Esther, uno e due. Splendori e miserie
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Esther, uno e due. Splendori e miserie
EUSEBIO RICCI ESTHER, UNO E DUE. SPLENDORI E MISERIE Traviate, si direbbe che la letteratura, quella francese in particolare, una volta liquidate le gesta dei paladini di Carlo Magno, non si sia occupata d’altro. Isotta, Ginevra per cominciare. In seguito il severo XVII secolo alterna la virtù inespugnabile della Principessa di Clèves e i furori di Fedra e le cose cambiano molto in fretta. Nel secolo seguente troviamo ogni genere di traviate: sentimentali come Julie di Rousseau, perverse come Justine di De Sade, entrambe le cose come Manon di Prévost. Il capolavoro conclusivo, Les liasons dangereuses, infine le riunisce tutte : la marchesa di Merteuil, Cécile de Volanges et la presidentessa di Tourvel. Durante il XIX secolo, con l’urbanizzazione forzata della rivoluzione industriale, le peccatrici diventano una categoria sociale. Sesso e danaro infiltrano ogni spazio del labirinto della nuova società. La prostituzione è sempre esistita ma ora le sue vittime/protagoniste più in vista raggiungono il carattere e la coscienza di una vera e propria classe o almeno di un epifenomeno sociale come i calciatori e le top model di oggi. D’altra parte i loro talenti erano altrettanto involontari e naturali e altrettanto breve la loro carriera. Sono loro, si direbbe, il vero motore della macchina infernale delle grandi città che cominciano la loro metamorfosi in metropoli. Il loro letto è l’altare su cui bruciano - in un grande potlatch rituale1- le ricchezze accumulate; vi si consuma la povera paga dell’operaio o l’enorme ricchezza del banchiere. La lista delle trasposizioni letterarie di queste figure sarebbe molto lunga, ci limiteremo ad evocarne due emblematiche: Esther di Splendeurs et misères des courtisanes di Balzac e Marguerite di La dame aux camélias di Dumas figlio. Entrambe sono sacrificate al vitello d’oro della famiglia borghese che si materializza nel matrimonio combinato per assicurare all’amato l’ingresso in società. Esther e Marguerite svelano la pienezza dell’amore a Lucien e Armand la cui innocenza/ingenuità diventa la molla che fa scattare la loro redenzione ma, per quanto bello ed edificante, tutto questo non basta. La società che le ha dannate e celebrate non lascia la presa tanto facilmente; prima le costringe a vendersi e poi una volta redente, quale ultima prova della loro redenzione, chiede loro di sprofondare di nuovo da dove sono venute. Esther deve concedersi al Barone Nucingen che a sessant’anni cerca di comperarsi l’amore dei sedici, Marguerite deve fingere di voler tornare alla sua vecchia vita in modo che Armand si stacchi da lei. 1 Il potlatch è una cerimonia che si svolge tra alcune tribù della costa nordoccidentale del Pacifico per stipulare o rinforzare le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi. Esso assume la forma di una cerimonia rituale in cui individui dello stesso status sociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerati "di prestigio" per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso lo abbiano perso. L’intrigo di “Splendeurs et misères des courtisanes” (1847) è particolarmente complesso anche perché la sua redazione si intreccia con quella di altri capolavori della Comédie Humaine. Qui, ancor più che altrove, si manifesta il rapporto paranoico di Balzac -e della società che egli vuole rappresentare- con il danaro. Tutto corrisponde o riconduce a qualche migliaio di franchi, rendite, vestiti, case, mobili, doti, in una progressione parossistica di cifre per arrivare ad un mitologico milione di franchi che garantirà la posizione del giovane eroe. La struttura del romanzo è un abisso dove si aggrovigliano in un nodo inestricabile sesso e danaro. I personaggi si agitano prede di uno sconfinato desiderio di potenza che può realizzarsi solo unendo amore/bellezza e danaro/potere ed essi si dispongono intorno a queste due polarità come la limatura di ferro se si passa una calamita sotto il foglio. Al centro ritroviamo Lucien de Rubempré, un giovane provinciale di belle speranze e di bell’aspetto, ancora preso nell’ambiguità dell’adolescenza, che in un precedente romanzo (Les illusions perdues) ha già tentato di farsi strada nel mondo letterario parigino, fallendo miseramente. A salvarlo ricompare una vecchia conoscenza della Comédie Humaine, il galeotto Jacques Collin, alias Vautrin. Nel Père Goriot aveva lusingato senza successo Eugène de Rastignac che aveva rifiutato con sdegno le sue proposte e dimostrato di saper volare da solo. Lucien, il poeta sognatore, invece rimane irretito nelle panie di questo “amore nascosto” che si mette al servizio delle sue ambizioni velleitarie blandendole e suscitandole quando non ci sono, in una specie di realizzazione trasposta: tanto Lucien è bello e debole, tanto Vautrin è brutto e forte. Sotto le mentite spoglie del gesuita Padre Herrera, Vautrin diventa l’anima nera di Lucien che deve realizzare i suoi sogni di onnipotenza. Lucien dunque refait surface al bal de l’Opéra, bello come sempre, di nuovo elegantissimo, al braccio di una maschera misteriosa suscitando l’invidia di un gruppo di ex amici–nuovi rivali. Questi con un sotterfugio scoprono in breve l’identità del misterioso domino: si tratta di Esther, detta la Torpedine, una prostituta di sconvolgente bellezza. Lei umiliata, quasi sviene e la coppia fugge dal ballo. La mattina seguente nella povera camera d’affitto della Torpedine si presenta un misterioso gesuita che la salva da un improbabile suicidio e le propone di cambiare vita e redimersi se vuole essere degna di Lucien e non diventare un ostacolo insormontabile per la sua futura carriera. La costruzione della scena è estremamente densa e stratificata: in realtà non c’è un solo amore disperato, sono di fronte due esseri perdutamente innamorati di Lucien. Esther che ama alla follia il giovane poeta che la ricambia, ma il suo amore è “indegno” perché è stata una prostituta. L’amore maledetto di Vautrin non è meno totale di quello di Esther, egli però deve sublimarne l’aspetto sensuale facendone un figlio di sostituzione. Se questo amore si consumasse, infatti, sarebbe una tara ancora peggiore e impedirebbe a Lucien di raggiungere le vette della società. Al contrario la relazione con una mondana, per di più bellissima e concupita da molti, non può che avvantaggiare la scalata sociale di un giovane ambizioso. Comunque entrambi gli amori sono condannati, il forzato non deve nemmeno apparire, la cortigiana dovrà farsi da parte quando si presenterà l’occasione del matrimonio giusto. Torniamo alla scena iniziale nella camera di Esther, l’amore di Vautrin è venuto a strumentalizzare quello della ragazza e Balzac, nel far specchiare l’uno nell’altro, ci dà un ritratto dell’amore assoluto e completo di chi può dare tutto perché non ha niente da perdere, non ha onore da difendere. Si direbbe che tutta la forza costretta della passione di Herrera da cui Lucien si lascerà avvolgere, si trasmuta nell’abbandono assoluto di Esther che può, almeno fin quando non la raggiungono il suo passato, la realtà e la morsa del padre gesuita, viverlo pienamente fino a cercare di esser quello che non può più essere: una ragazza per bene. Padre Herrera sembra compiere il miracolo, ottiene il documento ufficiale che certifica che lei non esercita più, non solo, organizza una palingenesi -che è anche una resurrezione mondana- nel collegio femminile più elegante della città per cancellare ogni minima traccia del suo passato in modo che così rinata non possa più essere un ostacolo sulla strada del suo beneamato. Il programma di redenzione si arresta bruscamente senza che il lettore capisca bene perché. Balzac lascia intendere che la castità sarebbe dannosa alla salute di Esther che langue e comincia a deperire. Ed è questo l’indizio che ci fa capire come la sensualità di Esther sia la trasposizione di quella di Vautrin, se lei non fosse in qualche modo lui, perché Herrera dovrebbe preoccuparsi dei suoi languori? Padre Herrera si convince a farle incontrare di nuovo Lucien purché nel più assoluto segreto. Lo aspetterà vivendo segregata in un harem nel pieno centro di Parigi servita e controllata da due mostri di insondabile perfidia che Vautrin ha scovato nelle profondità dell’inferno parigino. Non potrà frequentare nessuno e uscirà a passeggio solo di notte. Ed è appunto durante una di queste passeggiate notturne al Bois de Vincennes che la sua apparizione al chiaro di luna folgora il Barone di Nucingen - il genio spietato della nuova finanza- il quale metterà in azione tutta la polizia del Regno per ritrovarla. Vautrin intuisce che questa passione tardiva può essere la molla finanziaria dell’ascesa sociale di Lucien. Chiede dunque ad Esther di ritornare alla sua vecchia vita, di simulare dei debiti colossali e con le enormi somme così estorte ricompera le terre dei Rubempré. Queste, unite al titolo di marchese recuperato nel frattempo, permetteranno infine a Lucien di ottenere dal Duca di Grandlieu, influente ministro di Carlo X, la sospirata mano della figlia. Il matrimonio con Clotilde de Grandlieu sarà la chiave di una brillante carriera diplomatica e politica. Le cose non vanno proprio così perché il sospettoso duca incarica il suo avvocato di scoprire da dove proviene l’improvvisa ricchezza di Lucien. Esther, assolto il suo compito, si avvelena dopo la notte con Nucingen il quale, folle di rabbia, accusa Lucien di averla uccisa per recuperare i 750 000 franchi che Esther aveva realizzato rivendendo i titoli che il banchiere le aveva comprato per assicurarle un tenore di vita degno di una delle regine di Parigi. I sogni di gloria di Lucien crollano miseramente nel fango. Ignaro di tutto, viene arrestato sulla strada di Fontainebleau durante un incontro clandestino con Clotilde, che i genitori, prudenti, allontanavano da lui mandandola in viaggio in Italia. Si ritrova imprigionato alla Conciergerie insieme a Herrera. Quest’ultimo regge benissimo gli interrogatori del procuratore, lui invece cade miserevolmente nella prima evidentissima trappola che gli viene tesa e, quando si rende conto del pasticcio che ha combinato, si impicca nella sua cella. Con questa morte si infrangono anche i progetti e i sogni di Vautrin che compie la sua ultima metamorfosi diventando il capo della polizia segreta per potersi vendicare più facilmente degli informatori che hanno venduto Lucien e causato la sua rovina. Se mi avete seguito fin qui e non vi siete persi nell’intrigo, avrete visto che le parentele con l’opera di Dumas figlio, pubblicata appena un anno dopo, sono tante. Il destino di Marguerite non è diverso anche se il suo modello è stato un personaggio reale (Alphonsine/Marie Duplessis). Giovanissima è caduta nel fango e ci vive benissimo anche se tossisce già un po’, fino al giorno in cui, in quel “popoloso deserto che chiamano Parigi”, incontra Armand e cominciano riscatto e guarigione. Questa volta nel giardino non si materializza Vautrin bensì il padre di Armand il quale con accorata semplicità le spiega che, per il bene della sorella di lui e di tutta la famiglia, devono separarsi. Non solo, Armand non deve nemmeno sospettare il suo sacrificio altrimenti potrebbe essere tentato di non lasciarla…. Balzac sottolinea il sacrificio della sua eroina attraverso una simbologia evangelica evidente e insistita. Nella prima parte Esther è la Maddalena e diventa, in seguito, l’agnello sacrificale. Poco prima della festa che deve inaugurare il lussuoso hôtel particulier dono di Nucingen, riceve Lucien vestita di bianco, gli si inginocchia ai piedi chiedendogli di benedirla in una specie di matrimonio mistico prima di avviarsi al sacrificio con il lupo (Nucingen) che la aspetta nel salone. A tutto questo è stata spinta dal genio tentatore di Vautrin che prima l’ha convinta che lei era l’ostacolo più grande sulla via del successo di Lucien e che doveva sparire per lasciar posto ad una moglie “giusta”, poi, non bastasse, l’ha indotta a concedersi a Nucingen sempre per favorire il matrimonio di Lucien con Clotilde de Grandlieu e la sua futura carriera politica. Il destino di Esther non può che essere tragico. Il suo amore avrebbe la forza di proteggere Lucien dalla possessione di Vautrin e di redimere lei stessa, ma non vi riesce perché il suo amato poeta è un debole incapace -anzi capace di tutto- che ama lei ma non sa resistere al fascino ben più pericoloso della brama di potere di Vautrin. Tutto il suo amore non è allora che uno strumento nelle mani di costui che manipola Lucien e, attraverso lui, anche lei. La vera cortigiana della situazione è piuttosto Lucien che ha sempre vissuto, al di sopra dei propri limitatissimi mezzi finanziari, del suo fascino irresistibile, dolce, tenero e, al tempo stesso, virile, come lasciano intendere i deliri di Madame de Sérizy e le lettere della duchessa di Maufrigneuse. Nessuna gli ha mai resistito, tutte lo hanno cercato, amato, coccolato, mantenuto, dal gradino più alto a quello più basso della società parigina, giungla sociale dove contano solo i propri desideri e la forza o l’astuzia che si hanno per realizzarli, senza nessuno scrupolo, senza nessuna pietà. E lui, debole, non ha combattuto, ha ceduto alle blandizie di Collin/Trompe-la-mort/Vautrin/Herrera, lasciandosi trasformare nel doppio socialmente accettabile del forzato evaso che non può comparire, docile burattino della sua sete di potere. Convinto che tanta forza potesse realizzare anche le proprie ambizioni, non ha capito che ognuno può lottare soltanto per sé: [Vautrin] Distrusse l’onestà di Lucien precipitandolo in crudeli necessità da cui lo traeva attraverso un tacito consenso ad azioni disoneste o infami che lo lasciavano sempre puro, leale, nobile agli occhi del mondo. Lucien era lo splendore sociale all’ombra del quale voleva vivere il falsario […] Lucien soccombette […] vinto soprattutto dalla felicità di aver conquistato una posizione importante. Il Male […] impiegò con quest’uomo per metà femminile le più attraenti seduzioni, e, 2 all’inizio, gli chiese poco dandogli molto in cambio. Anche quando scopre poco a poco i segreti e le intenzioni di Vautrin, quando gli si rivela quale sia la vera situazione, non reagisce, semplicemente si adegua senza porsi domande. È del tutto naturale amare Esther, bellissima, e voler sposare Clotilde, decisamente brutta, per fare carriera e cercare di farlo dilapidando il danaro che gli altri galeotti hanno affidato a Collin. Lucien, con le migliori intenzioni, è il mantenuto di un losco signore, il protettore di una prostituta, il cinico opportunista in cerca di un nome. Tutto questo qualche volta nella realtà finisce bene, nei romanzi generalmente male, nel caso specifico, malissimo. Esther muore (quasi) santa e martire e lui suicida come Giuda, dopo aver tradito anche il suo demone coadiutore con un’intempestiva e ingenua confessione. 2 Honoré de Balzac, La Comédie Humaine, Etudes des mœurs, Scènes de la vie parisienne, Splendeurs et misères des courtisanes, Gallimard, coll. La Pléiade, t. VI, Paris, 1977, pp 504 – 505, traduzione dell’autore. A questo punto è inevitabile una domanda: Esther, Marguerite ma anche Emma, Butterfly e tante altre figure letterarie, non possono farsi alcuna illusione sul loro amato, cosa devono redimere allora con il loro sacrificio? Pressappoco negli stessi anni di gestazione del romanzo di Balzac (1838 – 1847), arriva a Parigi e si afferma nel demi-monde parigino un’altra Esther, personaggio dal destino ben diverso. Esther Lachman nasce il 7 maggio 1819 da una famiglia di ebrei polacchi rifugiati a Mosca. Nel 1836 sposa ad un sarto francese, Antoine Villoing. Nel 1838 fugge dal marito, dalla miseria e da Mosca, cambia nome in Thérèse e, con un lungo periplo, arriva a Parigi dove vive di prostituzione. Poco dopo, a Ems, arriva l’occasione giusta: diventa l’amante del famoso pianista Henri Herz che la introduce nel mondo della bohème artiste di Parigi dove ha modo di conoscere e frequentare personaggi celebri ed influenti tra cui Wagner, Von Bulow, Girardin. Fanno credere di essere sposati, anche se non è possibile. Nasce una figlia subito affidata ai nonni perché Thérèse gestisce la carriera del famoso pianista e lo segue nelle sue tournées, in particolare a Londra. Gravi difficoltà economiche tuttavia costringono Herz a lunghe tournées negli Stati Uniti, durante una delle quali, la famiglia di Herz ne approfitta per liberarsi di lei. Così deve ricominciare. Lascia Parigi in subbuglio, poco propizia ai ricchi banchieri e, con il guardaroba elegante che le presta un’amica, emigra a Londra (184648) in cerca di fortuna. Al Covent Garden incontra Lord Stanley3, a cui seguiranno altri ricchi protettori e infine, nel 1848 rientra a Parigi riprendendo il suo ruolo. Nel periplo estivo delle città termali, a Baden, conosce il marchese Albino Francisco di Païva-Araujo, un nobile portoghese, che la sposerà il 5 giugno 1851 dandole finalmente un titolo e un nome rispettabile … per quanto possibile. Il matrimonio è solo un mezzo per salire di un gradino nel demi-monde parigino, il marchese, troppo dedito al gioco, viene rispedito in Portogallo. Esther/Thérèse diventa ufficialmente La Païva, si stabilisce in un lussuoso appartamento di place Saint Georges e continua la sua vita di cortigiana sempre più celebre. Tra tanti amici facoltosi, cattura finalmente la grande preda: Guido Henckel von Donnersmarck il ricchissimo signore delle miniere di zinco della Silesia di 11 anni più giovane. Henckel la ricopre di gioielli4, acquista per lei, nel 1857, il castello di Pontchartrain e, dal 1856 al 1865, farà costruire da Paul Manguin al numero 25 degli Champs-Elysées il famosissimo hôtel. È la consacrazione definitiva, il salotto della Païva è frequentato da numerosi intellettuali ed influenti uomini politici (Gautier, Taine, SainteBeuve, Jules e Edmond de Goncourt, Gramont, Gambetta). Si intuisce però che sia ben più importante come snodo informale della diplomazia e finanza internazionali, in un momento molto delicato in cui cresce la tensione tra la Francia e la Prussia. Se la marchesa avesse potuto leggere quello che i fratelli Goncourt annotavano nel loro diario una volta usciti da casa sua, li avrebbe ricevuti meno di frequente, anche se non era certo il sarcasmo a spaventarla. Comunque le velenose pagine del loro Journal sono forse la relazione più esauriente della sua leggenda sulfurea e trionfale 5 nonché la guida più attenta e meticolosa del suo tanto celebrato hôtel. 3 Sul luogo e sul personaggio ci sono diverse versioni il famoso diamante giallo, la Païva, recentemente venduto a Ginevra. 5 Ė curioso notare come nella supposta storia della sua vita che i Goncourt riferiscono (Edmond et Jules de Goncourt, Journal, I-III, R. Laffont, coll. «Bouquins», Paris, 1989, I, pp 1011-1012) la Païva riprenda l’episodio del convento e della conversione di Esther. Inoltre nel racconto del suo passaggio a Londra parla di una fiala di laudanum con cui pensava di farla finita al rientro da una serata a teatro (cf ibid. I, p. 438). 4 Venerdì 24 maggio 1867 « Gautier, in questo momento maestro di casa, ci presenta alla celebre Païva nel suo leggendario hôtel degli Champs-Elysées. Ci riceve in una piccola serra. Un’attempata cortigiana tinta e ritinta, un’aria da attrice di provincia, con sorriso e capelli falsi. Prendiamo il thè nella sala da pranzo che, con tutto il suo lusso e il sovraccarico del suo cattivo gusto neo-rinascimento, assomiglia soltanto ad una opulenta saletta privata di un grande ristorante, una saletta dei “Provençaux”, nonostante il costo (esorbitante) dei suoi marmi, boiseries, smalti, dipinti, candelabri d’argento massiccio, pagati dal Prussiano in carica lì presente. […] Cade su questa tavola sovraccarica di cristalli, incendiata dalla luce dei lampadari, il freddo, terribile, caratteristico delle case di puttane che fanno le signore di mondo e quella sorta di “Mane, Tece, Feres”, di noia e disagio che, nei palazzi della prostituzione, nei Louvres della mona, gela la naturalezza e lo spirito della gente che li frequenta. Venerdì 31 maggio 1867 […] Entriamo in questo famoso salotto che non vale tutto quel che se ne dice, nel bel mezzo di questi dipinti eseguiti o ancora da eseguire, destinati a rappresentare la ricchezza della cortigiana, cominciando da Cleopatra per finire con la padrona di casa che profonde monete d’oro ai poveri d’Egitto. E in tutta questa ricchezza, una sola cosa d’arte, il soffitto di Baudry. Un seminato di dei, un po’ slegato, un Olimpo disfatto, ma di una distinzione di colorito deliziosa, al cui centro si leva una Venere appoggiata sulla sua bella gamba sinistra, che è, in una ridente apoteosi di carne veronesiana, il più adorabile studio accademico. Il resto, il sogno di un tappezziere, senza un pezzetto di passato, senza un mobile, una statua, un quadro, che salvi la casa dalla noia prevedibile del nuovo e vi metta l’interesse e il pungolo della storia. Passiamo in sala da pranzo e ceniamo . Comincia l’esibizione del centrotavola, siamo al volgare e borghese invito senza gusto, senza pudore ad ammirare tutto ciò, ad ammirare sempre. Non si dice il prezzo, ma si dice che dal tal artigiano costerebbe 80 000 franchi. E bisogna che ognuno, le mani sul collo sputi la sua ammirazione e i suoi complimenti. E i complimenti, per quanto esagerati, non bastano ancora. Saint-Victor è incontenibile, sul talento del banale scultore di tutto questo, Carrier-Belleuse, questo chincagliere imitatore del XVIII secolo, che non ha fatto altro che rifare del falso Clodion. Si vanta di avergli fatto avere quest’anno la medaglia per la scultura e s’indigna che il decoratore della casa in cui cena non abbia ancora avuto la Legion d’onore La cena è buona e ordinaria, senza nulla di quel che dovrebbe sorprendere lo stomaco alla tavola di una cortigiana. Mi accorgo, a proposito del servizio di Saxe in cui siamo serviti, che tutti i piatti sono fondine, sono soltanto i piatti per la minestra di un grande servizio. Tutto il lusso di questa casa mi sembra un po’ come questi piatti. Osservo e scruto la donna. Una carnagione bianca, delle braccia, delle spalle che dietro si mostrano fino alle reni; delle spalline che reggono appena e nascondono per metà le ascelle; dei begli occhi tondi sporgenti, un naso a pera con la punta schiacciata, le narici pesanti; la bocca senza espressione, una riga dritta di rossetto nel viso bianchissimo di cipria. E, in tutto questo, delle rughe che la luce in tutto questo pallore, fa sembrare nere ; e ad ogni lato della bocca un profondo solco a ferro di cavallo che si prolunga sotto il mento tagliandolo d’una gran piega di vecchiaia. Una faccia che, sotto il viso di una cortigiana ancora in età di esercitare, dimostra cent’anni e così talvolta assume un non so che terribile di morta imbellettata E tutta la cena, un dialogo con il suo architetto o col suo conte, è uno stupirsi di osanna sul suo hotel e tutte le cose che contiene. Dopo il caffè, ci sediamo in un piccolo giardino, murato, senz’alberi, disegnato come un arazzo, costruito come un giardino pompeiano, in cui arrivano gli sbuffi sonori della musica del Bal Mabille, le quadriglie della prostituzione ancora senza carrozza che si prostra ai piedi della puttana che si 6 vanta di avere mille franchi al giorno d’affitto a Parigi e altri mille a Pontchartrain […] Nel 1871 il matrimonio con il marchese di Païva viene annullato e Esther/Thérèse Lachmann, Villoing, Païva, il 28 ottobre sposa Henckel Von Donnersmarck. Nel 1877 però pare che i coniugi vengano pressantemente invitati ad andarsene dal governo francese che li sospetta di spionaggio; in ogni caso si trasferiscono nel castello di Neudeck in Silesia dove l’inaffondabile marchesa morirà nel 1884. Una leggenda vuole che l’inorridita seconda moglie di Von Donnersmarck ne abbia trovato la salma immersa nella formalina dentro una bara di cristallo. Comunque l’incauta si sarà ripresa, il troppo affettuoso vedovo non era Barbablù, oltre a cederle i gioielli che aveva regalato alla prima moglie acquistò per lei il famoso diadema di smeraldi dell’imperatrice Eugenia. Forse però la nuova moglie non sapeva che i gioielli dell’ex imperatrice erano il pallino della Païva che aveva cercato di ricomprare tutti i pezzi più importanti via via che venivano messi in vendita. Bibliografia - 6 Honoré de Balzac, La Comédie Humaine, Etudes des mœurs, Scènes de la vie parisienne, Splendeurs et misères des courtisanes, Gallimard, coll. La Pléiade, t. VI, Paris, 1977. Edmond et Jules de Goncourt, Journal, I-III, R. Laffont, coll. «Bouquins», Paris, 1989. Joanna Richardson, The Courtesans: The Demi-Monde in 19th-Century France, pp. 50–66. London: Phoenix Press, 2000 Edmond et Jules de Goncourt, Journal, I-III R. Laffont, coll. «Bouquins», t. II. pp.84 e 87-88, traduzione dell’autore