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Da G. A. Privitera – R. Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca TEOCRITO GLI IDILLI BUCOLICI Fra gli idilli bucolici i più significativi sono senza dubbio il I, il V e il VII. Nell'Idillio I, intitolato Tirsi (QÚrsij À òd»), l'omonimo pastore, su invito di un capraio che gli ha promesso in dono una ricca tazza di legno artisticamente intagliata, intona un canto dedicato alle pene d'amore e alla morte di Dafni: è questo il motivo più tradizionale e rappresentativo di tutta la poesia pastorale, in quanto incentrato sulla figura dell'eroe bucolico per eccellenza. Il personaggio di Dafni, già presente non solo nella mitologia popolare, ma anche nella letteratura (come attesta uno dei carmi minori di Stesicoro intitolato appunto Dafni, fr. 279 Page), viene promosso da Teocrito a figura emblematica del mondo dei pastori e, per tale ragione, quest'idillio è stato scelto dai primi editori come carme di apertura della silloge teocritea. L'eroe vive in simbiosi con la natura, tanto da preferire la morte pur di rifiutare l'amore, da lui vissuto come sentimento che, in quanto esclusivamente umano, potrebbe estraniarlo dal mondo e dai valori in cui si identifica: interviene qui infatti la tradizionale dicotomia tra il binomio amore-cultura e il binomio verginitànatura. Particolarmente originale nel canto di Tirsi è la descrizione del rapporto simpatetico tra Dafni e la natura; intorno all'eroe che soffre si stringe tutto il suo mondo: le piante, gli animali, i pastori e le divinità agresti (Hermes e Pan). Dal punto di vista formale, siamo di fronte a elegantissimi esametri dattilici, ma mentre il verso nell'ambito della poesia epica è impiegato in modo rigorosamente stichico, il canto di Tirsi tradisce l'originario carattere folclorico, poiché impiega ripetutamente una sequenza che funge da ritornello e che divide gli esametri in tanti brevi gruppi diseguali, quasi stanze di una canzone. Ma, come contraltare a questo carattere «popolare», Teocrito inserisce nell'Idillio I un motivo squisitamente letterario e colto, l'œkfrasij, cioè la descrizione minuziosa di un oggetto artistico, nel caso specifico la tazza di legno donata dal capraio a Tirsi. Il canto di Tirsi sui dolori e la morte di Dafni viene presentato come la riproposizione di un carme composto precedentemente, in occasione di un agone pastorale con un non meglio identificato Chromi di Libia (vv. 23-24): è chiaro il riferimento a gare popolari di canto, per le quali i cantori attingevano a veri e propri repertori tematici, adattabili dall'autore-esecutore alle mutate necessità e circostanze dell'esecuzione. Rispetto agli altri, l’Idillio V (A„polikÕn kaˆ poimenikÒn, "Il capraio e il pastore") è quello in cui risultano più evidenti e meglio conservati gli elementi e i motivi che sono alla base della trasposizione letteraria operata da Teocrito. Tutta la prima parte (vv. 1-79) è un serrato dialogo particolarmente ricco di realistici elementi campestri e pastorali - fra il capraio Cornata e il pecoraio Lacone, durante il quale quest'ultimo sfida Cornata a un agone bucolico con relativa posta in palio: il boscaiolo Morsone farà da giudice. Nell'idillio l'agone bucolico (vv. 80-137), del tipo a «botta e risposta», ha subìto una letterarizzazione, in virtù della quale il poeta ha attribuito costantemente una coppia di esametri a ciascuno dei due contendenti: il primo, analogamente a quanto accade nella realtà, si fa carico della «proposta», mentre all'altro spetta la «risposta». Tuttavia dell'agone reale (come ha dimostrato Gregorio Serrao) Teocrito conserva la caratteristica fondamentale: da una parte la precisa rispondenza fra proposta e risposta, dall'altra la continuità tematica fra ciascuna coppia di «botta e risposta». Si viene cosi a realizzare una corrispondenza sia orizzontale, con l'osservanza dell'identità di argomento fra battuta del proponente e replica di colui che risponde, sia verticale, con l'osservanza del principio di non contraddire quanto si è affermato nelle coppie agonali precedenti. Proprio perché Lacone viola quest'ultima norma, Morsone arresta la gara e assegna la vittoria a Cornata (v. 138). Che l’Idillio V si ispiri direttamente alla realtà lo rivela il linguaggio colorito, in certi punti addirittura crudo, con riferimenti a particolari della vita pastorale: valga per tutti l'insistenza e la precisione con cui Teocrito distingue, nell'ambito dei ruoli pastorali, la funzione del pecoraio da quella del capraio. Egli rispetta infatti la gerarchia bucolica, che prevedeva al suo apice la figura del bovaro, per scendere poi a quella del pecoraio e infine a quella del capraio, e ciò in base al maggior valore, in natura, della razza bovina rispetto a quella ovina e caprina. Anche l’Idillio VI (Boukoliasta…, "I cantori") presenta un agone tra due pastori, Dameta e il bovaro Dafni. Questa volta però i due contendenti non si sfidano in un serrato confronto a «botta e risposta», ma si impegnano a cantare ciascuno un breve componimento; il primo canto, incentrato sull'amore di Polifemo per Galatea, è di Dafni (vv. 6-19), al quale risponde, sulla medesima tematica, Dameta, che per l'occasione impersona addirittura il ruolo di Polifemo (vv. 21-40). Dai contenuti e dai modi della performance di Dameta, il quale riprende i temi del canto che funge da proposta, risulta evidente che il suo boukoliasmÒj («canto bucolico») è concepito come l'imitazione di quello che nella realtà era un componimento improvvisato. In questo senso l'agone fra il bovaro Dafni e Dameta costituisce forse l'esempio più fedele degli agoni poetici pastorali del tipo di quello tra Tirsi e Chromi ricordato nell’Idillio I. Come si vede, gli Idilli V e VI testimoniano due modalità diverse nella realizzazione degli agoni bucolici: il primo è fondato sulla capacità tutto sommato meccanica dei contendenti di non allontanarsi dal tema proposto, l'altro, pur non prescindendo da questo tipo di abilità, presuppone una loro notevole capacità compositiva. Evidentemente l'agone a «botta e risposta» era aperto, in modo più generalizzato, a quanti avessero prontezza e facilità di battuta, l'altro doveva invece essere riservato a veri e propri cantori. Le occasioni di canto in ambiente pastorale non erano certo limitate agli agoni bucolici, come del resto si è già detto a proposito del canto di Tirsi nell'Idillio I, eseguito su sollecitazione di un anonimo capraio. Infatti, nell’Idillio VII (QalÚsia) - il carme in cui viene descritta l'investitura di Simichida/Teocrito a poeta pastorale da parte del capraio Licida -, la successiva performance dei due boukoliasmo… avviene al di fuori di un contesto agonale. L'occasione è costituita dall'incontro fortuito dei due protagonisti, Simichida e Licida: il primo, in compagnia di due amici, si sta recando fuori città al podere di Frasidamo, dove ha luogo la festa contadina delle Talisie, durante la quale si celebra la dea Demetra per l'abbondanza del raccolto. Dopo l'episodio dell'investitura, i due, dovendo percorrere un tratto di strada in comune, si compiacciono di far ascoltare l'uno all'altro un canto pastorale. I due componimenti vengono presentati come frutto non di improvvisazione, ma di una precedente elaborazione avvenuta sui monti (vv. 51, 92): quest'ultima affermazione sulla bocca di Simichida/Teocrito, che non è un pastore, rivela, dopo l'avvenuta investitura a poeta bucolico, un'esplicita intenzione di mimesi della vita pastorale. Il primo dei due boukoliasmo…, quello recitato da Licida, si configura come un propemptikÒn, cioè come un canto augurante un felice viaggio, nei confronti dell'amato Ageanatte, in procinto di navigare alla volta di Mitilene. Particolarmente suggestiva è la descrizione del simposio agreste preparato per celebrare, nell'ambito di una festa campagnola, il felice esito del viaggio dell'amato (vv.71-82): Suoneranno per me l'aulo due pecorai, uno di Acarne, l'altro di Licope; Titiro da presso canterà come una volta di Xenea era innamorato Dafni, il bovaro, e come si affannava per la montagna e come lo piangevano le querce, che crescono sulle sponde del fiume Imera, quando si struggeva come neve ai piedi dell'alto Emo o dell'Athos o di Rodope o del Caucaso ai confini del mondo; canterà come una volta un'ampia cassa accoglieva il capraio (il mitico Cornata) ancora vivo, a causa della malvagia superbia del padrone, e come lo nutrivano, venendo dal prato al cedro odoroso, con fiori delicati le api camuse, perché la Musa gli versava sulla bocca dolce nettare. Sono versi molto interessanti perché da un lato testimoniano che ancora nel secolo III a.C. il simposio, anche se trasferito in ambiente agreste-pastorale, costituiva una delle occasioni privilegiate per l'esecuzione di canti che, vista la mutata ambientazione, erano ovviamente di argomento bucolico; dall'altro ci forniscono ulteriori informazioni sulle tematiche di questi stessi canti: Titiro, al suono degli auli dei pastori di Acarne e di Licope, prima canta l'amore infelice e disperato di Dafni per Xenea, poi il prodigio che toccò al mitico capraio Cornata, il quale, rinchiuso ancora vivo dal suo padrone in una cassa, venne nutrito dalle api con il loro miele. Altrettanto interessante è il secondo boukoliasmÒj, quello di Simichida/Teocrito, in cui si cantano le sofferenze d'amore dell'amico Arato per colpa del giovane Filino. Diversamente dal precedente, questo canto è ambientato in città e presenta un riferimento preciso a uno dei momenti tipici della vita cittadina, l'esercizio della quraul…a, cioè della veglia notturna di fronte alla porta della persona amata. In entrambi i boukoliasmÒi è facilmente individuabile una delle caratteristiche fondamentali della poesia teocritea, che si è già sottolineata a proposito dell'Idillio V, il «realismo» come elemento di base nella descrizione di alcuni momenti della vita quotidiana, di ambiente sia agreste sia cittadino. Del resto proprio sul principio della verità come ispiratrice della poesia si incentra la professione di poetica contenuta nella prima parte del carme, nell'ambito della scena dell'investitura di Simichida/Teocrito da parte del capraio Licida (vv. 42-48): Cosi dissi a bella posta; e il capraio avendo dolcemente sorriso: «Questo bastone pastorale - disse - ti dono, perché sei un rampollo di Zeus, tutto plasmato sulla verità. Giacché a me è fortemente odioso l'architetto che si sforzi di costruire una casa simile alla cima del monte Oromedonte, e i pollastri delle Muse che con il cantore di Chio in gara, schiamazzando, si affaticano inutilmente». Protagonista dell'investitura è un vero capraio: nei versi precedenti Teocrito si è preoccupato più volte di sottolineare questo particolare, soffermandosi, con meticolosità, sull'abbigliamento di Licida, che in ogni dettaglio conferma la sua appartenenza al mondo pastorale; d'altra parte il poeta indugia più volte nella descrizione del sorriso che aleggia sulle labbra del capraio e che gli conferisce l'aura di ieraticità propria delle divinità nelle loro epifanie benevole. In passato non pochi hanno sostenuto la tesi della cosiddetta mascherata bucolica, secondo la quale, dietro la figura di Licida, sarebbe riconoscibile un preciso personaggio storico, appartenente al circolo poetico di Cos; molto più credibile è invece l'ipotesi che Licida, in quanto vero capraio, rappresenti un personaggio indefinito, ma emblematico di tutta la realtà bucolica. È questo un particolare importante, poiché l'assegnare a una figura umana la funzione tradizionalmente riservata, nelle scene letterarie di investitura poetica, a una divinità (sia essa Apollo o le Muse), trova il suo fondamento proprio nell'ottica di una poetica realistica. Del resto la dichiarazione con cui Licida motiva l'investitura, «perché sei un rampollo di Zeus tutto plasmato sulla verità» (v. 44), fa esplicito riferimento a una poetica della verità che costituisce il presupposto teorico della poesia teocritea. Proprio la «poetica della verità» è il contributo più personale portato da Teocrito alla nuova teoria letteraria che Callimaco veniva elaborando in quegli stessi anni e di cui un importante riflesso è presente nei versi sopra citati, là dove si critica l'architetto che vuol costruire una casa alta come la vetta dell'Oromedonte: tale critica si indirizza infatti a quanti perseguivano il culto del poema lungo e continuato, proponendosi in sostanza come pedissequi imitatori di Omero, un autore non imitabile e, perciò, da non imitare. A proposito del simposio descritto nel boukoliasmÒj di Licida all'interno dell'Idillio VII, si è parlato di trasposizione di un momento di vita urbana nella realtà campestre; un'analoga trasposizione di due aspetti tipici del costume cittadino - questa volta il kîmoj e il successivo paraklaus…quron, la serenata di fronte alla porta chiusa della casa della persona amata costituisce l'argomento dell'Idillio III. Infatti protagonista del carme è un capraio che, simulando un kîmoj, si reca di fronte all'apertura della grotta dove abita Amarillide, la fanciulla di cui è innamorato, per cantarvi appunto il paraklaus…quron. Ancora una volta Teocrito compie un'arditezza sul piano formale, trasferendo nella struttura dell'esametro stichico il contenuto della serenata, che nella tradizione popolare doveva configurarsi come un canto lirico. Il tema del canto d'amore ritorna nell'Idillio XI, il Ciclope (KÚklwy) un carme dedicato all'amico Nicia, medico e allo stesso tempo poeta, nell'intento di convincerlo che unico rimedio all'amore, sentito come una vera e propria malattia, non sono i farmaci, ma l'esecuzione di un canto d'amore. Protagonista del componimento è infatti il Ciclope Polifemo il quale, perdutamente innamorato della ninfa Galatea, che non lo ricambia, cerca di trovare lenimento alle sue pene nel potere rasserenante e catartico del canto, eseguito, in completa solitudine, sulla riva del mare. E - pur inserito nel diverso contesto di una scena di lavoro nei campi - un canto d'amore compare anche nell'Idillio X, i Mietitori ('Ergast…nai À qerista…), di cui sono protagonisti i due mietitori Buceo e Milone. Dal loro dialogo si apprende che Buceo non lavora più con l'impegno di un tempo, perché si è innamorato di una fanciulla, Bombica; Milone gli consiglia allora, come espediente che gli renda più accettabile il lavoro, di intonare un canto in onore dell'amata. Il canto di Buceo, che nella trasposizione letteraria teocritea è tutto in esametri dattilici, in effetti non è che l'imitazione dotta di un componimento estemporaneo strutturato in versetti lirici, come si ricava dalle parole con cui Milone commenta la performance dell'amico: «Che Buceo facesse così bei canti certo ci era sfuggito. / Come bene ha saputo realizzare la forma ritmica!» (vv. 38-39). Ma Milone non si limita a congratularsi con Buceo; egli si sente in diritto di contrapporre alla performance dell'amico un vero canto di lavoro, il Litierse: il confronto stabilirà quale tipo di poesia sia più idoneo a incentivare il lavoro. Il canto, la cui paternità è attribuita al mitico Litierse, si presenta come una successione di coppie di esametri; ciascuna coppia, in sé compiuta, contiene una sentenza relativa al mondo agricolo. Nonostante la veste letteraria conferitagli da Teocrito, la struttura nettamente scandita, il contenuto gnomico, l'attribuzione a un personaggio mitico come Litierse rivelano chiaramente l'origine tradizionale e popolare del canto: anche il Litierse teocriteo rappresenta l'imitazione letteraria di un componimento che, nella realtà, era un tipico prodotto della cultura contadina. Per completare il panorama degli idilli bucolici, non resta che accennare all’Idillio IV (Nome‹j, "I pastori"). Si tratta di un serrato dialogo tra due pastori, Batto e Coridone, estremamente vivace e colorito, tutto intessuto di riferimenti al mondo pastorale: per il suo realismo, il dialogo è assimilabile al genere del mimo urbano. Nei carmi bucolici alla sostanziale omogeneità tematica si contrappone una certa varietà formale. Alcuni infatti si presentano sotto forma diegetica, offrendo una descrizione attenta e realistica sia del paesaggio in cui l'episodio è ambientato sia dei personaggi che ne sono protagonisti (soprattutto l’Idillio VII, ma anche il VI e l'XI, almeno nella sezione successiva a quella di apertura); altri invece sono in forma «drammatica», senza alcuna cornice narrativa: i personaggi sono presenti fin dall'inizio sulla scena, colti, cioè, nel pieno dell'azione (I, III, IV, V, X). APOLLONIO RODIO L'EPICA DI APOLLONIO E IL RAPPORTO CON LA TRADIZIONE Quello argonautico è un mito molto antico, a cui fa riferimento già l'Odissea (XII, 69-72), in un modo che sembrerebbe confermare la preesistenza di un vero e proprio ciclo epico; e infatti la critica omerica di stampo analitico ha supposto che un epos argonautico sia il modello dell'Odissea. In base ai più recenti studi sulla cultura orale, le conclusioni avanzate dalla vecchia critica analitica sui rap porti tra i poemi omerici e altri cicli epici non sono più accettabili, ma resta indubitabile (come testimonia il suddetto passo dell'Odissea) la notevole antichità del ciclo argonautico. L'opera di Apollonio è l'unica testimonianza diretta pervenutaci di questo ciclo epico; tuttavia esso dovette avere molta fortuna nell'epica preellenistica e venne trattato da diversi autori, come dimostra soprattutto il ragguardevole numero di varianti mitiche testimoniate dagli scoli alle Argonautiche. Certamente quindi Apollonio si inserì in un antico filone di epica ciclica ed ebbe presente una pluralità di fonti e di modelli. II rapporto di Apollonio con la secolare tradizione epica che lo precede è mediato dalla riflessione estetico-letteraria aristotelica. Apollonio, infatti, tenne certamente presenti molti dei canoni di eccellenza espressi da Aristotele nella parte della Poetica relativa al genere epico. Il filosofo, riferendosi in particolar modo all'epica e alla tragedia, identifica tre categorie estetiche in base alle quali un'opera letteraria si può ritenere eccellente (Poetica 1459a-b): l'unità, intesa come svolgimento tematico intorno a un'unica azione mitica; la compiutezza, ovvero l'articolarsi della narrazione secondo uno svolgimento che abbia un inizio e una fine; l'estensione dell'opera. A proposito dell'estensione, Aristotele sostiene che la giusta lunghezza di un'opera letteraria va commisurata alla giusta grandezza di un essere vivente, il quale, per essere considerato bello, non deve essere né piccolo né troppo grande, ma grande fino al punto da poter essere abbracciato con lo sguardo (Poetica 1450b-1451a): il che, rapportato a un'opera letteraria, significa che essa non deve essere né troppo breve né tanto lunga da procurare al lettore o all'ascoltatore una sensazione di smarrimento, ma estesa in misura tale che la sua materia risulti dominabile dalla memoria di chi ne fruisce. Mentre riguardo all'unità e alla compiutezza non sussiste differenziazione fra il genere epico e quello tragico, il discorso muta in riferimento all'estensione: l'epos infatti può permettersi dimensioni più ampie in ragione delle sue frequenti digressioni tematiche, che hanno la precisa funzione di distrarre e sollevare emotivamente il fruitore, mentre la tragedia è necessariamente più breve, in quanto non può permettersi questo tipo di espediente narrativo (Poetica 1459b). Tuttavia Aristotele, pur reputando giusto che vi sia una differenza di estensione tra l'epos e la tragedia, suggerisce che un'opera epica, per poter essere abbracciata con la mente e rispondere quindi al canone di perfetta estensione, dovrebbe essere lunga quanto una tetralogia tragica (Poetica 1459b). Le Argonautiche di Apollonio sono chiaramente ispirate alla volontà di attuare, in maniera coerente e fedele, le norme aristoteliche. Sono infatti un'opera unitaria, in quanto articolata narrativamente intorno a una sola azione mitica, costituita dal viaggio, dalla conquista del vello e dal ritorno degli eroi; sono un'opera compiuta, poiché si sviluppa dall'inizio alla fine con un esito circolare, idealmente rappresentato dal ritorno dei protagonisti al punto di partenza; e sono infine un'opera estesa nella giusta misura, poiché con un totale di circa seimila versi (vale a dire poco più di un terzo della lunghezza dell'Iliade) riescono ad abbracciare per intero la narrazione di una vicenda mitica cronologicamente molto vasta. Ma, come ha fatto notare Gregorio Serrao, Apollonio va anche oltre nell'attuazione del verbo aristotelico, tanto da mettere in pratica quella che il filosofo di Stagira presentava come un'ipotesi teorica: le Argonautiche sono infatti divise in quattro libri, aventi ciascuno approssimativamente l'estensione di una tragedia, in modo tale che l'intera opera raggiunga l'esatta lunghezza di una tetralogia drammatica. L'ORIGINALITÀ DI APOLLONIO Tuttavia Apollonio, pur nel rispetto delle norme estetiche imposte dalla tradizione del genere epico e sancite dalla riflessione teorica di Aristotele, elabora una personale scelta letteraria, che non è certo quella di rottura col passato propugnata da Callimaco, ma neppure quella estremamente conservatrice di tanti poeti suoi contemporanei. Sia Callimaco sia Apollonio prendono le mosse dalla critica aperta che Aristotele rivolge agli epigoni di Omero, i poeti dell’epos ciclico, accusandoli di non saper dare alle loro opere quell'unitarietà e compiutezza che caratterizza l'Iliade e l’Odissea (Poetica 1451a, 1459b). Mentre però Callimaco ritiene perduta in partenza la sfida di dare unità e compiutezza a una vasta materia mitica e preferisce abbandonare il vecchio modo di comporre l'epica a vantaggio dell'epillio (un breve epos che tratti soltanto episodi circoscritti e marginali della saga mitica), Apollonio accetta questa sfida, e non rinuncia a priori a un epos di vasto respiro. Aristotele infatti sosteneva che la ragione dell'unità narrativa dei poemi omerici è insita nel fatto che essi non raccontano la saga eroica nella sua totalità, ma solo una parte di essa: l’lliade narra solo gli eventi relativi a un periodo dell'ultimo anno di guerra (Poetica 1459a); l’Odissea non narra tutte le vicende mitiche legate a Odisseo, ma solo quelle relative al suo ritorno da Troia (Poetica 1451a). In altri termini, della saga troiana e dei viaggi di ritorno degli eroi a essa conseguenti i due poemi omerici affrontano solo alcuni momenti ben definiti, tant'è vero che a completarne il quadro intervengono numerosi poemi del Ciclo. Apollonio va addirittura oltre la teorizzazione aristotelica e compone un poema che abbraccia un intero ciclo epico, raccontando tutta quanta la saga argonautica: i preparativi del viaggio, la partenza, il viaggio con le imprese a esso relative, gli avvenimenti in Colchide, il ritorno. E lo fa dando unità, compiutezza e giusta estensione alla sua opera. Apollonio raccolse dunque una diffìcile sfida letteraria e la vinse, innovando in maniera notevole la tradizione epica classica. Se si valuta quindi il poema di Apollonio tenendo conto del rapporto che in esso si realizza tra vastità della materia narrata e osservanza dei criteri di unità, compiutezza ed estensione, le Argonautkhe si dimostrano, per assurdo - ma neanche tanto, qualora si superi una prospettiva di impronta callimachea -, uno straordinario esempio di brevitas narrativa: Apollonio ripensa il genere epico secondo le nuove norme estetiche aristoteliche, rivissute nell'atmosfera culturale dell'età alessandrina. Mentre l'epica tradizionale, come si può vedere soprattutto dai poemi omerici, procede narrativamente senza selezionare gli elementi del racconto, Apollonio applica questo principio con costanza. In altre parole la diegesi in Omero procede come un flusso continuo, sempre alla stessa velocità, narrando distesamente ogni evento e ogni azione dei protagonisti umani e divini: questa uniformità narrativa priva di scarti si esplica perfettamente nella cosiddetta «scena tipica», la cui descrizione viene reiterata ogniqualvolta se ne presenti l'occasione. In termini narratologici l'epos tradizionale ignora del tutto il principio della sintesi, pone tutti gli eventi su uno stesso livello di importanza, tendendo a riempire completamente lo spazio del racconto. Apollonio, invece, ha composto le Argonautiche secondo un ferreo principio di selezione, cosi da creare un flusso narrativo a differenti velocità. I primi due libri e il quarto, che descrivono rispettivamente il viaggio di andata e quello di ritorno, seguono in generale i tempi narrativi tipici dell'epos, e tuttavia presentano notevoli sproporzioni nell'estensione delle singole parti: la descrizione dei preparativi della partenza si prolunga fino a occupare quasi metà del primo libro, col chiaro intento di creare un effetto di attesa; tra gli episodi del viaggio, quelli salienti per gli esiti futuri dell'impresa, come la perdita di Ila ed Eracle in Misia o l'incontro con l'indovino Fineo, vengono dilatati più di altri, per esempio più degli episodi dei Dolioni o dei Bebrici. Le scene di navigazione sono ridotte al minimo indispensabile e, spesso, si passa da una tappa all'altra del viaggio senza accennare ai tempi dello spostamento. Rarissime sono le digressioni e sempre funzionalizzate. Indicativa, a questo proposito, è l'œkfrasij ("descrizione") del mantello indossato da Giasone per recarsi da Issipile, regina di Lemno (I, 721-767): richiamando direttamente il parallelo omerico della descrizione dello scudo di Achille nel canto XVIII dell'Iliade, l'opposizione tra i due oggetti - il capo di vestiario destinato all'abbellimento e l'arma destinata alla guerra - definisce la differenza, sul piano della dimensione eroica, tra Achille e Giasone, il primo capace di gesta belliche, il secondo di imprese amorose. Solo apparentemente digressivi sono poi i procedimenti eziologici e analettici (intendendo per analessi quel procedimento narrativo per cui di ogni evento mitico raccontato viene presentato l'antefatto); al contrario essi svolgono una funzione fondamentale nell'economia generale del poema. Le Argonautiche infatti vogliono essere un'opera non solo epica, ma anche storica: il loro autore non intende il passato mitico come qualcosa di distante dal presente storico, ma vuole connettere i due diversi piani. La storicizzazione del mito si compie attraverso quel procedimento eziologico che abbiamo visto essere uno dei tratti peculiari della nuova poetica alessandrina. In tal senso Apollonio si rende indipendente dalla dottrina aristotelica, che voleva la poesia e la storia ben differenziate negli intenti e nella materia, e approda decisamente a posizioni nuove, di stampo callimacheo. L'intento eziologico impronta di sé gran parte dell'opera apolloniana; esso è sotteso a molti degli episodi narrati nei primi due libri e nel quarto, là dove le vicende del mito argonautico servono a spiegare usanze, riti, fondazioni di culti e città che riguardano i luoghi toccati dalla spedizione. Come il procedimento eziologico serve a creare un rapporto tra passato mitico e presente storico, cosi quello analettico serve a contestualizzare il mito principale, a metterlo cioè in rapporto con eventi mitici precedenti. Si tratta di un procedimento estraneo all'epica tradizionale, in cui ogni opera appartenente a un ciclo si limitava a narrare solo un segmento di una saga mitica, senza sconfinare nella materia di altre opere del medesimo ciclo, né (se si escludono brevi e sporadici accenni) in quella di cicli differenti. La tendenza di Apollonio a spiegare le cause e gli antefatti di ogni episodio mitico, anche di episodi esterni rispetto alla saga argonautica, risponde alla volontà di creare un'opera in sé compiuta e auto sufficiente, in cui ogni evento narrato trovi una sua motivazione. Agganciare il mito al suo passato, attraverso la narrazione dell'antefatto, e al suo futuro, facendone un a‡tion, significa dunque storicizzare il mito, cioè creare una linea continua che va dall'origine del fatto mitico fino al suo permanere nel presente storico. Il mito non è più, come per gli aedi epici tradizionali, un passato senza tempo che solo la divina ispirazione della Musa può far tornare alla prodigiosa memoria del cantore, ma è qualcosa che è avvenuto nel tempo passato e che ha lasciato tracce nell'attualità storica. Tuttavia collegare il mito alla storia significa desemantizzarlo, privarlo cioè di quel valore etico e paradigmatico che la cultura greca dei secoli precedenti gli aveva attribuito: Apollonio non crede più nel mito in quanto tale, ma solo in quanto elemento interpretativo della storia. L'approccio razionalistico al mito ha come conseguenza primaria la rinuncia alla figura dell'eroe come perfetto modello di virtù quali il coraggio, l'ardore bellico e la capacità di superare ogni avversità soltanto con le proprie forze e l'aiuto divino. Giasone infatti è la negazione dell'eroe epico tradizionale, sia sul piano oggettivo che sul piano psicologico. Più volte nel corso dell'opera il poeta sottolinea la sua ¢mhcan…a ("incapacità di trovare soluzioni") di fronte ai casi che gli si presentano; un'incapacità che non è solo impotenza, ma spesso anche profonda incertezza: egli non compie, con le sue forze e il suo coraggio, nessuna impresa degna di un eroe e, peggio ancora, non tiene fede al suo ruolo di capo, dimostrandosi in varie occasioni sopraffatto dal dubbio. Del resto la fragilità di fronte agli eventi non è solo di Giasone, ma anche dei suoi compagni di spedizione: nessuno degli Argonauti possiede le caratteristiche dell'eroe tradizionale, tranne Eracle. Eracle è l'unico personaggio che sfugge alla crisi dei valori eroici, è il solo vero vincente del gruppo, quello da cui - non a caso - gli altri si sentono incoraggiati e protetti; unico tra tutti, egli incarna la vigoria e la risolutezza e sa incidere prepotentemente sugli eventi. Ma proprio perché non vuole privare la figura di Eracle della sua valenza eroica tradizionale, Apollonio è costretto a estromettere ben presto questo personaggio dal poema: se Eracle avesse continuato a far parte dell'impresa, ne sarebbe stato il vero protagonista, offuscando in maniera definitiva la figura di Giasone. Tant'è vero che, dopo la perdita di Eracle, i suoi compagni lo rimpiangono, consapevoli che se ci fosse stato lui le cose avrebbero preso tutt'altra piega (II, 145-153). Il presupposto ideologico su cui si fonda lo sviluppo narrativo del terzo libro consiste proprio nel fatto che Era e Atena, le divinità protettrici degli Argonauti, riconoscono l'inadeguatezza di Giasone e dei suoi compagni all'impresa, non realizzabile con le loro sole forze; e dal terzo libro in poi il coinvolgimento divino negli eventi diviene più frequente e determinante che nei primi due. Giasone ha bisogno dell'amore di Medea per compiere l'impresa, ed esso gli viene garantito dall'intervento divino; ma vincere con l'aiuto dell'amore è tutt'altro che epico. Giasone non è più un eroe epico, immaginato come un essere a metà tra l'umano e il divino, capace di scegliere e determinare il proprio e l'altrui destino, bensì un eroe tragico, rappresentato con tutte le fragilità tipiche dell'uomo, messo costantemente a confronto con un destino più forte e più grande di lui. La vera essenza dell'opera di Apollonio sta dunque in una visione del mondo non epica, ma tragica. Quanto della tragedia, a livello di forme e di contenuti, ci sia nelle Argonautiche risulta evidente soprattutto se si analizza il libro in. Il ritmo narrativo dell'opera subisce in questo libro un forte rallentamento, che lo rende assimilabile all'andamento di un'opera drammatica: l'intero libro racconta infatti le vicende che si svolgono nel corso di tre soli giorni, quasi nel rispetto del limite di tempo voluto da Aristotele per un'opera tragica (Poetica 1449b). Anche le lunghe scene dialogiche e monologiche fanno pensare alla mimesi di tipo drammatico. Ma drammatica è soprattutto la vicenda di Medea, vero fulcro tematico di questa sezione narrativa. I contenuti tipici dell'epos sono quasi assenti, come dimostra il suo prologo, dedicato a Eratò. la Musa della poesia amorosa: al centro della narrazione è la figura di Medea, la sua passione, il suo dramma interiore. Questo libro è dunque una parentesi tragica che si inserisce in un racconto epico, è un magistrale esempio dell'arte, tutta alessandrina, della mescolanza dei generi letterari. La presenza diretta o indiretta di Medea domina completamente la scena. La narrazione ha come tema portante l'evolversi della passione di Medea che, attraverso una climax emotiva, giunge fino a un insanabile dissidio interiore, descritto con una finissima tecnica di introspezione psicologica. Dapprima, quando viene colpita dalla freccia di Eros, Medea mostra i segni più esteriori dell'innamoramento (III, 286-298); poi, dopo aver sentito parlare Giasone, la sua passione acquista una dimensione interiore, si approfondisce, traducendosi anche in moti di esaltazione e stati di malessere (III, 442-471): Uscirono quindi dalla sala. Divinamente emergeva tra tutti il figlio di Esone per bellezza ed eleganza; su di lui fissava lo sguardo di nascosto la ragazza trattenendo lo splendido velo, con il cuore che si consumava nel fuoco della pena e a lei la mente vagava come un sogno sulle orme di lui che se ne andava. Quelli (Giasone, Argo ecc.) lasciarono la reggia afflitti; Calciope, preoccupata per l'ira di Eeta, in fretta si era ritirata nelle stanze insieme ai figli, e cosi anche Medea. Ma nell'animo suo si agitavano quante pene gli Amori possono suscitare; davanti ai suoi occhi ogni cosa prendeva di nuovo forma: qual era la sua persona e gli abiti che indossava, le cose che diceva, come sedeva sul trono e come incedeva uscendo. Presa da turbamento ella pensò che non vi fosse un altro uomo simile; sempre le tornavano all'orecchio la voce e le dolci parole che egli aveva pronunciato. Provava paura per lui, che i buoi o lo stesso Eeta lo uccidessero, e lo piangeva come fosse già morto: sulle gote scorrevano tenere lacrime di toccante e premurosa pietà. Sommessamente piangendo, proruppe in questo discorso: «Povera me, perché mi assale questo dolore? Che muoia costui, che sia il migliore o il peggiore degli eroi, vada in malora... Oh, possa salvarsi incolume! Certo, vada cosi, divina signora Perseide (Ecate), possa egli tornare in patria dopo aver fuggito la morte; se invece è destino che venga sopraffatto dai buoi, prima sappia questo, che io non godo certo della sua sventura». Cosi la fanciulla s'angosciava nell'animo per le sue pene. Questa descrizione dello stato d'animo di Medea innamorata mette in luce, grazie a un'introspezione psicologica quasi del tutto estranea alla letteratura anteriore, gli elementi irrazionali e le reazioni inconsce propri del sentimento amoroso; ma la passione di Medea diviene dissidio interiore tra razionalità e sentimento soprattutto nella successiva scena del risveglio notturno che anticipa il colloquio con Calciope (III, 636-644): Povera me come mi spaventano gli incubi! Ho paura che porti una terribile sciagura questa spedizione di eroi. Sullo straniero il mio animo è incerto. Lontano da qui, nella sua terra, chieda in sposa una ragazza greca; a me stia a cuore la verginità e la casa dei genitori. Tuttavia, avendo reso il mio cuore impudente, non prescindendo più da mia sorella, se mai ella venga a chiedermi di aiutarla nell'impresa, farò un tentativo, poiché è in pena per i suoi figli; questa soluzione farebbe cessare nel mio cuore l'angosciosa sofferenza. Nel suo maturare, il sentimento di Medea si depura dal carattere esterno che aveva in origine, in quanto indotto da una decisione divina: così la scelta finale di Medea risulta essere un cosciente e trasgressivo atto di coraggio. Intorno alla vicenda della maga il poeta crea due prospettive diverse: una oggettiva, per cui Medea è vittima di un destino imposto e, come tale, diviene strumento dell'impresa di Giasone; l'altra soggettiva, per cui Medea sceglie consapevolmente il proprio destino. E mentre sul piano oggettivo Medea e Giasone sono accomunati dalla medesima soggezione alla superiore forza di un destino prestabilito, connotandosi entrambi come personaggi tragici, sul piano soggettivo si misura l'enorme distanza tra il carattere eroico di Medea e quello sostanzialmente antieroico di Giasone. La totale dipendenza di Giasone da Medea trova il suo presupposto nel differente spessore dei loro caratteri. IL RAPPORTO CON IL MODELLO OMERICO Il ruolo delle divinità è un altro degli elementi che differenziano profondamente l’epos di Apollonio dall’epos tradizionale, in particolare da quello omerico. In Omero le divinità non solo esercitano un'influenza continua sulle azioni degli uomini, ma determinano e condizionano anche le loro reazioni psicologiche. Come è stato dimostrato da importanti studi di carattere antropologico, l'uomo, nei poemi omerici, è un'entità dissociata dai propri stessi sentimenti: il coraggio, la paura, l'ira, l'odio, l'amore sono tutte reazioni psichiche indotte dall'esterno, ispirate dalle divinità. In Apollonio, invece, l'incidenza delle divinità sull'azione non è costante: esse intervengono saltuariamente a dare una svolta all'agire degli uomini, ma poi l'azione si sviluppa in maniera del tutto indipendente, sulla base di una perfetta autosufficienza di cause ed effetti. Era è la divinità a cui si lega fin dall'inizio il destino dell'impresa argonautica, ma essa non segue gli eroi in ogni momento: a livello episodico l'evolversi della vicenda umana non è condizionato dal volere della divinità. Inoltre in Apollonio la divinità non è più onnipotente come era ancora in Omero. L'¢mhcan…a di fronte agli eventi sembra infatti coinvolgere anche gli ,dèi, come dimostra l'episodio divino in apertura del terzo libro: Era, secondo un modulo narrativo tipicamente omerico, si rivolge preoccupata ad Atena, ma questa non si dimostra capace di agire con la decisione che la caratterizza in Omero, e confessa la sua incertezza sul da farsi (III, 18-21): cosi anche Afrodite, capace nei poemi omerici di soggiogare uomini e dèi col suo potere, si mostra condizionata dal capriccioso volere del piccolo Eros (III, 91-99). Ancor più ridotta è l'influenza degli dèi sulle psicologie degli uomini: come si è già accennato, il sentimento d'amore di Medea, benché all'origine sia indotto dall'intervento di Eros, segue poi uno sviluppo tutto interiore e soggettivo. La sostanziale estraneità degli dèi alle vicende umane sembra risentire dell'influsso del pensiero filosofico ellenistico, in particolare dell'epicureismo. Come l'immagine dell'eroe epico, cosi anche quella del dio epico subisce un profondo ridimensionamento. La distanza dall'ideale dell'epos si rispecchia soprattutto nel realismo descrittivo, tutto alessandrino, con cui Apollonio delinea la più ampia scena divina del poema, all'inizio del terzo libro. Il compimento dell'astuto piano delle tre dee dipende dal volubile Eros; e Afrodite si reca dal bambino. La dea, rappresentata realisticamente come una madre cedevole ai capricci del figlio, gli promette balocchi in cambio della sua ubbidienza (III, 113-153): Andava (Afrodite) per le gole dell'Olimpo, alla ricerca di Eros. Lo trovò lontano, nel rigoglioso giardino di Zeus, e non era solo, ma in compagnia di Ganimede, che un giorno Zeus accolse nel cielo, vicino agli dèi, invaghito della sua bellezza. Con astragali d'oro i due si divertivano, come fanciulli che vanno d'accordo. E già l'insaziabile Eros, alzatosi in piedi, teneva sotto il petto il pugno della mano sinistra pieno di dadi; un tenue rossore gli coloriva le guance. L'altro invece accoccolato gli stava vicino, muto e avvilito; aveva due dadi e, avendoli lanciati l'uno allo stesso modo dell'altro, era furibondo per le risa di scherno [del compagno. E avendo subito perso, come gli altri, anche questi, andò via deluso a mani vuote, senza accorgersi di Cipride che si avvicinava. Ella si fermò dinanzi al figlio e subito, carezzandogli il mento, gli disse: «Perché ridi, terribile peste? L'hai imbrogliato e raggirato, quel poveretto ignaro? Suvvia, da bravo, compi quanto ti dico, che ne ho bisogno: potrei regalarti un bel giocattolo di Zeus, quello che gli costruì la nutrice Adrastea, quand'era ancora un tenero fanciullo nell'antro sull'Ida, una palla rotonda; un giocattolo migliore di questo non potresti riceverlo neanche dalle mani di Efesto. È fatta di cerchi d'oro, e intorno a ciascuno sono avvolti doppi anelli circolari: le giunture sono nascoste, un'azzurra voluta si stende al di sopra. Se la lanci con le tue mani, come un astro lascia nell'aria una scia splendente. Io te la darò; tu però tirando con l'arco conquista per Giasone la giovane figlia di Eeta; e non indugiare, altrimenti la mia gratitudine potrebbe essere minore». Cosi disse, e a lui che ascoltava furono gradite queste parole; gettò via tutti i suoi giochi e con entrambe le mani dalle due parti tratteneva con forza la dea aggrappato alla sua veste, e la pregava di dargli subito il dono, immediatamente. La madre, chinatasi e trattolo a sé con dolci parole, lo baciò sulla guancia e sorridendo gli disse: «Sulla tua cara testa e sulla mia lo prometto: ti darò il dono senza inganno, se tu scaglierai il tuo dardo contro la figlia di Eeta». Immagini di Eros che gioca con gli astragali o con la palla sono già presenti in Anacreonte (frr. 111 e 13 Gentili) e ricorrono in Asclepiade (Antologia Palatina XII, 46) e in Meleagro (Antologia Palatina XII, 47 e V, 214); ma, al di là del topos letterario, il realismo di questa scena è tipicamente alessandrino, molto lontano dai moduli narrativi dell'epica tradizionale.