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globalizzazione e industria
GLOBALIZZAZIONE E INDUSTRIA
Ricerca di Roberta Cassandro
Analizzare il fenomeno della globalizzazione è alquanto complicato, oltre che
per gli innumerevoli aspetti che ne sono coinvolti, anche perché si tratta di un
processo ancora in corso, rispetto al quale quindi, non abbiamo una distanza
tale da poterne cogliere tutte le problematiche e descriverne in modo esaustivo
cause e sviluppi; si tratta cioè di una tendenza ancora in atto che in quanto
tale ci coinvolge totalmente e ci rende partecipi di quel mutamento incessante
che la contraddistingue e che ci impedisce di giungere a delle spiegazioni che
siano conclusive o che ne diano conto in maniera puntuale e univoca.
In questo tentativo di mostrare i rapporti tra globalizzazione e industria però
non possiamo prescindere da un discorso che definisca, per quanto possibile, i
contorni di tale procedimento. La globalizzazione nella definizione dell’OCSE
(Organization for Economic Co-operation and Development) è quel “processo
attraverso cui mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più
dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi”, tale
precisazione ci permette di distinguere il termine globalizzazione, entrato in
uso nel 1981, da parole come globalismo, che è la visione per cui la
globalizzazione ha una dimensione solamente economica e lo stato deve
diventare minimale per permettere al mercato di autoregolarsi nel miglior
modo possibile, e globalità che indica, invece, la percezione di vivere in una
società globale.
In effetti la globalizzazione ha comportato un intensificarsi dei flussi di scambio
che in tutto il mondo riguardano persone, capitali, merci e idee modificando la
relazione tra le parti a tal punto che alcuni la considerano un cambiamento
epocale caratterizzato dalla sostituzione del vecchio complesso industriale e
politico e dalla nascita dell’omnipolis, la città-mondo.
In realtà le radici della globalizzazione devono essere ricercate nel percorso
storico che ha portato alla nascita della modernità e quindi alla società
industriale per arrivare alla società post-industriale, passando attraverso il
tumultuoso sviluppo economico degli anni ’70 che il potere politico non a
saputo controllare. Si è passati cioè da un contesto caratterizzato dalla
concentrazione imponente di masse di lavoratori salariati nelle fabbriche in cui
si andava realizzando una progressiva razionalizzazione del lavoro, che
comportava una divisione sociale e tecnica sempre più estesa e ramificata, con
la conseguente separazione tra famiglia e sistema professionale, da una
società in cui il settore industriale rappresentava l’asse portante dell’economia,
la cui produzione era coadiuvata dall’applicazione delle scoperte scientifiche
(determinando così un aumento della produzione di massa e del consumismo
insieme all’omogeneizzazione culturale, senza dimenticare il contemporaneo
fenomeno dell’urbanizzazione, l’aumento della mobilità geografica e sociale con
il conseguente conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, nonché l’assunzione di
una dimensione nazionale dei sistemi industriali e politici riconducibili agli Stati
nazionali), ad un contesto i cui il settore industriale è stato surclassato dalle
banche, dalle assicurazioni, ovvero dal cosiddetto settore quaternario, e
finanche dall’amministrazione pubblica, dall’istruzione e dai servizi per la salute
che fanno parte del settore quinario, cioè ad una situazione in cui le classi
medie e le tecnostrutture sono predominanti e la conoscenza scientifica e
tecnica è diventata una vera e propria forza produttiva1. Ciò è stato possibile
grazie alla perdita di importanza degli Stati nazionali causata anche da un
processo di liberalizzazione e privatizzazione delle forze economiche dai vincoli
imposti dal potere politico per cui prima viene la concorrenza e tutto ciò che a
questa è connesso e poi la società e la politica stessa, senza contare che,
mentre un tempo la produzione industriale consisteva in merci, capitali e mezzi
di produzione, oggi si produce soprattutto capacità di programmazione e
gestione di sistemi e conoscenza, sono tali qualità infatti che hanno permesso
lo sganciamento della produzione stessa e della ricchezza dai vincoli fisici,
spaziali ed economici. Come ha spiegato Rifkin, al centro degli scambi tra
operatori commerciali e consumatori non c’è più la proprietà dei beni ma
utilità, servizi e informazioni che essi sono in grado di produrre; queste utilità
vengono scambiate nello spazio virtuale senza risentire dell’ubicazione degli
operatori.
Tale cambiamento effettivamente, è stato determinato da alcuni passaggi
storici come:
1. L’abbandono del sistema di Bretton Woods;
2. Il crollo del bipolarismo est-ovest;
3. La crisi petrolifera del 1973-74 e la formazione del mercato degli
eurodollari;
4. Le massicce ondate migratorie e nel contempo il ripresentarsi di un
nazionalismo estremo;
uniti a fattori più strettamente economici come:
1. L’investimento negli anni ’70 in produzioni tecnologicamente avanzate e
innovative;
2. L’entrata in gioco del Giappone e dei NIC (New Industrialized Countries);
3. La dissociazione dell’economia finanziaria dall’economia reale.
Questo è stato possibile se consideriamo che proprio il crollo del bipolarismo
est-ovest ha decretato la definitiva espansione del capitalismo, non più
contrastato in maniera significativa da altri modelli economici. Anche il
capitalismo da allora, si è però modificato registrando, nelle imprese, una
presenza sempre maggiore di componenti finanziarie e commerciali a scapito di
quelle produttive, cioè da un modello orientato al consumo di massa si è
passati ad uno diretto nel senso dell’automazione spinta e dell’integrazione
produttiva, con la conseguente deindustrializzazione e delocalizzazione degli
impianti che hanno portato alla separazione fisica della produzione dal
consumo. Dal momento che la produzione ha sede in più luoghi
contemporaneamente è aumentata la difficoltà degli Stati di determinare la
nazionalità delle imprese ma anche di controllare i flussi finanziari attraverso la
leva fiscale, registrando così una perdita di entrate, anzi l’economia globale
spinge gli Stati a liberarsi delle proprietà che possono produrre profitti
attuandone la privatizzazione, cioè si trasformano entità nate come erogatrici
di servizi in aziende capitaliste che cercano profitti.
In realtà, il capitalismo che abbiamo appena descritto, è la semplificazione di
una struttura economica più articolata e diversificata tanto che si parla di
almeno due modelli capitalistici: quello anglosassone (che comprende le
varianti americana ed europea) e quello germanico-nipponico. Per capire in
cosa differiscono le suddette tipologie economiche, dobbiamo introdurre i
concetti di shareolders e stakeholders, i primi sono attori sociali capaci di
creare e distribuire valore in senso finanziario, sono gli azionisti per intenderci,
e sono in grado di assumere decisioni vincolanti a livello globale; i secondi
sono attori sociali che hanno in gioco nelle imprese dei valori non strettamente
riconducibili a quelli finanziari ma a dimensioni quali l’accesso a delle
opportunità, la tutela dell’ambiente, la prevenzione dai rischi sociali e politici,
la possibilità di riprodursi culturalmente e socialmente che come tali, subiscono
le conseguenze negative di decisioni che non hanno preso e di cui comunque
non ne godono i benefici, sono, per esempio, gli investitori, i dipendenti, i
clienti, i fornitori ma anche governi, comunità e generazioni future. Ciò detto,
nel modello anglosassone si registra una predominanza dell’importanza degli
shareolders intesi come emanazione del settore finanziario che esercita
un’azione vincolante sull’industria e sul commercio in quanto la borsa valori, il
mercato assicurativo e il mercato finanziario funzionano come mercati per il
controllo delle imprese, nel modello germano-nipponico, invece, sono gli
stakeholders a determinare le strategie d’impresa ovvero rispetto alla versione
anglosassone, in cui sono determinanti il potere e la libertà d’azione dei
proprietari e dei dirigenti, nel secondo si tutelano maggiormente i diritti e il
potere di contrattazione dei lavoratori. Attualmente il più diffuso è il modello
americano, in quanto è sembrato quello maggiormente capace di reggere la
concorrenza ma, soprattutto nell’ultimo decennio, si è palesato un terzo
modello capitalistico proposto dalla Cina e, in misura minore, dalla Russia e dai
Paesi dell’ex unione sovietica, concentrati prevalentemente sull’accumulazione
selvaggia di capitali.
Quale che sia il prototipo adottato è indubbio che il fenomeno della
globalizzazione non avrebbe potuto darsi senza la creazione di un mercato
globale, processo non ancora concluso ma soprattutto problematico perché
sfuggito di mani ai suoi artefici (vale a dire FMI, Banca Mondiale, WTO, governi
di alcuni Paesi, grandi multinazionali e finanziatori istituzionali) con effetti
imprevedibili, primo fra tutti la crescita del numero di Paesi che partecipano
attivamente al commercio su scala globale, pur continuando a mantenere
alcune differenze nella produzione, vale a dire che le nazioni meno
industrializzate esportano prodotti ad alta intensità di lavoro che richiedono
bassi livelli di specializzazione tecnico-scientifica mentre i Paesi più sviluppati
esportano produzioni ad alta intensità di capitale e di specializzazione che
richiedono competenze sofisticate.
In secondo luogo l’allargamento del mercato ha comportato la concentrazione
di capitali che prende la forma di fusioni e acquisizioni di aziende (grossomodo
lo stesso processo che, in Italia, ha portato la FIAT a divenire l’unico
produttore di auto) a causa dell’accrescersi della concorrenza internazionale
che necessita sempre più di imprese dalle dimensioni notevoli, ciò ha
determinato la nascita non solo di multinazionali ma anche di imprese
transnazionali capaci di influenzare la politica in quanto lo stato, limitato entro i
propri confini geografici, non può più dettare regole ad industrie capaci di
aggirare qualsiasi barriera producendo dove la manodopera e le tasse costano
di meno, giocando dunque sulla sede fiscale ottengono agevolazioni dallo stato
pur di continuare a mantenere tale sede in quei territori e rifacendosi poi
parzialmente sui contribuenti reali (piccole e medie imprese), con il risultato
che oggi non esiste più un legame puntuale tra economia nazionale e imprese
le quali prendono in considerazione soltanto il proprio interesse dislocando la
produzione direttamente o indirettamente nel Paese che meglio soddisfa le loro
esigenze.
Infine bisogna considerare la maggiore facilità con cui i prodotti vengono
trasferiti su scala mondiale grazie alla messa a punto di processi che adattano
le merci progettate per un mercato ad altri mercati, in particolare ad altre
nazioni, come internazionalizzazione e localizzazione. L’internazionalizzazione
viene applicata durante la fase di progettazione in cui vengono predisposti tutti
gli elementi attraverso i quali il prodotto può essere facilmente immesso sul
mercato internazionale mentre la localizzazione completa il prodotto stesso con
le traduzioni di un eventuale testo e l’adattamento alla particolare cultura
locale. In sostanza ciò ha causato il successo delle imprese research-intensive
in cui la produzione interna e l’accumulo di conoscenze generano un flusso di
innovazioni, sia di prodotto che di processo, continuo. Alla luce di questo le
imprese devono costruire le proprie strategie organizzative prendendo in
considerazione nella scelta del territorio in cui stabilirsi, aspetti quali le materie
prime, l’offerta di manodopera, l’istruzione e la formazione della forza lavoro,
le fonti energetiche, la cultura nazionale, le infrastrutture (trasporti,
comunicazioni, mercati finanziari), il mercato interno, la presenza di settori di
supporto, le politiche governative e i tassi di cambio. Sulla base di questo
complesso di fattori si sono affermati un modello di impresa globale e uno di
impresa transnazionale. Nel primo caso il lavoro ha un elevato grado di
mobilità e gli investimenti produttivi nei diversi Paesi sono obbligatori per poter
competere a livello mondiale, è in questa prospettiva che l’informazione
diventa la risorsa principale, infatti l’impresa globale deve tenere sotto
controllo la tecnologia che influenza le preferenze umane e la globalizzazione
stessa che determina nuove realtà economiche, rinnovandosi continuamente
nei mezzi, nei luoghi e nei prezzi e ciò comporta un ulteriore intensificazione
della condivisione di informazioni, esperienze, beni e servizi tra le unità
insediate nei vari ambienti. E’ chiaro dunque, che tali imprese sono per loro
natura senza patria, operano ovunque e in nessun luogo, e con la loro elevata
mobilità e la ricerca di condizioni insediative sempre migliori non fanno altro
che incentivare la competitività tra gli Stati ottenendo benefici sempre
maggiori.
L’impresa transnazionale si basa invece su un modello a rete integrata
caratterizzato da un’estesa distribuzione geografica e da un elevata
specializzazione delle consociate da cui consegue un forte grado di
interdipendenza. Tali enti economici hanno così la capacità di percepire le
differenti esigenze provenienti dai mercati, sfruttare le differenze nei costi
produttivi, diversificando l’azienda nei confronti dei rischi economici e politici,
nella pratica ciò significa ottenere il massimo livello di efficienza specializzando
le unità a cui è affidata la responsabilità di funzioni prevalentemente riservate
alla casa madre (le consociate quindi assumono il ruolo di sedi centrali per
specifiche funzioni), in tal modo il management principale viene liberato da
parte delle responsabilità e può concentrarsi sul coordinamento delle funzioni
distribuite geograficamente, tale profilo permette di separare i rapporti
gerarchici tra centro e periferia tipico delle imprese globali.
Lungi dall’aver fornito un quadro esaustivo delle tematiche connesse
all’industria e alla globalizzazione, per completezza d’informazione è doveroso
concludere con una rapida carrellata sui rischi che il fenomeno descritto
comporta.
I. Instabilità e insicurezza economica
Le crisi finanziarie sono sempre più numerose e frequenti a causa della
crescita dei flussi globali di capitale. Nei Paesi ricchi si teme che la
globalizzazione e la competitività esasperata comportata porti alla
disoccupazione e allo smantellamento del welfare state mentre i Paesi in via
di sviluppo temono di restare esclusi dal mercato globale o di diventare
dipendenti di entità economiche internazionali.
Insicurezza relativa al posto di lavoro
II.
I continui cambiamenti che interessano le aziende e la progressiva
scomparsa delle istituzioni addette alla protezione sociale hanno prodotto la
crescita dell’insicurezza rispetto al posto di lavoro e al reddito connesso,
senza contare che le analisi del settore hanno rivelato che sul luogo di
lavoro si registrano ancora 1.100.000 morti l’anno vale a dire 3.000 morti al
giorno nel mondo e tali dati sono il frutto di una legislazione insufficiente
nella tutela della salute dei lavoratori anche perché molto spesso le aziende
mettono al primo posto la produttività e non la salvaguardia dell’individuo.
III.
Insicurezza personale
I mercati capitali sempre meno regolati da legislazioni che possano renderli
suscettibili di controllo sono diventati il terreno d’azione di numerosi gruppi
criminali. Il commercio di droga, armi, donne e bambini è dovuto alla
crescita del crimine organizzato che fattura 1500 miliardi di dollari l’anno e
in questo modo può competere con le imprese multinazionali come una vera
potenza economica, e, corrompendo la politica, gli affari e le forze
dell’ordine, hanno sviluppato reti di comunicazione efficienti estendendo il
proprio terreno di gioco.
IV.
Insicurezza sociale e politica
La globalizzazione ha fornito nuove caratteristiche ai conflitti coinvolgendo
nuovi attori e confondendo gli interessi politici con quelli commerciali. Le
guerre non si combattono più su un ristretto e definito campo di battaglia
anzi questo si è esteso trasformando l’intero globo in una specie di campo
minato in cui chiunque può essere, teoricamente, colpito (non
dimentichiamo le azioni delle organizzazioni terroristiche), anche perché gli
stessi governi e le imprese, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, si
sono avvalsi dell’operato di organizzazioni militari più o meno legali e di
soldati mercenari. In realtà al processo di integrazione economica si è unito
un processo di disgregazione politica, mettendo in pericolo la stessa
democrazia, nuove entità internazionali agiscono infatti su scala globale
influenzando la vita di miliardi di persone, guidate però da interessi
particolaristici. Significativo è in questo senso il caso della piattaforma
petrolifera Brent Spar che la Shell voleva affondare, seguendo un iter del
tutto legale, ma rendendosi al contempo colpevole di un massiccio
inquinamento; a questo punto interviene Green Peace attuando un
boicottaggio dei suoi prodotti che per avere successo richiede l’apporto dei
media (non si può boicottare se nessuno ne parla), la trasmissibilità di valori
e cultura e la possibilità di alternativa (è boicottabile solo chi può essere
sostituito).
V.
Insicurezza culturale
E’ stato detto che la globalizzazione si caratterizza anche per la
straordinaria circolazione di idee e informazioni, vale a dire permette agli
individui e alle culture di cui son portatori di confrontarsi e mescolarsi. Il
problema è che la relazione tra modi di sentire e organizzare la realtà è
sbilanciata ovvero è un flusso che prevalentemente va dai paesi ricchi a
quelli più poveri e a lungo andare questo può mettere in pericolo la diversità
culturale e far nascere il timore di perdere la propria identità.
Insicurezza ambientale
VI.
Nell’ultimo secolo, in modo particolare, si è assistito ad un aumento del
degrado ambientale la cui prima conseguenza è una drastica riduzione non
solo delle risorse naturali che entrano in ballo negli stessi processi produttivi
ed economici ma anche dei mezzi di sostentamento per almeno mezzo
miliardo di persone. I cambiamenti dovuti all’inquinamento e a pratiche
sconsiderate da parte dei Paesi ricchi e meno ricchi hanno determinato
modifiche delle condizioni ambientali (buco nell’ozono, riscaldamento
globale) modificando gli stessi microrganismi terrestri incidendo sulla qualità
dei cibi (ne è un esempio il caso del morbo della mucca pazza) e sui ritmi
climatici (non è un caso l’aumento di cicloni, inondazioni e siccità, ecc.)
peggiorando la qualità della vita delle persone (pensiamo alla facilità con cui
si è diffusa l’aviaria) e innescando meccanismi negativi forse irreversibili.
VII.
Connessi vs non connessi
Alla base della globalizzazione e di tutto ciò che comporta a livello
economico, politico e sociale vi è la possibilità di organizzarsi intorno a reti,
network che determinano i processi dominanti e le funzioni sociali. E’ chiaro
che l’inclusione o l’esclusione da tali reti organizzate risulta fondamentale
perché coloro che sono in simbiosi con la nuova morfologia delle società
sono anche quelli che hanno un accesso immediato all’istruzione, ai capitali
e alle informazioni per cui quelli non connessi finiranno con l’essere
schiacciati dallo svantaggio di essere esclusi dalla conversazione globale.
Questo piccolo elenco di realtà che diventano ogni giorno più pressanti non
vuole mettere in secondo piano i fattori positivi che pure sono emersi nel corso
dell’analisi, non sempre in maniera esplicita, ma far riflettere su come tali
vantaggi interessino una quota minoritaria della popolazione mondiale e
debbano passare in secondo piano rispetto ai guasti che si sono verificati in
molti altri settori a causa, prevalentemente, di un’attuazione radicale e
incosciente del vecchio principio del laissez faire - laissez aller, cioè di una
mancanza estrema di regole nella convinzione, fin troppo fiduciosa, della
capacità di autoregolarsi, anche moralmente, del mercato.
Bibliografia:
Le nuove frontiere della sociologia, a cura di Paolo De Nardis, Carocci
Mercato e società, a cura di Vando Borghi e Mauro Magatti
IMPRESA GLOBALE E IMPRESA TRANSNAZIONALE A CONFRONTO
Nokia vs Eni
La Nokia oggi è il leader mondiale del settore apparecchiature per
comunicazioni mobili e per reti di telecomunicazione e la maggiore azienda
europea in base al valore delle proprie azioni le quali sono quotate nelle
principali piazze d'affari mondiali.
Il grande obbiettivo che si prefigge l'azienda finlandese è quello di garantire
l'accesso ad Internet da ogni luogo della terra tramite i propri telefonini o
quantomeno tramite le proprie apparecchiature di trasmissione e/o
interconnessione di una rete con l'altra.
Nokia nasce nel 1865 in Finlandia ad opera di un certo Idestam come cartiera
specializzata nella produzione di carta, pasta per carta, prodotti chimici e
gomma, successivamente il suo creatore stabilisce una rete internazionale di
vendita che agli inizi del secolo scorso rifornisce, tra gli altri, i mercati di
Russia, Regno Unito e Francia; la Cina diviene importante partner commerciale
già negli anni '30.
Nel 1912 essa avvia lo stabilimento, specializzato nella produzione di cavi
rivestiti in gomma, situato nel centro di Helsinki e questo diventa il primo
contatto dell'azienda finlandese con il settore delle comunicazioni vero e
proprio, infatti se alla fine dell'Ottocento la carta era lo strumento principale
della circolazione di informazione, nei primi anni del Novecento la crescita delle
reti telefoniche e telegrafiche mette in crisi questo primato aprendo un nuovo
scenario tecnologico. Il lavoro nel settore telecomunicazioni si avvia però solo
nei primi anni '60 con ricerche nel campo delle trasmissioni radio, a questo
punto Nokia, assieme agli altri operatori del settore, adotta la tecnologia dei
semiconduttori (che proprio in quel periodo inizia a trasferirsi dai laboratori di
ricerca alle applicazioni produttive ed industriali) e per prima crea una rete di
contatti con scienziati, università, politecnici, ricercatori e giovani apprendisti.
È evidente fin da questi anni il forte supporto dato da strutture di formazione
ed istituti di ricerca pubblici il cui obbiettivo principale diviene quello di
trasformare i prodotti di laboratorio in merci con prospettive commerciali.
Nel 1967 viene costituita la holding Nokia ovvero viene creato un consorzio di
società, controllate mediante il possesso di partecipazioni azionarie, rispetto
alle quali Nokia è la società madre. L'elettronica in quel momento genera solo il
3% del fatturato del gruppo ed impiega 460 persone ma cresce rapidamente
attraverso
l'estrema
velocizzazione
del
ciclo
innovazione
tecnologica/applicazione industriale e attraverso l'apertura del mercato interno
alla concorrenza esterna di imprese fornitrici di attrezzature più vantaggiose
economicamente.
La Nokia produce il suo primo telefono mobile nel 1982 e a quel punto non è
già più la tradizionale impresa nazionale che diviene multinazionale per
l'insufficienza del mercato interno (pur conservando un forte backgroud di
territorializzazione nei confini dello stato di origine), essa infatti, si caratterizza
per la
deterritorializzazione e la
libera circolazione del prodotto, delle
tecnologie e dell'utente come presupposto della propria attività.
In quegli anni l'azienda acquisisce un ruolo prioritario sia nella fornitura di
stazioni di trasmissione e reti che nella produzione dei veri e propri telefonini
per cui cede tutte le attività non riferibili al "core business" telecomunicazioni
entro il 1995-96 e in questo modo specializza le attività produttive e
commerciali in senso unidirezionale, poi la digitalizzazione mette in moto
processi trasformativi della società e degli apparati di produzione per cui alla
fine del 1998 la Nokia opera tramite 26 stabilimenti produttivi in 11 paesi
diversi, 44 centri di ricerca e sviluppo in 12 paesi, oltre naturalmente a migliaia
di uffici di marketing, vendita e centri di assistenza after-sales senza tener
conto della subfornitura e dell'indotto, inoltre l’azienda finlandese risulta
coinvolta in progetti di ricerca, implementazione e sviluppo dell'UE e di istituti
di ricerca quali il MIT, il Rice, il Rutgers, le UC di San Diego e Santa Barbara.
L’attività produttiva della Nokia si lega dunque sempre più alla globalizzazione
delle comunicazioni, all'accesso conseguente di un sempre maggior numero di
utenti ai suoi prodotti, alla liberalizzazione del mercato non che ai politecnici,
alle università e agli istituti di ricerca
che costituiscono il retroterra
dell'impresa (in “nokialand” vi è un lavoro di testing continuo che viene
effettuato da laureandi in ingegneria elettronica ai quali la ditta dà in uso a
titolo gratuito nuovi prodotti da utilizzare, verificare e sviluppare; tesi di laurea
vengono commissionate dall'azienda in tutte le facoltà tecniche della
Finlandia), per cui le attività di ricerca e sviluppo, nonché produttive, della
Nokia si impiantano sempre in aree in prossimità di bacini universitari e di
tecnologia diffusa. La creazione dei poli di sviluppo, l'investimento in
infrastrutture, in educazione e via dicendo viene però, di fatto, affidato al
pubblico, così che l'investimento privato, in termini di capitali, è sempre molto
ridotto.
Il telefono mobile cellulare alla fine degli anni '80 non risponde più alle
esigenze di una società sempre più nomade perché esso con i suoi standard
obsoleti non va oltre i confini nazionali, la mobilità si fa globale e così anche la
comunicazione tanto che non reggono più i monopoli nazionali e non reggono
più i confini.
Attualmente Nokia ha 9 filiali aperte nel mondo, senza contare quella che ha
da poco preso a funzionare in Messico e quella prevista entro il 2015 in India,
mentre in Europa è stata recentemente chiusa la filiale presente in Germania a
causa dell’aumento dei costi di produzione che non rivelandosi più competitivi
hanno spinto l’azienda a decidere per la dislocazione della produzione nei Paesi
sopra citati. La gestione di tali filiali è fortemente gerarchica, tutte infatti fanno
capo alla casa madre che ha sede in Finlandia per ciò ad essere
deterritorializzata è solo la produzione che viene spostata in base alle
convenienze del mercato, anche se dal punto di vista azionario l’azienda è per
più del 60% di proprietà di grandi istituti finanziari statunitensi. Nokia oltre che
come impresa globale si configura come impresa imperiale perché utilizza
l'attuale modello di globalizzazione per soffocare la micro-imprenditorialità e la
non-accumulazione e aumentare la rivalità fra gli Stati nell’offerta di nuovi
vantaggi insediativi.
Schema organizzativo dell’impresa:
consociata
consociata
Nokia
consociata
consociata
L'Eni, ex Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), è un'azienda creata dallo Stato
Italiano come ente pubblico nel 1953 sotto la presidenza di Enrico Mattei e
convertita in società per azioni nel 1992. Successivamente lo Stato italiano ha
venduto in 5 fasi, dal 1995 al 2000, parte consistente del capitale azionario,
conservandone una quota superiore al 30% (sommando le quote del Tesoro e
della Cassa Depositi e Prestiti), e detenendo comunque il controllo effettivo
della società, infatti, attraverso la cosiddetta golden share nomina il presidente
e l'amministratore delegato. L’Eni oggi opera nelle attività del petrolio e del gas
naturale, della generazione e commercializzazione di energia elettrica, della
petrolchimica e dell'ingegneria e costruzioni, in cui vanta competenze di
eccellenza e forti posizioni di mercato a livello internazionale, è infatti quotata
alla Borsa di Milano e al New York Stock Exchange (NYSE) ed è la prima
società italiana per capitalizzazione di borsa e il quinto gruppo petrolifero
mondiale per giro d'affari, dietro a Exxon Mobil, BP, Royal Dutch Shell e Total.
L’impresa è controllata dall’attività di assemblee e consigli, primo fra tutti
l’Assemblea degli Azionisti che nomina il Consiglio di Amministrazione, il
Collegio Sindacale, La Società di Revisione e può modificare lo Statuto.
Il Consiglio d’Amministrazione definisce l'indirizzo strategico della Società e
controlla l'attività manageriale.
Il Management gestisce le attività secondo gli obiettivi indicati dal Consiglio ed
è a sua volta costituito dai Direttori Generali delle Divisioni che si occupano
delle attività di competenza delle divisioni loro affidate e dai Direttori Eni s.p.a.
che gestiscono le attività nelle Direzioni di competenza.
L’ENI in questi anni è cambiata non solo dal punto di vista organizzativo e
strutturale (passando da holding di partecipazione a società operativa), ma
anche da quello operativo diventando più internazionale, più integrata e
focalizzata sul core business, tanto da creare tre grandi divisioni operative:
•
Divisione E&P (Exploration and Production): ricerca e produzione di
idrocarburi, la produzione giornaliera di idrocarburi, nel 2005, è stata di
1.737 mila boe (barili di olio equivalenti)
•
Divisione G&P (Gas and Power): produzione e vendita di gas naturale ed
energia elettrica, le vendite di gas hanno raggiunto i 96 miliardi di metri
cubi, nel 2005
Divisione
R&M
(Refining
and
Marketing):raffinazione
e
commercializzazione di prodotti petroliferi, sempre nel 2005 le vendite di
prodotti petroliferi sono state di 51,6 milioni di tonnellate.
•
Le Società che fanno capo al gruppo Eni invece sono:
• EniPower, 100% (Generazione e vendita di energia elettrica, attualmente
3490 MW installati,le centrali di Brindisi e Ferrara saranno pienamente
operative entro il 2007 )
• Italgas S.p.A., 100% (Distribuzione e vendita di gas naturale in ambito
urbano, gruppo costituito da 21 società)
• Snam Rete Gas, 50,07% (Trasporto e dispacciamento di gas naturale)
• Syndial, chimica e petrolchimica
• Polimeri Europa, petrolchimica
• Saipem, 43% (Costruzione piattaforme, posa condotte, perforazioni)
• Snamprogetti, 100% (Progettazione ed esecuzione di impianti chimici e
petrolchimici, condotte e infrastrutture)
• Sofid, (Intermediazione e servizi finanziari)
• Tecnomare, (Servizi di ingegneria offshore)
•
•
•
•
•
•
•
Eni Corporate University, 100% (selezione e formazione risorse)
Eni International Resources Limited, (Selezione e sviluppo risorse
internazionali)
Enifin, (Tesoreria centrale per il Gruppo Eni). Dal 1 gennaio 2007 Enifin
S.p.A. è stata incorporata in Eni.
STOGIT, (STOccaggio Gas ITalia).
PetroLig movimentazione prodotti petroliferi
PetroVen movimentazione prodotti petroliferi
EniServizi, 100% (Servizi non strategici)
Esistono dunque diversi centri interfunzionali che seguono una politica unitaria
ma che sono ognuna in grado di generare innovazioni di ogni tipo, ad esempio
di prodotto, di stili manageriali, di know-how. La peculiarità di questa modalità
organizzativa è che si viene a creare una rete integrata di risorse e
competenze diffuse ma interdipendenti, ogni nazione è una fonte di idee,
abilità e competenze che possono essere messe a frutto in favore dell’intera
organizzazione, le unità nazionali raggiungono economie di scala a livello
globale realizzando per l’impresa particolari prodotti, componenti o attività. Il
centro dunque assume un ruolo di coordinamento delle relazioni tra le diverse
unità in maniera molto flessibile, focalizzandosi non tanto sulla gestione
operativa diretta delle attività quanto cercando di pensare un quadro
organizzativo volto al coordinamento e alla risoluzione delle differenze,
definendo chiari obiettivi di impresa e valori culturali su cui basarne l’esistenza.
Attualmente l’Eni conta 76.000 dipendenti ed è presente in 70 paesi fra i quali
Tunisia, Algeria, Angola, Repubblica del Congo, Egitto, Libia, Nigeria,Stati Uniti,
Trinidad e Tobago, Ecuador, Norvegia, Regno Unito, Croazia, Italia (che da sola
realizza l’11% della produzione europea di idrocarburi), Kazakistan, Pakistan,
Cina, Indonesia, Australia, Iran e Arabia Saudita che sono quelli in cui è
maggiore l’attività di estrazione petrolifera.
Nel 2006, la produzione giornaliera di petrolio e gas naturale in quota Eni in
Italia è stata di circa 238 mila barili di olio equivalente al giorno. Le principali
aree di attività sono nel Mare Adriatico, nell'Appennino Centro-Meridionale,
nell'onshore e offshore siciliano e nella Pianura Padana. I principali campi a gas
naturale sono localizzati nell'Adriatico e nello Ionio. Per quanto riguarda la
produzione di petrolio i tre principali campi sono: Val d'Agri in Basilicata (Eni
60,77%, operatore), che nel 2006 ha prodotto 105 mila barili di olio
equivalente/giorno (68 mila in quota Eni), Gela in Sicilia, Villafortuna in Val
Padana, Aquila nell'offshore pugliese e Vega nell'offshore a sud della Sicilia.
La rete nazionale di gasdotti dell'Eni si estende per 30.889 chilometri ed è
costituita essenzialmente da condotte di grande diametro che trasportano il
gas dai punti di ingresso al sistema (i gasdotti di importazione, i siti di
stoccaggio e i principali centri di produzione nazionale) ai punti di
interconnessione con la rete di trasporto regionale, e da condotte di
dimensione minori delle precedenti per la movimentazione del gas naturale in
ambiti territoriali delimitati, l’ Eni possiede anche il terminale di Panigaglia,
l'unico terminale attivo di ricezione e gassificazione di gas naturale liquefatto
(GNL) in Italia.
Schema dell’organizzazione dell’impresa:
I miglioramenti della Globalizzazione
di Andrea Feudi
Dopo l'introduzione al fenomeno della globalizzazione, abbiamo pensato di
analizzare il fenomeno provando a descriverlo secondo i punti di vista dei suoi
pro e contro, dopo averlo compreso; come succede per lo studio di ogni
fenomeno che sia contemporaneo alla sua analisi.
Per Globalizzazione abbiamo già detto che si intende un fenomeno dapprima
economico che poi incorre negli ambiti culturali, politici e, più in generale,
sociali, del mondo. Questo fenomeno si basa sulla totale apertura dei mercati
statali-nazionali a favore di un unico libero mercato globale con assenza di dazi
o tasse doganali; il suo rapporto con l'industria appare dunque subito intuitivo,
a riguardo sia della sua logistica e che della sua politica economica: dislocare le
proprie sedi di produzione in paesi in via di sviluppo (o addirittura affidare la
propria produzione ad altre industrie, mantenendo sotto il proprio nome il
prodotto finale) al fine di diminuire i costi di produzione del prodotto e quindi
anche del suo costo finale, così da aumentare i profitti di guadagno. Questo è il
fenomeno più in vista, e più criticato della globalizzazione. Secondo i
movimenti No-Global* questa dislocazione porterebbe le industrie di
produzione in paesi dove i diritti dei lavoratori non vengono pienamente o
affatto rispettati, non apportando alcun miglioramento effettivo delle loro
condizioni di vita e anzi distruggengo il territorio poichè non sempre la logica
del profitto viene seguito dall'industrializzazione razionale (cioè dal fatto di
ottenere il massimo da un territorio ma avendo un impatto ecologico e
ambientale minimo).
La tesi del non-miglioramento delle condizioni di vita non sembra reggere,
secondo i fautori della Globalizzazione. Essi infatti si chiedono che se davvero
le condizioni di lavoro nelle fabbriche e i salari non apportano effettivi
miglioramenti di vita agli operai, quali sono i motivi perchè un lavoratore
cinese (a esempio) dovrebbe scegliere la fabbrica piuttosto che la campagna,
come invece effetivamente accade?
Esemplificando, dicono quegli economisti a favore della globalizzazione, si
potrebbe chiedere di immaginare un piccolo villaggio contadino, dove viene
costruita una fabbrica di qualsivoglia bene secondario [scarpe, vestiti,
giocattoli, ecc. (perchè l'industria produce beni secondari, mentre l'agricoltura
produce beni primari e internet che produce beni terziari, o "beni di
conoscenza")]; i lavoratori attirati dal salario non continueranno a lavorare la
terra ma ricorreranno alla fabbrica e questa, con la sua locazione farà nascere
in quel villaggio il bisogno di vie e di servizi di comunicazione, quindi si
costruiranno strade, poi case, poi servizi al cittadino al quale egli potrà
accedere grazie al salario remunerato dalla fabbrica, e così via fino al pieno
sviluppo del territorio e quindi a un effettivo miglioramento dell'ambiente di
vita del salariato, il tutto condito da un guadagno da parte dell'impresa che ha
rischiato il proprio capitale. Questa è la logica della globalizzazione.
I difensori della Globalizzazione vengono chiamati globalisti, o pro-global, i
quali portano come esempio significativo la crescita economica esponenziale
della Cina globalizzata, dove il livello di povertà è sceso, a confronto dell'Africa
sud-sarahiana non globalizzata dove i livelli di povertà sono rimasti stagnanti.
E in effetti in base ai dati della Banca Mondiale il numero di persone che vivono
con 1 dollaro al giorno, o meno, è diminuito da 1,5 miliardi nel 1981 a 1,1
miliardi nel 2001, con il massimo miglioramento che si verifica nelle economie
che riducono rapidamente le barriere al commercio e agli investimenti.
E ancora, a dimostrazione di quanto detto già sopra, vengono portati dati
sempre della Banca Mondiale (vedi tabella sotto) secondo cui la percentuale di
persone che vivono con meno di 2 $ al giorno è diminuito notevolmente nelle
zone toccate dalla Globalizzazione, mentre i tassi di povertà in altri settori sono
rimasti in gran parte stagnante. In Est-Asia, Cina compresa, la percentuale è
appunto diminuita del 50,1% rispetto a un aumento del 2,2% nell'Africa sudsahariana.
Inoltre la disparità di reddito per il mondo nel suo complesso è in diminuzione
secondo la Columbia University.
Non di minore importanza è il fatto che l'aspettativa di vita è quasi raddoppiata
dalla Seconda Guerra Mondiale nei paesi in via di sviluppo, e sta cominciando a
colmare il divario tra sé e il mondo sviluppato dove il miglioramento è stato
minore (in quanto l'aspettativa era già maggiore) e il fatto che tra il 1950 e il
1999, l'alfabetizzazione globale è aumentata dal 52% al 81% nel mondo.
Infine la percentuale di bambini in termini di forza lavoro poi è scesa dal 24%
nel 1960 al 10% nel 2000 secondo una ricerca della Oxford Leadership
Academy.
Tutte queste misure di benessere, e anche altre, sono state apportate anche
dalla Globalizzazione, secondo il libro The Improving State of the World (Il
miglioramento della situazione globale, trad. personale) di Indur Goklany e
pubblicato dal Cato Institute [un think tank americano (organismo che si
occupa di analisi di politiche pubbliche ma indipendente da forze politiche)].
All'ulteriore attacco alla globalizzazione il quale l'accusa di essere più
realmente una vera e propria "occidentalizzazione" culturale e sociale nei paesi
con cui viene a contatto, sempre attraverso il suo rapporto industriale di
"esportazione di fabbriche e solo richiesta di manodopera", che col tempo
creerebbe un mondo piatto e monoculturale (occidentale appunto), viene
contrapposta dai pro-global il fatto che lo scambio sulturale nella
Globalizzazione sta diventando reciproco; infatti nel 2002, la Cina è stato il
terzo più grande esportatore di beni culturali, dopo il Regno Unito e Stati Uniti.
Tra il 1994 e il 2002 infatti sono diminuite le quote delle esportazioni di beni
culturali sia del Nord America e l'Unione europea, mentre in Asia l'esportazione
culturale è aumentato tanto da superare il Nord America. Tutto questo
dimostrato in una relazione dell'UNESCO datata 2005.
Parlando inoltre di (diverse) fazioni contrarie alla Globalizzazione, in ultima
analisi c'è il giudizio di Giulio Tremonti che la critica in quanto la reputa
dominata da una logica non tanto neoliberista quanto "mercatista" (concetto
peraltro già conosciuto e criticato da Adam Ferguson e visto come
un'evoluzione del comunismo) e predirige un ritorno della politica al potere,
basata sulle radici giudaico-cristiane dell'Europa. Tremonti è in effetti un
sostenitore del colbertismo (o mercantilismo, o protezionismo), quella politica
economica che basa la potenza della nazione in base al PIL e alle sue
esportazioni e quindi la protegge dalla concorrenza attraverso interventi statali
come i dazi.
Come abbiamo visto dunque la Globalizzazione, stando a numeri e statistiche
ha portato numerosi miglioramenti nei paesi in via di sviluppo. Questo grazie al
nuovo concetto di relazione industriale, più che di industria in sè, nato dal
fenomeno che è si economico, con l'apertura dei mercati, ma piano piano ha
invaso ogni campo di vita; per questo c'è chi, come l'ex senatore canadese
Douglas Roche, che sostiene la creazione di istituzioni come un' Assemblea
parlamentare delle Nazioni Unite direttamente eletto per esercitare una
supervisione internazionale; e chi, similmente a lui, ritiene che la prima fase
della Globalizzazione, che è stata orientata al mercato, dovrebbe essere
seguita da una fase di costruzione a livello mondiale istituzioni politiche che
rappresentano la volontà del mondo civilizzato [ma questo non porterebbe più
a un teorico mercato libero, in quanto per la Globalizzazione le istituzioni
dovrebbero limitarsi solo a far si che nei territori in via di sviluppo si creino le
condizioni necessarie per lo sviluppo del mercato (costruendo strade, città,
porti, ecc.)].
* non movimento bensì movimenti no-Global, in quanto esistono fazioni antiGlobalizzazione diversissime tra loro: si va infatti dal Popolo di Seattle, con i
suoi ambientalisti, passando per il mercantilismo fino ad arrivare a fazioni
fasciste e più in generale allo statalismo (fascismo, nazismo, ecc.), secondo le
quali lo Stato avrebbe un ruolo di potenza in ogni ambito, e quindi anche
quello economico.