migliori allievi potevano sostenere un esame per entrare nella Scuola Militare per Ufficiali di Fanteria nata a Pavia il 7 luglio 1805. «Sotto il profilo ideologico, l'adesione agli ideali patriottici e la devozione a Napoleone erano garantite dalla scelta, quali governatori del Collegio, di ufficiali che avevano abbracciato agli inizi le idee giacobine e che avevano 38) Pur con tutte le cautele del caso, visto che non può essere considerato automaticamente un campione statistico delle persone coinvolte nei moti, possiamo comunque disporre di un gruppo di 265 nominativi di cui abbiamo anche l'indicazione anagrafica. Purtroppo nel già citato Dizionario dei Piemontesi compromessi non è presente, accanto a quelle per composizione sociale e provenienza territoriale, una statistica basata sull'età dei protagonisti ai moti. 39) Il dato è poi più ampio se si tiene presente sia il fenomeno del volontariato precoce (vedi il caso di Giuseppe Avezzana) sia quello dell'appartenenza alle Scuole militari (come il caso di quella di Pavia su cui torneremo in seguito). 40) SlMONETTA POLENGHl, Figli della patria: l'educazione militare di esposti, orfani e figli della truppa tra Sette e Ottocento, Milano, 1999, p. 167. 194 Agostino Bistarelli militato con Bonaparte». 41) Dal 1802 al 1805 ricoprì questa carica il capitano degli invalidi lgnazio Ritucci poi sostituito da Gian Battista Deangeli, a cui subentrerà Filippo De Meester (novembre 1811). «Con questa nomina il Collegio compiva un salto di qualità, dato che De Meester era un uomo di cultura [...] repubblicano convinto e patriota sincero». 42) La studiosa ne sottolinea poi l'appartenenza alla Massoneria e l'opera educativa e lo annovera tra i massoni politici, che nutrivano aspirazioni liberal-nazionali: da Francesco Salfi a Giandomenico Romagnosi, da Luosi a Caffarelli. E continua, in modo per noi significativo, visto il libro citato e sul quale ci siamo già soffermati, ricordando «che nella Scienza delle Costituzioni, scritta a Milano tra il 1813 e il 1815, ma edita postuma a Torino nel 1848, Romagnosi — arrestato egli pure nel 1814 — sostenesse l'importanza dell'istruzione popolare e dell'educazione militare per dare forza e coesione allo Stato, e prospettasse un piano nei quale era presente il modello del Collegio diretto da De Meester». 43) Viene poi indicato un filone di ricerca che vale la pena approfondire, visto che il giurista emiliano, in questo progetto che declinava in chiave democratica più istanze pedagogiche, non mancava di elogiare Pestalozzi e il suo sistema educativo. « È pure significativo che Romagnosi proponesse il metodo del mutuo insegnamento, che si ricorderà già applicato da Pawlet, da La Rochefoucauld e da Bourdon nei loro istituti. Ci si può chiedere se tale metodo didattico, strettamente connesso in Italia al liberalismo costituzionale, non derivasse anche da una matrice democratica francese, oltre che dall'esperienza inglese di Lancaster e Bell. Né è da sottacere, oltre alla fratellanza politico-massonica di De Meester con Romagnosi, entrambi appartenenti come detto alla stessa loggia, l'influenza che De Meester poté esercitare anche su Cattaneo, con cui era in contatto a Lugano, a proposito dei temi dell'educazione nazionale e militare e della costituzione repubblicana, che il pensiero democratico risorgimentale desunse da quegli aspetti dell'esperienza giacobina perduranti nell'età napoleonica». 44) Finisce poi evidenziando che due allievi del Collegio milanese, i fratelli Boneschi, figli del giacobino Pasquale, presero parte ai moti del '21. I giovani Boneschi citati sono Pietro e Luigi, e quest'ultimo, studente all'Università pavese, sarà tra gli esuli in Spagna.45) 41) Ivi, p. 181 42) Ivi, p.186. 43) Ivi, p.189. 44) Ivi, p.190. Il corsivo è nostro 45) Luigi Boneschi si imbarcherà a Genova sull'Apollo, e sbarcherà a Tarragona. Abbiamo altre notizie sulla sua presenza a La Coruña e poi in Belgio. Lo specchio spagnolo 195 Dunque a Pavia troviamo un intreccio tra uomini ed esperienze che è ben difficile considerare come casuale, e non definire sulla base di una comunanza ideale, se non politica, dove provenienza giacobina, appartenenza alla Massoneria, formazione educativa, ribellione giovanile costituiscono un tessuto connettivo tra generazioni che porta dalla Grande Rivoluzione ai moti del 1820-21. Prima di parlare dell'Università, notiamo solo che alla Scuola Militare di Pavia, tra il 1805 e il 1810, Insegnò anche Francesco Lomonaco, uno dei dirigenti della Rivoluzione napoletana del 1799, autore di quel Rapporto sulle segrete cagioni e su' principali avvenimenti della catastrofe napoletana che si conclude, dopo una dura critica anche alla politica tenuta dai militari francesi nei confronti dei giacobini napoletani, con una chiara affermazione dell'unità e dell'indipendenza dell'Italia intera.46) Vediamo di evidenziare altri nodi di questo tessuto, partendo da uno dei direttori del Collegio sopra citato. Filippo De Meester47) a Pavia era già stato, essendosi 46) Francesco Lomonaco, era nato nel 1772 a Montalbano Ionico, vicino Matera e si suicidò a Pavia nel 1810 «anche perché l'ispirazione nazionale del suo insegnamento non era gradita al governo napoleonico», come significativamente recita la voce biografica della Rizzoli Larousse. Dunque il suo percorso biografico potrebbe essere visto come l'incarnazione di quel difficile rapporto tra il ceto politico democratico, nato sull'onda della Rivoluzione francese, e l'esito concreto della politica napoleonica sul territorio italiano, di cui parleremo in seguito. Di Lomonaco, oltre alla traduzione di Dei diritti e dei doveri del cittadino, di Mably, si può ricordare l'opera di storico alla ricerca delle radici dell'identità nazionale che si concretizzò nei volumi Vita delli eccellenti italiani (3 volumi del 1802) e Vite dei famosi capitani d'Italia (3 volumi 1804-1805). 47) Giacomo Filippo De Meester, nasce a Milano nel 1765 da Elena Mattei e da Daniele, commerciante di origine olandese. Nell'ottobre del 1781 frequenta i corsi di filosofia del Liceo S. Alessandro tenuto dai Padri Barnabiti. Nel 1784 si iscrive all'Università di Pavia dove consegue la laurea il 26 giugno 1787. Nel 1796 comincia a frequentare clandestinamente le società democratiche giacobine e con l'avvento della Repubblica Cisalpina diviene ufficiale della Guardia nazionale e poi comandante della legione di Milano. Seguendo le vicende del conflitto tra francesi e austro-russi passa in Francia e poi a Genova con il generale Massena. Dopo la vittoria di Napoleone a Marengo, rientra a Milano col grado di Generale di Brigata e con l'incarico di riorganizzare la Guardia Nazionale. Con il passaggio dalla repubblica Cisalpina al Regno d'Italia comincia il distacco politico da Napoleone: il suo repubblicanesimo lo porta ad accentuare l'impegno nella Massoneria. Nel 1814, dopo il crollo dell'Impero e con il ritorno degli austriaci, è tra i protagonisti, con Olini tra gli altri, di una cospirazione a carattere liberale che viene stroncata nel dicembre. Arrestato e condannato, passa quattro anni in carcere: liberato nel 1818, si ritira in campagna, fiaccato nel fisico. Nel 1821 prende parte attiva ai contatti tra i liberali lombardi e quelli piemontesi, compiendo anche una missione presso il Principe di Carignano per conto dei Confalonieri. Con la fine dell'esperienza costituzionale si imbarca a Genova per Barcellona, ma a differenza degli altri scende alla tappa di Antibes e da lì prosegue per Ginevra dove avrà contatti con Filippo Buonarroti e con Gioacchino Prati. Costretto a lasciare la Svizzera si rifugia a Londra nel maggio 1823 dove ritrova numerosi protagonisti dei moti. Insegna italiano per sopravvivere, preside il primo Comitato di Soccorso esuli e prosegue nella sua attività 196 Agostino Bistarelli laureato in quella Università nel 1787 in Legge e come lui un altro protagonista dei moti con il quale era in contatto e che ritroveremo tra gli esiliati: Carlo Beolchi.48) Il legame tra i due rimarrà forte per tutto il resto della vita anche se divisi dalla forma istituzionale da dare alla nazione: monarchico costituzionale il più giovane, repubblicano convinto il più anziano. Il loro carteggio segnala «le voci accorate di due esuli, rotte dall'incertezza e dalle incognite dell'avvenire»49) e, sempre attento a quello che succede in Italia, dà uno spaccato interessante della vita quotidiana della comunità degli esuli italiani. Ma torniamo al nostro tessuto biografico. Beolchi si laurea in ambe le leggi il 26 giugno 1817 e ricorda, a proposito della propria esperienza universitaria, il ruolo ricoperto da Adeodato Ressi, uno di quegli «insegnanti celebri e cari», polo di attrazione per i giovani lombardi.50) Quest'ultimo, massonica promuovendo una vendita a Londra. Nell'aprile del 1833 si trasferisce a Parigi, dove gli viene riconosciuto un sussidio in qualità di rifugiato politico ed ex generale di brigata. Dalla Francia mantiene contatti diretti od epistolari con molti dei principali esuli; tra le sue relazioni anche quella con Mazzini a cui lo accomunava la politica repubblicana. Nel giugno 1840 si trasferisce a Lugano. Nei 1848, sollecitato dagli avvenimenti, scrive Della repubblica democratica rappresentativa in cui veniva esplicitato in modo netto il legame tra indipendenza italiana e principi democratici. Muore nel dicembre del 1852, e al suo funerale pronunciò un discorso anche Carlo Cattaneo. 48) Carlo Beolchi nasce vicino Arona dalla famiglia del notaio Federico, nel 1794. Frequenta le elementari e il ginnasio presso i Padri Cappuccini di Arona e poi, dal 1812, i corsi di filosofia presso il R. Liceo S. Alessandro di Milano (lo stesso istituto frequentato da De Meester trent'anni prima), dove consegue l'approvazione nell'agosto del 1814. Si iscrive nell'autunno di quell'anno all'Università di Pavia ottenendo il posto come alunno nel Collegio Borromeo. Dopo i moti fuggì da Genova verso Barcellona, e dopo aver partecipato alle vicende del Trienio si rifugiò in Inghilterra, dove arrivò nel febbraio 1824. A Londra visse, come molti altri esuli, insegnando lingua e letteratura italiana, sia a privati che in istituti e poi, dal 1848, al Collegio della Regina. Fu membro attivo del Comitato di Soccorso degli esuli italiani (il secondo, fondato dopo la fallita spedizione in Savoia che costrinse in Inghilterra altri rifugiati cacciati da Francia e Svizzera). Venne anche chiamato a far parte del Consiglio dell'Educazione di Londra. Nei periodo inglese pubblica Reminiscenze dell'esilio, Saggio sulla poesia italiana e Fiori poetici, raccolta di poesie dei classici italiani da Dante a Manzoni, con note e biografie degli autori, che ebbe tre edizioni. Malato, e con il cambiare delle condizioni politiche in Piemonte, decise di tornare in Italia, dove arrivò nel maggio 1850 dopo oltre ventinove anni di esilio. Data l'esperienza al Collegio della Regina, stese un progetto per fondare un collegio per l'educazione femminile di livello universitario che ebbe una favorevole accoglienza ma che non si concretizzò. Ripubblicò il libro di memorie e poi un saggio su uno degli episodi dei moti (Vittorio Ferrero e il fatto di San Salvario nel 1821). Deputato per il partito liberale in due legislature del Parlamento Subalpino, fondò e diresse «Lo Stendardo italiano», organo della Società Costituzionale Italiana. Nel 1864 pubblicò il saggio Il Piemonte nel 1821 sulla Rivista Contemporanea Nazionale Italiana. Morì a Torino il 5 giugno 1867. 49) M. NAGAR1, Il carteggio cit., p. 7. 50) LUIGI RE, Cospirazioni e cospiratori lombardi 1821-1831, Brescia, 1934, p. 109. Lo specchio spagnolo 197 praticamente coetaneo di De Meester (e con lui laureatosi in legge a Pavia), ha insegnato nella Facoltà di Giurisprudenza, prima Economia e poi Statistica, dal 1800 fino al giugno 1821, quando verrà arrestato nel corso delle indagini che partono dall'arresto di Pietro Maroncelli. Nel suo discorso di commiato sono espliciti i richiami alla coscienza italiana, alla disillusione verso l'esperienza napoleonica e alla funzione che l'insegnamento poteva svolgere nel risveglio nazionale. Vediamone alcuni passi significativi. « Colma è la misura dei mali per la misera Italia, e un truce genio le tiene alle labbra l'amara tazza d'infinite sventure. Penetrai nel vasto tempio della politica e vidi pendervi muti i simulacri dei re; e nel tripudio delle mense e dei balli, vidi mute le sorti delle nazioni e degli infranti imperi! Tu pure, o cara immagine della patria, fosti sempre ai mio fianco, e tu ornasti il pensiero di robuste penne e mi infiammasti il cuore. Bella come natura ti fece, io ti mostrai ai popoli fratelli affinchè allo splendore di tua virtù, e all'incanto di tue forme leggiadre, vieppiù t'amassero con riconoscente amistà ». E dopo questa dichiarazione di un amore quasi fisico per la patria, struggente è l'indicazione finale per i suoi giovani studenti: « e poiché m'è negata la consolazione di Socrate, di raccomandare il mio spirito a voi fedeli discepoli, vi lascio il bacio dell'amicizia. E voi, dolcissima cura del mio cuore, serbando inviolata memoria delle sue dottrine e de' suoi consigli, onorate il padre e l'amico con una lagrima di gratitudine e d'amore! ».51) Tra gli altri insegnanti celebri e cari, oltre a Monti e Foscolo, vi era anche Giandomenico Romagnosi, professore di Diritto civile dal 1807, e così il nostro primo cerchio si chiude. Dunque non stupisce se, allo scoppiare del moto in Piemonte, da Pavia partono volontari numerosi studenti per formare il battaglione della Minerva e unirsi ai rivoluzionari piemontesi.52) E non stupisce neanche che 51) Memorie e documenti per la storia dell'Università di Pavia e degli uomini più illustri che vi insegnarono, Bologna, 1970 (riproduzione anastatica dell'edizione originale, a cura di A. CORRADI, del 1877-78), p. 339; il corsivo nella citazione è nostro. Ressi era nato a Cervia nel 1768 e morirà nell'isolotto di S. Michele a Venezia, dove era prigioniero assieme a Romagnosi, Rezia, Arrivabene e altri, nel 1822. Aveva ricoperto anche la carica di Rettore dell'Università di Pavia per un breve periodo (prima Vicereggente per la malattia del rettore Cerreta e poi rettore alla sua morte, tra il 1807 e il 1808) e prima ancora era stato deputato nella Repubblica Cisalpina. Sposato con Anna, figlia del celebre medico Pietro Moscati, ha scritto un interessante trattato ispirato ai principi liberisti Dell'economia della specie umana (Pavia, 1817-1818). 52) R. Soriga produce una lista di 85 studenti non piemontesi dell'Università pavese «compromessi nei moti» nel suo articolo Gli studenti dell'Università di Pavia ed i moti del 1821, in Il Risorgimento italiano, XV (1922), I-II, pp. 203-204. Le nostre ricerche identificano con certezza 18 studenti di questa Università poi esuli in Spagna. Alcuni saggi di ambito locale aiutano a ricostruire in parte questa vicenda: quello di Luigi Re già citato per gli studenti bresciani; quello di V. ADAMI, I moti del 1821 in Valle Camonica, in La Lombardia 198 Agostino Bistarelli a comandare questo battaglione sia Domenico Svanini, ex maggiore del regno italico, processato nel 1814 per la congiura bresciana contro gli austriaci assieme a quel colonnello Paolo Olini che abbiamo già citato. Ma questi incroci non finiscono qui, un nuovo cerchio si interseca con gli altri a partire dalla figura di Beolchi. Quest'ultimo, infatti, tornato a Torino nel 1817 lavorò, in qualità di ripetitore della Facoltà di Legge nel Regio Collegio delle Provincie e dovette comunque frequentare anche l'Università per sostenere gli esami di conferma della laurea visto che gli Stati Sardi non riconoscevano i titoli accademici dell'Università pavese. Il Collegio era una fondazione universitaria per borsisti creata nel 1729 dal re di Sardegna.53) Già nell'ultimo decennio del Settecento gli studenti ospiti del Collegio furono protagonisti di agitazioni anche violente. Marina Roggero sottolinea che per questo periodo si può parlare di motivazioni generazionali più che politiche, ma, ed è la cosa che ci interessa rilevare per il nostro discorso, conclude: «non vi sono prove certe per affermare che l'università e il collegio rappresentassero dei covi repubblicani, e per parlare con fondatezza di radicalismo studentesco sarà bene attendere il 1821 ».54) Anche il Dizionario segnala che « l'ambiente creato dai professori e dai ripetitori in quel Collegio era tale da farlo apparire la punta più avanzata del liberalismo torinese, almeno a livello studentesco».55) È troppo azzardato ipotizzare un nel Risorgimento, VI-VII, pp. 21-44; e ancora B. BELOTTl, Storia di Bergamo, V, pp. 127-128 e F. LECHI, Il miraggio della libertà, in Storia di Brescia, IV, Brescia, 1964, pp. 125 e segg. Quest'ultimo dà notizie anche sul Collegio Ghislieri, uno di quelli che ospitavano gli universitari pavesi, come «vivo crogiolo di italianità» (p. 140), giudizio condiviso poi da E. BRAMBILLA, L'università di Pavia nell'età cisalpina e napoleonica, tesi di laurea presso l'Università di Milano, a.a. 1965-66. Anche un recente articolo torna sull'argomento: dopo aver ricordato che nel 1805 il Collegio venne convertito nella Scuola militare (che abbiamo citato già sopra a proposito di Lomonaco) l'autore afferma: «con la restaurazione riprendeva il proprio posto tra i Collegi universitari e con buona inversione di tendenza avrebbe assicurato, più che irreprensibili funzionari al governo austriaco, solidi esponenti al ceto liberale e borghese che avrebbe costruito e governato, dopo le prove risorgimentali, l'unificazione italiana» (A. MILANESI, Una fonte per la storia dell'Università: gli archivi dei collegi storici, in Annali di storia pavese, n. 29, dicembre 2001, pp. 87-94, p. 90). 53) MARINA ROGGERO, I/ sapere e la virtù. Stato, università e professioni nel Piemonte tra Settecento e Ottocento, Torino, 1987. Ci sembra importante, nello svolgimento delle ipotesi che stiamo dipanando, segnalare lo scopo di questo lavoro come esplicitato dall'autrice, e cioè «la storia di come un progetto di riforma si materializzi in un'istituzione, di come questa si radichi progressivamente nei tessuto del paese, e di quale risposta, di quale reazione il processo desti nella società civile» (p. VII). 54) Ivi, p. 170. Ci sembra vada ripresa l'indicazione dell'autrice su un filone di ricerca da approfondire per quello che riguarda gli istituti di istruzione ed il loro ruolo nello sviluppo del processo risorgimentale. 55) G. MARSENGO - G. PARLATO, Dizionario dei Piemontesi cit., p. 197. Lo specchio spagnolo 199 ruolo del Beolchi in questo protagonismo? Del resto una informativa della polizia, nei gennaio del 1821, lo definiva a conoscenza, se non membro, di una rete mirante a introdurre il sistema costituzionale nel Regno. 56) Non ci sembra irrilevante segnalare qualcuna delle sue amicizie, sia tra gli studenti torinesi (losti, Simondi, Sorisio) che tra i colleghi di lavoro (Testa, Gillio, Allegra, Massa, Vanni, Carta, Magliola, tra gli altri); rete che ritroveremo in gran parte tra gli esuli in Spagna dopo i moti. 57) E in questo radicalismo si possono anche cogliere relazioni territoriali che forse superano il semplice aspetto goliardico. Dopo l'episodio del Teatro d'Angennes, delle dimostrazioni studentesche col berretto rosso alla greca e della relativa repressione con morti e feriti (gennaio 1821), cinque portavoce studenteschi, uno per facoltà, si incaricarono di scrivere una lettera ai loro colleghi di tutte le università d'Italia, in cui smentivano la versione governativa dell'episodio. La « memoria intonata ai più nobili ed elevati sentimenti patriottici » 58) conteneva anche un appello alla solidarietà: « a noi non è permesso di fare pubbliche preci per suffragare le anime dei defunti nostri fratelli. Voi che lo potete, recate loro questo dolce refrigerio. Vi scongiuriamo, inoltre, di portare in questi giorni di carnevale, il segno di lutto al vostro cappello, e di astenervi dai balli, affinché il mondo vegga che, se noi siamo rassegnati, non tripudiamo però, mentre ancora fuma il sangue dei nostri fratelli svenati. Raccomandiamo a Dio, o fratelli, la nostra patria e supplichiamolo, perché faccia alla fine spuntare anche per noi il giorno della benedizione ». E il Michel segnala che l'appello venne ripreso almeno a Pavia, Padova, Pisa. Chiudiamo questo capitolo riprendendo un argomento che abbiamo già incontrato parlando del legame tra De Meestcr e Romagnosi, e cioè del- 56) Rapporto dell'Ispettore di polizia di Arona, 23 gennaio 1821, al Ministro Lodi, in AST, Affari politici, Protocollo Segreto, 87, 234 57) Per inciso, nell'evidenziare la presenza ricorrente di avvocati e studenti in Legge, ci sembra interessante segnalare una possibile saldatura tra l'aspetto ideale (il sentimento nazionale) e quello materiale (l'interesse) in questa sociabilità politica del liberalismo dovuta ai ruoli introdotti dal codice francese. Rileva Rath che l'introduzione dei codici germanici con la Restaurazione nel Lombardo Veneto aveva coinvolto corposi interessi e che «gli avvocati, ad esempio, che avevano perso molti dei loro affari per essere stati esclusi dal foro erano particolarmente furiosi contro gli austriaci» (R.F. RATH, L'amministrazione austriaca cit., p.22). Stesse osservazioni anche per il Piemonte: «la cultura di origine francese degli avvocati e dei medici, la situazione favorevole goduta da queste categorie durante il periodo napoleonico furono gli elementi determinanti che spinsero questi professionisti all'insurrezione» (G. MARSENGO – G.PARLATO, Dizionario dei Piemontesi cit., p 186). 58) E.MICHEL, Maestri e scolari dell'Università di Pisa nel Risorgimento nazionale, Firenze, 1940, p.16 Da questo libro è anche ripreso il testo della lettera. 200 Agostino Bistarelli l'attenzione posta, in ambiente liberale, all'educazione. Notano alcuni studiosi del settore come nell'epoca della Restaurazione il mutuo insegnamento avesse suscitato un notevole interesse. Partendo da Napoli, dove l'abate Scoppa aveva fondato una Scuola nella sede del Reale albergo dei poveri, «le regioni dove il movimento delle scuole mutue si sviluppò maggiormente furono quelle dell'Italia settentrionale, almeno fino ai moti del '21 ».59) Lo stesso autore sottolinea che nel regno di Sardegna la diffusione del metodo avvenne per impulso di esponenti dell'aristocrazia illuminata e che ancora maggiore fu l'impatto che il movimento ebbe nei domini austriaci, dove protagonisti furono ampi settori aristocratici e borghesi di orientamento liberale. E ci sembra interessante riportare l'elenco dei luoghi e dei protagonisti: a Brescia Giacinto Mompiani, a Milano Federico Confalonieri, a Mantova Giovanni Arrivabene, a Pontevico Filippo Ugoni, e poi «a Verona, Cremona, Udine, Como e in diversi centri minori».60) Colpisce nell'elenco l'estensione territoriale del fenomeno ma anche, e soprattutto, la lista delle presenze: oltre al Confalonieri, l'animatore del Conciliatore e il più noto del gruppo, si tratta di persone che saranno tutte arrestate dopo i moti del 1821 per i loro legami con il movimento dei rivoltosi piemontesi, e alcune delle quali prenderanno la via dell'esilio.61) Dunque questo tipo di insegnamento poteva divenire un formidabile veicolo di un modello politico 59) LUCIANO PAZZAGLIA, Chiesa, società civile ed educazione nell'Italia post-napoleonica, in L. PAZZAGLIA (a cura di). Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unifica- zione, Brescia, 1994, pp. 35-65, p. 40. Nello stesso volume troviamo anche la seguente definizione delle scuole del mutuo insegnamento. « Sotto la guida di un educatore particolarmente motivato ed esperto, si raccolgono centinaia e centinaia di ragazzi di ambo i sessi desiderosi di apprendere: questi, dopo aver imparato rudimenti del sapere e i loro strumenti tecnici di apprendimento (leggere, scrivere e fare di conto), li trasmettono ad altri ragazzi con un metodo attivo di comunicazione che vede impegnati gli allievi più dotati e più capaci di trasmettere, i cosiddetti assistenti o monitori» (DANILO VENERUSO, Educazione e scuola a Genova e in Liguria nei periodo della Restaurazione (1815-1848), pp. 287-314, p. 291. 60) 61) L. PAZZAGLIA, Chiesa, società civile ed educazione cit., p. 41. Arrivabene fu arrestato nel maggio del 1821, nell'indagine seguita all'interrogatorio di Silvio Pellico e fu imprigionato a Venezia con Ressi (vedi sopra, nota 32), mentre Filippo Ugoni riuscì a fuggire dopo la perquisizione della casa del fratello Camillo. Nell'esilio venne raggiunto da quest'ultimo, da Giovila Scalvini e dall'Arrivabene che scappò dopo essere stato liberato nel dicembre, appena seppe dell'arresto di Mompiani (aprile del 1822). Arrivabene e i fratelli Ugoni li ritroveremo in tutte le tappe della comunità degli esuli italiani insieme a De Meester, da Londra a Parigi e poi anche in Belgio. Giacinto Mompiani (17851855), adattando il metodo del mutuo insegnamento alle peculiarità italiane, aveva elaborato un manuale nel quale si descrivevano gli oggetti dell'insegnamento, gli orari, il luogo, le modalità; e ben presto divenne un punto di riferimento per la diffusione del movimento non solo nel Lombardo-Veneto ma anche negli altri stati italiani, ottenendo perfino riconoscimenti dalle società pedagogiche inglesi e francesi. Lo specchio spagnolo 201 alternativo a quello vigente; l'adesione a queste scuole dei ragazzi più poveri provocava una reazione preoccupata del gruppo dirigente conservatore che intravedeva, oltre al pericolo di sommovimenti sociali innescati da questa istruzione, una possibile saldatura politica tra borghesia e ceti popolari sotto l'egemonia del liberalismo democratico.62) AGOSTINO BISTARELLI 62) II mondo della scuola venne pesantemente coinvolto dalla repressione seguita alla salita al trono di Carlo Felice: furono chiuse le scuole del mutuo insegnamento e anche il Collegio delle Province ricordato nel testo. Viene ricordata, per il Piemonte, «la diffidenza con cui si guardò agli ambienti degli insegnanti e degli uomini di cultura accusati di esseri “dimentichi dei loro più sacri doveri”, di aver nutrito “principi contrari ai Governo” e, ciò che è peggio, d'aver spiegati “li medesimi nelle pubbliche scuole o nelle ripetizioni domestiche” fino a farsi capi se non materiali almeno ideali della rivolta» (GIORGIO CHIOSSO, Educare e istruire il popolo a Torino nel primo Ottocento, in L. PAZZAGLIA, Chiesa e prospettive cit., pp. 201-251, p. 207). Anche per il caso genovese viene ricordata l'ostilità verso le scuole del mutuo insegnamento del presidente della Deputazione degli studi del Municipio, preoccupato dal metodo che abitua le classi popolari all'iniziativa e dai promotori e insegnanti «che alla prova dei fatti si rivelano intinti di esperienze rivoluzionarie, repubblicane e napoleoniche » (D. VENERUSO, Educazione e scuola cit., p. 292). Lo stesso autore riporta anche la reazione del marchese Grillo Cattaneo, il presidente della Deputazione, al decreto di chiusura emanato dal governo sabaudo: «amando io infinitamente l'obbedienza al trono, l'ordine e la pubblica felicità, non può credere Vostra Eccellenza di quanto piacere sia stato l'annuncio che, cioè, nei Regi Stati siano state da Sua Maestà indilatamente soppresse le scuole d'insegnamento reciproco».