globalizzazione e industria
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GLOBALIZZAZIONE E INDUSTRIA Ricerca di Roberta Cassandro Analizzare il fenomeno della globalizzazione è alquanto complicato, oltre che per gli innumerevoli aspetti che ne sono coinvolti, anche perché si tratta di un processo ancora in corso, rispetto al quale quindi, non abbiamo una distanza tale da poterne cogliere tutte le problematiche e descriverne in modo esaustivo cause e sviluppi; si tratta cioè di una tendenza ancora in atto che in quanto tale ci coinvolge totalmente e ci rende partecipi di quel mutamento incessante che la contraddistingue e che ci impedisce di giungere a delle spiegazioni che siano conclusive o che ne diano conto in maniera puntuale e univoca. In questo tentativo di mostrare i rapporti tra globalizzazione e industria però non possiamo prescindere da un discorso che definisca, per quanto possibile, i contorni di tale procedimento. La globalizzazione nella definizione dell’OCSE (Organization for Economic Co-operation and Development) è quel “processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi”, tale precisazione ci permette di distinguere il termine globalizzazione, entrato in uso nel 1981, da parole come globalismo, che è la visione per cui la globalizzazione ha una dimensione solamente economica e lo stato deve diventare minimale per permettere al mercato di autoregolarsi nel miglior modo possibile, e globalità che indica, invece, la percezione di vivere in una società globale. In effetti la globalizzazione ha comportato un intensificarsi dei flussi di scambio che in tutto il mondo riguardano persone, capitali, merci e idee modificando la relazione tra le parti a tal punto che alcuni la considerano un cambiamento epocale caratterizzato dalla sostituzione del vecchio complesso industriale e politico e dalla nascita dell’omnipolis, la città-mondo. In realtà le radici della globalizzazione devono essere ricercate nel percorso storico che ha portato alla nascita della modernità e quindi alla società industriale per arrivare alla società post-industriale, passando attraverso il tumultuoso sviluppo economico degli anni ’70 che il potere politico non a saputo controllare. Si è passati cioè da un contesto caratterizzato dalla concentrazione imponente di masse di lavoratori salariati nelle fabbriche in cui si andava realizzando una progressiva razionalizzazione del lavoro, che comportava una divisione sociale e tecnica sempre più estesa e ramificata, con la conseguente separazione tra famiglia e sistema professionale, da una società in cui il settore industriale rappresentava l’asse portante dell’economia, la cui produzione era coadiuvata dall’applicazione delle scoperte scientifiche (determinando così un aumento della produzione di massa e del consumismo insieme all’omogeneizzazione culturale, senza dimenticare il contemporaneo fenomeno dell’urbanizzazione, l’aumento della mobilità geografica e sociale con il conseguente conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, nonché l’assunzione di una dimensione nazionale dei sistemi industriali e politici riconducibili agli Stati nazionali), ad un contesto i cui il settore industriale è stato surclassato dalle banche, dalle assicurazioni, ovvero dal cosiddetto settore quaternario, e finanche dall’amministrazione pubblica, dall’istruzione e dai servizi per la salute che fanno parte del settore quinario, cioè ad una situazione in cui le classi medie e le tecnostrutture sono predominanti e la conoscenza scientifica e tecnica è diventata una vera e propria forza produttiva1. Ciò è stato possibile grazie alla perdita di importanza degli Stati nazionali causata anche da un processo di liberalizzazione e privatizzazione delle forze economiche dai vincoli imposti dal potere politico per cui prima viene la concorrenza e tutto ciò che a questa è connesso e poi la società e la politica stessa, senza contare che, mentre un tempo la produzione industriale consisteva in merci, capitali e mezzi di produzione, oggi si produce soprattutto capacità di programmazione e gestione di sistemi e conoscenza, sono tali qualità infatti che hanno permesso lo sganciamento della produzione stessa e della ricchezza dai vincoli fisici, spaziali ed economici. Come ha spiegato Rifkin, al centro degli scambi tra operatori commerciali e consumatori non c’è più la proprietà dei beni ma utilità, servizi e informazioni che essi sono in grado di produrre; queste utilità vengono scambiate nello spazio virtuale senza risentire dell’ubicazione degli operatori. Tale cambiamento effettivamente, è stato determinato da alcuni passaggi storici come: 1. L’abbandono del sistema di Bretton Woods; 2. Il crollo del bipolarismo est-ovest; 3. La crisi petrolifera del 1973-74 e la formazione del mercato degli eurodollari; 4. Le massicce ondate migratorie e nel contempo il ripresentarsi di un nazionalismo estremo; uniti a fattori più strettamente economici come: 1. L’investimento negli anni ’70 in produzioni tecnologicamente avanzate e innovative; 2. L’entrata in gioco del Giappone e dei NIC (New Industrialized Countries); 3. La dissociazione dell’economia finanziaria dall’economia reale. Questo è stato possibile se consideriamo che proprio il crollo del bipolarismo est-ovest ha decretato la definitiva espansione del capitalismo, non più contrastato in maniera significativa da altri modelli economici. Anche il capitalismo da allora, si è però modificato registrando, nelle imprese, una presenza sempre maggiore di componenti finanziarie e commerciali a scapito di quelle produttive, cioè da un modello orientato al consumo di massa si è passati ad uno diretto nel senso dell’automazione spinta e dell’integrazione produttiva, con la conseguente deindustrializzazione e delocalizzazione degli impianti che hanno portato alla separazione fisica della produzione dal consumo. Dal momento che la produzione ha sede in più luoghi contemporaneamente è aumentata la difficoltà degli Stati di determinare la nazionalità delle imprese ma anche di controllare i flussi finanziari attraverso la leva fiscale, registrando così una perdita di entrate, anzi l’economia globale spinge gli Stati a liberarsi delle proprietà che possono produrre profitti attuandone la privatizzazione, cioè si trasformano entità nate come erogatrici di servizi in aziende capitaliste che cercano profitti. In realtà, il capitalismo che abbiamo appena descritto, è la semplificazione di una struttura economica più articolata e diversificata tanto che si parla di almeno due modelli capitalistici: quello anglosassone (che comprende le varianti americana ed europea) e quello germanico-nipponico. Per capire in cosa differiscono le suddette tipologie economiche, dobbiamo introdurre i concetti di shareolders e stakeholders, i primi sono attori sociali capaci di creare e distribuire valore in senso finanziario, sono gli azionisti per intenderci, e sono in grado di assumere decisioni vincolanti a livello globale; i secondi sono attori sociali che hanno in gioco nelle imprese dei valori non strettamente riconducibili a quelli finanziari ma a dimensioni quali l’accesso a delle opportunità, la tutela dell’ambiente, la prevenzione dai rischi sociali e politici, la possibilità di riprodursi culturalmente e socialmente che come tali, subiscono le conseguenze negative di decisioni che non hanno preso e di cui comunque non ne godono i benefici, sono, per esempio, gli investitori, i dipendenti, i clienti, i fornitori ma anche governi, comunità e generazioni future. Ciò detto, nel modello anglosassone si registra una predominanza dell’importanza degli shareolders intesi come emanazione del settore finanziario che esercita un’azione vincolante sull’industria e sul commercio in quanto la borsa valori, il mercato assicurativo e il mercato finanziario funzionano come mercati per il controllo delle imprese, nel modello germano-nipponico, invece, sono gli stakeholders a determinare le strategie d’impresa ovvero rispetto alla versione anglosassone, in cui sono determinanti il potere e la libertà d’azione dei proprietari e dei dirigenti, nel secondo si tutelano maggiormente i diritti e il potere di contrattazione dei lavoratori. Attualmente il più diffuso è il modello americano, in quanto è sembrato quello maggiormente capace di reggere la concorrenza ma, soprattutto nell’ultimo decennio, si è palesato un terzo modello capitalistico proposto dalla Cina e, in misura minore, dalla Russia e dai Paesi dell’ex unione sovietica, concentrati prevalentemente sull’accumulazione selvaggia di capitali. Quale che sia il prototipo adottato è indubbio che il fenomeno della globalizzazione non avrebbe potuto darsi senza la creazione di un mercato globale, processo non ancora concluso ma soprattutto problematico perché sfuggito di mani ai suoi artefici (vale a dire FMI, Banca Mondiale, WTO, governi di alcuni Paesi, grandi multinazionali e finanziatori istituzionali) con effetti imprevedibili, primo fra tutti la crescita del numero di Paesi che partecipano attivamente al commercio su scala globale, pur continuando a mantenere alcune differenze nella produzione, vale a dire che le nazioni meno industrializzate esportano prodotti ad alta intensità di lavoro che richiedono bassi livelli di specializzazione tecnico-scientifica mentre i Paesi più sviluppati esportano produzioni ad alta intensità di capitale e di specializzazione che richiedono competenze sofisticate. In secondo luogo l’allargamento del mercato ha comportato la concentrazione di capitali che prende la forma di fusioni e acquisizioni di aziende (grossomodo lo stesso processo che, in Italia, ha portato la FIAT a divenire l’unico produttore di auto) a causa dell’accrescersi della concorrenza internazionale che necessita sempre più di imprese dalle dimensioni notevoli, ciò ha determinato la nascita non solo di multinazionali ma anche di imprese transnazionali capaci di influenzare la politica in quanto lo stato, limitato entro i propri confini geografici, non può più dettare regole ad industrie capaci di aggirare qualsiasi barriera producendo dove la manodopera e le tasse costano di meno, giocando dunque sulla sede fiscale ottengono agevolazioni dallo stato pur di continuare a mantenere tale sede in quei territori e rifacendosi poi parzialmente sui contribuenti reali (piccole e medie imprese), con il risultato che oggi non esiste più un legame puntuale tra economia nazionale e imprese le quali prendono in considerazione soltanto il proprio interesse dislocando la produzione direttamente o indirettamente nel Paese che meglio soddisfa le loro esigenze. Infine bisogna considerare la maggiore facilità con cui i prodotti vengono trasferiti su scala mondiale grazie alla messa a punto di processi che adattano le merci progettate per un mercato ad altri mercati, in particolare ad altre nazioni, come internazionalizzazione e localizzazione. L’internazionalizzazione viene applicata durante la fase di progettazione in cui vengono predisposti tutti gli elementi attraverso i quali il prodotto può essere facilmente immesso sul mercato internazionale mentre la localizzazione completa il prodotto stesso con le traduzioni di un eventuale testo e l’adattamento alla particolare cultura locale. In sostanza ciò ha causato il successo delle imprese research-intensive in cui la produzione interna e l’accumulo di conoscenze generano un flusso di innovazioni, sia di prodotto che di processo, continuo. Alla luce di questo le imprese devono costruire le proprie strategie organizzative prendendo in considerazione nella scelta del territorio in cui stabilirsi, aspetti quali le materie prime, l’offerta di manodopera, l’istruzione e la formazione della forza lavoro, le fonti energetiche, la cultura nazionale, le infrastrutture (trasporti, comunicazioni, mercati finanziari), il mercato interno, la presenza di settori di supporto, le politiche governative e i tassi di cambio. Sulla base di questo complesso di fattori si sono affermati un modello di impresa globale e uno di impresa transnazionale. Nel primo caso il lavoro ha un elevato grado di mobilità e gli investimenti produttivi nei diversi Paesi sono obbligatori per poter competere a livello mondiale, è in questa prospettiva che l’informazione diventa la risorsa principale, infatti l’impresa globale deve tenere sotto controllo la tecnologia che influenza le preferenze umane e la globalizzazione stessa che determina nuove realtà economiche, rinnovandosi continuamente nei mezzi, nei luoghi e nei prezzi e ciò comporta un ulteriore intensificazione della condivisione di informazioni, esperienze, beni e servizi tra le unità insediate nei vari ambienti. E’ chiaro dunque, che tali imprese sono per loro natura senza patria, operano ovunque e in nessun luogo, e con la loro elevata mobilità e la ricerca di condizioni insediative sempre migliori non fanno altro che incentivare la competitività tra gli Stati ottenendo benefici sempre maggiori. L’impresa transnazionale si basa invece su un modello a rete integrata caratterizzato da un’estesa distribuzione geografica e da un elevata specializzazione delle consociate da cui consegue un forte grado di interdipendenza. Tali enti economici hanno così la capacità di percepire le differenti esigenze provenienti dai mercati, sfruttare le differenze nei costi produttivi, diversificando l’azienda nei confronti dei rischi economici e politici, nella pratica ciò significa ottenere il massimo livello di efficienza specializzando le unità a cui è affidata la responsabilità di funzioni prevalentemente riservate alla casa madre (le consociate quindi assumono il ruolo di sedi centrali per specifiche funzioni), in tal modo il management principale viene liberato da parte delle responsabilità e può concentrarsi sul coordinamento delle funzioni distribuite geograficamente, tale profilo permette di separare i rapporti gerarchici tra centro e periferia tipico delle imprese globali. Lungi dall’aver fornito un quadro esaustivo delle tematiche connesse all’industria e alla globalizzazione, per completezza d’informazione è doveroso concludere con una rapida carrellata sui rischi che il fenomeno descritto comporta. I. Instabilità e insicurezza economica Le crisi finanziarie sono sempre più numerose e frequenti a causa della crescita dei flussi globali di capitale. Nei Paesi ricchi si teme che la globalizzazione e la competitività esasperata comportata porti alla disoccupazione e allo smantellamento del welfare state mentre i Paesi in via di sviluppo temono di restare esclusi dal mercato globale o di diventare dipendenti di entità economiche internazionali. Insicurezza relativa al posto di lavoro II. I continui cambiamenti che interessano le aziende e la progressiva scomparsa delle istituzioni addette alla protezione sociale hanno prodotto la crescita dell’insicurezza rispetto al posto di lavoro e al reddito connesso, senza contare che le analisi del settore hanno rivelato che sul luogo di lavoro si registrano ancora 1.100.000 morti l’anno vale a dire 3.000 morti al giorno nel mondo e tali dati sono il frutto di una legislazione insufficiente nella tutela della salute dei lavoratori anche perché molto spesso le aziende mettono al primo posto la produttività e non la salvaguardia dell’individuo. III. Insicurezza personale I mercati capitali sempre meno regolati da legislazioni che possano renderli suscettibili di controllo sono diventati il terreno d’azione di numerosi gruppi criminali. Il commercio di droga, armi, donne e bambini è dovuto alla crescita del crimine organizzato che fattura 1500 miliardi di dollari l’anno e in questo modo può competere con le imprese multinazionali come una vera potenza economica, e, corrompendo la politica, gli affari e le forze dell’ordine, hanno sviluppato reti di comunicazione efficienti estendendo il proprio terreno di gioco. IV. Insicurezza sociale e politica La globalizzazione ha fornito nuove caratteristiche ai conflitti coinvolgendo nuovi attori e confondendo gli interessi politici con quelli commerciali. Le guerre non si combattono più su un ristretto e definito campo di battaglia anzi questo si è esteso trasformando l’intero globo in una specie di campo minato in cui chiunque può essere, teoricamente, colpito (non dimentichiamo le azioni delle organizzazioni terroristiche), anche perché gli stessi governi e le imprese, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, si sono avvalsi dell’operato di organizzazioni militari più o meno legali e di soldati mercenari. In realtà al processo di integrazione economica si è unito un processo di disgregazione politica, mettendo in pericolo la stessa democrazia, nuove entità internazionali agiscono infatti su scala globale influenzando la vita di miliardi di persone, guidate però da interessi particolaristici. Significativo è in questo senso il caso della piattaforma petrolifera Brent Spar che la Shell voleva affondare, seguendo un iter del tutto legale, ma rendendosi al contempo colpevole di un massiccio inquinamento; a questo punto interviene Green Peace attuando un boicottaggio dei suoi prodotti che per avere successo richiede l’apporto dei media (non si può boicottare se nessuno ne parla), la trasmissibilità di valori e cultura e la possibilità di alternativa (è boicottabile solo chi può essere sostituito). V. Insicurezza culturale E’ stato detto che la globalizzazione si caratterizza anche per la straordinaria circolazione di idee e informazioni, vale a dire permette agli individui e alle culture di cui son portatori di confrontarsi e mescolarsi. Il problema è che la relazione tra modi di sentire e organizzare la realtà è sbilanciata ovvero è un flusso che prevalentemente va dai paesi ricchi a quelli più poveri e a lungo andare questo può mettere in pericolo la diversità culturale e far nascere il timore di perdere la propria identità. Insicurezza ambientale VI. Nell’ultimo secolo, in modo particolare, si è assistito ad un aumento del degrado ambientale la cui prima conseguenza è una drastica riduzione non solo delle risorse naturali che entrano in ballo negli stessi processi produttivi ed economici ma anche dei mezzi di sostentamento per almeno mezzo miliardo di persone. I cambiamenti dovuti all’inquinamento e a pratiche sconsiderate da parte dei Paesi ricchi e meno ricchi hanno determinato modifiche delle condizioni ambientali (buco nell’ozono, riscaldamento globale) modificando gli stessi microrganismi terrestri incidendo sulla qualità dei cibi (ne è un esempio il caso del morbo della mucca pazza) e sui ritmi climatici (non è un caso l’aumento di cicloni, inondazioni e siccità, ecc.) peggiorando la qualità della vita delle persone (pensiamo alla facilità con cui si è diffusa l’aviaria) e innescando meccanismi negativi forse irreversibili. VII. Connessi vs non connessi Alla base della globalizzazione e di tutto ciò che comporta a livello economico, politico e sociale vi è la possibilità di organizzarsi intorno a reti, network che determinano i processi dominanti e le funzioni sociali. E’ chiaro che l’inclusione o l’esclusione da tali reti organizzate risulta fondamentale perché coloro che sono in simbiosi con la nuova morfologia delle società sono anche quelli che hanno un accesso immediato all’istruzione, ai capitali e alle informazioni per cui quelli non connessi finiranno con l’essere schiacciati dallo svantaggio di essere esclusi dalla conversazione globale. Questo piccolo elenco di realtà che diventano ogni giorno più pressanti non vuole mettere in secondo piano i fattori positivi che pure sono emersi nel corso dell’analisi, non sempre in maniera esplicita, ma far riflettere su come tali vantaggi interessino una quota minoritaria della popolazione mondiale e debbano passare in secondo piano rispetto ai guasti che si sono verificati in molti altri settori a causa, prevalentemente, di un’attuazione radicale e incosciente del vecchio principio del laissez faire - laissez aller, cioè di una mancanza estrema di regole nella convinzione, fin troppo fiduciosa, della capacità di autoregolarsi, anche moralmente, del mercato. Bibliografia: Le nuove frontiere della sociologia, a cura di Paolo De Nardis, Carocci Mercato e società, a cura di Vando Borghi e Mauro Magatti IMPRESA GLOBALE E IMPRESA TRANSNAZIONALE A CONFRONTO Nokia vs Eni La Nokia oggi è il leader mondiale del settore apparecchiature per comunicazioni mobili e per reti di telecomunicazione e la maggiore azienda europea in base al valore delle proprie azioni le quali sono quotate nelle principali piazze d'affari mondiali. Il grande obbiettivo che si prefigge l'azienda finlandese è quello di garantire l'accesso ad Internet da ogni luogo della terra tramite i propri telefonini o quantomeno tramite le proprie apparecchiature di trasmissione e/o interconnessione di una rete con l'altra. Nokia nasce nel 1865 in Finlandia ad opera di un certo Idestam come cartiera specializzata nella produzione di carta, pasta per carta, prodotti chimici e gomma, successivamente il suo creatore stabilisce una rete internazionale di vendita che agli inizi del secolo scorso rifornisce, tra gli altri, i mercati di Russia, Regno Unito e Francia; la Cina diviene importante partner commerciale già negli anni '30. Nel 1912 essa avvia lo stabilimento, specializzato nella produzione di cavi rivestiti in gomma, situato nel centro di Helsinki e questo diventa il primo contatto dell'azienda finlandese con il settore delle comunicazioni vero e proprio, infatti se alla fine dell'Ottocento la carta era lo strumento principale della circolazione di informazione, nei primi anni del Novecento la crescita delle reti telefoniche e telegrafiche mette in crisi questo primato aprendo un nuovo scenario tecnologico. Il lavoro nel settore telecomunicazioni si avvia però solo nei primi anni '60 con ricerche nel campo delle trasmissioni radio, a questo punto Nokia, assieme agli altri operatori del settore, adotta la tecnologia dei semiconduttori (che proprio in quel periodo inizia a trasferirsi dai laboratori di ricerca alle applicazioni produttive ed industriali) e per prima crea una rete di contatti con scienziati, università, politecnici, ricercatori e giovani apprendisti. È evidente fin da questi anni il forte supporto dato da strutture di formazione ed istituti di ricerca pubblici il cui obbiettivo principale diviene quello di trasformare i prodotti di laboratorio in merci con prospettive commerciali. Nel 1967 viene costituita la holding Nokia ovvero viene creato un consorzio di società, controllate mediante il possesso di partecipazioni azionarie, rispetto alle quali Nokia è la società madre. L'elettronica in quel momento genera solo il 3% del fatturato del gruppo ed impiega 460 persone ma cresce rapidamente attraverso l'estrema velocizzazione del ciclo innovazione tecnologica/applicazione industriale e attraverso l'apertura del mercato interno alla concorrenza esterna di imprese fornitrici di attrezzature più vantaggiose economicamente. La Nokia produce il suo primo telefono mobile nel 1982 e a quel punto non è già più la tradizionale impresa nazionale che diviene multinazionale per l'insufficienza del mercato interno (pur conservando un forte backgroud di territorializzazione nei confini dello stato di origine), essa infatti, si caratterizza per la deterritorializzazione e la libera circolazione del prodotto, delle tecnologie e dell'utente come presupposto della propria attività. In quegli anni l'azienda acquisisce un ruolo prioritario sia nella fornitura di stazioni di trasmissione e reti che nella produzione dei veri e propri telefonini per cui cede tutte le attività non riferibili al "core business" telecomunicazioni entro il 1995-96 e in questo modo specializza le attività produttive e commerciali in senso unidirezionale, poi la digitalizzazione mette in moto processi trasformativi della società e degli apparati di produzione per cui alla fine del 1998 la Nokia opera tramite 26 stabilimenti produttivi in 11 paesi diversi, 44 centri di ricerca e sviluppo in 12 paesi, oltre naturalmente a migliaia di uffici di marketing, vendita e centri di assistenza after-sales senza tener conto della subfornitura e dell'indotto, inoltre l’azienda finlandese risulta coinvolta in progetti di ricerca, implementazione e sviluppo dell'UE e di istituti di ricerca quali il MIT, il Rice, il Rutgers, le UC di San Diego e Santa Barbara. L’attività produttiva della Nokia si lega dunque sempre più alla globalizzazione delle comunicazioni, all'accesso conseguente di un sempre maggior numero di utenti ai suoi prodotti, alla liberalizzazione del mercato non che ai politecnici, alle università e agli istituti di ricerca che costituiscono il retroterra dell'impresa (in “nokialand” vi è un lavoro di testing continuo che viene effettuato da laureandi in ingegneria elettronica ai quali la ditta dà in uso a titolo gratuito nuovi prodotti da utilizzare, verificare e sviluppare; tesi di laurea vengono commissionate dall'azienda in tutte le facoltà tecniche della Finlandia), per cui le attività di ricerca e sviluppo, nonché produttive, della Nokia si impiantano sempre in aree in prossimità di bacini universitari e di tecnologia diffusa. La creazione dei poli di sviluppo, l'investimento in infrastrutture, in educazione e via dicendo viene però, di fatto, affidato al pubblico, così che l'investimento privato, in termini di capitali, è sempre molto ridotto. Il telefono mobile cellulare alla fine degli anni '80 non risponde più alle esigenze di una società sempre più nomade perché esso con i suoi standard obsoleti non va oltre i confini nazionali, la mobilità si fa globale e così anche la comunicazione tanto che non reggono più i monopoli nazionali e non reggono più i confini. Attualmente Nokia ha 9 filiali aperte nel mondo, senza contare quella che ha da poco preso a funzionare in Messico e quella prevista entro il 2015 in India, mentre in Europa è stata recentemente chiusa la filiale presente in Germania a causa dell’aumento dei costi di produzione che non rivelandosi più competitivi hanno spinto l’azienda a decidere per la dislocazione della produzione nei Paesi sopra citati. La gestione di tali filiali è fortemente gerarchica, tutte infatti fanno capo alla casa madre che ha sede in Finlandia per ciò ad essere deterritorializzata è solo la produzione che viene spostata in base alle convenienze del mercato, anche se dal punto di vista azionario l’azienda è per più del 60% di proprietà di grandi istituti finanziari statunitensi. Nokia oltre che come impresa globale si configura come impresa imperiale perché utilizza l'attuale modello di globalizzazione per soffocare la micro-imprenditorialità e la non-accumulazione e aumentare la rivalità fra gli Stati nell’offerta di nuovi vantaggi insediativi. Schema organizzativo dell’impresa: consociata consociata Nokia consociata consociata L'Eni, ex Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), è un'azienda creata dallo Stato Italiano come ente pubblico nel 1953 sotto la presidenza di Enrico Mattei e convertita in società per azioni nel 1992. Successivamente lo Stato italiano ha venduto in 5 fasi, dal 1995 al 2000, parte consistente del capitale azionario, conservandone una quota superiore al 30% (sommando le quote del Tesoro e della Cassa Depositi e Prestiti), e detenendo comunque il controllo effettivo della società, infatti, attraverso la cosiddetta golden share nomina il presidente e l'amministratore delegato. L’Eni oggi opera nelle attività del petrolio e del gas naturale, della generazione e commercializzazione di energia elettrica, della petrolchimica e dell'ingegneria e costruzioni, in cui vanta competenze di eccellenza e forti posizioni di mercato a livello internazionale, è infatti quotata alla Borsa di Milano e al New York Stock Exchange (NYSE) ed è la prima società italiana per capitalizzazione di borsa e il quinto gruppo petrolifero mondiale per giro d'affari, dietro a Exxon Mobil, BP, Royal Dutch Shell e Total. L’impresa è controllata dall’attività di assemblee e consigli, primo fra tutti l’Assemblea degli Azionisti che nomina il Consiglio di Amministrazione, il Collegio Sindacale, La Società di Revisione e può modificare lo Statuto. Il Consiglio d’Amministrazione definisce l'indirizzo strategico della Società e controlla l'attività manageriale. Il Management gestisce le attività secondo gli obiettivi indicati dal Consiglio ed è a sua volta costituito dai Direttori Generali delle Divisioni che si occupano delle attività di competenza delle divisioni loro affidate e dai Direttori Eni s.p.a. che gestiscono le attività nelle Direzioni di competenza. L’ENI in questi anni è cambiata non solo dal punto di vista organizzativo e strutturale (passando da holding di partecipazione a società operativa), ma anche da quello operativo diventando più internazionale, più integrata e focalizzata sul core business, tanto da creare tre grandi divisioni operative: • Divisione E&P (Exploration and Production): ricerca e produzione di idrocarburi, la produzione giornaliera di idrocarburi, nel 2005, è stata di 1.737 mila boe (barili di olio equivalenti) • Divisione G&P (Gas and Power): produzione e vendita di gas naturale ed energia elettrica, le vendite di gas hanno raggiunto i 96 miliardi di metri cubi, nel 2005 Divisione R&M (Refining and Marketing):raffinazione e commercializzazione di prodotti petroliferi, sempre nel 2005 le vendite di prodotti petroliferi sono state di 51,6 milioni di tonnellate. • Le Società che fanno capo al gruppo Eni invece sono: • EniPower, 100% (Generazione e vendita di energia elettrica, attualmente 3490 MW installati,le centrali di Brindisi e Ferrara saranno pienamente operative entro il 2007 ) • Italgas S.p.A., 100% (Distribuzione e vendita di gas naturale in ambito urbano, gruppo costituito da 21 società) • Snam Rete Gas, 50,07% (Trasporto e dispacciamento di gas naturale) • Syndial, chimica e petrolchimica • Polimeri Europa, petrolchimica • Saipem, 43% (Costruzione piattaforme, posa condotte, perforazioni) • Snamprogetti, 100% (Progettazione ed esecuzione di impianti chimici e petrolchimici, condotte e infrastrutture) • Sofid, (Intermediazione e servizi finanziari) • Tecnomare, (Servizi di ingegneria offshore) • • • • • • • Eni Corporate University, 100% (selezione e formazione risorse) Eni International Resources Limited, (Selezione e sviluppo risorse internazionali) Enifin, (Tesoreria centrale per il Gruppo Eni). Dal 1 gennaio 2007 Enifin S.p.A. è stata incorporata in Eni. STOGIT, (STOccaggio Gas ITalia). PetroLig movimentazione prodotti petroliferi PetroVen movimentazione prodotti petroliferi EniServizi, 100% (Servizi non strategici) Esistono dunque diversi centri interfunzionali che seguono una politica unitaria ma che sono ognuna in grado di generare innovazioni di ogni tipo, ad esempio di prodotto, di stili manageriali, di know-how. La peculiarità di questa modalità organizzativa è che si viene a creare una rete integrata di risorse e competenze diffuse ma interdipendenti, ogni nazione è una fonte di idee, abilità e competenze che possono essere messe a frutto in favore dell’intera organizzazione, le unità nazionali raggiungono economie di scala a livello globale realizzando per l’impresa particolari prodotti, componenti o attività. Il centro dunque assume un ruolo di coordinamento delle relazioni tra le diverse unità in maniera molto flessibile, focalizzandosi non tanto sulla gestione operativa diretta delle attività quanto cercando di pensare un quadro organizzativo volto al coordinamento e alla risoluzione delle differenze, definendo chiari obiettivi di impresa e valori culturali su cui basarne l’esistenza. Attualmente l’Eni conta 76.000 dipendenti ed è presente in 70 paesi fra i quali Tunisia, Algeria, Angola, Repubblica del Congo, Egitto, Libia, Nigeria,Stati Uniti, Trinidad e Tobago, Ecuador, Norvegia, Regno Unito, Croazia, Italia (che da sola realizza l’11% della produzione europea di idrocarburi), Kazakistan, Pakistan, Cina, Indonesia, Australia, Iran e Arabia Saudita che sono quelli in cui è maggiore l’attività di estrazione petrolifera. Nel 2006, la produzione giornaliera di petrolio e gas naturale in quota Eni in Italia è stata di circa 238 mila barili di olio equivalente al giorno. Le principali aree di attività sono nel Mare Adriatico, nell'Appennino Centro-Meridionale, nell'onshore e offshore siciliano e nella Pianura Padana. I principali campi a gas naturale sono localizzati nell'Adriatico e nello Ionio. Per quanto riguarda la produzione di petrolio i tre principali campi sono: Val d'Agri in Basilicata (Eni 60,77%, operatore), che nel 2006 ha prodotto 105 mila barili di olio equivalente/giorno (68 mila in quota Eni), Gela in Sicilia, Villafortuna in Val Padana, Aquila nell'offshore pugliese e Vega nell'offshore a sud della Sicilia. La rete nazionale di gasdotti dell'Eni si estende per 30.889 chilometri ed è costituita essenzialmente da condotte di grande diametro che trasportano il gas dai punti di ingresso al sistema (i gasdotti di importazione, i siti di stoccaggio e i principali centri di produzione nazionale) ai punti di interconnessione con la rete di trasporto regionale, e da condotte di dimensione minori delle precedenti per la movimentazione del gas naturale in ambiti territoriali delimitati, l’ Eni possiede anche il terminale di Panigaglia, l'unico terminale attivo di ricezione e gassificazione di gas naturale liquefatto (GNL) in Italia. Schema dell’organizzazione dell’impresa: I miglioramenti della Globalizzazione di Andrea Feudi Dopo l'introduzione al fenomeno della globalizzazione, abbiamo pensato di analizzare il fenomeno provando a descriverlo secondo i punti di vista dei suoi pro e contro, dopo averlo compreso; come succede per lo studio di ogni fenomeno che sia contemporaneo alla sua analisi. Per Globalizzazione abbiamo già detto che si intende un fenomeno dapprima economico che poi incorre negli ambiti culturali, politici e, più in generale, sociali, del mondo. Questo fenomeno si basa sulla totale apertura dei mercati statali-nazionali a favore di un unico libero mercato globale con assenza di dazi o tasse doganali; il suo rapporto con l'industria appare dunque subito intuitivo, a riguardo sia della sua logistica e che della sua politica economica: dislocare le proprie sedi di produzione in paesi in via di sviluppo (o addirittura affidare la propria produzione ad altre industrie, mantenendo sotto il proprio nome il prodotto finale) al fine di diminuire i costi di produzione del prodotto e quindi anche del suo costo finale, così da aumentare i profitti di guadagno. Questo è il fenomeno più in vista, e più criticato della globalizzazione. Secondo i movimenti No-Global* questa dislocazione porterebbe le industrie di produzione in paesi dove i diritti dei lavoratori non vengono pienamente o affatto rispettati, non apportando alcun miglioramento effettivo delle loro condizioni di vita e anzi distruggengo il territorio poichè non sempre la logica del profitto viene seguito dall'industrializzazione razionale (cioè dal fatto di ottenere il massimo da un territorio ma avendo un impatto ecologico e ambientale minimo). La tesi del non-miglioramento delle condizioni di vita non sembra reggere, secondo i fautori della Globalizzazione. Essi infatti si chiedono che se davvero le condizioni di lavoro nelle fabbriche e i salari non apportano effettivi miglioramenti di vita agli operai, quali sono i motivi perchè un lavoratore cinese (a esempio) dovrebbe scegliere la fabbrica piuttosto che la campagna, come invece effetivamente accade? Esemplificando, dicono quegli economisti a favore della globalizzazione, si potrebbe chiedere di immaginare un piccolo villaggio contadino, dove viene costruita una fabbrica di qualsivoglia bene secondario [scarpe, vestiti, giocattoli, ecc. (perchè l'industria produce beni secondari, mentre l'agricoltura produce beni primari e internet che produce beni terziari, o "beni di conoscenza")]; i lavoratori attirati dal salario non continueranno a lavorare la terra ma ricorreranno alla fabbrica e questa, con la sua locazione farà nascere in quel villaggio il bisogno di vie e di servizi di comunicazione, quindi si costruiranno strade, poi case, poi servizi al cittadino al quale egli potrà accedere grazie al salario remunerato dalla fabbrica, e così via fino al pieno sviluppo del territorio e quindi a un effettivo miglioramento dell'ambiente di vita del salariato, il tutto condito da un guadagno da parte dell'impresa che ha rischiato il proprio capitale. Questa è la logica della globalizzazione. I difensori della Globalizzazione vengono chiamati globalisti, o pro-global, i quali portano come esempio significativo la crescita economica esponenziale della Cina globalizzata, dove il livello di povertà è sceso, a confronto dell'Africa sud-sarahiana non globalizzata dove i livelli di povertà sono rimasti stagnanti. E in effetti in base ai dati della Banca Mondiale il numero di persone che vivono con 1 dollaro al giorno, o meno, è diminuito da 1,5 miliardi nel 1981 a 1,1 miliardi nel 2001, con il massimo miglioramento che si verifica nelle economie che riducono rapidamente le barriere al commercio e agli investimenti. E ancora, a dimostrazione di quanto detto già sopra, vengono portati dati sempre della Banca Mondiale (vedi tabella sotto) secondo cui la percentuale di persone che vivono con meno di 2 $ al giorno è diminuito notevolmente nelle zone toccate dalla Globalizzazione, mentre i tassi di povertà in altri settori sono rimasti in gran parte stagnante. In Est-Asia, Cina compresa, la percentuale è appunto diminuita del 50,1% rispetto a un aumento del 2,2% nell'Africa sudsahariana. Inoltre la disparità di reddito per il mondo nel suo complesso è in diminuzione secondo la Columbia University. Non di minore importanza è il fatto che l'aspettativa di vita è quasi raddoppiata dalla Seconda Guerra Mondiale nei paesi in via di sviluppo, e sta cominciando a colmare il divario tra sé e il mondo sviluppato dove il miglioramento è stato minore (in quanto l'aspettativa era già maggiore) e il fatto che tra il 1950 e il 1999, l'alfabetizzazione globale è aumentata dal 52% al 81% nel mondo. Infine la percentuale di bambini in termini di forza lavoro poi è scesa dal 24% nel 1960 al 10% nel 2000 secondo una ricerca della Oxford Leadership Academy. Tutte queste misure di benessere, e anche altre, sono state apportate anche dalla Globalizzazione, secondo il libro The Improving State of the World (Il miglioramento della situazione globale, trad. personale) di Indur Goklany e pubblicato dal Cato Institute [un think tank americano (organismo che si occupa di analisi di politiche pubbliche ma indipendente da forze politiche)]. All'ulteriore attacco alla globalizzazione il quale l'accusa di essere più realmente una vera e propria "occidentalizzazione" culturale e sociale nei paesi con cui viene a contatto, sempre attraverso il suo rapporto industriale di "esportazione di fabbriche e solo richiesta di manodopera", che col tempo creerebbe un mondo piatto e monoculturale (occidentale appunto), viene contrapposta dai pro-global il fatto che lo scambio sulturale nella Globalizzazione sta diventando reciproco; infatti nel 2002, la Cina è stato il terzo più grande esportatore di beni culturali, dopo il Regno Unito e Stati Uniti. Tra il 1994 e il 2002 infatti sono diminuite le quote delle esportazioni di beni culturali sia del Nord America e l'Unione europea, mentre in Asia l'esportazione culturale è aumentato tanto da superare il Nord America. Tutto questo dimostrato in una relazione dell'UNESCO datata 2005. Parlando inoltre di (diverse) fazioni contrarie alla Globalizzazione, in ultima analisi c'è il giudizio di Giulio Tremonti che la critica in quanto la reputa dominata da una logica non tanto neoliberista quanto "mercatista" (concetto peraltro già conosciuto e criticato da Adam Ferguson e visto come un'evoluzione del comunismo) e predirige un ritorno della politica al potere, basata sulle radici giudaico-cristiane dell'Europa. Tremonti è in effetti un sostenitore del colbertismo (o mercantilismo, o protezionismo), quella politica economica che basa la potenza della nazione in base al PIL e alle sue esportazioni e quindi la protegge dalla concorrenza attraverso interventi statali come i dazi. Come abbiamo visto dunque la Globalizzazione, stando a numeri e statistiche ha portato numerosi miglioramenti nei paesi in via di sviluppo. Questo grazie al nuovo concetto di relazione industriale, più che di industria in sè, nato dal fenomeno che è si economico, con l'apertura dei mercati, ma piano piano ha invaso ogni campo di vita; per questo c'è chi, come l'ex senatore canadese Douglas Roche, che sostiene la creazione di istituzioni come un' Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite direttamente eletto per esercitare una supervisione internazionale; e chi, similmente a lui, ritiene che la prima fase della Globalizzazione, che è stata orientata al mercato, dovrebbe essere seguita da una fase di costruzione a livello mondiale istituzioni politiche che rappresentano la volontà del mondo civilizzato [ma questo non porterebbe più a un teorico mercato libero, in quanto per la Globalizzazione le istituzioni dovrebbero limitarsi solo a far si che nei territori in via di sviluppo si creino le condizioni necessarie per lo sviluppo del mercato (costruendo strade, città, porti, ecc.)]. * non movimento bensì movimenti no-Global, in quanto esistono fazioni antiGlobalizzazione diversissime tra loro: si va infatti dal Popolo di Seattle, con i suoi ambientalisti, passando per il mercantilismo fino ad arrivare a fazioni fasciste e più in generale allo statalismo (fascismo, nazismo, ecc.), secondo le quali lo Stato avrebbe un ruolo di potenza in ogni ambito, e quindi anche quello economico.