NEL 1902…CENT`ANNI FA - Museo dell`automobile

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NEL 1902…CENT`ANNI FA - Museo dell`automobile
IL MONDO A INIZIO NOVECENTO
Da Guglielmo Marconi a Rita Pavone
(Testo scritto nel 2002, che prende il 1902 come anno di riferimento)
Ecco i principali eventi automobilistici del 1902:
Gennaio
Nasce a Torino il giornale “La Stampa Sportiva”, sotto l’egida del quotidiano LA
STAMPA. Il nuovo periodico è il risultato della fusione tra “L’Automobile”, di
Torino e “L’Italia Sportiva”, di Milano
Febbraio
L’azienda francese Charron costruisce carri blindati armati di mitragliatrici per
l’esercito francese.
Marzo
A Roma viene inaugurato un nuovissimo servizio per la vuotatura delle cassette
postali, per mezzo di furgoncini Fiat 8HP
La Casa “Ing. Emanuel di A. Rosselli”, di Torino, intraprende la produzione di
motociclette e vetturette con motore “Optimus”, di 3 ½ e 8 HP, e muta la ragione
sociale in “Ing. E. Emanuel & Castellazzi”
La Società Edoardo Bianchi di Milano inaugura il nuovo stabilimento di via Nino
Bixio, appositamente allestito per la costruzione di automobili
Aprile
Vengono concesse in Italia le prime patenti, a seguito dell’entrata in vigore, nel
dicembre del 1901, del nuovo Regolamento di circolazione
Luigi Figini, industriale di Milano, specializzato in biciclette a motore, inizia la
costruzione di vetture leggere di 6Hp, che mette sul mercato al costo di quattromila
lire.
Una vettura Mors, guidata da C.S.Rolls, è la prima vettura con motore a scoppio che
supera il tetto dei cento chilometri all’ora.
Léon Serpollet, su una vettura a vapore di sua concezione, stabilisce a Nizza il record
sul chilometro lanciato (120 km/h). La vettura viene successivamente venduta ad un
appassionato per 50.000 franchi
La grande corsa automobilistica Nizza – Abbazia, organizzata dagli Automobile
Club di Nizza, Torino e Francia, alla quale erano già iscritti 80 partecipanti da tutta
Europa, viene sospesa con un’ordinanza del Prefetto di Cuneo “per ragioni di
sicurezza”
Maggio
Giovanni Agnelli, su una Fiat 12 Hp, copre 2.141 chilometri in 57 ore di marcia
consecutiva (da Torino a Genova, Roma, Napoli, Sorrento, Pescara, Forlì, Torino).
L’avvenimento fu salutato come una conquista dell’industria automobilistica italiana.
Giugno
Viene inaugurata a Torino, alla Esposizione Internazionale di Arte Decorativa, una
Mostra di Automobili, che raccoglie venti espositori
Vincenzo Lancia, su una Fiat 24 HP, conquista il record della corsa Sassi –
Superga, superando i quattro chilometri e mezzo della salita in sei minuti e battendo
la Mercedes
Vincenzo Lancia, di nuovo su una Fiat 24 HP, si afferma nella prima edizione della
Susa – Moncenisio, percorrendo i 23 chilometri in 30 minuti e aggiudicandosi la
Coppa Principe Amedeo
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Agosto
Il miliardario americano Vanderbilt stabilisce il record della velocità sul chilometro
lanciato
Novembre
Nasce a Torino la fabbrica di automobili “Taurinia”: promotori l’avv. Alby, l’ing.
Darbesio, il signor Canfari
Dicembre
Louis Renault brevetta un dispositivo di alimentazione sotto pressione. E’ il
principio della sovralimentazione che verrà in uso soltanto venti anni più tardi sulle
vetture da corsa
La Fiat, grazie all’ing. Enrico, mette a punto un nuovo sistema di lubrificazione a
pressione
Con l’uscita di Henry Ford dalla Società delle Automobili di Detroit,
questa
assume il nome di “Cadillac”, in onore del fondatore della città
Lo statunitense Ransom Eli Olds alla fine dell’anno avrà prodotto 2000 unità del
modello “Merry Oldsmobile”: un altissimo volume produttivo
Il 1902 non è semplicemente un anno che dista da noi un secolo esatto: è un’altra era, un differente
universo, con regole, orizzonti, obiettivi e scenari che non condividono nulla con quelli attuali. Non
si tratta perciò di immaginarlo semplicemente come un mondo con meno macchine. La differenza
quantitativa, da questo punto di vista è abissale: trecentocinquanta vetture prodotte in tutto l’anno,
mille e cento i veicoli in circolazione in tutta Italia, pari ad una densità di uno ogni trentamila
abitanti (la popolazione era infatti di 33 milioni 700.000). Dunque un mondo sostanzialmente
SENZA macchine. Non basta però questo dato per entrare nello spirito di quegli anni. Consideriamo
che era un mondo erede dell’800 e che, appena venti anni prima, per poter votare ed esercitare il più
elementare diritto/dovere di partecipazione alla vita collettiva, bisognava essere maschi, aver
compiuto venticinque anni, saper leggere e scrivere, pagare imposte dirette superiori alle quaranta
lire, o, in alternativa alle tasse, essere almeno professore, funzionario, membro di accademia. Il che
significava che esattamente il 2,2% della popolazione era ammesso al voto (contro l’11,5
dell’Inghilterra, il 20% della Germania, il 27% della Francia)1. Per essere eletto, un candidato alla
Camera aveva bisogno di appena 500 voti; e questi voti, tra l’altro, non potevano provenire dai
cattolici, legati all’astensione dal pesante “non expedit” (ossia, in latino, “non conviene”) del Papa
Pio IX che con questa formula aveva vietato ai cattolici di recarsi alle urne. Le cose cambiano, negli
anni successivi, ma con estrema lentezza. Ancora nel 1902 ogni deputato poteva essere eletto con
appena 1650 voti. Soltanto due anni dopo si registrarono le prime deroghe al “non expedit”: ma si
dovette aspettare fino al 1912 perché vedesse la luce la riforma giolittiana che concedeva il diritto di
voto anche agli analfabeti di età superiore ai trent’anni. La quota di popolazione che poteva votare
divenne pari al 23,2 per cento (non parliamo del diritto di voto alle donne, che oggi pare tanto
scontato quanto banale, ma in realtà ha poco più di mezzo secolo. Su questo punto emerge un
paradosso: le donne conquistarono subito il diritto di guidare, e di ottenere la patente, perché questo
ne incoraggiava i consumi: ma quanto a dir la loro in politica, ce ne passò).
La legge sull’obbligatorietà dell’istruzione scolastica (fino agli otto anni) era addirittura anteriore
all’Unità d’Italia: si trattava della Legge Casati, del 1859. Ma chi la rispettava? Fu definita dagli
stessi governanti “lettera morta”, e visto che era impossibile farla rispettare, tanto valeva lasciare
diventare il lavoro minorile un pilastro dell’economia, altrimenti “le tenere piantine” sarebbero
cadute “preda delle tentazioni dell’ozio e di una brutale ignoranza” (Il Sole, settembre 1879). Le
considerazioni non cambiano nei decenni successivi; l’istruzione tecnica, inoltre, era assai arretrata,
e quando nel 1902 venne fondata a Milano l’Università Bocconi, specializzata in scienze
economiche, l’avvenimento fu accolto con scetticismo. Anche però grazie al lavoro dei minori e
delle donne (sul quale fu approvata una legge proprio nel 1902, che però non prevedeva neppure il
riposo domenicale), l’industria cresce, soprattutto al Nord. Sono 117.300 le imprese nel 1902, e
diventano 244.000 in meno di dieci anni, nel 1911. Di queste, una quota enorme è priva di forza
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motrice (nel 1911, 191.000 su 244.000; per il 1902 non vi sono dati precisi, ma è comunque
l’assoluta maggioranza), il che dimostra l’arretratezza del sistema. Continuiamo con i numeri,
perché testimoniano la successiva e vertiginosa crescita, sia quantitativa sia qualitativa (il
traumatico passaggio da una economia rurale ad una mista) dell’economia italiana. In mezzo secolo
gli occupati nell’industria passano da 1.275.000 registrati nel 1902 a 2.304.000 nel 1911, a
3.667.000 nel 1951. Si tratta di un grande aumento effettivo, non determinato soltanto dal semplice
espandersi della popolazione: infatti dai 33,7 milioni di abitanti del 1902 si passa ad una
popolazione di 47,5 milioni nel 1951, un aumento ben inferiore, percentualmente, a quello degli
occupati.
Ma i consumi? Perché è bene che vi sia lavoro per un numero maggiore di persone, a patto che
queste possano godersi i frutti della loro fatica. Sotto questo punto di vista, andiamo male. Se
prendiamo il 1902 come anno intermedio del periodo dal 1861 (Unità d’Italia) al 1914 (scoppio
della Prima Guerra Mondiale), i consumi mantengono una dinamica di basso profilo, e crescono ad
una media annua dell’1 per cento. Non subisce variazione la loro composizione: per i due terzi,
dall’inizio alla fine del periodo considerato, sono rappresentati da spese alimentari. C’è spazio, in
questa economia, per l’acquisto di una automobile? Con questi dati sotto gli occhi, la domanda è
persino ridicola.
L’analisi del 1902 ci restituisce un mondo difficile, faticoso, fatto prevalentemente di povertà,
analfabetismo, sfruttamento, miseria. E il popolo, infatti, fa quello che chiunque farebbe in una
situazione del genere: quando può, emigra. Di fronte ad uno sviluppo sociale così lento (dal punto
di vista di garantire vita dignitosa a tutti), economicamente squilibrato ed insufficiente a dare lavoro
a tutta la mano d’opera contadina meridionale, disoccupata o sottoimpiegata, l’unica soluzione è
emigrare all’estero. Nel solo 1902 sono costrette a varcare i confini nazionali 615 mila persone, e
così sarà tutti gli anni fino allo scoppio della Guerra. Il record è nel 1913: 872.598 italiani andranno
a cercare fortuna all’estero, principalmente negli Stati Uniti o in Argentina.
Non sono soltanto contadini affamati che si imbarcano per mete lontane a tentare la fortuna. L’Italia
è inospitale e irriconoscente anche con i suoi cervelli migliori, come Guglielmo Marconi che sette
anni prima del nostro anno-simbolo, nel 1895, era riuscito a compiere a Pontecchio la sua storica
impresa: inviare un segnale radio per via aerea, senza fili, ad una distanza di millecinquecento
metri. Marconi offrì gratuitamente la sua invenzione al Ministero italiano delle Poste e Telegrafi,
ma ricevette un “no grazie, non interessa”. Così, tramite amicizie e conoscenze, si rivolse al
Ministero delle Poste britannico che rispose “grazie, ci interessa, La aspettiamo” e si trasferì in
Inghilterra. Dove, nel 1896, il 2 giugno, brevetterà il “telegrafo senza fili” e fonderà una società per
lo sfruttamento dell’invenzione. Nel 1901 Marconi, sempre dall’Inghilterra, effettuò la prima
trasmissione al di là dell’Atlantico. Nel 1909 fu insignito del Nobel (un’Istituzione tra l’altro nata in
quegli anni, nel 1901) per la Fisica.
Servono altri dati, per avere un’idea di come si viveva nel 1902 e per capire come si inseriva
l’automobile in questa società? Alla luce di quanto abbiamo visto, infatti, pare spropositata
l’attenzione riservata a questa strana invenzione. Circoli, clubs, giornali, riviste, interpellanze in
Parlamento, per discutere della velocità massima, del regolamento di circolazione, dei modelli
nuovi, dell’efficienza di nuovi dispositivi, di corse e tentativi di record... Una eco smisurata rispetto
alle effettive dimensioni del fenomeno, una eco sicuramente dimensionata soltanto sul “potenziale”
dell’automobile, sulla sua componente di “divertissement” per ricchi, di risorsa fiscale per il
governo, di sperimentazione per gli industriali. Pare fin troppo tempestivo il “Nuovo Regolamento
per la circolazione degli automobili sulle strade ordinarie”, entrato in vigore il 10 dicembre 1901 e
che perciò ebbe nel 1902 il suo primo anno di applicazione. Non sussistevano certamente
condizioni di circolazione (1100 veicoli in tutta Italia!) che lo imponessero. Scaturiva invece da una
decisa volontà del governo di non perdere l’opportunità di tassare qualcosa che sembrava avere
ottimo avvenire, e a questo riporta l’obbligo, imposto al proprietario e al conduttore, di presentare al
Prefetto domanda per ottenere rispettivamente la prova tecnica e la conseguente licenza di
circolazione per l’automobile, e l’attestato di idoneità del conduttore. Non tutto era chiaro, tanto che
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la “Stampa Sportiva”, nel gennaio del 1902, scrive “Il Regolamento è tuttora una impenetrabile
sfinge…nessuna patente è ancora stata concessa…nessuna prova di veicolo compiuta”. E’ invece
chiaro cosa occorresse pagare: una tassa governativa di venti lire (oltre alle domande per la licenza,
rigorosamente in carta da bollo da centesimi 50), a cui il Comune di Torino si affretta ad aggiungere
un ulteriore balzello di sessanta lire, raddoppiato quando sugli sportelli figurassero stemmi o corone
nobiliari. Se si esclude quest’ultima possibilità, risulta una tassa di 80 lire: quasi 260 Euro di oggi.
Con un titolo nobiliare esposto, l’ammontare arrivava a 140 lire (circa 440 Euro). E i limiti di
velocità, ancora oggi a distanza di un secolo tema incandescente? Come abbiamo visto (Auto
d’Epoca novembre 2001) nel 1902 una vettura con motore a scoppio per la prima volta al mondo
supera i 100 chilometri all’ora. A fronte di tale potenzialità, il regolamento stabilisce un massimo di
25 chilometri all’ora in aperta campagna; di 15 chilometri all’ora in città, da non superare anche in
campagna se si viaggia di notte.
Quella della velocità è un’ossessione. Tutto si sta velocizzando: è il concetto simbolo dell’epoca,
preso a prestito e sfruttato dai futuristi, che ne avevano colto il significato rivoluzionario. In due
secoli (ma l’ultimo balzo è quello fondamentale) la velocità del viaggiare si è centuplicata: nel 1901
con il treno di lusso Mediterranée Express la distanza tra Parigi e Lione si copre in sette ore e
mezza, ben poche, confrontate con i cinque giorni impiegati da una diligenza a cavalli. Il lavoro
nelle fabbriche si uniforma a questo concetto, si misura su un ritmo che si fa via via sempre più
frenetico. La vita stessa si fa più scandita: dalle sirene di fabbrica all'orologio da polso, il cui uso
comincia a diffondersi soltanto adesso, ad imitazione degli Ufficiali britannici impiegati nella
guerra contro i Boeri, che lo ricevettero tra il 1899 e il 1902 come equipaggiamento standard. Ma se
da una parte la velocità è perseguita sistematicamente, dall’altra la velocità dell’automobile pare un
mostro da imbrigliare a tutti i costi: forse perché individuale, e perciò potenzialmente sinonimo di
libertà e trasgressione. In Francia quell’anno si costituì una lega contro l’abuso della velocità
dell’automobilismo, presieduta dall’ex deputato Franconie, che raccolse in breve una quantità di
persone altolocate, magistrati e deputati. In Inghilterra si studiò un sistema ingegnoso per
controllare la velocità: si collegarono diverse postazioni di polizia con un telefono. Quando passava
un’auto, il poliziotto ne annotava la targa e telefonava al suo collega al posto di guardia successivo,
il quale controllava l’ora di passaggio della vettura segnalata: dal tempo impiegato era facile risalire
alla velocità. Un sistema non affidato al caso, come succedeva per la maggior parte delle
contravvenzioni elevate in Italia, che venivano comminate (in mancanza di rilevatori specifici) “a
sensazione”, ossia a naso. Un naso a cui non sfuggì neanche Puccini, che nel dicembre 1902 é
multato dalla Pretura di Livorno per eccesso di velocità.
In ogni caso, per quanto ostacolate, vessate, tassate e costosissime, queste prime millecento vetture
del 1902, e quelle in circolazione nel resto d’Europa, sono la sparuta e coraggiosa avanguardia di un
esercito che invaderà il mondo e sbaraglierà ogni previsione. Timidi accenni di come si
svilupperanno gli anni a venire ne troviamo ovunque, a saper leggere tra i piccoli e grandi
avvenimenti di quel tempo. Nel 1901 a Parigi erano stati censiti esattamente 96.698 cavalli: una
cifra immutata da anni. Per la prima volta, nel 1902, tale cifra diminuisce di 6.000 unità. Cos’era
successo? Nient’altro che la concorrenza della “Métropolitain” inaugurata nel 1900 (con le sue
bellissime pensiline progettate da Hector Guimard, che diventeranno quasi il simbolo della Parigi
Belle Epoque), dei trams elettrici, delle vetture private: insomma, della modernità. Il Sultano di
Costantinopoli quell’anno per la prima volta affiancò nelle scuderie dei suoi splendidi cavalli
purosangue (ne possedeva oltre duemila) una automobile, di cui però ancora non osava servirsi. Più
coraggioso di lui l’imperatore delle Russie, proprietario di undici automobili. Il Console degli Stati
Uniti a Beirut segnala che l’automobile comincia ad essere richiesto (è ancora maschile) anche in
Siria e in Palestina. Il nostro Re Vittorio, per non essere da meno delle corti europee, compie vari
viaggi in automobile, tra cui uno che dalla Residenza di Racconigi lo porta al Moncenisio, toccando
al ritorno Susa, Cesana, Fenestrelle e Pinerolo, passando per Sestrières e guidando di persona. Il
Barone Alberto Franchetti, rinomato musicista, celebra la sua diciottesima automobile acquistata:
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per la cronaca, una Fiat con cui nell’agosto compie un viaggio turistico di 2500 chilometri in
Francia e sui Pirenei.
Ma il 1902 è anche un anno in cui si studiano possibili alternative al motore a scoppio alimentato a
benzina. Per esempio l’alimentazione ad alcool, particolarmente promossa nel Nord Europa. A
Vienna si pensa ad una grande “Esposizione Internazionale”, prevista per il 1903 proprio allo scopo
di far conoscere l’importanza dell’alcool. Il Ministro della Guerra dell’Impero Germanico bandisce
insieme al Ministro per l’Agricoltura un concorso per la costruzione di un veicolo ad alcool,
mettendo in palio tre premi sostanziosi. A Parigi un’intera sezione del Salone dell’Automobile del
Ciclo e degli Sports, è dedicata alle vetture ad alcool, vista anche la concomitanza di un “Congresso
Internazionale per l’alcool denaturato”, previsto sempre al Grand Palais, e che si articola in cinque
sezioni, tra cui l’Automobile.
Gli inventori però, a differenza dei governi, sembrano attratti da soluzioni più stravaganti. Per
esempio la vettura ad aria, esposta al Salone di Londra all’inizio dell’anno dalla Liquid Air
Company: era mossa (si fa per dire) dall’aria atmosferica liquefatta e mantenuta ad una temperatura
di 312 gradi sotto zero in cilindri di rame, nei quali si era praticato il vuoto. O la vettura elettrica
presentata a giugno dalla “City and Suburban Electric Carriage Company” di Londra, che riuscì a
percorrere 203 chilometri senza bisogno di ricarica. Pesava nientedimeno che due tonnellate: i due
accumulatori, ripartiti in due batterie di 44 elementi ciascuna, pesavano da soli una tonnellata. O la
vettura a vapore senza differenziale, proposta dalla Springfield Motor Company del Massachussetts:
due motori a vapore di 9 cavalli ciascuno, riuniti per mezzo di una catena alle ruote anteriori
motrici. Quando il veicolo sterzava, il motore di quel lato rallentava, a differenza del secondo che
aumentava la spinta. O ancora il mostro costruito dalla White Steam Wagon Company di
Indianapolis, lungo nove metri e largo tre, azionato da un motore a vapore di 35 cavalli, e dotato di
gomme con diametro di trenta centimetri. La carrozzeria era costituita da una piccola cabina posta
sul davanti e destinata al meccanico; il resto del telaio era invece coperto di tavoloni per il carico
delle merci. Il tentativo di Edison, invece, parve fondarsi su presupposti più scientifici. Costruì un
automobile provvisto di una batteria di sua concezione, e riuscì a percorrere, con un ospite a bordo,
una distanza di 96 chilometri. Questa esperienza spronò anche Marconi a non essere da meno: a
distanza di un solo mese, l’inventore italiano ideò un motore elettrico del peso di 135 kg, col quale,
affermò, si potevano percorrere fino a 900 chilometri senza dover ricaricare le batterie. Sarebbe
stata l’invenzione del secolo…Purtroppo non se ne seppe più nulla. Interessante parve anche
l'’idrovelo, ossia la bicicletta a motore acquatica, costruita dal torinese Umberto Cattaneo, sotto la
direzione dell’inventore, ing. Durio. Si trattava di due tubi di zinco lunghi 4,30 metri, sistemati a
sostegno di un telaio “cui sovrasta una bicicletta senza ruote”, ma dotata di manubrio e pedali.
Sembra che l’unica “prova su acqua” che riuscì a compiere fu sul Lago d’Orta durante la quale, per
miracolo, non si rovesciò. Se l’idrovelo pare curioso, il Cervo Volante Dirigibile inventato dal
signor Sorcinelli, di Fano, è al di la’ di ogni definizione, ma tale non parve all’Esposizione di
Marsiglia dell’anno, dove venne addirittura premiato con una medaglia d’oro. Si fondava sul
principio della compressione dell’aria per la forza ascensionale, ed era composta da un cervo
volante (una sorta di aquilone) e da una macchina, montata su quattro ruote, ch richiamava la forma
di un siluro; era munita alle estremità di due eliche, che avrebbero dovuto costituire la propulsione
… L’inventore stesso comunque ebbe ad ammettere che si trattava di una trovata teorica, anche se
fondata su principii scientifici indiscutibili (o quasi).
Viene da pensare, in mezzo a tanti allegri folli della meccanica e della fisica, che chi riuscì
effettivamente ad imporre la propria invenzione era altrettanto folle, soltanto più fortunato. Fu nel
1902 che quei due pazzi e coraggiosissimi fratelli Wright (Ohio) sperimentarono alcuni tipi di
alianti, per poi arrivare, l’anno dopo, al primo volo a motore della storia dell’aviazione. In fondo,
agli occhi di un uomo del 1902, che differenza c’era tra il cervo volante e il complicato velivolo
guidato da Orville Wright per ben 39 secondi a Kitti Hawk, in Carolina del Nord, nel dicembre
1903? Sembrava ben più concreta e affidabile la ferrovia, di cui nel 1902 si celebrò la
consacrazione, aprendo anche ai passeggeri il tratto asiatico della Transiberiana (25 agosto). Già
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l’anno prima erano iniziati i primi trasporti di merci; ma con l’avvio del traffico passeggeri iniziò la
leggenda di questa linea ferroviaria, la più lunga del mondo con i suoi 7.411 chilometri. La
Transiberiana si aggiungeva perciò alle grandi linee ferroviarie costruite in tutto il mondo: dalla
transcontinentale degli Stati Uniti (1869, da Omaha, sul Missouri, fino a San Francisco); alla
Canadian Pacific Railway (1885, da Ottawa a Vancouver, sul Pacifico); alla Transcaspica (1887, dal
Mar Caspio fino a Samarcanda), alla Centrale Peruviana (1893, la più alta del mondo, dal porto di
Callao a La Oroya, passando vicino ad Antigona, a 4784 metri di altezza); alla Transandina (1910,
da Mendoza in Argentina a Los Andes in Cile). E in Italia? Nel nostro Paese fu forte la
consapevolezza che la trasformazione da economia prevalentemente agricola ad industriale aveva
bisogno sia di facilità di trasporto sia di facilità di comunicazione. E difatti, dall’Unità fino al 1914,
la rete ferroviaria cresce ad un ritmo del 3,9% annuo. Ma basta un dato anche per capire tutta la
storia successiva: l’estensione della rete ferroviaria attuale è, grosso modo, quella raggiunta nel
1914. Ed è su questo che si fondò l’impetuoso dilagare, soprattutto nella seconda metà del secolo,
dell’automobile sia per il trasporto merci sia per la mobilità individuale. Non è un caso che nel 1902
venne inaugurato uno dei primi servizi automobilistici italiani, sul tragitto di cinquanta chilometri
tra Norcia e Spoleto, con un autobus a vapore De Dion Bouton.
Come sempre, al termine di questo sforzo di ricostruzione, emerge chiara l’impossibilità di
racchiudere un anno intero all’interno di una definizione. Sembra un anno proteso verso il futuro
(ma non lo sono tutti, per il solo fatto che scorrono?), desideroso del nuovo, al punto di stabilire nel
Regolamento della Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa, che si tenne a Torino in
primavera, che doveva essere esclusa ogni imitazione degli stili del passato. Tutto nuovo: si
ricomincia. Cosa che l’uomo spera sempre, nella convinzione che, cambiando le cose intorno a sé,
cambino anche dentro di sé. Invece l’uomo è sempre uguale. Ce lo conferma anche la vicenda della
moglie di un certo dottor Milton, noto e ricchissimo possidente a Chicago, che nel 1902 fece istanza
per divorziare dal marito, reo ai suoi occhi di trascurarla per una esagerata passione tutta favore
delle sue automobili. Una delle solite “vedove della domenica” che, a differenza di Rita Pavone che
negli anni sessanta si chiedeva “perché perché la domenica mi lasci sempre sola / per andare a
vedere la partita / di pallone?” avrebbe cantato con altrettanta energia “perché perché la domenica
mi lasci sempre sola / per andare a guidare / la vettura?”
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile
2002
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