FIGURE DI TRANSIZIONE: VIE DELLA CREAZIONE DELL
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FIGURE DI TRANSIZIONE: VIE DELLA CREAZIONE DELL
BÉLA HOFFMANN FIGURE DI TRANSIZIONE: VIE DELLA CREAZIONE DELL’IMMAGINE POETICA NELLE LIRICHE DI GIACOMO LEOPARDI Il testo poetico rappresenta anche il processo in cui si crea il significato Una delle caratteristiche dominanti del linguaggio poetico del Leopardi – secondo la concezione di base del nostro saggio – va cercata nelle figure di transizione. Del resto, non è solo la problematica della transizione come procedimento centrale dell’organizzazione linguistica delle poesie a spingerci a compiere un’analisi testuale particolareggiata, per giungere ad un’interpretazione che si basi su quest’analisi: è ben noto come a questo tema venga dedicato uno spazio nient’affatto trascurabile nelle opere teoriche del Leopardi stesso, concernenti questioni estetiche, poetiche e filosofiche. In questo saggio la questione verrà sottoposta ad un’analisi che partendo dall’organizzazione linguistica delle poesie e dalla visione ontologica esplicitata da questa stessa analisi, non tralascerà di sottolineare coincidenze e differenze tra la prassi poetica e la teoria. Creazione dell’immagine/I. Ossimoro e chiasmo Quando nel suo Zibaldone Leopardi cerca di intuire e concepire le fonti della felicità, del piacere e della bellezza, di tanto in tanto si rivolge – ed arriva – alle esperienze sensitive, anzi piuttosto ad esperienze uditive e visive. Secondo le sue osservazioni, la poeticità dell’esperienza sensitiva si manifesta con una forza specifica nei casi in cui non si può prendere completamente possesso di quanto udito e di quanto visto: è dunque l’indeterminatezza o indefinitezza ad offrire a ciò un ruolo esteticamente principale (Leopardi 1997:229). È opinione del recanatese che il canto si debba ritenere poetico e bello quando si manifesta nella sua evanescenza, insomma come qualcosa che sta morendo, mentre una visione è bella quando si presenta come un qualcosa che viene filtrato da una luce 235 pallida o, in parole povere, quando ci pone di fronte ad un’immagine priva di contorni. Quest’esperienza viene caratterizzata dal modo in cui il fenomeno, l’essente stesso vengono colti e nominati nel loro stato di transizione. Ma perché il soggetto, il ricevente, vale a dire l’ascoltatore e spettatore del fenomeno, possa percepire il fenomeno stesso come qualcosa di esteticamente bello, dovrà egli stesso avviarsi sul „sentiero della lingua”, poiché l’esperienza potrà spostarsi nella direzione dell’impalpabile solo grazie al suo udito interiore e alla sua vista, acquisendo così veramente un significato che riguardi l’essere stesso dell’esistente, grazie alla forza della fantasia creativa e della poesia. Il presupposto che il fenomeno non abbia carattere puntuale, che sia transitorio e perpetuamente in fieri, cosa che avrebbe poi costituito uno degli elementi fondamentali del mondo poetico leopardiano, del bello come fonte del piacere, sarebbe stato formulato nella sua teoria poetica nel senso in cui un fenomeno, preso in se stesso, non può essere poetico. Potrà divenirlo solo grazie al ricordo o alla fantasia; a tutte e due le forme sono propri i momenti dell’indefinitezza e dell’indeterminatezza, e anche l’interpretazione e la valutazione del fenomeno vengono offerte partendo da questi due momenti. Questa teoria, in certi casi, viene sottolineata dalla prassi poetica al livello stesso della dichiarazione, vale a dire che la poesia, in quanto dichiarazione, non solo illustra ma anche, in misura minore o maggiore, tematizza la teoria poetica: Nella mia prima età, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’ egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core. (La sera del dì di festa, vv.40-46)1 1 I brani delle liriche leopardiane riportati nel presente saggio sono tratti da Contini 1997. 236 Mentre nella visione dell’essere che deduciamo dai suoi scritti teorici, Leopardi allontana dal presente, a livello filosofico, la fonte del piacere (Leopardi 1997:1166), nel piacere della poesia questa distanza – come si vedrà – sarà creata dalle soluzioni formali del linguaggio poetico. Possiamo considerare modello dell’ineffabile il componimento A Silvia, nel quale ci troviamo di fronte al momento della tematizzazione – e non solo. In questa lirica la transizione, l’impossibilità della realizzazione dell’impadronimento e il carattere paradossale dell’incessante desiderio che si realizzi, fanno sentire la loro voce mediante la costruzione vita mortale, che respinge una contrapposizione di vita e morte, ma coglie la vita come qualcosa che è sempre in via di estinzione. Lo sguardo della ragazzina, con quegli occhi al tempo stesso ridenti e fuggitivi, pieni di gioia e di sottintesa preoccupazione, corrisponde nella poesia all’intrecciarsi di vita e di morte (vita mortale), al ritrovarsi reciproco dell’una nell’altra (vita: ridenti, lieti – morte: fuggitivi, pensosa). La ”teoria dell’essere” che si articola sul livello linguistico della poesia, si manifesta dunque tramite le due figure par excellence della contrapposizione e della reciprocità, le figure dell’ossimoro e del chiasmo: Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? (A Silvia, vv. 1-6) Possiamo constatare inoltre che questa duplice e differenziata unione di contrari, in cui si presenta il paradosso dell’essere dell’esistente, corrisponde alle stesse esigenze che il Leopardi riscontra – a livello teorico – per le proprietà della parola poetica, e cioè che essa deve incitare il lettore a riconoscere più connotazioni, ed a respingere al tempo stesso le esclusività di esse. Dunque, „la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel 237 loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti” (Leopardi 1997:464). In questo modo la parola poetica diventa base e fattore costituente della creazione delle immagini, vale a dire dei tropi. In relazione alla lirica A Silvia va dunque sottolineato che quanto nella teoria leopardiana si manifesta come uno dei criteri della poeticità e quale fonte del bello, si presenta al tempo stesso anche come caratteristica della sua visione dell’essere. Nella lingua poetica l’esistente si presenta a noi come qualcosa in via di estinzione, mentre altrove – come si vedrà – verrà avvertito come qualcosa che il ricordo conserva nel suo „stato passato”. Creazione dell’immagine/II. Il ritmo poetico come creatore di metafore È ben noto che nella visione pessimistica del mondo di Leopardi, accanto al suo umanesimo eroico convivono anche la coscienza del mondo da cui Dio è assente e quella del dolore proveniente dall’essere stesso, la cui caratteristica sta nel manifestare il tempo nel suo carattere completamente negativo, anche se in un primo momento pare che questo dolore abbia a che fare solo con il presente. Nella prassi poetica risulta però chiaro che il piacere di cui l’io lirico parla nei componimenti – creando immagini con l’aiuto di descrizioni – è sia il sentimento della gioia custodita dalle illusioni, dalle attese, cui il soggetto attinge dalla propria fantasia, mentre, sia il sentimento di gioia sperimentato una volta, sia pur di soppiatto, ma con un’indulgenza benevola, e che si ripete nella memoria: così che il cuore ricomincia a battere. Se nel primo caso, anziché vedere la fonte della gioia nella fantasia, la si scopre nel futuro, nell’ultima occorrenza, invece di sottolineare il ruolo della memoria, ci si abbandona al passato come fonte reale del piacere. È questa la domanda che ci pone Il sabato del villaggio: 238 La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell’erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando al dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Ch’ ebbe compagni dell’età più bella. (Il sabato del villaggio, vv. 1-15) Queste due specie di piacere trovano espressione nei primi undici versi della prima unità tematica della poesia. I momenti della loro distinzione sono ovvi: da una parte la giovinezza, dall’altra la vecchiaia, qui il lento tramonto che preannuncia il piacere del domani, ovvero della festa attesa con ansia, lì lo sguardo che si rivolge al tramonto frettoloso, quasi per accompagnare la vita che fugge (mentre il giorno denota il tempo della vita umana che possiamo quantificare, contare, piuttosto che il tema dell’astro al tramonto: la vecchierella vede dunque come svanisce un altro suo giorno: il gomitolo, il filo della vita si è accorciato nuovamente di un tratto), da questo lato l’attesa, da quello la rievocazione. Il verbo filar, oltre a presentarsi qui anch’esso come forma accorciata del verbo filare, non sta solo ad attivizzare il suo significato più frequente, cioè quello della filatura, ma ci suggerisce anche la ripresa del filo della rievocazione quale si articolerà nel discorso, e che davvero avrà luogo. Se però da una parte la ragazzina sta ancora vivendo in uno stato identico alla natura, obbedendo alle proprie leggi (si orna il petto e il crine di fiori della natura: di rose e viole), dall’altra è già l’illusione a fiorire nella sua fantasia, aspettando il dí della festa, i segreti dell’età adulta: ”Sedevi assai contenta/ Di quel vago avvenir che in mente avevi.” La viola non è più semplicemente un fiore, bensì la 239 metafora dell’attesa, se questo è il colore delle vesti cerimoniali del sacerdote – nella cultura cristiana – in occasione della festa dell’avvento. Le viole dunque sono il fiore del piacere che si avverte per l’avvenire: esso, destando in noi illusioni, ci stordisce e ci ubriaca grazie al suo profumo promettente, per poi – il giorno della festa – cadere ai piedi di chi ha oltrepassato la soglia, manifestandosi nei fiori avvizziti come illusioni ingannate. Questo fiore dell’attesa istituisce però al tempo stesso un parallelo tra la ragazzina e la vecchierella: oltre al fatto che la viola, per il suo colore, viene abitualmente regalata a donne non più tanto giovani, i due versi ”La donzelletta vien dalla campagna” e ”E novellando vien del suo buon tempo”, pur essendo distanti l’uno dall’altro, fanno corrispondere la figura della ragazza a quella della vecchia. La ricorrenza della parola vien crea un parallelo, e di conseguenza anche un rapporto semantico tra le due figure. Il ritorno poi del verbo vien nel verso in cui si descrive l’attività della vecchierella, porta con sé un cambiamento del significato della parola: nella costruzione con il gerundio il vien, respingendo il proprio significato assoluto (quello del verbo venire), passa a segnalare l’aspetto continuo del significato di un’altra parola, del novellare. In altri termini, il vien si arricchisce del contenuto semantico del ”raccontare”, del ”narrare”, del ”dire”, mentre il suo – diciamo così – significato primario (”venire”, ”avvicinarsi”) si presenta come la rievocazione del passato nel raccontare, come ripresa e mantenimento di esso nel narrare. Il processo del ”ricordare” si manifesta al lettore grazie ad una ”astuzia” poetico-linguistica – la metaforizzazione della parola vien –, che nell’altro elemento della metafora (novellando) non solo dimostra il tema della frase, della lingua, ovvero il carattere linguisticamente condizionato dell’inizio del ricordare (grazie alla struttura della figura semantica), ma addirittura lo fissa (con il significato della costruzione come dichiarazione). La metaforizzazione della parola vien può realizzarsi solo per la sua iterazione, il che rende sensibile il nuovo significato della parola. Il processo dello spostamento semantico e il significato nuovo (il narrare come venire, avvicinarsi, portarsi vicino), l’identità ritmica dei due versi in cui si incontra il vien, non fanno che metterlo 240 ancor di più in rilievo. L’avvicinarsi con un moto danzante e con l’allegria del canto della ragazzina, e quindi il ritmo nel verso, che ci rende visibile e udibile, diremmo in modo del tutto spontaneo, il suo stato d’animo felice, viene ricreato dal testo poetico come il discorso proprio della vecchierella. La parola poetica caratterizza il movimento fisico ed il discorso con ritmi del tutto identici. Le molte s rievocano a livello fonico ancora il tema del ballo, del fruscio degli abiti e dell’aria (snella, sana, sera, ma anche il leggiadro solea al posto di soleva). Le due immagini ci presentano l’esistente come separato dal tempo, differenziato, eppure nella sua unità. In altri termini, la metaforicità del ritmo crea un parallelo tra figure contrapposte. Grazie alla corrispondenza ritmica, il ritmo stesso della poesia prende parte al processo della metaforizzazione: il ritmo diventa metafora del discorso. La poesia, di conseguenza, riflette la funzione del ritmo poetico, di creare senso e testo. Siamo dunque di fronte alla manifestazione autopoetica del testo poetico. Creazione dell’immagine/III. Sostantivi derivati dall’infinito verbale Se interrogassimo i più appassionati lettori della poesia leopardiana sull’esistenza (o meno) di infiniti verbali nelle sue liriche, crediamo ricorderebbero soprattutto il naufragar che figura nell’ultimo verso dell’Infinito: E il naufragar m’è dolce in questo mare. Innanzitutto dobbiamo puntualizzare che il sostantivo derivato dall’infinito del verbo costituisce una specifica figura grammaticale, in cui vengono unite le caratteristiche contrapposte di due parti del discorso, vale a dire che è appunto essa a sottolineare in modo pregnante la semantica di transizione da noi analizzata. L’immagine piena di moto (il naufragar) che si presenta al lettore, sottolinea un eterno ”esser presente” nell’essere, e cioè che il morire fa parte della vita, è in essa contenuto. L’io lirico è in grado di rendere cosciente il processo ed il momento del dolce annientarsi: può riconoscere 241 l’essere suo nell’infinito nel senso del nulla, e riconosce nel suo essere il nulla stesso. L’io sarebbe sempre pronto a rivivere quest’esperienza: si abbandonerebbe all’esperienza rivivibile dell’essere che si ritrova nell’altro essere. E il senso di quest’esperienza sta nel fatto che l’identità esprime anche le differenze contemporanee delle cose. L’io lirico non si interessa delle conseguenze, cioè del passaggio dell’io da uno stato in un altro, bensì viene scosso dall’aver riconosciuto che questi due stati sono solo il risultato del suo stesso pensiero, mentre tra di essi, ontologicamente, vige la legge dell’identità-diversità contemporanea. Ciò vuol dire che la transizione eterna ed estremamente paradossale per il pensiero gli si presenta come la legge reale dell’essere. La sensazione dell’immersione sorge in fondo dal fatto che l’io rende consapevole per un momento la sua eterna ”internità”. Vale a dire che il sentimento dell’immergersi dato dal pensiero e dal suo fallimento, appartiene all’epistemologia, mentre la comprensione del suo esservi dentro appartiene già alla sfera ontologica. L’induzione della consapevolezza come atto mentalelinguistico ingenera la sensazione di esser trasportati da un luogo all’altro, mentre viene a negarla il chiaro riconoscimento che sia necessario parlare sempre di un essere che vive l’unità nella diversità. La dolcezza dell’esperienza proviene dal riconoscere di esserci sentiti come a casa propria, pur senza essercene accorti. Le immagini richiamate dal naufragio come risultato (la nave in fondo al mare) e dal naufragar come sostantivo in grado di esprimere la continuità perenne del processo (la nave colta nel processo del suo immergersi) sono contrapposte: nella prima da uno stato si è arrivati in un altro, mentre nella seconda siamo rimasti sempre dentro. A dirla con più precisione, siamo rimasti dentro reciprocamente. Leopardi, per quel che concerne l’esigenza metrica del verso, avrebbe potuto scegliere anche il sostantivo naufragio. Ma il naufragar è in grado di rendere ancor più impetuoso il verso ascendente, il momento del risveglio, il volo libero di quest’animo entusiastico, ponendo l’accento sulla quarta sillaba anziché sulla terza, per evitare di farne una dichiarazione emozionalmente riservata, un semplice prenderne atto. Il verbo sostantivato naufragar, con la mancanza del fonema finale e 242 crea un’accumulazione fortissima di accenti (naufragar m’è dolce), così che nel pronunciare la costruzione la voce del lettore si fa trafelata, rimanendo del resto in armonia perfetta con la tematica e la dichiarazione del penultimo verso della poesia (s’annega il pensier mio). Inoltre, se per evitare il verbo all’infinito si usano il troncamento della desinenza -are e l’articolo deteminativo, nel sostantivo mare, grazie alla presenza dei fonemi are, il moto ritenuto già perduto si manifesta, e per giunta dichiarando come il cambiamento stesso sia l’unica cosa stabile, e che il finito e l’infinito fanno parte l’uno dell’altro, mutuamente, con il loro essere l’uno dentro l’altro. Vale a dire che un morfema, un gruppo di suoni – non solo intere parole – possono diventare nel linguaggio poetico fattori capaci di partorire metafore e di assumere un significato duplice. Il punto di partenza della metaforicità linguistica sta nel fatto che nell’italiano l’infinito, accanto al suo significato di interminato, assume anche quello dell’infinito sostantivato. Ciononostante, tutte le forme sostantivate potranno avere un valore semantico solo se in grado di incorporarsi nell’unità artistica dell’opera, anche se anticipatamente si presentano differenze di significato tra le soluzioni delle stesse parti del discorso. Possiamo per esempio considerare il senso testuale che emerge in relazione all’esistente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove i sostantivi derivati dall’infinito si accaniscono addirittura sul lettore: Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 61-68) 243 Qui, nella figura della gradazione, ci troviamo di fronte alla descrizione di uno stato ontologico. Questo stato viene descritto dal poeta non con una serie di sostantivi o di fatti (viver terreno), bensì tramite la sostantivazione dei verbi. Ad ogni parola se ne sovrappone un’altra: la loro caratteristica semantica è il dolore. Tutte queste parole – ad eccezione di viver – hanno un accento finale, quasi fossero delle grida che salgono quasi fino al punto supremo – e finale –, formato spesso dalla prima sillaba della parola seguente. In seguito alla comune caratteristica semantica (sofferenza) e alla figura della gradazione le parole non solo corrispondono al viver terreno, ma lo qualificano addirittura, vale a dire che lo riconsiderano, presentandolo nella sua negatività, come non-essere. Partendo da questo punto ci sentiamo di condividere la posizione di Severino, secondo cui nella filosofia leopardiana ”tutto è nulla; tutto ciò che esiste è nihil negativum perché è un effimero emergere dalla assoluta negatività del nulla” (Severino 1990:343). A tutto questo va però aggiunto che mentre questa posizione filosofica si presenta spesso negli scritti teorici come dichiarazione immediata, nel linguaggio poetico essa si realizza sempre a livello poetico-linguistico. Di conseguenza, il significato creato dalla e nella metafora della lingua poetica mai potrà essere completamente coerente con quello dichiarato negli scritti teorici. I processi linguistici che nel testo poetico creano significati – alcuni tipi dei quali sono sottoposti ad analisi in questo saggio – creano sempre un significato specifico e precedentemente sconosciuto, cioè di qualità nuova: essi portano a termine il rinnovamento del significato (Ricoeur 1995:93-94). Ciò è possibile esclusivamente in quanto il testo poetico non solo ”fissa” il nuovo significato, ma manifesta, rappresenta anche il processo in cui si crea il significato. Si può dunque dedurre che quando nei suoi scritti teorici Leopardi segnala l’indeterminatezza e la transizione come caratteristiche di fondo sia dell’immagine poetica (tropo) che dell’essere e dell’esistente, in verità si riferisce alle leggi generiche del funzionamento del linguaggio poetico. 244 Creazione di immagini /IV. L’enjambement Ciò che, a seconda della visione del mondo, caratterizza la legge paradossale dell’essere (interminati/spazi), vale a dire ciò in cui l’esistente è dato nella duplice unità differenziata dell’infinito e del finito, esige dal punto di vista poetico l’accento della transizione. In altri termini, il mondo linguistico della poesia, mediante la creazione delle immagini – e in questo caso anche con il dominio del verso sopra la sintassi – supera la verità ”composta”, ovvero non semplice, che si manifesta passo dopo passo per mezzo della lingua astratta analitica e sintetica, quando tende a comprendere l’essere. Nella figura linguistica degli interminati spazi il verso articola poeticamente e rende accessibile il pensiero filosofico secondo cui l’infinito fa parte del finito e il finito stesso pure è parte dell’infinito. Il plurale dello spazio rappresenta anche lo spazio infinito come qualcosa che consta di elementi finiti. L’enjambement dimostra anche visualmente la differenziabilità dell’infinito e del finito entro la loro duplice unità. D’altra parte è ben noto come nelle sue osservazioni teoriche il Leopardi considerasse l’infinito un risultato del pensiero umano, della fantasia stessa, e come tale realmente non esistente: non esistente poiché la cosa, l’esistente, a giudicare dall’esperienza umana, dispone di propri limiti. Così l’infinito non deve essere altro che un’idea, immaginazione e non realtà. In altri termini, l’infinito è la negazione dell’essere, dato che soltanto il niente non dispone di limiti (cfr. Leopardi 1997:1097-98). Ecco che questo nulla, nella poesia, da una parte si presenta davvero come un nulla creato dalla fantasia dell’io lirico, in armonia con il pensiero filosofico del Leopardi, mentre dall’altra ci appare non solo come risultato del pensiero, ma come esistente poetico-linguistico. Ci troviamo perciò di fronte ad un’interpretazione della problematica dell’infinito e del finito, nella data immagine, quale è stata creata non da una voce che possiamo riferire ad un parlante concreto, bensì dall’enjambement. Questa figura linguistica riscrive e modifica la concezione leopardiana in cui l’esistente viene considerato esclusivamente come finito. L’enjambement trova la sua ragione di essere in quanto forza creatrice del 245 senso. La parola poetica rende chiara la comprensione leopardiana – di stampo ontologico – del mondo: le sue poesie ci mostrano la morte e il nulla come parte costituente dell’essere, umano e non umano. Il poeta è in grado di superare il sentimento soffocante del nulla in modo che questo nulla lo riconosca come qualcosa che è continuamente e nascostamente presente, e che lo rende vivente nella sua visione del mondo, quasi preannunciando le conclusioni di Heidegger (cfr. Ferrucci 1990). Leopardi non solo parla nelle sue liriche di questo carattere di transizione, ma lo dimostra anche nel loro organizzarsi linguisticamente, e cioè nelle figure di transizione, risemantizzando al tempo stesso i significati offerti dalla sua riflessione concettuale. Bibliografia Contini 1997 G. Contini, Antologia leopardiana, Firenze Ferrucci 1990 C. Ferrucci, “La poesia di Leopardi tra primato dell’esistenza ed esperienza del nulla”, Testo, n. 19, pp. 134-144 Leopardi 1997 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Milano Ricoeur 1995 P. Ricoeur, Bibliai hermeneutika (tit. orig.: Essay on Biblical Hermeneutics), Budapest Severino 1990 E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica, Milano 246