Corte di Cassazione civ Sezione 2 Civile

Transcript

Corte di Cassazione civ Sezione 2 Civile
Corte di Cassazione civ Sezione 2 Civile
Sentenza del 27 aprile 1989, n. 1947
Integrale
CONDOMINIO NEGLI EDIFICI - FACCIATA - DECORO ARCHITETTONICO - SOPRAELEVAZIONE - LIMITI - DECORO
ARCHITETTONICO DELL'EDIFICIO - NOZIONE - ACCERTAMENTO - CRITERI
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 30 giugno 1978 Luisa Aiello proprietaria di un appartamento di un edificio condominiale sito in Napoli
alla Piazza Medaglie d'Oro 4, lamentando che nel proprio immobile si erano verificate infiltrazioni d'acqua cagionate
dalla abusiva sopraelevazione realizzata sul terrazzo del fabbricato dalla condomina Anna Menichini, la quale con il
proprio manufatto aveva ostruito il regolare deflusso delle acque e aveva inoltre innalzato il preesistente muretto di
recinzione limitando la visuale del lastrico di sua esclusiva proprietà, conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Napoli
la Menichini per sentirla condannare alla eliminazione del manufatto realizzato in sopraelevazione, alla riduzione in
pristino del muretto di recinzione e al risarcimento del danno derivante dalle infiltrazioni.
Successivamente, con altro atto di citazione del 15 settembre 1978 Eugenia Candela, Enrico Romano e Gabriella
Covone, anch'essi condomini del fabbricato, convenivano dinanzi allo stesso tribunale la Menichini per sentirla
condannare a demolire le costruzioni abusive o quanto meno gli ampliamenti e le modifiche da lei eseguite sul
terrazzo dello stabile.
La Menichini costituitasi in entrambi i giudizi contestava il fondamento delle avverse pretese chiedendone il rigetto.
Riuniti i due giudizi, il tribunale di Napoli, espletata la fase istruttoria, con sentenza 7 luglio 1982 accoglieva le
domande degli attori di riduzione in pristino della veranda in muratura, quella della Aiello relativa all'illecito mutamento
del deflusso delle acque dal terrazzo di copertura del suo appartamento e di risarcimento dei danni derivanti dalle
infiltrazioni, nonché quella degli attori Candela, Romano e Covone relativa alla illecita alterazione della canna di
ventilazione delle fecali comuni.
Avverso tale decisione proponeva appello la Menichini, ma la corte di appello di Napoli con sentenza 14 ottobre 1983
respingeva il gravame.
La Corte osservava in motivazione che la Menichini resasi aggiudicataria, a seguito del fallimento del proprietario di un
miniappartamento costruito abusivamente sulla terrazza dell'edificio condominiale, aveva successivamente costruito
una veranda, inglobando tutta la residua area scoperta della terrazza; che la veranda, di cui non vi era menzione nella
relazione di consulenza redatta in sede fallimentare, doveva perciò essere stata costruita in epoca successiva e tale
accertamento e così come ritenuto dai primi giudici pregiudicava l'aspetto architettonico dell'edificio, ledendo così
interessi comuni tutelati dalla legge; che anche il muro divisorio tra la terrazza della Menichini e quella della Aiello
doveva essere riportato al pristino stato scaturendo la sua illegittimità da quella della sopraelevazione; che infine
l'affermazione della Menichini di avere in corso di giudizio eliminato la causa dei danni lamentati dagli attori mediante
il ripristino delle canne di ventilazione delle fecali era del tutto ininfluente attenendo un tale fatto alla esecuzione della
sentenza.
Avverso questa sentenza ricorre la Menichini sulla base di cinque motivi di cassazione.
Resistono con controricorso la Candela, il Romano e la Covone.
MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con il primo motivo denunciando omessa e insufficiente motivazione circa un punto
decisivo della controversia in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. lamenta la ricorrente che sebbene avesse dedotto la
mancata considerazione da parte del tribunale della transazione intervenuta tra essa ricorrente e l'Aiello, transazione
confermata dall'abbandono dalle ultime fasi del giudizio di primo grado e dalla contumacia in grado di appello della
Aiello, il giudice di appello non soltanto ha ritenuto erroneamente che dalla contumacia in appello non poteva dedursi
la rinuncia agli atti del giudizio dell'attrice e che la pretesa transazione non poteva essere provata per testimoni, ma
non ha neppure esaminato la richiesta formulata all'udienza di precisazione delle conclusioni di ammissione
dell'interrogatorio formale dell'Aiello a sostegno di quel motivo di gravame.
Il motivo è fondato nei limiti delle considerazioni che seguono.
La forma scritta per la transazione secondo la disposizione dell'art. 1697 c.c. - a parte i casi previsti nel n. 12 dell'art.
1350 c.c. nei quali deve farsi ad substantiam nella forma dell'atto pubblico e della scrittura privata - al pari di ogni
altro contratto per cui sia richiesta la forma scritta ad probationem, tende ad escludere soltanto che della transazione
possa darsi la prova per mezzo di testimoni o di presunzioni ma il divieto non riguarda l'ammissione di altri mezzi
istruttori, quali la confessione, l'interrogatorio e il giuramento.
Nel caso di specie la corte napoletana ha correttamente negato che dalla mera assenza di uno solo degli attori nelle
ultime fasi del giudizio di primo grado e dalla sua contumacia e in appello potesse di sicuro trarsi inequivocabile
argomento per dedurre che lo stesso aveva inteso rinunciare al giudizio o alla domanda e altrettanto correttamente ha
escluso che la dedotta transazione potesse essere provata per testimoni, ma è caduta in un evidente vizio di attività
allorché ha omesso del tutto di considerare che la attuale ricorrente aveva chiesto di poter dimostrare l'intervenuto
accordo sulle questioni controverse attraverso l'interrogatorio formale ritualmente deferito alla Aiello nella udienza di
precisazione delle conclusioni.
La censura pertanto, sotto quest'ultimo profilo è fondata.
Con il secondo motivo denunciando violazione dell'art. 1127 c.c. nonché omessa e insufficiente motivazione, la
ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la costruzione della veranda pregiudicava
l'aspetto architettonico dell'edificio, senza dar conto specificamente delle ragioni che giustificavano il divieto
dell'esercizio del diritto sancito dall'art. 1127 cod. civ.
Il motivo è infondato.
In linea di principio deve osservarsi che il codice civile in materia di condominio di edifici nel riferirsi quanto alle
sopraelevazioni all'aspetto architettonico dell'edificio quanto alle innovazioni al decoro architettonico dello stesso,
adotta nozioni di diversa portata intendendo per aspetto architettonico la caratteristica principale insita nello stile
architettonico dell'edificio, sicché l'adozione, nella parte sopraelevata, di uno stile diverso da quello della parte
preesistente dell'edificio comporta normalmente un mutamento peggiorativo dell'aspetto architettonico complessivo,
percepibile da qualunque osservatore.
È proprio in riferimento a quest'ultimo profilo che questa corte ha più volte affermato che la installazione di una
veranda a vetri con copertura del terrazzo dell'ultimo piano dell'edificio condominiale, effettuata dal relativo
proprietario è soggetta alla disciplina dettata dall'art. 1127 c.c. e in particolare alla disposizione del terzo comma di
detto articolo la quale vieta sopraelevazioni che pregiudichino l'aspetto architettonico dell'edificio.
Si è aggiunto altrettanto costantemente che la relativa indagine, che va condotta in stretta correlazione con la visibilità
della nuova opera - nessun pregiudizio potendo riscontrarsi in manufatti che siano assolutamente invisibili ai terzi - è
demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se congruamente motivato
(sent. 24 gennaio 1978 n. 4804; 13 aprile 1981 n. 2189).
Nella specie la corte di appello aveva congruamente motivato il proprio apprezzamento non mancando anzitutto di
indicare le fonti del proprio convincimento circa le caratteristiche dell'edificio, allorché ha osservato che lo stato dei
luoghi risultava chiaramente alla relazione del consulente tecnico d'ufficio e dalle fotografie ad essa allegate.
Essa poi ha preso in considerazione le caratteristiche strutturali e lo sviluppo orizzontale e verticale dell'edificio
condominiale caratterizzato da una armonica fisionomia per evidenziare la mancanza di qualsiasi tentativo di
inserimento o di adeguamento della veranda alle linee estetiche del fabbricato il cui aspetto architettonico per effetto
di tale disarmonia risultava fortemente compromesso.
Questa affermazione è poi rafforzata col rilievo, che risponde a una precisa esigenza di valutazione del concreto
pregiudizio all'aspetto architettonico che la veranda era perfettamente visibile sia da piazza Medaglie d'oro che da via
Giotto oltre che dal cortile.
Nella successiva memoria la ricorrente ha prospettato una inedita argomentazione critica sostenendo che secondo la
giurisprudenza di questa corte il giudice del merito deve accertare oltre che la lesione od il turbamento della linea
architettonica dell'edificio anche se tale lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero fabbricato cagionando
un pregiudizio economicamente valutabile, accertamento che nella specie sarebbe stato del tutto omesso dai giudici
del merito in entrambi i gradi.
La censura non è fondata.
Invero anche se il principio richiamato della ricorrente è esatto non potendo negarsi che la tutela dell'aspetto
architettonico degli edifici è stata apprestata dal legislatore in considerazione della diminuzione del valore che la sua
alterazione arreca all'intero edificio sicché il pregiudizio deve ritenersi strettamente correlato all'esistenza in concreto
di un danno economicamente valutabile, deve riconoscersi, come peraltro è stato già affermato da questa corte, che
se è vero che l'alterazione dell'aspetto architettonico dell'edificio in condominio richiede un mutamento estetico
implicante un pregiudizio economicamente valutabile, tuttavia nell'ipotesi di modifica obiettivamente rilevante deve
ritenersi insito nel pregiudizio estetico quello economico, con la conseguente insussistenza dell'obbligo del giudice di
una espressa motivazione sotto tale profilo (sent. 4 aprile 1981 n. 1918).
Nella specie la situazione evidenziata dai giudici del merito che hanno rispettivamente parlato di "grave deturpamento
dell'edificio e di aspetto architettonico fortemente compromesso" rende palese che nell'apprezzamento dei giudici il
pregiudizio economico è stato ritenuto insito in quello estetico, tanto più che dalla parte interessata non è stata
neppure adombrata la inesistenza di tale pregiudizio, né si è fatta questione di qualsivoglia ipotesi di eventuali utilità
reciproche atte a compensare l'alterazione estetica del fabbricato.
Con il terzo motivo denunciando violazione dell'art. 886 c.c. ed omessa ed erronea motivazione la ricorrente censura la
sentenza impugnata per avere confermato la statuizione relativa al ripristino del muretto divisorio per il solo fatto che
la sua sopraelevazione era funzionale alla costruzione della veranda senza considerare che la sopraelevazione del
muro divisionale fino all'altezza di mt. 3 è un diritto esclusivo che spetta ad ogni proprietario a norma dell'art. 886 per
separare la propria cosa dalle altre e come tale non è soggetto alla disciplina delle norme sul condominio.
Devesi osservare preliminarmente che per effetto dell'accoglimento del primo motivo di ricorso viene a cadere ogni
statuizione nei confronti dell'Aiello, di guisa che anche le censure prospettate col mezzo in esame relativamente
all'abbattimento del muro divisorio fra le terrazze dell'Aiello e delle Menichini per ragioni di necessaria conseguenzialità
devono trovare accoglimento limitatamente all'Aiello con la cassazione della sentenza in parte qua.
Le censure peraltro non meritano accoglimento nei confronti degli altri intimati.
La corte territoriale ha ritenuto che il muro divisorio fra la terrazza dell'Aiello e della Menichini non poteva conservare
una sua autonoma ragione d'essere in quanto la sua illegittimità scaturiva da quella dell'intero manufatto realizzato
dalla Menichini e cioè in buona sostanza dal pregiudizio arrecato all'aspetto architettonico dell'edificio.
L'affermazione della corte di Napoli appare giuridicamente corretta in quanto fa leva su un generale principio che ha
trovato riconoscimento nella giurisprudenza di questa corte, che ha già affermato che l'esigenza del mantenimento del
rapporto di equilibrio tra i diritti esclusivi di ciascun partecipante alla comunione con i diritti spettanti agli altri
condomini sulle cose comuni comporta che l'esercizio del diritto del singolo sulle parti di sua esclusiva proprietà non
può ledere il godimento dei diritti che gli altri partecipanti alla comunione sulle cose comuni (sent. 24 gennaio 1957 n.
230; 26 ottobre 1974 n. 3168; 28 novembre 1975 n. 3872).
Il principio trae fondamento dall'art. 1122 c.c. il quale stabilisce che ciascun condomino nel piano o porzione di piano
di sua proprietà esclusiva non può eseguire opere che arrechino danno ad una parte comune dell'edificio. Il concetto
di un danno cui la norma fa riferimento non va limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione
della conformazione esterna o della intrinseca natura dalla cosa comune, ma anche al danno conseguente alle opere
che elidono o riducono apprezzabilmente delle utilità ritraibili dalla cosa comune, anche se di ordine edonistico od
estetico (in proposito sent. citata n. 3872/1975).
Si spiega in tal modo in particolare come il condominio anche quando utilizza con opere le cose di sua proprietà
esclusiva sia tenuto al rispetto delle qualità della cosa comune, quale appunto nel caso di specie il rispetto dell'aspetto
architettonico del fabbricato condominiale, compromesso sul piano estetico, come ha ritenuto, con apprezzamento di
fatto il giudice del merito del sopralzo dei parapetti del terrazzo di copertura dell'edificio.
Con il quarto motivo denunciando omessa insufficiente ed erronea motivazione la ricorrente censura l'impugnata
sentenza nella parte in cui ha ritenuto inammissibile la prova per testi circa l'epoca di costruzione della veranda
limitandosi a dedurre che essa era successiva alla relazione della consulenza tecnica espletata in sede fallimentare.
Il motivo è infondato.
La censura, come appare evidente dalla sua stessa formulazione si appunta contro un apprezzamento di fatto del
giudice del merito il quale ha ritenuto, congruamente motivando il proprio convincimento, che dalla relazione del
consulente tecnico d'ufficio del 12 aprile 1973 in sede fallimentare risultava in modo certo che la costruzione della
veranda era avvenuta in epoca successiva agli accertamenti svolti dal consulente tecnico d'ufficio.
Con il quinto ed ultimo motivo denunciando omessa e insufficiente motivazione la ricorrente critica la sentenza
impugnata per avere ritenuto compito del giudice dell'esecuzione l'accertare la sistemazione delle canne di
ventilazione delle fecali.
Anche tale motivo è infondato.
È appena il caso di rilevare che la corte ancor prima di affermare che l'accertamento della circostanza che la
ventilazione delle canne fecali era stata ripristinata spettava al giudice dell'esecuzione, ha osservato anzitutto che la
circostanza era equivoca nella sua formulazione perché non si comprendeva se si era inteso affermare che detta
canna era stata riportata nella sua prima posizione "nelle vicinanze del parapetto prospiciente il cortile" oppure che si
erano eliminate le conseguenze della curvatura impressa alla originaria canna.
Ora la censura della ricorrente investe soltanto una delle due ragioni poste dalla corte a sostegno della propria
statuizione, talché poggiando la decisione su più ragioni tra loro distinte e indipendenti, ciascuna delle quali è
sufficiente da sola a sorreggerla, la censura svolta soltanto contro una di esse rende ininfluente il motivo di ricorso in
quanto in ogni caso la decisione rimarrebbe ferma in base alla ragione non contestata, la cui esattezza non è
suscettibile di controllo.
In definitiva quindi, deve essere accolto il primo motivo e il terzo per quanto di ragione, mentre devono essere
rigettati gli altri motivi e conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti,
con rinvio della causa ad altro giudice, che si designa in altra sezione della corte di appello di Napoli, la quale
provvederà anche per le spese del giudizio di cassazione (Omissis).