FIGURE DI TRANSIZIONE: VIE DELLA CREAZIONE DELL

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FIGURE DI TRANSIZIONE: VIE DELLA CREAZIONE DELL
BÉLA HOFFMANN
FIGURE DI TRANSIZIONE:
VIE DELLA CREAZIONE DELL’IMMAGINE POETICA
NELLE LIRICHE DI GIACOMO LEOPARDI
Il testo poetico rappresenta anche il
processo in cui si crea il significato
Una delle caratteristiche dominanti del linguaggio poetico del Leopardi –
secondo la concezione di base del nostro saggio – va cercata nelle figure di
transizione. Del resto, non è solo la problematica della transizione come
procedimento centrale dell’organizzazione linguistica delle poesie a
spingerci a compiere un’analisi testuale particolareggiata, per giungere
ad un’interpretazione che si basi su quest’analisi: è ben noto come a
questo tema venga dedicato uno spazio nient’affatto trascurabile nelle
opere teoriche del Leopardi stesso, concernenti questioni estetiche,
poetiche e filosofiche. In questo saggio la questione verrà sottoposta ad
un’analisi che partendo dall’organizzazione linguistica delle poesie e
dalla visione ontologica esplicitata da questa stessa analisi, non tralascerà
di sottolineare coincidenze e differenze tra la prassi poetica e la teoria.
Creazione dell’immagine/I. Ossimoro e chiasmo
Quando nel suo Zibaldone Leopardi cerca di intuire e concepire le fonti
della felicità, del piacere e della bellezza, di tanto in tanto si rivolge – ed
arriva – alle esperienze sensitive, anzi piuttosto ad esperienze uditive e
visive. Secondo le sue osservazioni, la poeticità dell’esperienza sensitiva
si manifesta con una forza specifica nei casi in cui non si può prendere
completamente possesso di quanto udito e di quanto visto: è dunque
l’indeterminatezza o indefinitezza ad offrire a ciò un ruolo esteticamente
principale (Leopardi 1997:229). È opinione del recanatese che il canto si
debba ritenere poetico e bello quando si manifesta nella sua evanescenza,
insomma come qualcosa che sta morendo, mentre una visione è bella
quando si presenta come un qualcosa che viene filtrato da una luce
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pallida o, in parole povere, quando ci pone di fronte ad un’immagine
priva di contorni. Quest’esperienza viene caratterizzata dal modo in cui il
fenomeno, l’essente stesso vengono colti e nominati nel loro stato di
transizione. Ma perché il soggetto, il ricevente, vale a dire l’ascoltatore e
spettatore del fenomeno, possa percepire il fenomeno stesso come
qualcosa di esteticamente bello, dovrà egli stesso avviarsi sul „sentiero
della lingua”, poiché l’esperienza potrà spostarsi nella direzione
dell’impalpabile solo grazie al suo udito interiore e alla sua vista,
acquisendo così veramente un significato che riguardi l’essere stesso
dell’esistente, grazie alla forza della fantasia creativa e della poesia. Il
presupposto che il fenomeno non abbia carattere puntuale, che sia
transitorio e perpetuamente in fieri, cosa che avrebbe poi costituito uno
degli elementi fondamentali del mondo poetico leopardiano, del bello
come fonte del piacere, sarebbe stato formulato nella sua teoria poetica
nel senso in cui un fenomeno, preso in se stesso, non può essere poetico. Potrà
divenirlo solo grazie al ricordo o alla fantasia; a tutte e due le forme sono
propri i momenti dell’indefinitezza e dell’indeterminatezza, e anche
l’interpretazione e la valutazione del fenomeno vengono offerte partendo
da questi due momenti. Questa teoria, in certi casi, viene sottolineata
dalla prassi poetica al livello stesso della dichiarazione, vale a dire che la
poesia, in quanto dichiarazione, non solo illustra ma anche, in misura
minore o maggiore, tematizza la teoria poetica:
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’ egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
(La sera del dì di festa, vv.40-46)1
1 I brani delle liriche leopardiane riportati nel presente saggio sono tratti da Contini
1997.
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Mentre nella visione dell’essere che deduciamo dai suoi scritti
teorici, Leopardi allontana dal presente, a livello filosofico, la fonte
del piacere (Leopardi 1997:1166), nel piacere della poesia questa
distanza – come si vedrà – sarà creata dalle soluzioni formali del
linguaggio poetico. Possiamo considerare modello dell’ineffabile il
componimento A Silvia, nel quale ci troviamo di fronte al momento
della tematizzazione – e non solo. In questa lirica la transizione,
l’impossibilità della realizzazione dell’impadronimento e il carattere
paradossale dell’incessante desiderio che si realizzi, fanno sentire la
loro voce mediante la costruzione vita mortale, che respinge una
contrapposizione di vita e morte, ma coglie la vita come qualcosa che
è sempre in via di estinzione. Lo sguardo della ragazzina, con quegli
occhi al tempo stesso ridenti e fuggitivi, pieni di gioia e di sottintesa
preoccupazione, corrisponde nella poesia all’intrecciarsi di vita e di
morte (vita mortale), al ritrovarsi reciproco dell’una nell’altra (vita:
ridenti, lieti – morte: fuggitivi, pensosa). La ”teoria dell’essere” che si
articola sul livello linguistico della poesia, si manifesta dunque
tramite le due figure par excellence della contrapposizione e della
reciprocità, le figure dell’ossimoro e del chiasmo:
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
(A Silvia, vv. 1-6)
Possiamo constatare inoltre che questa duplice e differenziata
unione di contrari, in cui si presenta il paradosso dell’essere
dell’esistente, corrisponde alle stesse esigenze che il Leopardi riscontra
– a livello teorico – per le proprietà della parola poetica, e cioè che
essa deve incitare il lettore a riconoscere più connotazioni, ed a
respingere al tempo stesso le esclusività di esse. Dunque, „la bellezza
del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel
fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel
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loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle
parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti e
legata con molte idee concomitanti” (Leopardi 1997:464). In questo
modo la parola poetica diventa base e fattore costituente della
creazione delle immagini, vale a dire dei tropi. In relazione alla lirica
A Silvia va dunque sottolineato che quanto nella teoria leopardiana si
manifesta come uno dei criteri della poeticità e quale fonte del bello, si
presenta al tempo stesso anche come caratteristica della sua visione
dell’essere. Nella lingua poetica l’esistente si presenta a noi come
qualcosa in via di estinzione, mentre altrove – come si vedrà – verrà
avvertito come qualcosa che il ricordo conserva nel suo „stato
passato”.
Creazione dell’immagine/II. Il ritmo poetico come creatore di metafore
È ben noto che nella visione pessimistica del mondo di Leopardi,
accanto al suo umanesimo eroico convivono anche la coscienza del
mondo da cui Dio è assente e quella del dolore proveniente
dall’essere stesso, la cui caratteristica sta nel manifestare il tempo nel
suo carattere completamente negativo, anche se in un primo
momento pare che questo dolore abbia a che fare solo con il presente.
Nella prassi poetica risulta però chiaro che il piacere di cui l’io lirico
parla nei componimenti – creando immagini con l’aiuto di descrizioni
– è sia il sentimento della gioia custodita dalle illusioni, dalle attese,
cui il soggetto attinge dalla propria fantasia, mentre, sia il sentimento
di gioia sperimentato una volta, sia pur di soppiatto, ma con
un’indulgenza benevola, e che si ripete nella memoria: così che il
cuore ricomincia a battere. Se nel primo caso, anziché vedere la fonte
della gioia nella fantasia, la si scopre nel futuro, nell’ultima
occorrenza, invece di sottolineare il ruolo della memoria, ci si
abbandona al passato come fonte reale del piacere. È questa la
domanda che ci pone Il sabato del villaggio:
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La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando al dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Ch’ ebbe compagni dell’età più bella.
(Il sabato del villaggio, vv. 1-15)
Queste due specie di piacere trovano espressione nei primi undici
versi della prima unità tematica della poesia. I momenti della loro
distinzione sono ovvi: da una parte la giovinezza, dall’altra la
vecchiaia, qui il lento tramonto che preannuncia il piacere del
domani, ovvero della festa attesa con ansia, lì lo sguardo che si
rivolge al tramonto frettoloso, quasi per accompagnare la vita che
fugge (mentre il giorno denota il tempo della vita umana che
possiamo quantificare, contare, piuttosto che il tema dell’astro al
tramonto: la vecchierella vede dunque come svanisce un altro suo
giorno: il gomitolo, il filo della vita si è accorciato nuovamente di un
tratto), da questo lato l’attesa, da quello la rievocazione. Il verbo filar,
oltre a presentarsi qui anch’esso come forma accorciata del verbo filare,
non sta solo ad attivizzare il suo significato più frequente, cioè quello
della filatura, ma ci suggerisce anche la ripresa del filo della
rievocazione quale si articolerà nel discorso, e che davvero avrà
luogo. Se però da una parte la ragazzina sta ancora vivendo in uno
stato identico alla natura, obbedendo alle proprie leggi (si orna il
petto e il crine di fiori della natura: di rose e viole), dall’altra è già
l’illusione a fiorire nella sua fantasia, aspettando il dí della festa, i
segreti dell’età adulta: ”Sedevi assai contenta/ Di quel vago avvenir che in
mente avevi.” La viola non è più semplicemente un fiore, bensì la
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metafora dell’attesa, se questo è il colore delle vesti cerimoniali del
sacerdote – nella cultura cristiana – in occasione della festa
dell’avvento. Le viole dunque sono il fiore del piacere che si avverte
per l’avvenire: esso, destando in noi illusioni, ci stordisce e ci ubriaca
grazie al suo profumo promettente, per poi – il giorno della festa –
cadere ai piedi di chi ha oltrepassato la soglia, manifestandosi nei
fiori avvizziti come illusioni ingannate. Questo fiore dell’attesa
istituisce però al tempo stesso un parallelo tra la ragazzina e la
vecchierella: oltre al fatto che la viola, per il suo colore, viene
abitualmente regalata a donne non più tanto giovani, i due versi ”La
donzelletta vien dalla campagna” e ”E novellando vien del suo buon tempo”,
pur essendo distanti l’uno dall’altro, fanno corrispondere la figura
della ragazza a quella della vecchia. La ricorrenza della parola vien
crea un parallelo, e di conseguenza anche un rapporto semantico tra
le due figure. Il ritorno poi del verbo vien nel verso in cui si descrive
l’attività della vecchierella, porta con sé un cambiamento del significato
della parola: nella costruzione con il gerundio il vien, respingendo il
proprio significato assoluto (quello del verbo venire), passa a
segnalare l’aspetto continuo del significato di un’altra parola, del
novellare. In altri termini, il vien si arricchisce del contenuto semantico
del ”raccontare”, del ”narrare”, del ”dire”, mentre il suo – diciamo
così – significato primario (”venire”, ”avvicinarsi”) si presenta come
la rievocazione del passato nel raccontare, come ripresa e
mantenimento di esso nel narrare. Il processo del ”ricordare” si
manifesta al lettore grazie ad una ”astuzia” poetico-linguistica – la
metaforizzazione della parola vien –, che nell’altro elemento della
metafora (novellando) non solo dimostra il tema della frase, della
lingua, ovvero il carattere linguisticamente condizionato dell’inizio
del ricordare (grazie alla struttura della figura semantica), ma
addirittura lo fissa (con il significato della costruzione come
dichiarazione). La metaforizzazione della parola vien può realizzarsi
solo per la sua iterazione, il che rende sensibile il nuovo significato
della parola. Il processo dello spostamento semantico e il significato
nuovo (il narrare come venire, avvicinarsi, portarsi vicino), l’identità
ritmica dei due versi in cui si incontra il vien, non fanno che metterlo
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ancor di più in rilievo. L’avvicinarsi con un moto danzante e con
l’allegria del canto della ragazzina, e quindi il ritmo nel verso, che ci
rende visibile e udibile, diremmo in modo del tutto spontaneo, il suo
stato d’animo felice, viene ricreato dal testo poetico come il discorso
proprio della vecchierella. La parola poetica caratterizza il
movimento fisico ed il discorso con ritmi del tutto identici. Le molte s
rievocano a livello fonico ancora il tema del ballo, del fruscio degli
abiti e dell’aria (snella, sana, sera, ma anche il leggiadro solea al posto
di soleva). Le due immagini ci presentano l’esistente come separato
dal tempo, differenziato, eppure nella sua unità. In altri termini, la
metaforicità del ritmo crea un parallelo tra figure contrapposte.
Grazie alla corrispondenza ritmica, il ritmo stesso della poesia
prende parte al processo della metaforizzazione: il ritmo diventa
metafora del discorso. La poesia, di conseguenza, riflette la funzione del
ritmo poetico, di creare senso e testo. Siamo dunque di fronte alla
manifestazione autopoetica del testo poetico.
Creazione dell’immagine/III. Sostantivi derivati dall’infinito verbale
Se interrogassimo i più appassionati lettori della poesia leopardiana
sull’esistenza (o meno) di infiniti verbali nelle sue liriche, crediamo
ricorderebbero soprattutto il naufragar che figura nell’ultimo verso
dell’Infinito:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Innanzitutto dobbiamo puntualizzare che il sostantivo derivato
dall’infinito del verbo costituisce una specifica figura grammaticale,
in cui vengono unite le caratteristiche contrapposte di due parti del
discorso, vale a dire che è appunto essa a sottolineare in modo
pregnante la semantica di transizione da noi analizzata. L’immagine
piena di moto (il naufragar) che si presenta al lettore, sottolinea un
eterno ”esser presente” nell’essere, e cioè che il morire fa parte della
vita, è in essa contenuto. L’io lirico è in grado di rendere cosciente il
processo ed il momento del dolce annientarsi: può riconoscere
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l’essere suo nell’infinito nel senso del nulla, e riconosce nel suo essere
il nulla stesso. L’io sarebbe sempre pronto a rivivere quest’esperienza:
si abbandonerebbe all’esperienza rivivibile dell’essere che si ritrova
nell’altro essere. E il senso di quest’esperienza sta nel fatto che
l’identità esprime anche le differenze contemporanee delle cose. L’io
lirico non si interessa delle conseguenze, cioè del passaggio dell’io da
uno stato in un altro, bensì viene scosso dall’aver riconosciuto che
questi due stati sono solo il risultato del suo stesso pensiero, mentre
tra di essi, ontologicamente, vige la legge dell’identità-diversità
contemporanea. Ciò vuol dire che la transizione eterna ed
estremamente paradossale per il pensiero gli si presenta come la
legge reale dell’essere. La sensazione dell’immersione sorge in fondo
dal fatto che l’io rende consapevole per un momento la sua eterna
”internità”. Vale a dire che il sentimento dell’immergersi dato dal
pensiero e dal suo fallimento, appartiene all’epistemologia, mentre la
comprensione del suo esservi dentro appartiene già alla sfera
ontologica. L’induzione della consapevolezza come atto mentalelinguistico ingenera la sensazione di esser trasportati da un luogo
all’altro, mentre viene a negarla il chiaro riconoscimento che sia
necessario parlare sempre di un essere che vive l’unità nella diversità.
La dolcezza dell’esperienza proviene dal riconoscere di esserci sentiti come a
casa propria, pur senza essercene accorti.
Le immagini richiamate dal naufragio come risultato (la nave in
fondo al mare) e dal naufragar come sostantivo in grado di esprimere
la continuità perenne del processo (la nave colta nel processo del suo
immergersi) sono contrapposte: nella prima da uno stato si è arrivati
in un altro, mentre nella seconda siamo rimasti sempre dentro. A
dirla con più precisione, siamo rimasti dentro reciprocamente. Leopardi,
per quel che concerne l’esigenza metrica del verso, avrebbe potuto
scegliere anche il sostantivo naufragio. Ma il naufragar è in grado di
rendere ancor più impetuoso il verso ascendente, il momento del
risveglio, il volo libero di quest’animo entusiastico, ponendo l’accento
sulla quarta sillaba anziché sulla terza, per evitare di farne una
dichiarazione emozionalmente riservata, un semplice prenderne atto.
Il verbo sostantivato naufragar, con la mancanza del fonema finale e
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crea un’accumulazione fortissima di accenti (naufragar m’è dolce),
così che nel pronunciare la costruzione la voce del lettore si fa
trafelata, rimanendo del resto in armonia perfetta con la tematica e la
dichiarazione del penultimo verso della poesia (s’annega il pensier
mio). Inoltre, se per evitare il verbo all’infinito si usano il troncamento
della desinenza -are e l’articolo deteminativo, nel sostantivo mare,
grazie alla presenza dei fonemi are, il moto ritenuto già perduto si
manifesta, e per giunta dichiarando come il cambiamento stesso sia
l’unica cosa stabile, e che il finito e l’infinito fanno parte l’uno
dell’altro, mutuamente, con il loro essere l’uno dentro l’altro. Vale a
dire che un morfema, un gruppo di suoni – non solo intere parole –
possono diventare nel linguaggio poetico fattori capaci di partorire
metafore e di assumere un significato duplice. Il punto di partenza
della metaforicità linguistica sta nel fatto che nell’italiano l’infinito,
accanto al suo significato di interminato, assume anche quello
dell’infinito sostantivato.
Ciononostante, tutte le forme sostantivate potranno avere un
valore semantico solo se in grado di incorporarsi nell’unità artistica
dell’opera, anche se anticipatamente si presentano differenze di
significato tra le soluzioni delle stesse parti del discorso. Possiamo
per esempio considerare il senso testuale che emerge in relazione
all’esistente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove i
sostantivi derivati dall’infinito si accaniscono addirittura sul lettore:
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
(Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 61-68)
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Qui, nella figura della gradazione, ci troviamo di fronte alla
descrizione di uno stato ontologico. Questo stato viene descritto dal
poeta non con una serie di sostantivi o di fatti (viver terreno), bensì
tramite la sostantivazione dei verbi. Ad ogni parola se ne sovrappone
un’altra: la loro caratteristica semantica è il dolore. Tutte queste parole –
ad eccezione di viver – hanno un accento finale, quasi fossero delle grida
che salgono quasi fino al punto supremo – e finale –, formato spesso
dalla prima sillaba della parola seguente. In seguito alla comune
caratteristica semantica (sofferenza) e alla figura della gradazione le
parole non solo corrispondono al viver terreno, ma lo qualificano
addirittura, vale a dire che lo riconsiderano, presentandolo nella sua
negatività, come non-essere. Partendo da questo punto ci sentiamo di
condividere la posizione di Severino, secondo cui nella filosofia
leopardiana ”tutto è nulla; tutto ciò che esiste è nihil negativum perché è
un effimero emergere dalla assoluta negatività del nulla” (Severino
1990:343). A tutto questo va però aggiunto che mentre questa posizione
filosofica si presenta spesso negli scritti teorici come dichiarazione
immediata, nel linguaggio poetico essa si realizza sempre a livello
poetico-linguistico. Di conseguenza, il significato creato dalla e nella
metafora della lingua poetica mai potrà essere completamente coerente
con quello dichiarato negli scritti teorici. I processi linguistici che nel
testo poetico creano significati – alcuni tipi dei quali sono sottoposti ad
analisi in questo saggio – creano sempre un significato specifico e
precedentemente sconosciuto, cioè di qualità nuova: essi portano a
termine il rinnovamento del significato (Ricoeur 1995:93-94). Ciò è
possibile esclusivamente in quanto il testo poetico non solo ”fissa” il
nuovo significato, ma manifesta, rappresenta anche il processo in cui si crea
il significato. Si può dunque dedurre che quando nei suoi scritti teorici
Leopardi segnala l’indeterminatezza e la transizione come caratteristiche
di fondo sia dell’immagine poetica (tropo) che dell’essere e dell’esistente,
in verità si riferisce alle leggi generiche del funzionamento del linguaggio
poetico.
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Creazione di immagini /IV. L’enjambement
Ciò che, a seconda della visione del mondo, caratterizza la legge
paradossale dell’essere (interminati/spazi), vale a dire ciò in cui
l’esistente è dato nella duplice unità differenziata dell’infinito e del
finito, esige dal punto di vista poetico l’accento della transizione. In altri
termini, il mondo linguistico della poesia, mediante la creazione delle
immagini – e in questo caso anche con il dominio del verso sopra la
sintassi – supera la verità ”composta”, ovvero non semplice, che si
manifesta passo dopo passo per mezzo della lingua astratta analitica
e sintetica, quando tende a comprendere l’essere. Nella figura
linguistica degli interminati spazi il verso articola poeticamente e rende
accessibile il pensiero filosofico secondo cui l’infinito fa parte del
finito e il finito stesso pure è parte dell’infinito. Il plurale dello spazio
rappresenta anche lo spazio infinito come qualcosa che consta di
elementi finiti. L’enjambement dimostra anche visualmente la
differenziabilità dell’infinito e del finito entro la loro duplice unità.
D’altra parte è ben noto come nelle sue osservazioni teoriche il
Leopardi considerasse l’infinito un risultato del pensiero umano,
della fantasia stessa, e come tale realmente non esistente: non
esistente poiché la cosa, l’esistente, a giudicare dall’esperienza
umana, dispone di propri limiti. Così l’infinito non deve essere altro
che un’idea, immaginazione e non realtà. In altri termini, l’infinito è la
negazione dell’essere, dato che soltanto il niente non dispone di limiti
(cfr. Leopardi 1997:1097-98). Ecco che questo nulla, nella poesia, da
una parte si presenta davvero come un nulla creato dalla fantasia
dell’io lirico, in armonia con il pensiero filosofico del Leopardi,
mentre dall’altra ci appare non solo come risultato del pensiero, ma
come esistente poetico-linguistico. Ci troviamo perciò di fronte ad
un’interpretazione della problematica dell’infinito e del finito, nella
data immagine, quale è stata creata non da una voce che possiamo
riferire ad un parlante concreto, bensì dall’enjambement. Questa
figura linguistica riscrive e modifica la concezione leopardiana in cui
l’esistente viene considerato esclusivamente come finito.
L’enjambement trova la sua ragione di essere in quanto forza creatrice del
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senso. La parola poetica rende chiara la comprensione leopardiana –
di stampo ontologico – del mondo: le sue poesie ci mostrano la morte
e il nulla come parte costituente dell’essere, umano e non umano. Il
poeta è in grado di superare il sentimento soffocante del nulla in
modo che questo nulla lo riconosca come qualcosa che è
continuamente e nascostamente presente, e che lo rende vivente nella
sua visione del mondo, quasi preannunciando le conclusioni di
Heidegger (cfr. Ferrucci 1990).
Leopardi non solo parla nelle sue liriche di questo carattere di
transizione, ma lo dimostra anche nel loro organizzarsi
linguisticamente, e cioè nelle figure di transizione, risemantizzando al
tempo stesso i significati offerti dalla sua riflessione concettuale.
Bibliografia
Contini
1997
G. Contini, Antologia leopardiana, Firenze
Ferrucci
1990
C. Ferrucci, “La poesia di Leopardi tra primato
dell’esistenza ed esperienza del nulla”, Testo, n.
19, pp. 134-144
Leopardi
1997
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Milano
Ricoeur
1995
P. Ricoeur, Bibliai hermeneutika (tit. orig.: Essay on
Biblical Hermeneutics), Budapest
Severino
1990
E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età
della tecnica, Milano
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