NEL 1902…CENT`ANNI FA - Museo dell`automobile
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NEL 1902…CENT`ANNI FA - Museo dell`automobile
IL MONDO A INIZIO NOVECENTO Da Guglielmo Marconi a Rita Pavone (Testo scritto nel 2002, che prende il 1902 come anno di riferimento) Ecco i principali eventi automobilistici del 1902: Gennaio Nasce a Torino il giornale “La Stampa Sportiva”, sotto l’egida del quotidiano LA STAMPA. Il nuovo periodico è il risultato della fusione tra “L’Automobile”, di Torino e “L’Italia Sportiva”, di Milano Febbraio L’azienda francese Charron costruisce carri blindati armati di mitragliatrici per l’esercito francese. Marzo A Roma viene inaugurato un nuovissimo servizio per la vuotatura delle cassette postali, per mezzo di furgoncini Fiat 8HP La Casa “Ing. Emanuel di A. Rosselli”, di Torino, intraprende la produzione di motociclette e vetturette con motore “Optimus”, di 3 ½ e 8 HP, e muta la ragione sociale in “Ing. E. Emanuel & Castellazzi” La Società Edoardo Bianchi di Milano inaugura il nuovo stabilimento di via Nino Bixio, appositamente allestito per la costruzione di automobili Aprile Vengono concesse in Italia le prime patenti, a seguito dell’entrata in vigore, nel dicembre del 1901, del nuovo Regolamento di circolazione Luigi Figini, industriale di Milano, specializzato in biciclette a motore, inizia la costruzione di vetture leggere di 6Hp, che mette sul mercato al costo di quattromila lire. Una vettura Mors, guidata da C.S.Rolls, è la prima vettura con motore a scoppio che supera il tetto dei cento chilometri all’ora. Léon Serpollet, su una vettura a vapore di sua concezione, stabilisce a Nizza il record sul chilometro lanciato (120 km/h). La vettura viene successivamente venduta ad un appassionato per 50.000 franchi La grande corsa automobilistica Nizza – Abbazia, organizzata dagli Automobile Club di Nizza, Torino e Francia, alla quale erano già iscritti 80 partecipanti da tutta Europa, viene sospesa con un’ordinanza del Prefetto di Cuneo “per ragioni di sicurezza” Maggio Giovanni Agnelli, su una Fiat 12 Hp, copre 2.141 chilometri in 57 ore di marcia consecutiva (da Torino a Genova, Roma, Napoli, Sorrento, Pescara, Forlì, Torino). L’avvenimento fu salutato come una conquista dell’industria automobilistica italiana. Giugno Viene inaugurata a Torino, alla Esposizione Internazionale di Arte Decorativa, una Mostra di Automobili, che raccoglie venti espositori Vincenzo Lancia, su una Fiat 24 HP, conquista il record della corsa Sassi – Superga, superando i quattro chilometri e mezzo della salita in sei minuti e battendo la Mercedes Vincenzo Lancia, di nuovo su una Fiat 24 HP, si afferma nella prima edizione della Susa – Moncenisio, percorrendo i 23 chilometri in 30 minuti e aggiudicandosi la Coppa Principe Amedeo 1 Agosto Il miliardario americano Vanderbilt stabilisce il record della velocità sul chilometro lanciato Novembre Nasce a Torino la fabbrica di automobili “Taurinia”: promotori l’avv. Alby, l’ing. Darbesio, il signor Canfari Dicembre Louis Renault brevetta un dispositivo di alimentazione sotto pressione. E’ il principio della sovralimentazione che verrà in uso soltanto venti anni più tardi sulle vetture da corsa La Fiat, grazie all’ing. Enrico, mette a punto un nuovo sistema di lubrificazione a pressione Con l’uscita di Henry Ford dalla Società delle Automobili di Detroit, questa assume il nome di “Cadillac”, in onore del fondatore della città Lo statunitense Ransom Eli Olds alla fine dell’anno avrà prodotto 2000 unità del modello “Merry Oldsmobile”: un altissimo volume produttivo Il 1902 non è semplicemente un anno che dista da noi un secolo esatto: è un’altra era, un differente universo, con regole, orizzonti, obiettivi e scenari che non condividono nulla con quelli attuali. Non si tratta perciò di immaginarlo semplicemente come un mondo con meno macchine. La differenza quantitativa, da questo punto di vista è abissale: trecentocinquanta vetture prodotte in tutto l’anno, mille e cento i veicoli in circolazione in tutta Italia, pari ad una densità di uno ogni trentamila abitanti (la popolazione era infatti di 33 milioni 700.000). Dunque un mondo sostanzialmente SENZA macchine. Non basta però questo dato per entrare nello spirito di quegli anni. Consideriamo che era un mondo erede dell’800 e che, appena venti anni prima, per poter votare ed esercitare il più elementare diritto/dovere di partecipazione alla vita collettiva, bisognava essere maschi, aver compiuto venticinque anni, saper leggere e scrivere, pagare imposte dirette superiori alle quaranta lire, o, in alternativa alle tasse, essere almeno professore, funzionario, membro di accademia. Il che significava che esattamente il 2,2% della popolazione era ammesso al voto (contro l’11,5 dell’Inghilterra, il 20% della Germania, il 27% della Francia)1. Per essere eletto, un candidato alla Camera aveva bisogno di appena 500 voti; e questi voti, tra l’altro, non potevano provenire dai cattolici, legati all’astensione dal pesante “non expedit” (ossia, in latino, “non conviene”) del Papa Pio IX che con questa formula aveva vietato ai cattolici di recarsi alle urne. Le cose cambiano, negli anni successivi, ma con estrema lentezza. Ancora nel 1902 ogni deputato poteva essere eletto con appena 1650 voti. Soltanto due anni dopo si registrarono le prime deroghe al “non expedit”: ma si dovette aspettare fino al 1912 perché vedesse la luce la riforma giolittiana che concedeva il diritto di voto anche agli analfabeti di età superiore ai trent’anni. La quota di popolazione che poteva votare divenne pari al 23,2 per cento (non parliamo del diritto di voto alle donne, che oggi pare tanto scontato quanto banale, ma in realtà ha poco più di mezzo secolo. Su questo punto emerge un paradosso: le donne conquistarono subito il diritto di guidare, e di ottenere la patente, perché questo ne incoraggiava i consumi: ma quanto a dir la loro in politica, ce ne passò). La legge sull’obbligatorietà dell’istruzione scolastica (fino agli otto anni) era addirittura anteriore all’Unità d’Italia: si trattava della Legge Casati, del 1859. Ma chi la rispettava? Fu definita dagli stessi governanti “lettera morta”, e visto che era impossibile farla rispettare, tanto valeva lasciare diventare il lavoro minorile un pilastro dell’economia, altrimenti “le tenere piantine” sarebbero cadute “preda delle tentazioni dell’ozio e di una brutale ignoranza” (Il Sole, settembre 1879). Le considerazioni non cambiano nei decenni successivi; l’istruzione tecnica, inoltre, era assai arretrata, e quando nel 1902 venne fondata a Milano l’Università Bocconi, specializzata in scienze economiche, l’avvenimento fu accolto con scetticismo. Anche però grazie al lavoro dei minori e delle donne (sul quale fu approvata una legge proprio nel 1902, che però non prevedeva neppure il riposo domenicale), l’industria cresce, soprattutto al Nord. Sono 117.300 le imprese nel 1902, e diventano 244.000 in meno di dieci anni, nel 1911. Di queste, una quota enorme è priva di forza 2 motrice (nel 1911, 191.000 su 244.000; per il 1902 non vi sono dati precisi, ma è comunque l’assoluta maggioranza), il che dimostra l’arretratezza del sistema. Continuiamo con i numeri, perché testimoniano la successiva e vertiginosa crescita, sia quantitativa sia qualitativa (il traumatico passaggio da una economia rurale ad una mista) dell’economia italiana. In mezzo secolo gli occupati nell’industria passano da 1.275.000 registrati nel 1902 a 2.304.000 nel 1911, a 3.667.000 nel 1951. Si tratta di un grande aumento effettivo, non determinato soltanto dal semplice espandersi della popolazione: infatti dai 33,7 milioni di abitanti del 1902 si passa ad una popolazione di 47,5 milioni nel 1951, un aumento ben inferiore, percentualmente, a quello degli occupati. Ma i consumi? Perché è bene che vi sia lavoro per un numero maggiore di persone, a patto che queste possano godersi i frutti della loro fatica. Sotto questo punto di vista, andiamo male. Se prendiamo il 1902 come anno intermedio del periodo dal 1861 (Unità d’Italia) al 1914 (scoppio della Prima Guerra Mondiale), i consumi mantengono una dinamica di basso profilo, e crescono ad una media annua dell’1 per cento. Non subisce variazione la loro composizione: per i due terzi, dall’inizio alla fine del periodo considerato, sono rappresentati da spese alimentari. C’è spazio, in questa economia, per l’acquisto di una automobile? Con questi dati sotto gli occhi, la domanda è persino ridicola. L’analisi del 1902 ci restituisce un mondo difficile, faticoso, fatto prevalentemente di povertà, analfabetismo, sfruttamento, miseria. E il popolo, infatti, fa quello che chiunque farebbe in una situazione del genere: quando può, emigra. Di fronte ad uno sviluppo sociale così lento (dal punto di vista di garantire vita dignitosa a tutti), economicamente squilibrato ed insufficiente a dare lavoro a tutta la mano d’opera contadina meridionale, disoccupata o sottoimpiegata, l’unica soluzione è emigrare all’estero. Nel solo 1902 sono costrette a varcare i confini nazionali 615 mila persone, e così sarà tutti gli anni fino allo scoppio della Guerra. Il record è nel 1913: 872.598 italiani andranno a cercare fortuna all’estero, principalmente negli Stati Uniti o in Argentina. Non sono soltanto contadini affamati che si imbarcano per mete lontane a tentare la fortuna. L’Italia è inospitale e irriconoscente anche con i suoi cervelli migliori, come Guglielmo Marconi che sette anni prima del nostro anno-simbolo, nel 1895, era riuscito a compiere a Pontecchio la sua storica impresa: inviare un segnale radio per via aerea, senza fili, ad una distanza di millecinquecento metri. Marconi offrì gratuitamente la sua invenzione al Ministero italiano delle Poste e Telegrafi, ma ricevette un “no grazie, non interessa”. Così, tramite amicizie e conoscenze, si rivolse al Ministero delle Poste britannico che rispose “grazie, ci interessa, La aspettiamo” e si trasferì in Inghilterra. Dove, nel 1896, il 2 giugno, brevetterà il “telegrafo senza fili” e fonderà una società per lo sfruttamento dell’invenzione. Nel 1901 Marconi, sempre dall’Inghilterra, effettuò la prima trasmissione al di là dell’Atlantico. Nel 1909 fu insignito del Nobel (un’Istituzione tra l’altro nata in quegli anni, nel 1901) per la Fisica. Servono altri dati, per avere un’idea di come si viveva nel 1902 e per capire come si inseriva l’automobile in questa società? Alla luce di quanto abbiamo visto, infatti, pare spropositata l’attenzione riservata a questa strana invenzione. Circoli, clubs, giornali, riviste, interpellanze in Parlamento, per discutere della velocità massima, del regolamento di circolazione, dei modelli nuovi, dell’efficienza di nuovi dispositivi, di corse e tentativi di record... Una eco smisurata rispetto alle effettive dimensioni del fenomeno, una eco sicuramente dimensionata soltanto sul “potenziale” dell’automobile, sulla sua componente di “divertissement” per ricchi, di risorsa fiscale per il governo, di sperimentazione per gli industriali. Pare fin troppo tempestivo il “Nuovo Regolamento per la circolazione degli automobili sulle strade ordinarie”, entrato in vigore il 10 dicembre 1901 e che perciò ebbe nel 1902 il suo primo anno di applicazione. Non sussistevano certamente condizioni di circolazione (1100 veicoli in tutta Italia!) che lo imponessero. Scaturiva invece da una decisa volontà del governo di non perdere l’opportunità di tassare qualcosa che sembrava avere ottimo avvenire, e a questo riporta l’obbligo, imposto al proprietario e al conduttore, di presentare al Prefetto domanda per ottenere rispettivamente la prova tecnica e la conseguente licenza di circolazione per l’automobile, e l’attestato di idoneità del conduttore. Non tutto era chiaro, tanto che 3 la “Stampa Sportiva”, nel gennaio del 1902, scrive “Il Regolamento è tuttora una impenetrabile sfinge…nessuna patente è ancora stata concessa…nessuna prova di veicolo compiuta”. E’ invece chiaro cosa occorresse pagare: una tassa governativa di venti lire (oltre alle domande per la licenza, rigorosamente in carta da bollo da centesimi 50), a cui il Comune di Torino si affretta ad aggiungere un ulteriore balzello di sessanta lire, raddoppiato quando sugli sportelli figurassero stemmi o corone nobiliari. Se si esclude quest’ultima possibilità, risulta una tassa di 80 lire: quasi 260 Euro di oggi. Con un titolo nobiliare esposto, l’ammontare arrivava a 140 lire (circa 440 Euro). E i limiti di velocità, ancora oggi a distanza di un secolo tema incandescente? Come abbiamo visto (Auto d’Epoca novembre 2001) nel 1902 una vettura con motore a scoppio per la prima volta al mondo supera i 100 chilometri all’ora. A fronte di tale potenzialità, il regolamento stabilisce un massimo di 25 chilometri all’ora in aperta campagna; di 15 chilometri all’ora in città, da non superare anche in campagna se si viaggia di notte. Quella della velocità è un’ossessione. Tutto si sta velocizzando: è il concetto simbolo dell’epoca, preso a prestito e sfruttato dai futuristi, che ne avevano colto il significato rivoluzionario. In due secoli (ma l’ultimo balzo è quello fondamentale) la velocità del viaggiare si è centuplicata: nel 1901 con il treno di lusso Mediterranée Express la distanza tra Parigi e Lione si copre in sette ore e mezza, ben poche, confrontate con i cinque giorni impiegati da una diligenza a cavalli. Il lavoro nelle fabbriche si uniforma a questo concetto, si misura su un ritmo che si fa via via sempre più frenetico. La vita stessa si fa più scandita: dalle sirene di fabbrica all'orologio da polso, il cui uso comincia a diffondersi soltanto adesso, ad imitazione degli Ufficiali britannici impiegati nella guerra contro i Boeri, che lo ricevettero tra il 1899 e il 1902 come equipaggiamento standard. Ma se da una parte la velocità è perseguita sistematicamente, dall’altra la velocità dell’automobile pare un mostro da imbrigliare a tutti i costi: forse perché individuale, e perciò potenzialmente sinonimo di libertà e trasgressione. In Francia quell’anno si costituì una lega contro l’abuso della velocità dell’automobilismo, presieduta dall’ex deputato Franconie, che raccolse in breve una quantità di persone altolocate, magistrati e deputati. In Inghilterra si studiò un sistema ingegnoso per controllare la velocità: si collegarono diverse postazioni di polizia con un telefono. Quando passava un’auto, il poliziotto ne annotava la targa e telefonava al suo collega al posto di guardia successivo, il quale controllava l’ora di passaggio della vettura segnalata: dal tempo impiegato era facile risalire alla velocità. Un sistema non affidato al caso, come succedeva per la maggior parte delle contravvenzioni elevate in Italia, che venivano comminate (in mancanza di rilevatori specifici) “a sensazione”, ossia a naso. Un naso a cui non sfuggì neanche Puccini, che nel dicembre 1902 é multato dalla Pretura di Livorno per eccesso di velocità. In ogni caso, per quanto ostacolate, vessate, tassate e costosissime, queste prime millecento vetture del 1902, e quelle in circolazione nel resto d’Europa, sono la sparuta e coraggiosa avanguardia di un esercito che invaderà il mondo e sbaraglierà ogni previsione. Timidi accenni di come si svilupperanno gli anni a venire ne troviamo ovunque, a saper leggere tra i piccoli e grandi avvenimenti di quel tempo. Nel 1901 a Parigi erano stati censiti esattamente 96.698 cavalli: una cifra immutata da anni. Per la prima volta, nel 1902, tale cifra diminuisce di 6.000 unità. Cos’era successo? Nient’altro che la concorrenza della “Métropolitain” inaugurata nel 1900 (con le sue bellissime pensiline progettate da Hector Guimard, che diventeranno quasi il simbolo della Parigi Belle Epoque), dei trams elettrici, delle vetture private: insomma, della modernità. Il Sultano di Costantinopoli quell’anno per la prima volta affiancò nelle scuderie dei suoi splendidi cavalli purosangue (ne possedeva oltre duemila) una automobile, di cui però ancora non osava servirsi. Più coraggioso di lui l’imperatore delle Russie, proprietario di undici automobili. Il Console degli Stati Uniti a Beirut segnala che l’automobile comincia ad essere richiesto (è ancora maschile) anche in Siria e in Palestina. Il nostro Re Vittorio, per non essere da meno delle corti europee, compie vari viaggi in automobile, tra cui uno che dalla Residenza di Racconigi lo porta al Moncenisio, toccando al ritorno Susa, Cesana, Fenestrelle e Pinerolo, passando per Sestrières e guidando di persona. Il Barone Alberto Franchetti, rinomato musicista, celebra la sua diciottesima automobile acquistata: 4 per la cronaca, una Fiat con cui nell’agosto compie un viaggio turistico di 2500 chilometri in Francia e sui Pirenei. Ma il 1902 è anche un anno in cui si studiano possibili alternative al motore a scoppio alimentato a benzina. Per esempio l’alimentazione ad alcool, particolarmente promossa nel Nord Europa. A Vienna si pensa ad una grande “Esposizione Internazionale”, prevista per il 1903 proprio allo scopo di far conoscere l’importanza dell’alcool. Il Ministro della Guerra dell’Impero Germanico bandisce insieme al Ministro per l’Agricoltura un concorso per la costruzione di un veicolo ad alcool, mettendo in palio tre premi sostanziosi. A Parigi un’intera sezione del Salone dell’Automobile del Ciclo e degli Sports, è dedicata alle vetture ad alcool, vista anche la concomitanza di un “Congresso Internazionale per l’alcool denaturato”, previsto sempre al Grand Palais, e che si articola in cinque sezioni, tra cui l’Automobile. Gli inventori però, a differenza dei governi, sembrano attratti da soluzioni più stravaganti. Per esempio la vettura ad aria, esposta al Salone di Londra all’inizio dell’anno dalla Liquid Air Company: era mossa (si fa per dire) dall’aria atmosferica liquefatta e mantenuta ad una temperatura di 312 gradi sotto zero in cilindri di rame, nei quali si era praticato il vuoto. O la vettura elettrica presentata a giugno dalla “City and Suburban Electric Carriage Company” di Londra, che riuscì a percorrere 203 chilometri senza bisogno di ricarica. Pesava nientedimeno che due tonnellate: i due accumulatori, ripartiti in due batterie di 44 elementi ciascuna, pesavano da soli una tonnellata. O la vettura a vapore senza differenziale, proposta dalla Springfield Motor Company del Massachussetts: due motori a vapore di 9 cavalli ciascuno, riuniti per mezzo di una catena alle ruote anteriori motrici. Quando il veicolo sterzava, il motore di quel lato rallentava, a differenza del secondo che aumentava la spinta. O ancora il mostro costruito dalla White Steam Wagon Company di Indianapolis, lungo nove metri e largo tre, azionato da un motore a vapore di 35 cavalli, e dotato di gomme con diametro di trenta centimetri. La carrozzeria era costituita da una piccola cabina posta sul davanti e destinata al meccanico; il resto del telaio era invece coperto di tavoloni per il carico delle merci. Il tentativo di Edison, invece, parve fondarsi su presupposti più scientifici. Costruì un automobile provvisto di una batteria di sua concezione, e riuscì a percorrere, con un ospite a bordo, una distanza di 96 chilometri. Questa esperienza spronò anche Marconi a non essere da meno: a distanza di un solo mese, l’inventore italiano ideò un motore elettrico del peso di 135 kg, col quale, affermò, si potevano percorrere fino a 900 chilometri senza dover ricaricare le batterie. Sarebbe stata l’invenzione del secolo…Purtroppo non se ne seppe più nulla. Interessante parve anche l'’idrovelo, ossia la bicicletta a motore acquatica, costruita dal torinese Umberto Cattaneo, sotto la direzione dell’inventore, ing. Durio. Si trattava di due tubi di zinco lunghi 4,30 metri, sistemati a sostegno di un telaio “cui sovrasta una bicicletta senza ruote”, ma dotata di manubrio e pedali. Sembra che l’unica “prova su acqua” che riuscì a compiere fu sul Lago d’Orta durante la quale, per miracolo, non si rovesciò. Se l’idrovelo pare curioso, il Cervo Volante Dirigibile inventato dal signor Sorcinelli, di Fano, è al di la’ di ogni definizione, ma tale non parve all’Esposizione di Marsiglia dell’anno, dove venne addirittura premiato con una medaglia d’oro. Si fondava sul principio della compressione dell’aria per la forza ascensionale, ed era composta da un cervo volante (una sorta di aquilone) e da una macchina, montata su quattro ruote, ch richiamava la forma di un siluro; era munita alle estremità di due eliche, che avrebbero dovuto costituire la propulsione … L’inventore stesso comunque ebbe ad ammettere che si trattava di una trovata teorica, anche se fondata su principii scientifici indiscutibili (o quasi). Viene da pensare, in mezzo a tanti allegri folli della meccanica e della fisica, che chi riuscì effettivamente ad imporre la propria invenzione era altrettanto folle, soltanto più fortunato. Fu nel 1902 che quei due pazzi e coraggiosissimi fratelli Wright (Ohio) sperimentarono alcuni tipi di alianti, per poi arrivare, l’anno dopo, al primo volo a motore della storia dell’aviazione. In fondo, agli occhi di un uomo del 1902, che differenza c’era tra il cervo volante e il complicato velivolo guidato da Orville Wright per ben 39 secondi a Kitti Hawk, in Carolina del Nord, nel dicembre 1903? Sembrava ben più concreta e affidabile la ferrovia, di cui nel 1902 si celebrò la consacrazione, aprendo anche ai passeggeri il tratto asiatico della Transiberiana (25 agosto). Già 5 l’anno prima erano iniziati i primi trasporti di merci; ma con l’avvio del traffico passeggeri iniziò la leggenda di questa linea ferroviaria, la più lunga del mondo con i suoi 7.411 chilometri. La Transiberiana si aggiungeva perciò alle grandi linee ferroviarie costruite in tutto il mondo: dalla transcontinentale degli Stati Uniti (1869, da Omaha, sul Missouri, fino a San Francisco); alla Canadian Pacific Railway (1885, da Ottawa a Vancouver, sul Pacifico); alla Transcaspica (1887, dal Mar Caspio fino a Samarcanda), alla Centrale Peruviana (1893, la più alta del mondo, dal porto di Callao a La Oroya, passando vicino ad Antigona, a 4784 metri di altezza); alla Transandina (1910, da Mendoza in Argentina a Los Andes in Cile). E in Italia? Nel nostro Paese fu forte la consapevolezza che la trasformazione da economia prevalentemente agricola ad industriale aveva bisogno sia di facilità di trasporto sia di facilità di comunicazione. E difatti, dall’Unità fino al 1914, la rete ferroviaria cresce ad un ritmo del 3,9% annuo. Ma basta un dato anche per capire tutta la storia successiva: l’estensione della rete ferroviaria attuale è, grosso modo, quella raggiunta nel 1914. Ed è su questo che si fondò l’impetuoso dilagare, soprattutto nella seconda metà del secolo, dell’automobile sia per il trasporto merci sia per la mobilità individuale. Non è un caso che nel 1902 venne inaugurato uno dei primi servizi automobilistici italiani, sul tragitto di cinquanta chilometri tra Norcia e Spoleto, con un autobus a vapore De Dion Bouton. Come sempre, al termine di questo sforzo di ricostruzione, emerge chiara l’impossibilità di racchiudere un anno intero all’interno di una definizione. Sembra un anno proteso verso il futuro (ma non lo sono tutti, per il solo fatto che scorrono?), desideroso del nuovo, al punto di stabilire nel Regolamento della Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa, che si tenne a Torino in primavera, che doveva essere esclusa ogni imitazione degli stili del passato. Tutto nuovo: si ricomincia. Cosa che l’uomo spera sempre, nella convinzione che, cambiando le cose intorno a sé, cambino anche dentro di sé. Invece l’uomo è sempre uguale. Ce lo conferma anche la vicenda della moglie di un certo dottor Milton, noto e ricchissimo possidente a Chicago, che nel 1902 fece istanza per divorziare dal marito, reo ai suoi occhi di trascurarla per una esagerata passione tutta favore delle sue automobili. Una delle solite “vedove della domenica” che, a differenza di Rita Pavone che negli anni sessanta si chiedeva “perché perché la domenica mi lasci sempre sola / per andare a vedere la partita / di pallone?” avrebbe cantato con altrettanta energia “perché perché la domenica mi lasci sempre sola / per andare a guidare / la vettura?” Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 2002 6