Storia e Cultura - Comune di TRAVES

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Storia e Cultura - Comune di TRAVES
Storia e Cultura
Scrivere di storia su di un paese è sicuramente impegnativo e difficile, anche perché l'hanno già
fatto tanti.
Sulle nostre valli, chi scendendo nei particolari dei singoli comuni, chi parlando in
generale, tanti hanno scritto e soprattutto più validi di noi. Così abbiamo pensato di attirare
l'attenzione su momenti di vita, aspetti caratteristici, tradizioni, usi e costumi dei tempi passati.
La nostra ricerca si è svolta su libri scritti sulle valli e sono emersi quadri del mondo antico che
forse a tanti sono sconosciuti.
Non abbiamo la pretesa di aver scoperto "l'acqua calda" ma forse quella di portare a conoscere a
tanti la realtà di un tempo e ad alcuni di fare ritornare indietro il tempo, sino alla loro gioventù.
Un quadro di vita, dal 1600 ai tempi nostri, attraverso gli scritti di tante persone, dell'epoca e
anche più recenti. Si scopre così una notevole mole di opere che parlano delle nostre Valli: nel
libro "Repertorio bibliografico delle valli di Lanzo - dal 9 luglio 1477 al 31 dicembre 1999" di Aldo
Audisio - Bruno Guglielmotto-Ravet e Alessandro Rosboch vengono citati 3077 tra documenti e
libri che parlano delle valli.
Ai più tali libri sono sconosciuti. Tra questi, tanti con accenni a Traves che elencarli tutti , forse,
potrebbe essere necessario un nuovo libro che li riassuma. Noi ci siamo ripromessi di prenderne in
mano uno solo per tutti e da questo abbiamo tratto spiluccando qua e là un quadro di "storia" di
Traves.
Il libro si intitola "Vita e cultura nella alte Valli di Lanzo - (Guida etnologica al museo delle Genti
delle Valli di Lanzo)" Torino 1984, e l'autore è Piercarlo Jorio Vogliamo però aggiungere che degno
di citazione ed ottimo riferimento per avere un quadro del paese Traves, è leggere il libro "A la
modda dli Travinèl - Aspetti, usi, costumi e tradizioni di Traves" curato dalle insegnanti
elementari ed edito nel 1980.
In questa premessa l'autore spiega lo scopo per cui il libro è stato fatto e mi sembra doveroso
lasciare alle Sue stesse parole l'illustrare le finalità.
Questo quaderno di ricerca etnologica dovrebbe costituire la premessa ad una visita ragionata a
quanto è conservato nel Museo delle Genti delle Valli di Lanzo. Struttura simbolo e senso di
qualsiasi raccolta seria sono infatti il sentiero per raggiungere le insospettate profondità
dell'uomo, concreto attore di un certo tipo di vita. La decadenza dell'ultimo mezzo secolo è da
tutt'altra parte: nei paesi degradati, nei prati incolti, nelle mulattiere franate e non più ripristinate,
nello sfacelo che non ha riscatto.
Se avevano un qualche senso il pesante lavoro, gli stenti, la
povertà vissuta dignitosamente, il sudore lasciato sui clivi terrazzati, le pietre giustapposte a
formare ripari per gli uomini e per gli animali, queste pagine vogliono ricostruirli nei loro tratti
essenziali, oltre lo spazio di una rassegnata contemplazione, restituendo senso al microcosmo
d'altitudine che ha visto per secoli generazioni diverse affrontare le crudezze di una natura ostile,
mentre imperturbabile la storia faceva altrove i suoi corsi e ricorsi. Ciascun capitolo vuole essere
un aiuto per l'interpretazione della cultura popolare di questa fetta di Graie e dunque di quella
parte della società d'altitudine che, con rancorosa amarezza, nel volgere dei prossimi anni vedremo
definitivamente cancellata.
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L'autore passa poi ad analizzare il fenomeno dell'esodo montano.
Si registrano infatti tassi di decremento demografico molto elevati, fra i più preoccupanti in senso
assoluto di tutte le vallate del Piemonte alpino.
Il generale fenomeno di esodo montano e di
spopolamento si riflette in particolare nelle aree alte delle Valli di Lanzo, ove le carenze generali
dell'agricoltura e della pastorizia del nostro Paese ed in Piemonte, non adeguatamente sostenute e
peggio aiutate, ed in genere i bassissimi redditi traibili dalle attività ad esse connesse, sono
accentuati dalle caratteristiche geografiche dei massicci che le conformano i quali presentano
terreni poco fertili e limitatamente sfruttabili. Dal confronto fra i censimenti del 1971 e del 1931, la
diminuzione demografica delle Valli di Viù, di Ala e Val Grande, nel complesso è stata del 42,4 per
cento; la valle che ha subito la maggior flessione è quella di Viù ove la popolazione è scesa del
57,9%, seguita dalla Val d'Ala (-45,3%) e dalla Val Grande (-43,3%). Anche due Comuni della bassa
valle (altitudine entro i 650 mt.) con caratteristiche alpine, hanno registrato considerevoli flessioni
del numero degli abitanti nello stesso periodo: Mezzenile ha visto diminuita la sua popolazione del
46,5% e Traves del 16,5% (nel 1931 gli abitanti di Mezzenile erano 1598; quelli di Traves 890).
Il libro prosegue analizzando l'Ambiente geografico antico e l'ambiente geografico attuale (pag.
11), passando, brevemente, in rassegna il modo di formarsi delle montagne come si vedono
adesso nel nostro territorio.
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Formazioni delle valli
Le Valli Amathegis dei tempi longobardici, chiamate oggi di Lanzo. di Viù, D'Ala di Stura, Grande, e
quella del Tesso e Corio, formatesi come profonde solcature (parallele per le tre prime) a causa del
lavorio delle masse glaciali durante le fasi del Pleistocene (durata 2 milioni di anni) e per
franamenti, fratture ed erosioni seguiti ad esso nel periodo geologico recente detto Olocene (inizio
dai 26 ai 20.000 anni fa) ebbero preistoria geodinamica comune con la catena alpina piemontese
di cui fanno parte.
L'ambiente geografico attuale, così com compare percorrendole in automobile, riflette il millenario
movimento dei ghiacci (ben visibile sulle pareti rocciose che fiancheggiano la strada da Ceres ad
Ala), durato sulle Alpi quasi 580 mila anni dalla prima glaciazione - detta di Günz - all'ultima - detta
di Würm -. I tre principali ghiacciai delle Valli non ebbero fronte nella pianura, come per le Valli
delle Dore Riparia e Baltea, ma si fermarono all'incirca dove oggi sorge Traves (alt. Mt. 620) sulla
morena frontale dell'antico ghiacciaio che colmava la Valle di Viù. Con il postglaciale di Würm (dal
18.000 al 10.000 a.C.) si hanno nuove escavazioni, da parte delle acque di disgelo, nei coni di
deiezione primari: escavazioni che sono oggi il torrente Tesso e le attuali Sture (Sturia e "Flumine
Clare" sino al 1421, le quali unendosi prima a Ceres "Le Mischie" e poi a Traves (che sembra
derivare da "Entraives" = fra le acque) affluiscono al Po in unico alveo, come in una valle propria,
compresa fra i terrazzamenti Lanzo-Volpiano a sinistra e Lanzo-Venaria a destra.
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Le abitazioni delle valli
Parlando dei tipi di abitazioni diffuse nelle nostre valli, l'autore alle pagg. 32/33 cita la presenza di
altre popolazioni provenienti da varie zone dell'Italia e in particolare:
I due gruppi etnici, l'est-europeo e l'atlanto-mediterraneo, conservarono nella sollecitazione di
economie e di vicende esistenziali analoghe e nella comunanza di esperienze in ambienti similari le
proprie culture materiali. Questo è verificabile dove penetrazioni allogene hanno mantenuto
intatto, con il loro plafone culturale, anche il modo di costruirsi l'abitazione: un esempio è quello
dei "taragn" valsesiani presenti nella Valle di Viù. Queste coperture leggere in paglia (benal)
poggiate su un'orditura di scarsa entità e di facile realizzazione, sono giunte in una delle Valli di
Lanzo, probabilmente a seguito di minatori valsesiani e bergamaschi che, pervenuti su queste
montagne sin dal XIV sec., vissero appartati "... parlarono e parlano un dialetto ben diverso da
quello della valle e conservarono fino ai giorni nostri l'uso di non contrarre se non pochissimi
matrimoni fuori del loro villaggio…" (L.Clavarino, "Saggio di corografia statistica e storica delle
Valli di Lanzo", Torino, 1867). Il "benal" viucese è legato da analogie formali con il "taragn"
valsesiano vercellese e novarese (da cui "tarigni" usato nel vecchio dialetto di Traves per indicare
"piantagrane" forestieri, che ne è la corruzione dispregiativa), ma non si dimentiche che erano
assai comuni a Lanzo, nel XIV sec., le coperture formate con strati di paglia (v.Alpe e borgata Benal,
sopra Monastero) e forse "le benne" in altre località della Valle.
Dalla balma alla grangia una storia da ristudiare. La descrizione della vita dei nostri abitatori delle
valli prosegue facendo la storia dell'evoluzione dalle "balme" alle "grange", sentiamo quanto
scritto a pag. 38.
Di queste "barme" o "balme", il pià elementare riparo sotto la roccia di configurazione neolitica,
più o meno consoliate con costruzioni a secco ed ancora usate come deposito di foglie o legname,
rimangono nelle alte Valli constatabili e chiare tracce lungo quelli che nel tempo divennero i
tratturi principali (le "vi dël vaces")...
La descrizione prosegue poi evidenziando da quanto detto sopra i nomi ricorrenti nella Valle di
Balme, Balma di Vonzo, Balmassa ed altri.
Sul termine "grangia" bisogna distinguere due
etimologie specifiche: Nelle valli di Susa , Chisone, e sporadicamente nelle estreme valli cuneesi
("grongès"), l'alpeggio con annesse costruzioni assume il nome suggestivo di "grangia" ...
In Valle
d'Aosta "grange" si limita ad indicare unicamente la costruzione nella quale viene depositato il
grano, in prossimità del "solei" (solaio), mentre l'alpeggio completo, dalla Valle dell'Orco verso le
Valli di lanzo, diventa "alp", ... In Valle di Lanzo il termine "grengi" non indica il nucleo abitativo del
margaro di quota (come ad es. Grange la Moutte, nel vallone del Frejus o Grange Valle Stretta), ma
piuttosto l'abitazione rurale/pastorale permanente o temporanea del montanaro che
abitualmente vive in paesi del fondovalle.
Originariamente (nel Basso Medioevo, tra l'XI ed il XIV sec.) questo termine (anche "grancia")
definiva una comunità benedettina rurale fondata su un'organizzazione economica ed
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amministrativa propria (Piemonte sud-occidentale). In seguito (fine XII sec.) passò ad indicare un
fabbricato rustico attiguo all'abbazia, entro la cerchia del muro di cinta, con funzione mista di
deposito e di abitazione però sempre dipendente da un'azienda agraria monastica.
Con
provenienza sicura dalla francia meridionale il termine occupò le aree del saluzzese e del Cuneese;
verso la metà del XII sec. Le "grange" assunsero la funzione di fulcro pianificato di poderi,
passando dal mondo agricolo-pastorale dei Cistercensi a quello laico dei nobili e dei signorotti
borghesi (in Val di Lanzo troviamo un "gias d'li sgnori")…… Specialmente, quando nel XIV sec.
Vennero determinandosi ragioni di opere militari di difesa, le grange assunsero l'aspetto di centri
abitati, caratterizzati dall'accerchiamento di piccoli edifici attorno al primo e più importante
edificio - la grangia originaria.
In Italia si contano ancora 19 frazioni sotto il nome di Grangia o
Grange o Grangie, tutte nell'alto Piemonte e tutte di pochi abitanti (nella prov. di Torino: Grange di
condove, Grange di fiano, Grange di front, Grange dell'Inverso di Pinasca, Grange di Mathi, Grange
di Nole, Grange della Valle - Exilles -, Grange di Pragelato, Gragetta di Condove, Grangia di Porte,
Grangia di traves, Grangia di robassomero, ecc.) che conservano esplicitamente il carattere della
loro derivazione. Il linguaggio ed i toponimi. In questo capitolo l'autore esamina i vari "patois" che
non sono ancora scomparsi in talune zone delle nostre Valli. E' originale vedere le radici comuni
delle varie parole e gli influssi che si sono generati nelle lingue attraverso a dominazioni ed ad
invasioni sul territorio.
E in merito l'autore …. Forse non emerge ancora una netta "identità" delle
Valli di lanzo, ma certamente già compare il significato della loro appartenenza culturale all'area
linguistica ligure, da cui deriverà un orientamento condizionante, con usanze, tradizioni, ecc,
persino il modo di costruire. Passiamo adesso a qualcosa di veramente interessante trovato in
questo libro: dalle varie radici delle parole dialettali il poter risalire ai termini utilizzati nel patois di
Traves. Sap albero generico, da cui sapin - abete - Lama ansa di fiume, terreno acquitrinoso
formatosi in prossimità di un corso d'acqua a causa delle correnti di piena. Treb: tribù,
insediamento, da cui il lat. "tribus" = tribù e "trabs" = trave, tetto,casa
Traves (ant. Traues) più
ancora che da "entraives" - posto tra due corsi d'acqua; "transversum" - posizione trasversale;
"Theraves" - popolazione immigrata da Thera; potrebbe derivare veramente da "trabs" (piem.
"trau" come il nome di traves nella vercchia parlata), ma non nel senso, da alcuni prospettato (cfr.
G.eP. Milone, Valli di lanzo) di travi gettate sul corso della Stura per superarla in prossimità del
paese. I suoi nuclei più antichi (Prin, Malerba, Endree, Bërtolee, Tesë) hanno infatti conservato,
sino a qualche tempo fa, le caratteristiche di insediamenti staccati, facenti capo a La Vila. Altri
nomi come : Grënciamp. Chëmpët (o Cëmpët). Grëngi, la cà do Biò, sembrano avvalorare la tesi di
un'occupazione territoriale articolata in frazioni con relative pertinenze agricole. Il termine usato
dai suoi abitanti per designarsi, "travinèl", è piuttosto anomalo nelle Valli e trova riscontro
soltanto in "pugnatrèl" (abitanti di Pugnetto). Dru ben nutrito (pascolo concimato dallo
scorrimento di liquame…) Costa pendio, falda di monte piuttosto ripida Randa limite, usato nel
senso di "vicino" "presso" Pissail cascata Si possono poi analizzare alcuni nomi che possono
derivare da assonanze, da similitudini con nomi di piante e di ogni altra cosa, eccone alcuni
esempi, tratti alla rinfusa da quelli citati dall'autore. Tiglieraj (dai tigli)
Pian d'la ciastegna (dai
castagni) Adrèt terreno esposto a mezzogiorno, da "ad directum solem" (da cui Andrè …)
Anvers
terreno esposto a mezzanotte, da "ad inversum solem".
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Ayreta piccolo spiazzo creato artificialmente (da cui Airette)
Riondet pascolo nuovo
Traversa da
"transversum" = di traverso. In occitano corrisponde a - pendio, declivio - Riferimento proposto, da
talune pubblicazioni, a Traves per riscontri in Valle di Susa: Traverse, Traversa.
Foppa dal lat.
"fovea" = fossa nelle Valli di Lanzo per indicare allargamento di torrente. Altre volte il nome
poteva essere derivato da "cose" che nella località si trovavano in abbondanza (animali, piante,
minerali): abbiamo in tal caso suffissi in -aia o -ara . Esempio Grufojai = bosco di agrifogli. Ora una
considerazione sul termine "patois": Termine dispregiativo usato secoli fa, da parte dei parlanti
francese, per indicare i montanari che si ostinavano a parlare esclusivamente arpitano. Deriva da
"pattes" = zampe, con chiara allusione ai "piedi grossi" delle genti montanare…. L'arpitano lingua
con radicali pre/indoeuropei deriva da "har" = pietra, "pe" = sotto, "tan" = abitante. Secondo il
Grassi (cfr. L'altro Piemonte), nelle Valli di lanzo parlano arpitano: Ala di
Stura/Balme/Cantoira/Ceres/Chialamberto/Coassolo/Germagnano/Lemie/Mezzenile/Pessinettoi/t
raves/Usseglio/Viù, quali residui insediamenti fortemente misti, dove la lingua piemontese e
italiana divenne un forzato bagaglio storico. L'autore passa ad analizzare alcune variazioni di
pronuncia tra paese e paese. La negazione -non- che a Ceres si pronuncia -gnin- a Traves e ad Ala
diventa -gnint-, a Viù -gnan-; il termine "scarpe" che ad Ala è: -li ciaossia-, a Traves è: -li ciosier-.
Altri termini variano invece sostanzialmente, come ad es. "la stalla" che a traves troviamo come: stabi- (da stabulum), in Val d'Ala come: -bou- (da bos…), mentre in Val d'Usseglio diventa -tet- (da
tectum = casa,dimora), per ritornare -stabi- in Val Grande. I fondamenti del vivere. In questo
capitolo l'autore tratta delle miniere nelle nostre valli. Pur facendo risalire all'antico, i primi
documenti attendibili non risalgono a prima del X sec. Lo scavo di gallerie minerarie nelle valli di
Lanzo.
Ci sono in merito anche citazioni alle miniere di Traves che sino al 1800 erano ancora in
auge, localizzate nella zone Lunelle / Calcante. Nel 1328 si citano le miniere di rame a Pera Cagna;
nel 1335 quelle di argento alla Corna (l'escavazione del cobalto inizierà soltanto nel 1725, ad opera
dei Rebuffo di traves); nel 1344 le miniere di ferro ed argento al Turrione (Trione?), a Belagarda, a
Vercellina, a Rembeisa (alle falde della levanna, miniera coltivata dal 1344 al 1664).
Noto per la
lavorazione del ferro ad uso dei chiodaioli il paese di Traves presentava nelle famiglie un po'
ovunque una fucina. E all'uopo veniva utilizzato un particolare tipo di tiraggio per agevolare la
lavorazione del materiale ferro. Interessante è l'uso, nella metallurgia di alcune vallate alpine, di
un tipo particolare di tiraggio forzato che, eliminando il mantice, ridusse la fatica nel trasformare e
lavorare metalli quali ferro e rame.
Il dispositivo per accrescere il calore della combustione insufflando aria senza interruzione in un
condotto, è più antico di quanto si possa credere, forse addirittura paleolitico (i soffiatoi a canna
compaiono in Egitto fin dal 2500 a.C. insieme ai crogioli all'aria aperta ed ai mantici azionati con i
piedi).
L'ingegnoso dispositivo che sfruttò la corrente d'aria prodotta dalla pressione di caduta di
una colonna d'acqua (tromba d'aria o tromba a vento, "la troumbo" delle Valli Valdesi),
d'invenzione italiana, (già preconizzata da Leonardo da Vinci, nella seconda metà del '400, diffusasi
dal '600 in poi) in un tubo di legno verticale (tromba), su una pietra piatta posta alla base banchina - (la colonna d'acqua cadendo sospinge l'aria che il tubo aspira continuamente da una
serie di fori a fischietto "respiro" praticati nella sua parte superiore e la immette nella - bocca della
canna - in direzione del braciere), usato ancora sino al 1940 nelle forge da chiodi in aree ben
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definite delle Valli di Lanzo (Gisola, Pessinetto, Ceres) e già impiegato per la ricottura di sfridi di
ferro o di riduzione di metalli dallo stadio impuro più ancora delle forge "alla catalana" - soffio
d'aria prodotto mediante mantice in pelle di capra (Traves, Viù, Mezzenile, Pugnetto) -, permise di
sviluppare i rudimenti delle tecnologie insegnate un tempo da genti, forse franco-svizzere che
avevano posto su un piano divino il mestiere del fabbro. Questo potrebbe spiegarsi come storia
economica chiusa verso la pianura (e dunque verso possibili accessi "dal basso" di acculturazioni)
ed aperta invece verso l'influenza transalpina della civilizzazione del Rodano (con le sue produzioni
in bronzo dai ricchi motivi geometrici incisi, di cui forse un ricordo sono le fibbie dei collari per gli
animali - grotte alpine della Valle del Rodano, la Balme/Savoia, Donzére, Drôme).
Fra le industrie valligiane menzionate dal Carpano (cfr. Le Valli di Lanzo 1931), troviamo oltre
quelle del ferro e dei chiodi (Mezzenile, Pessinetto,Traves, Viù), quelle della tornitura del legno
(Viù), dei ceppi per zoccoli (Cantoira), delle culle e dei collari per gli animali (Vana), delle gerle e
dei garbin (Ricchiaglio), delle serrature (Ceres), ma non esiste cenno della ceramica. Ogni indizio di
argilla impastata e cotta si arresta alla frazione Endrée di Traves, dove ancora nel 1953 si
producevano localmente "scoeles" dal diametro di 15 cm. In terra rossa (téra còita); ……
. Non è
stato mai molto conosciuta l'attività, dell'allevamento del grosso bestiame nel paese di Traves, in
quanto le distese prative non erano così consistenti e non potevano essere sostituite, comunque,
nel periodo invernale, da scorte formate dal poco fieno ottenuto.
Allo stesso modo
probabilmente a Traves, come nelle Valli non veniva utilizzato l'aratro per dissodare i terreni.
Dell'attrezzeria usata dalle primitive culture agricole superiori (aratro a chiodo, vanga, zappa a
lama diritta, falce denticolata, forcone) pochi strumenti sembrano essere stati adottati nelle Valli,
poiché non sopravvivono nella tradizione di lavoro che l a zappa ("sapon" e "sapin"), la falce ("daj")
ed il forcone ("forci") a due punte e la "trent" a tre; il rastrello con rebbi in legno e in ferro
("restél"); a cui possiamo aggiungere il cesto di raccoltanelle varianti "gabasa" (indicata come
"gabassi" a Traves ed impropriamente "garbin" nell'area viucese, trova l'equivalente nella "civéra"
e nel "ciuvròn" delle valli sesiane e del Cusio. "Civéra" è usato nella Valle di Viù -siveri- ad indicare
la barella per il trasporto di letame o di materiali pesanti, "suera" in Val d'Ala) e propriamente
"garbin" tipico però quest'ultimo delle culture non agricole, come la "banasto" e la "garbo" delle
vallate occitane (nota: vedasi "garbola" a Traves). Le uniche attività sul terreno, si ridussero allo
spietramento manuale per il miglioramento di aree prative, al parziale dissodamento superficiale
con piccone di appezzamenti (li ciamp) per il trapianto dei tuberi delle patate nei solchi detti
"preuss" (mediante lo "scòt", un foraterra di legno a forma di L) ed alla derivazione di torrentelli
entro canali perdenti "roji") in modo da favorire la crescita spontanea di erbe per le due fienagioni
("lo fen" a giugno e luglio; "l'arsòita" ai primi di agosto). La falce fienaia ("sessa" ed anche "lo daj")
- perfezionamento celtico della falce/alabarda - è tuttora in uso accanto al falcetto ("missoeri" e
"mossoeri", da non confondere con il falcetto per potare "lo faussòt") e la loro tipica affilatura
mediante martellamento su di un apposito ferro infisso in una pietra, "martlòiri", ricorda il metodo
di ritocco del filo di taglio praticato su lame di selce. Legati al riferimento della cultura agreste
alcuni nomi ricorrenti a Traves: Ciampet, Chëmpët, Grënciamp, nel comune di Traves...
La "preus" o "preuz" (tra Procaria e Vernetto) - da "porca" = rialzo di terra tra solco e solco con il
quale si ricoprono i semi sparsi in questi, e da cui probabilmente viene l'etimo esatto dell'antica
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Procaria, può allo stesso modo indicare terreno arato, …… Emigrazione degli abitanti delle nostre
valli. Notizie si traggono sulla migrazione degli abitanti delle nostre vallate scorrendo le pagine di
questo libro. Dalle vallate di Coassolo, ancora nel 1930, gli uomini scendevano alla pianura
vercellese tre volte all'anno: in primavera, per la raccolta delle foglie di gelso (bachicoltura); in
estate, per la fienagione e la mietitura; in autunno, per la vendemmia.
Gli uomini di Viù emigravano in Francia come cuochi, domestici, manovali, minatori. Da Usseglio,
dove la popolazione era dedita prevalentemente alla pastorizia, le donne scendevano con gli
armenti verso la pianura soltanto d'inverno, mentre gli uomini si spostavano in Francia, con quelli
di Pessinetto, Cantoira, Traves, Chialamberto, Vonzo, Mottera, a prestare opera di manovalanza
(cinque percorsi ed altrettanti colli da sempre battuti permettevano questa mobilità).
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Nomenclatura dell'attrezzatura dell'allevatore di bestiame
"ciuvja" = terminale trasverso (un tempo di legno) della catena da bestiame "ghetta" (ciòina per
stacà 'l vaces, anche "céina") per mezzo del quale si fissavano ad un'asse o trave con buchi (lavel,
anche "legn") le vacche alla mangiatoia (groipa).
"musél" = museruola in vimine o filo di ferro per impedire ai vitelli di mangaire fieno.
"borka" e "boòrch" = palo a Y ottenuto da un ramo biforcato, entro cui venivano fermate,
mediante un legno posto trasverslment in appositi fori, le vacche durante la monta.
"ramassi" = scopa formata da un'anima centrale (bastone di legno con funzione di manico)
attorno a cui vengono legati rami di betulla (ramassi 'd bòsch ëd biòlla).
"rodon" e "barsana", anche "tupin" (in rame) = campanaccio ovoidale formato da una lastra di
ferro martellata a caldo su una pietra concava, oppure ripiegata ad U e bronzata in seguito.
"ciòca" = campana fusa in bronzo. I migliori esemplari contengono una percentuale d'argento che
li rendono particolarmente squillanti.
"sonaji" = campanaccio in ferro a forma troncopiramidale, usato solo per le capre.
"trent" (la) = ferro a tre corte punte, immanicato, usato per spostare il letame e l'ampai
(strame.
"brus-ci" = striglia perla pulitura delle vacche (cidlà 'l béstie). Lo sporco più grossolano
veniva rimosso con la "ràschia", raschietto con manico.
"soji" = mastello a listelli di legno (maleuso nostran e bastard - larice nostrano e castagno selvatico
-) legati con cerchimetallici, per l'abbeverata dei bovini ("lo bòvie", dall'antichissimo verbo -forse
ligure- aberé, donde i valdostani "aberiù" e "laberiù").
"scion" = secchio idem per l'acqua
"galossi" = paletta lunga con manico ad anello, usata per trasferire farina, crusca (ed anche bucce
di patate), nel mastello dell'abbeverata. It. "gottazza" per cereali.
"méder" = strutturadi legno e ferro, applicata sulla testa delle vacche per correggere la crescita
delle corna.
"sagnet" o "sagnot" = attrezzo a lama triangolare taglientissima usato per salassare a scopo
preventivo o terapeutico gli animali.
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Nomenclatura dell'attrezzeria del margaro
"scagn" = sgabello a tre piedi (con fori generalmente passanti) molto basso, usato per la
mungitura. Piano di seduta rotondo, in legno tornito (nei modelli dall'800) o arrotondato
grossolanamente con l'accetta. Non ha schienale.
"sigilin" = secchiello in metallo (rame o ferro zincato. Ora in plastica) sostitutivo del "scion" in
legno, in cui si raccoglie il latte munto.
"bassin" = grande recipiente in rame stagnato in cui viene raccolto il latte e lasciato riposare 24
ore, affinché possa affiorare la panna (fieu). Nelle valli provenzali "peirol da pastàr.
"color" o "colieu" = imbuto di rame contenente un filtro, in cui si versa il latte. Un tempo era
costituito da un contenitore in legno, scavato in un sol blocco, con fessura sul fondo. Per meglio
filtrare, si poneva nel colieu un mazzetto di radici di un'erba che cresce in alta montagna (dette
"bosch") le quali conferivano anche un gusto gradevole al latte. Attualmente come filtro si usa più
spesso un pezzo di canapa rada (rairòla).
"bork" = ramo biforcato su cui veniva posato il "color" per la filtratura. Esempi più recenti sono a
forma di scaletta, più funzionale all'uso tenuto conto dell'adozione di imbuti in rame a forma
rettangolare o quadrata. Nelle valli provenzali "coulòur".
"gavia" = recipiente in terracotta per la conservazione della panna raccolta nella settimana, in
alternativa ai "tupin" di rame. Il burro veniva infatti prodotto una sola volta alla settimana
(solitamente al sabato).
"cop dla fior" = paletta-cucchiaio dalla conca ampia in legno d'acero,
usata per la scrematura. (Anche chiamata "cassò da siorà")
"bureri" = zangola cilindrica a mano. Il movimento alto-basso viene impresso da un bastone (mno)
scorrente in un foro del coperchio (crison) e recante alla base una rotella traforata ("anima" o
"reusa"). La zangola orizzontale a tamburo rotante era chiamata "bureri a tamboòrn".
"copon" = grande piatto circoilare (40 cm di diametro) leggermente concavo, in legno d'acero
tornito, su cui veniva posta la massa di burro da assodare, non appena estratta dalla bureri.
Facendola saltare e contemporaneamente roteare, si formava un impasto vagamente cubico che
perdeva ulteriormente acqua (come per una seconda centrifugazione) a tutto vantaggio della sua
conservazione...
"marchin do boero" anche "marca" = specie di sigillo con manico, in legno di bosso (buss o
"martlin") o legno "santo" (di tonalità molto scura), intagliato con motivi geometrici, sigle, intrecci
vegetali, ecc. che permetteva di imprimere sul pane di burro un segno indicativo, oltre che
ornamentale, di provenienza (marchio di qualità).
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"foòrme" = erano cassette di legno scavate nel blocco (dal 1920 con un lato mobile incernierato)
che servivano a dare dimensione diversa ai pani di burro a seconda del peso. Generalmente il
fondo era intagliato a motivo ornamentali, in modo che il burro stampato risultasse decorato
superiormente. ("toma" o "tomma 'd làit siorà", "tomma 'd làit mo" o "tomma grasa", "tomma 'd
làit brusch" o "tomma 'd cajairi"). Il latte scremato o intero viene posto in una grande caldaia di
rame (ciauderi, "caliera" nelle Valli venete) e scaldato a fuoco diretto sino alla temperatura che
aveva appena munto (30 - 32 gradi); poi viene aggiunto il caglio (presura, quaj, pròisa, cajet; nelle
Valli venete "cajà") un tempo animale, ora artificiale. La giusta temperatura è data
dall'impressione termica che si ha immergendo la mano o il braccio nella massa di latte da
sottoporre a coagulazione.
Il latte coagulato o "maturo" (giuncà), dopo un riposo di un'ora,
precipita sul fondo del recipiente separandosi dalla "laità" (il latticello) e viene raccolto mediante
un grande telo quadrato di canapa "staminna 'd reirola". Dopo una sgocciolatura di 5 o 6 ore
appeso, entro le quattro cocche del telo, al "boòrch do ciumin" detto anche "tourn", viene inserito
nella "fassòla" o "faséri" e posto su un banco inclinato di legno (piloira o scolame), avolte su una
losa ("pera 'dla tomma", affinché compresso da una pietra rotonda, lasci spurgare il siero residuo.
La stagionatura e salatura avviene su ripiani di legno, "stòppe", sistemati in appositi locali (fruité).
"ciaudéri" anche "peruel d'la giuncà" (nelle valli provenzali "peiròl dei fournél") = grande caldaia
di rame stagnato appesa al "tourn" mediante una catena.
"cajet" = sostanza acida adoperata per provocare la coagulazione del latte, preparata col quarto
stomaco dei ruminanti lattanti (vitello o capretto).
"borcét" e "bourchet" = frusta da caglio ( o
frangicagliata) usata per sbriciolare la cagliata. Un tempo semplice ramo di frassino o biancospino
con biforcazioni o ramo di betulla con terminali intrecciati a formare una frusta per miscelazione;
in seguito asta di legno con pioli infissi alternativamente a 90 gradi
"faséri" e "fasela" = (nelle valli provenzali "feisséllo"; "fasse" nelle valli venete) = recipiente
cilindrico in legno, con fori, entro cui si dà la forma e si fanno decantare i formaggi
"sérc" = lista di legno curvata ad anello per mantenere in formale grosse tome.
"rairola" e "réirola" = quadrato di tela di canapa a tessuto rado, usato per raccogliere il formaggio
dal fondo della ciauderi. Serve anche per avvolgere le tome.
"piloira" = banco speciale inclinato, con scanalatura perimetrale di scolo, usato per lo spurgo dei
formaggi sottoposti alla pressione delle pietre. Spesso pietra piana scanalata infissa nel muro della
casera.
"tuorn" e "tourn" = sostegno a forma di forca, piazzato a lato del focolare nel locale ove si lavora il
latte. Un palo verticale (inserito in alto entro una trave ed in basso entro una pietra forata) porta
un braccio orizzontale regolabile ed è girevole, in modo da avvicinare o allontanare la caldaia per
la cagliata al fuoco diretto
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"s-ciumòira" = schiumarola di rame usata per estrarre la "gioncà" (ricotta) quando la laità inizia il
bollore.
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La cultura materiale
In questo capitolo vi sono alcuni spunti di rilievo che richiamano usi anche del nostro paesino. ….;
le gangherelle di pietra talcosa che trovi sulla soglia (soji) di parecchie baite sono sempre quelle
del 2500 prima di Cristo; i cesti ad intelaiatura di stecche, garbine e cavagn, i contenitori scavati
nel tronco ("in bion curà"), che sembrano reperti delle miniere del Mitterberg (1600-800 a.C.),
hanno un "linguaggio" che non sa di obsolescenza e tanto meno di rottura con la preistoria; i rotoli
di scorza di betulla usati come candelotti o torce dai palafitticoli alpini, hanno successori nei
"vantrel" (cortecce di ciliegi e di betulle disseccate, unite insieme da un filo di ferro, che venivano
fatte roteare dai ragazzi di Viù, durante la luminaria dell'Annunziata).
Preistorico insieme alla "nassa" (la nassi) è il "trabuciòt", metodo di cattura mediante trappola (la
trapa) a peso che viene perfezionato nell'Aurignaciano (periodo del paleolitico superiore) (secondo
Lips): esso è frutto di una tecnica elaborata che tiene conto di fattori statici e dinamici (la pietra
piatta posta in bilico sopra due bastoncini verticali disposti a V rovesciata, meccanismo elementare
ad incastro con un terzo bastoncino più lungo che scatta appena toccato dall'animale che afferra
l'esca). Questa tecnica non sempre tendeva allo schiacciamento della preda: se il meccanismo
veniva montato al di sopra di una fossa praticata nel terreno, l'animale poteva venire imprigionato
vivo. Il trasporto dei carichi sulla persona avviene, in tutto il versante italiano delle Alpi, per mezzo
del -cesto- (sistema introdotto nel versante meridionale delle Alpi dall'esterno e modificato dalla
cultura alpina con l'uso di spallacci - gerla (dal latino "gerùla") - che lasciano libere le braccia
durante il trasporto), ma tale sistema non ha del tutto soppiantato i principi d'uso di altri punti di
forza per il trasporto, quali la nuca (precedente alla conquista romana) il capo (trasporto di tipo
mediterraneo, diffuso dai Romani nelle Province occidentali dell'Impero) le spalle (con carichi
appesi in equilibrio alle estremità di una pertica, introdotto presso le nostre genti dai Longobardi),
adottati in precedenza.
Nelle Valli di Lanzo è possibile osservare la convivenza e la sopravvivenza
di tutti questi metodi. Troviamo infatti "la gabasa", "la garbula" come cesta tronco-conica munita
di spallacci, o "gerla" , nella Valle di Viù e sino a Pessinetto; il "gherbin" (anche garbin) come cesta
poggiante sulle spalle con incavo per la testa, neòòe Valli di Forno e d'Ala; il "pajass" come
imbottitura sottostante a carichi pesanti per il trasporto capo-spalla, presente nelle tre valli; la
"balansi" (anche basu) per il trasporto equilibrato su spalla di secchi d'acqua o di latte (sion),
presente nelle tre valli (1); la "fesciera" (anche frascheri e farceri) come telaio in legno per il
trasporto su nuca di grossi carichi (fas) di fieno, presente nelle tre valli; la "lesa" (anche liegi e legi)
come slitta a traino umano usata largamente nei mesi invernali e non usata nei mesi estivi,
presente nelle tre valli. Il portacote (il "codér" cadorino, "lo coer" delle nostre valli) realizzato
dapprima con un corno bovino, poi con un pezzo di legno scavato, poi con un cilindro di legno
tornito, sfaccettato, scavato, infine stampato in lamiera e da ultimo prodotto in termoplastici, è
l'esempio di un oggetto semplice stabilmente codificato dall'uso, il quale ha subito negli ultimi
tempi l'ammaliamento dei processi di sviluppo industriale. (1) Questo metodo, pare introdotto dai
Longobardi nelle nostre regioni a partire dal 568, quando spazzati i Goti, occuparono tutta l'Italia
settetrionale (Torino fu sede di uno dei loro quattro duchi).
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Non è escluso che dopo la famosa "rotta dei Franchi", allorchè questi poterono aggirare i
Longobardi oltre le mura della Chiusa (che, secondo qualche storico, risaliva dallo scoglio del
Pirchiriano al Caprasio di cui forse la fraz. Le Mura ci Condove ne è memoria) gruppi superstiti
venissero a trovare rifugio nella valle più prossima a quella di Susa. Non a caso le frazioni di Viù Tuberghengo e Salvagnengo-, le uniche che abbiano conservato nel nome una caratteristica non
locale, si trovano dislocate lungo una facile direttrice d'accesso alle Valli. Il privato e il sociale. La
vita di tutti i giorni, le "cose" che erano usate, la realtà vissuta e tutto quello che è della famiglia, è
l'argomento di questo capitolo.
E allora possiamo trovare indicazioni sul modo di vestire, su
quanto veniva mangiato e altre indicazioni.
Vediamo per esempio che per quanto riguarda il
modo di vestire.
Si adottavano due tipi di calzature: "choussoun" - specie di sopracalze realizzate con parecchi strati
di drap, cuciti insieme, sempre di produzione domestica, adatti particolarmente per la camminata
su terreni gelati o innevali (sono i "pion" delle valli di lanzo ed i "travucc" della Valle Strona); i
"chooussier" di cuoio, confezionati da "lou callier" (calìa) con pelli conciate, importate dalla bassa
valle.
Gli abiti, confezionati da "lou sertour" (lo sartò), un paesano specializzato nel mestiere,
consistevano per gli uomini in pantaloni di "drap" o in "sargia" chiamati "braies" (brajes) in una
camicia di lino o di canapa "ciomisi", in un gilè senza maniche "courset" (corpetin) ed in una giacca
a code per i gironi di festa. Fra i copricapi maschili tipici, vi era"la caloto", berrettone in pelle di
montone o di volpe.
Le donne indossavano generalmente un vestito di drap, "la gounelo",
arricchito da grossi piegoni sulla schiena, con busto molto alto e maniche strettissime.
D'inverno
vestivano, al disotto del gounelo, una camicia di tela di canapa ed un ridotto gilè in misto di
canapa e lana; si proteggevano le gambe con le "ciàsse". Completavano l'insieme un grembiule
"foudal" legato molto alto in vita ed un piccolo fazzoletto al collo, nero o a fiori su fondo nero. Per
quanto riguarda il modo di mangiare è ricorrente il detto "Pi che polenta e trifoles, trifoles e
polenta" I tempi allora erano sicuramente duri e appena si era in grado di essere autonomi, i
bambini e le bambine venivano avvicinati ai grandi e fatti lavorare con essi, nei campi,
" a pres al
besties", sia estate che inverno. Le bambine imparavano dalle mamme a cucinare, imparando sin
da piccole ad avere "cognision" nel sapere usare buon senso senza sprechi e "tirare avanti". I pasti
del giorno erano tre e i piatti base (polenta, trifoles, cocches, let,toma), praticamente identici tutto
l'anno, indipendentemente dal variare della stagione, salvo arricchirsi in occasione di feste
particolari. Al mattino, alle otto, "lo dinà" (pasto piuttosto robusto) consisteva nella polenta
appena fatta, generalmente dagli uomini, nella "bronza" (lo brons); "polenta e let" ai bambini;
"polenta e toma" per i grandi che incominciavano la nuova giornata.
A mezzogiorno, oppure se il lavoro lo richiedeva anche più tardi, "o alavont a marenda": pane,
polenta tostata, trifules 8cotte con la buccia) "avo" la toma, che non mancava mai sul desco.
Chi non amava il formaggio si trovava davvero in difficoltà ed allora si rivolgeva ai prodotti
dell'orto: "fasoal", "salada" condita con poche gocce del preziosissimo olio; pere (prus barnagion)
o ciliegie; qualche uova (la famoisa "tartra" = uovo strapazzato con latte), ma non troppi poiché la
maggior parte si vendeva per comprare "li brichett" e "la sal". Una fonte preziosa per i contorni
erano le erbe dei prati: "bruschet" o "gidola" (acetosa dei prati) "tuvel" (rabarbaro delle Alpi)
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"patacioi" (piattello o hypochaeris radicata) sbollentate e passate nel burro.
Le erbe erano anche
ingrediente principale della "manesta neri", cioè la minestra di erbette che, preferibilmente, si
consumava la sera "par sina", al rientro dai campi.
(Nell'uso dei vecchi è rimasta l'abitudine di dire
"Beri na scoela 'd manesta" (bere una scodella di minestra) che rimanda all'uso della scodella e
della "cuja", cioè del cucchiaio di legno). Era enorme il valore attribuito alla minestra che veniva
fatta dalle donne nella "ramina" insieme alle immancabili patate ed ad una varietà di erbe a
seconda della stagione: "biavettes" (bistorta), "riondelas" (malva), "urties" (ortica), "asubion"
(acetosa dei prati), "varcogno" (farinaccio selvatico), sicories" (cicoria). Quando la stagione non
consentiva la raccolta nei prati allora si optava per le castagne (coccas), le rape (raves) oppure "lo
broet" (acqua, latte, farina bianca). Inoltre era abitudine mettere nella minestra "metà ris e metà
pastes" come se si volesse risparmiare dell'uno e delle altre. Questa di seguito descritta è una
"tradizione" di cui ancora io mi ricordo veniva seguita dai miei genitori, "lo boero colà". Per
conservarlo si preparava "lo boero colà", cioè si ricorreva, specie d'estate quando era più facile
l'irrancidimento, al sistema di scioglierlo lentamente sul fuoco, al naturale oppure insieme a salvia,
rosmarino, aglio e sale.
Appena manteneva il bollore, tendendo a fuoriuscire dalla "cassaròla", lo
si versava nei "tupin", le pignatte di terracotta, dove si presentava di un bel color biondo-dorato. Il
tempo dei miti. Qui vengono, leggendo le pagine di questo capitolo, in mente tutte le lunghe
serate passate nelle stalle a sentir raccontare i vecchi e poi ad aver paura persino ad uscire dalla
porta della stalla e, aprendo, credere di andare nel baratro nero della notte, vedendoin ogni dove
figure agghiaccianti come dai racconti appena sentiti.
Si materializzavano le "masche", ovunque si
vedeva "lo coòrs" dei morti che vagavano per le montagne, si pensavano agli "airal", le piazzuole
tra i boschi dove le "masche" ballavano in cerchio. Ricordo che quando da Funghera guardavo
verso la montagna di Pugnetto, cercavo sempre un appiglio ai racconti e credevo di vedere in quei
lumicini tremolanti che erano le luci del paese di Pugnetto (tremolanti perché negli anni cinquanta
la luce non aveva ancora la potenza, i volts di adesso) quei "fuochi dell'inverso" che mi parlavano
di streghe condannate a vagare sotto forma di lumi maledetti e che risalivano le Valli come nei
racconti sentiti. E per non parlare della "fisica" che tanto attraeva la nostra immaginazione ma
della quale non bisognava parlare né domandare, altrimenti chissà che sciagure sarebbero venute
a cascare su di noi. L'atmosfera satanica che circonda la "masca" e la "fisica" è comune a tutte le
vallate ed anche le leggende più diffuse contengono riferimenti a individui che solo con difficoltà
possono trattenersi dal danneggiare cose o uomini. Per scaricare i loro poteri malefici devono
tenere in tasca un pugno di sale; per morire devono trasferire ad altri le facoltà diaboliche, infatti
strega non si nasce ma si diventa per "consacrazione" fatta da una adepta anziana con un rituale
simbolico che comprende, oltre alle invocazioni al diavolo, carte del gioco dei tarocchi, sangue di
gallo nero e sangue mestruale, ostie consacrate sottratte in una comunione sacrilega. Il sale, in
particolare, è sempre presente in tutti gli esorcismi liberatori: il Rituale romano prescrive un
"esorcismo del sale" per la consacrazione dell'acqua benedetta; nell'antica Mesopotamia, il sale
era un fratello che s'invocava per essere aiutati ad annullare magie e sortilegi.
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Conclusione
Ora due parole, proprio solo due perché tante non sono necessarie per chiudere quanto visto nel
libro esaminato. E' un libro, uno dei tanti che come ho detto parlano di Traves e delle nostre Valli,
però questo è completo e abbiamo potuto trarre tanti spunti collegabili alla vita di Traves, quella
che abbiamo nella nostra testa perché riportata dai nostri padri e dai nostri nonni e che dovrebbe
essere tramandata alle nuove generazioni, magari anche sui banchi di scuola. Gli oggetti, le
notizie delle tradizioni riportate sono presenti nelle sale del Museo delle genti delle Valli di Lanzo,
che si trova a Ceres in piazza del Municipio: Museo troppo poco conosciuto dalla nostra
popolazione, dai nostri ragazzi, dalle nostre scuole. Tante volte cerchiamo nuovi sbocchi,
conoscenze nuove in località sperdute del nostro paese e a pochi chilometri da casa nostra c'è da
scoprire un mondo che passato, da anni, ci è completamente sconosciuto.
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