PDF - Spaghetti Writers

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Fuoco tra le mani
Bettina Bartalesi
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Era scesa lenta, però anche veloce.
Lenta quando si era staccata, veloce quando era sparita nel buio. Gli occhi erano rimasti attaccati
lì, in quel punto preciso del cielo, perché poteva essere che ne veniva giù un'altra. Nella notte di
S.Lorenzo, le stelle cadevano. Lo dicevano alla radio, su quel canale che sua madre teneva fisso da
mattina a sera, musica, meteo e notizie in tempo reale sulla viabilità. A che le servisse non si
sapeva, dato che stavano sempre lì.
L'autostrada, Giorgio, l'aveva vista una volta da bambino. Stava seduto nel sedile di dietro
dell'auto, a godersi, per tutto il tempo, la visuale dei capelli brizzolati, alla base della nuca,
dell'uomo che era suo padre. Viaggiavano sulla Firenze-Mare, una gita fuori porta in piena estate.
Gli pareva che l'asfalto fosse un tappeto senza inizio e senza fine, giocava a contare quante
macchine sfrecciavano in corsia di sorpasso. Quella volta aveva visto il mare e l'acqua azzurra che,
poi, proprio azzurra non era. Due giorni dopo aveva smesso di vedere suo padre. Era sparito
cadendo a terra, in paese, fuori dall'edicola. Certi uomini muoiono come hanno vissuto, così suo
padre che da sempre un attimo c'era e il mattino dopo non c'era più, era morto con quel vizio di
sparire all'improvviso.
Era scesa lenta, ma veloce. Tenere gli occhi aperti nell'attesa di vederne una seconda era da
coglioni, significava non esprimere un desiderio.
Uno a caso. Giorgio li chiuse, espresse il suo.
Il rumore di una decina di scooter rombò dietro al gruppo di case e tagliò su per i campi. Erano i
ragazzi di Via del Desco che ogni notte andavano a farsi i cazzi suoi nascosti nei pini polverosi.
Quando li incontrava in paese teneva la testa bassa per ripararsi dai risolini che lo colpivano alle
spalle come colpi col silenziatore. Non si poteva guardare un ragazzone come lui, di ventidue
anni, a passeggio la domenica con il cane da una parte e la madre dall'altra. Non si capiva bene
chi fosse la madre, chi il cane. Il cane, un bastardo nero dal pelo lungo, gli leccava le mani appena
ne aveva l'occasione; la madre, una donna oltre la quarantina con le ginocchia grasse e il culo
grasso anch’esso, gli ringhiava addosso. Quando non lo faceva con le parole, ci pensavano gli
occhi. A Giorgio non lo poteva sopportare. Le luci dei fanalini si spensero e il rumore cessò.
Giorgio abbassò la mano andando a cercare il pelo morbido di Zolfo. Anche il contatto della sua
lingua. Zolfo, per via di tutte quelle pulci che lo avevano infestato quand'era cucciolo. Lo zolfo,
in quantità esagerata, era stata la soluzione. Il cane spalancò la bocca mostrandogli i denti in un
sorriso. Seduto sui gradini di casa, che ribollivano ancora dei 39°C, non sentiva più sua madre
muoversi in cucina. Sperava che dormisse e che gli incubi se l'andassero a prendere. Era inutile
che cantasse “c'è di buono che al momento giusto tu sai diventare un altro, sei grande grande
grande come te...”, le parole di quella tipa che cantava - e si chiamava Mina - lei non doveva
tenerle in bocca, figuriamoci cantarle. A suo padre che era “grande grande” non glielo aveva mai
detto, neppure dopo morto, per rimpianto.
«Andiamo, Zolfo, che a quest'ora lei dorme e le stelle le abbiamo viste cadere!»
Zolfo scodinzolò.
«Sei un bravo cane, anche io un giorno ti porto al mare. Come quella volta. Però io poi resto.»
È questo il mio desiderio: portarti al mare e non morire.
Lo zerbino stava lì, al proprio posto. Non era il caso di invidiare uno zerbino, ma almeno lui
sapeva qual era il suo scopo nel mondo. Mentre la madre stava dormendo, si fermò nel corridoio
a guardarla: il petto si alzava e abbassava con ritmo regolare. Il cane prese da solo la via della
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stanza da letto, saltò sul lenzuolo ed iniziò ad annusare i peli che aveva perso la notte prima e
quella ancora precedente. Anche Zolfo sapeva quale fosse il posto a lui riservato nel mondo: piedi
di Giorgio. L'aria non si muoveva. Le cicale rompevano il silenzio; in quella stagione erano capaci
di cantare fino a notte fonda. Giorgio si allungò e affondò l'orecchio sul cuscino, Zolfo mugolò.
Un ritmo da tamburi cominciò a battere nella testa, per poi scendere lungo la gola. Giorgio cercò
di non farci caso e si obbligò a pensare a qualcosa di divertente e, come ogni volta, l'unico viso
che, pur sdentato, gli sorrideva era quello di nonna Rina. Tornava dal passato e lo confortava.
Nonna Rina, la madre di suo padre, era passata a miglior vita quando Giorgio aveva sette anni.
Nella sua cucina aveva imparato a mischiare la farina con l'acqua. Sfiorare il pelo di Zolfo in quel
momento era necessario per compensare il desiderio di una presenza amica. Il ricordo della
nonna aveva scavato un solco in lui. Sentiva la testa come in un frullatore e pregò che mancasse
poco all'alba. Si mise sottosopra, piedi sul cuscino e capelli confusi col pelo scuro di Zolfo.
Chiuse gli occhi che mancavano poche ore al mattino. Sua madre batté un colpo alla porta.
«Sveglia Giorgio!»
Zolfo si mise seduto senza scendere dal letto.
«Ohhh, continuò imperterrita, la colazione è sul tavolo. Muovi il culo!»
Giorgio ubbidì. Scese dal letto e guardò rassegnato il suo cane che teneva la coda bassa.
Che viso strano aveva sua madre; un viso con agli angoli della bocca pieghe intrise di delusione.
Non conosceva una parola amorevole se non le strofe delle canzoni alla radio. Le faceva sue, il
tempo di un ritornello e poi tornava a essere una donna senza amore.
Tra un pensiero che andava e uno che veniva, un martello continuava a tormentargli la testa, sua
madre intanto accendeva la fiamma del gas per la caffettiera.
La fiamma era blu, con tonalità di bianco che si fondevano insieme ad altre, arancio.
Si frugò nelle tasche dei pantaloni che portava a vita bassa, calati sui fianchi magri. Giorgio era
alto, secco come un palo, aveva i capelli scuri e gli occhi chiari. L'unico patrimonio che gli aveva
lasciato il suo vecchio. Nelle tasche trovò dei soldi e si disse che sarebbero bastati a comprare
dell'aspirina o qualsiasi altra cosa utile a scacciare l'emicrania. Attese che Zolfo svuotasse la
ciotola degli avanzi e uscì. Il viale da percorrere era dritto, privo di marciapiedi; nell'unica curva
si apriva la piazza, un paio di chilometri a piedi e avrebbe trovato la farmacia. Zolfo gli
camminava dietro, cercando di rimanere nell'ombra del padrone. Le auto passavano in senso
contrario, Giorgio guardava le facce dei guidatori, cercava di individuare se fossero del paese o
meno. Il balzo a fianco si gettava nei rovi di more selvatiche, polverose e rinsecchite dal sole. Il
sudore gli grondava copioso nel collo; le folate di aria, provocate dalle auto, erano una salvezza.
Poche decine di metri e si fermò dinanzi alla farmacia del paese. "Chiuso per ferie". Nella testa gli
arrivò una colata di catrame bollente. L’unica altra farmacia aperta per turno si trovava nelle
Limonaie. Le Limonaie erano una manciata di case con spaccio, circolo e cinema annesso. Per
arrivarci era necessario un pullman. Rimase fermo all'ombra del muro. Aveva Zolfo con sé e sul
pullman figuriamoci se lo facevano salire. Il cane sembrò capire i pensieri di Giorgio, abbassò gli
occhi come a chiedere scusa. Fu in quel momento che, guardando fisso il suo cane, Giorgio rivide
la fiamma del gas sotto la caffettiera. Si concentrò su quel movimento: si espandeva, componeva
forme in una danza lenta e calmante. Trattenne quell'immagine in testa e fece cenno a Zolfo di
tornare indietro. Aveva l'urgenza di mettere il capo sotto il getto d'acqua fredda del rubinetto e
accendere di nuovo la fiamma.
I passi per tornare indietro Giorgio non li sentì neppure, non avvertiva più il movimento delle
scarpe e nemmeno quello dei piedi. Zolfo latrava. Dentro casa l'acqua del rubinetto gli corse
sopra i capelli e il collo, un rigagnolo fresco con la potenza di una cascata. L'emicrania terminò
con un dolore acuto alla base della nuca. Il viso che Giorgio vide nello specchio fu un viso lavato,
nuovo. Riempì la ciotola di Zolfo e gli passò dell'acqua intorno al muso. Si mise seduto sulla
sedia intorno al tavolo di cucina e avvertì il silenzio. Non era un silenzio qualunque. Certi silenzi
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portano con sé le possibilità, tutto appare realizzabile e si mettono in fila le intenzioni, una dopo
l'altra. Chiuse gli occhi, così si lasciò trasportare nelle proprie intenzioni fino a vederle. Senza
fatica alcuna avanzavano verso di lui, una dopo l'altra. Zolfo era ai suoi piedi sulle piastrelle
fresche della cucina. Giorgio aveva acceso il gas; la prima cosa che aveva cercato, appena entrato
in casa, era il colore della fiamma quando nasce, danza, si confonde nel giallo e nell'azzurro,
diventando rossa e calda come la mano materna, prima che inizi a prenderti a schiaffi. Il fuoco
possedeva forza, poteva ballare; più lo guardava e più gli sembrava di dominarlo. Ci passò sopra il
palmo della mano, chiuse il pugno e sorrise quando sentì di non poterlo afferrare.
Così immaginò.
Vide Zolfo passeggiare, insieme a lui, nella notte fonda, quando i tetti non li guarda nessuno,
attraversare i pini secchi in attesa di un refolo autunnale; vide Zolfo e lui raggiungere i cassonetti
lungo il marciapiede e la sua mano spruzzare alcool sui sacchi neri della raccolta differenziata.
Osservò le fiamme, più di quelle previste, sollevarsi, tastare l'aria, piegarsi. Fantasticò di trovarsi
dietro i vetri della finestra di camera, guardando il bagliore sopra i tronchi degli alberi mentre il
boato devastava la notte, con tanto di sirene spiegate dei pompieri e un trafiletto sul giornale
locale del giorno dopo.
Zolfo allora si mosse, gli poggiò una zampa sul ginocchio.
Giorgio non mancò di fargli una carezza, poi continuò nelle sue intenzioni.
Rallentò, per quanto gli era possibile, i pensieri per godersi il film nella sua testa il più a lungo
possibile: lasciava cadere alcool e tronchetti di "Belfuoco" sopra la gomma di una ruota, nella
notte successiva. Un paio di auto esplodevano, mettendo a zittire il frinire delle cicale. In quel
fuoco si scioglievano le canzoni e il viso di sua madre. Ancora e ancora. A ripetizione.
«Zolfo...» esclamò Giorgio come riprendendosi da un sogno «Stanotte usciamo e non importa se
non ci saranno più stelle.»
Zolfo passò la lingua ruvida sul viso del padrone.
Undici giorni dopo.
Dopo qualche giorno, dopo qualche notte.
Quando nasce il sole, il paese si chiede nei bar e per le vie, chi sia quel pazzo incendiario sulle cui
tracce si muovono le forze dell'ordine, senza risultato.
Chi non lo chiede con la bocca lo domanda con gli occhi.
Giorgio esce. E' notte. Di stelle da guardare ce ne sono ancora.
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