Recensioni libri sul calcio
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Recensioni libri sul calcio
FEBBRE A 90’ Libro divenuto ormai culto della letteratura sportiva. L’autore, l’inglese Nick Hornby, analizza e seziona con sincerità la sua passione per il calcio. Lo fa in maniera spassosa e sempre lontana dal “politicamente corretto”. Ciò che spesso, in nome di sportività e lealtà, non si ha il coraggio di confessare, Hornby lo dichiara con forza: sportività e lealtà sono sì grandi valori, ma il tifo “è un’altra cosa”! Infatti la passione per il calcio e per la propria squadra trasformano radicalmente la vita di un uomo e ne condizionano i rapporti. Lo dice con cognizione di causa, avendo egli stesso impregnato di tifo ogni aspetto della sua vita. Eccone alcuni esempi. “qualche volta mi lascio totalmente sopraffare e tutta la mia vita calcistica mi balena davanti agli occhi ( il pallonetto che supera il portiere avversario, il gran tiro al volo, il colpo di tacco smarcante, il destro nell’angolo opposto ) - A cosa stai pensando? – chiede lei. A questo punto mento. Non stavo affatto pensando a Gerard Depardieu o al Partito Laburista. D’altronde, gli ossessionati non hanno scelta: in occasioni come queste devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale”; “a venti minuti dalla fine l’Exeter passò in vantaggio e la mia ragazza, prontamente, fece quello che avevo sempre presunto che le donne fossero capaci di fare nei momenti di crisi: svenne. La sua amica la portò fuori dal medico; io, nel frattempo, non feci niente, a parte pregare per un pareggio, che arrivò, seguito pochi minuti più tardi dal gol della vittoria. Fu solo dopo che i giocatori avevano fatto saltare l’ultimo tappo di champagne sulla folla esultante che cominciai a sentirmi in colpa per la precedente indifferenza, ma quando sono a una partita, non ho voglia di dovermi occupare di qualcuno; quando sono a una partita non sono in grado di occuparmi di qualcuno. Se dovesse succedere di nuovo, avrò la decenza di assicurarmi che le vengano prestate le cure adeguate? O sposterò in un angolo il suo corpo accasciato, continuando a prendermela con il guardalinee e sperando che lei respiri ancora alla fine dei novanta minuti, sempre che non si arrivi ai tempi supplementari e ai rigori?”; “lo Swindon segnò altre due volte: il primo fu il risultato di un’azione confusa, mentre il secondo venne realizzato dopo una splendida fuga di cinquanta metri, e fu decisamente troppo da sopportare. Al fischio finale mio padre si alzò in piedi ad applaudire quegli straordinari sfavoriti, e io, sentendomi tradito, corsi verso l’uscita. Mio padre poi mi propinò le sue idee sullo spirito sportivo con grande ardore, ma a me cosa me ne fregava dello spirito sportivo?” Noi, come ci saremmo comportati? Confesseremmo con altrettanta sincerità le nostre “debolezze”? Hornby è tifoso dell’Arsenal, di cui non perde una partita e per cui annulla appuntamenti o inviti: ne racconta le vicissitudini, i pochi momenti radiosi e i molti anni infelici. Il libro, quindi, è impregnato di Arsenal, ma il lettore può sostituire questo nome con quello della propria squadra, specialmente se questa non è proprio di primissima fascia: troverà gli stessi patimenti, i nodi alla gola, i battiti accelerati del cuore e i crampi allo stomaco; troverà le speranze, le giornate condizionate dai risultati, le arrabbiature inconsolabili e la pazzia della gioia per un pallone che varca la linea di porta e gonfia la rete. Non potrà che essere d’accordo con le sue parole “quando giochiamo in casa ho una tale paura di perdere che non riesco a pensare o a parlare, e certe volte nemmeno a respirare” Il libro è anche un’esplorazione di alcuni significati che il calcio sembra racchiudere. Lo stesso Hornby, nella prefazione, afferma che “nonostante i particolari esposti riguardino solo me, spero stuzzichino quanti si siano mai scoperti andare alla deriva, nel bel mezzo di una giornata di lavoro o di un film, verso un sinistro al volo nel sette, sferrato dieci o quindici o venticinque anni fa” e ancora “mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé” In un panorama con colonna sonora fatta dai dischi dei Led zeppelin, Van Morrison, Ramones, l’autore affronta i temi legati al calcio partendo sempre dal suo vissuto personale, col presupposto che “la vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa per 2-0 contro i primi in classifica con la pancia piena di patatine fritte” Racconta così esperienze di piccolo hooligan “chi vuole rimanere uguale a se stesso per tutta la vita? A me, una volta tanto, anziché essere l’idiota provinciale occhialuto dalle orecchie a sventola, piaceva riuscire a spaventare i negozianti. Le mie occasioni di intimidire la gente erano state fino a quel momento piuttosto limitate, anche se sapevo che non ero certo io che facevo scappare le persone; eravamo noi, e io ero una parte del noi, un organo del corpo hooligan. Il fatto che fossi l’appendice – piccola, inutile – non importava niente”; esperienze di maschio sotto la lente indagatrice delle donne ”una mia collega si rifiutò letteralmente di credere che io guardavo l’Arsenal, incredulità a quanto pare dovuta al fatto che una volta avevamo parlato di un romanzo femminista. Come potevo aver letto quel libro ed essere stato allo stadio? Dì a una donna intelligente che ti piace il calcio, e ti farai un’idea piuttosto deprimente della concezione che le donne hanno dell’uomo”; esperienze di convivenza col razzismo “vorrei che i commentatori di calcio esprimessero molta più indignazione di quello che fanno, vorrei che l’Arsenal chiedesse davvero di buttare fuori i tifosi che intonano canzoni su Hitler che asfissia gli ebrei, vorrei che tutti i giocatori, bianchi e neri, manifestassero di più il loro disgusto. Ma vorrei soprattutto essere enorme e di indole violenta, per poter affrontare qualsiasi problema che sorge nei mie paraggi in maniera adeguata alla rabbia che provo” In Febbre a 90’ ogni capitolo è accompagnato dall’atmosfera e dall’andamento di una partita, partendo dal battesimo della prima volta dell’autore, nel ’68, al ’92, passando così dalle emozioni del ragazzino alle considerazioni dell’adulto, con un percorso che diventa anche indagine sociale; piccole autobiografie che suonano il suo essere tifoso, con tutti gli accordi, quelli belli e quelli stonati. Assistere a una partita per Hornby non è un divertimento, è pura sofferenza, ma alla quale non si può rinunciare: è un atto di appartenenza, di fede. “quella vittoria a Wembley fu tanto mia quanto dei giocatori, e io faticai tanto quanto loro. L’unica differenza tra loro e me è che io ci ho dedicato più ore, più anni, più decenni di loro, e quindi capii meglio quel pomeriggio, e apprezzo di più la ragione per cui il sole brilla ancora quando lo ricordo” E lo stadio diventa simulacro della vita “non trovi niente di simile fuori da uno stadio; non c’è nessun altro posto in tutto il paese in cui ti senti come se tu fossi al centro di tutto. Perché in qualunque discoteca o ristorante tu vada, o qualunque commedia, o film, o concerto, la vita sarà andata avanti in tua assenza, come sempre; ma quando sono allo stadio a vedere certe partite, è come se il resto del mondo si fosse fermato e fosse accorso fuori dallo stadio, ad aspettare di sentire il risultato finale” Per Hornby, come per tutti gli ossessionati di calcio, l’apoteosi rimane però il gol. Ecco, a conclusione, un esempio, testimonianza di una vittoria sofferta: “sapevo che era solo un gioco, che succedono cose peggiori nel mondo, che in Africa la gente muore di fame, che avrebbe potuto esserci un olocausto nucleare; sapevo che il punteggio era ancora sul 2-2. Ma niente di tutto questo poteva essermi d’aiuto. Guardavo, ma non vedevo… poi Alan Sunderland mise il piede sul pallone, lo infilò dentro, proprio nella porta di fronte a me, e io non gridai SI o Gol o uno di quei versi che normalmente mi salgono dalla gola in questi momenti, ma solo AAAARRRRGGGGHHHH, un rumore che nasceva da gioia assoluta e incredulità” FUTBOL Il libro di cui oggi consiglio la lettura è di un autore considerato a ragione un classico della letteratura sudamericana, l’argentino Osvaldo Soriano. In gioventù fu un centravanti di buone speranze, stroncate purtroppo da un incidente; tifoso del San Lorenzo, si convertì prima in cronista sportivo e poi in scrittore. Tra i libri che lo resero famoso, tassativamente scritti di notte, spiccano quelli di argomento calcistico. Di norma, tranne in rarissimi casi, gli esperimenti di fiction ambientati nel mondo del calcio sono stati inferiori alle aspettative: Soriano è una di queste eccezioni. FUTBOL racchiude 25 racconti, scritti con penna finissima, capace di tingere, con il colore della qualità, lande deserte, campi pietrosi, acquitrini, fango, terra e miseria. L’autore parla di calcio, ma non dimentica la sua militanza per la democrazia e lancia forti critiche alla violenza del potere, con accuse mascherate da humor e dotate di una profondità straordinaria. I racconti sono popolati da personaggi “imperfetti”, reali o nati dalla sua fantasia; personaggi che giocano partite senza fine, contro un avversario o contro la vita, descritti con lo stesso amore, siano grandi campioni od oscuri portieri, arbitri impossibili o allenatori visionari: tutti sognatori o fuggitivi, persi tra i bordelli di provincia, alla caccia di difficili successi su campi che mai hanno visto un filo d’erba. Personaggi che incarnano il desiderio di rivincita contro un destino gramo. Leggere i racconti di FUTBOL è come far girare una ruota della fortuna: ovunque si fermi si vince un premio. Affascinante, pur nella descrizione di uno psicodramma collettivo, è il primo racconto, “Obdulio Varela”, dove si scoprono una solidarietà e un senso sportivo ormai perduti. Varela, capitano di quell’Uruguay che vinse per 2-1 la finale di Coppa del Mondo del 16 luglio 1950 contro il Brasile, rovinò la festa ai 150.000 presenti al Maracanà e al popolo brasiliano intero. Ci furono ambulanze tutta la notte, ci furono suicidi. Lui ebbe rimorso per tutta la vita, arrivando a dire che se avesse potuto rigiocare quella partita si sarebbe segnato un gol contro. “…ci siamo ficcati in un angolo a bere e da lì guardavo la gente. Tutti stavano piangendo. D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato. Piangeva come un bambino e diceva – Obdulio ci ha fottuti – Io lo guardavo e mi faceva pena. Mi sentivo male. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza? Il proprietario del bar si è avvicinato a noi insieme a quel tizio. Gli ha detto – Lo sai chi è questo qui? E’ Obdulio – Io ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: - Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce? – Come potevo dirgli di no! Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all’altro…” Leggendo i racconti di Soriano, el Gordo, ci si perde nel tempo dilatato, nella realtà sfumata, nelle fantasie che varcano continenti e rigidi schemi: come potrebbe se no esistere la storia “Il rigore più lungo del mondo”, vera chicca della nostra ruota letteraria. “…l’arbitro, Herminio Silva, fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente, e indicò il punto del rigore. A quell’epoca, il luogo dell’esecuzione non era segnato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccogliere il pallone perché l’ala destra, detto el Cholo, lo stese con un pugno sul naso. La rissa durò così tanto che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare il campo né di risvegliare Hermino Silva. Il commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria… Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a partire dall’esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Diaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica dopo a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana…” Ma nei campi di calcio di Soriano ne succedono di tutti i colori: può capitare che l’allenatore fornisca agli attaccanti spine di cactus per pungere le natiche dei portieri avversari (“Orlando el Sucio”); che el Cacho, dotato di un’ugola d’oro, abbia il compito, prima dell’inizio della partita, di andare a trovare gli avversari, soprattutto il portiere, per farli parlare e apprenderne le tonalità della voce: una volta in campo la sua qualità d’imitatore viene buona per ingannare col suo “lascia!” avversari che non ribattono la palla e la consegnano ai suoi piedi marpioni (“Centrofobal”); che nella sperduta Patagonia si giochi il mondiale del ’42, quello che a causa della guerra non figura in nessun libro di storia, quello dove gli arbitri utilizzano la pistola per farsi rispettare, i portieri difendono la porta con il lancio di pietre, dove si assegnano 3 rigori di fila per punizione, ma che spesso non si possono tirare a causa della sparizione delle porte, dove le donne mapuches assistono agli incontri ballando a seno nudo (“Il figlio di Butch Cassidy”); dove un allenatore si presenta come l’antesignano del modulo d’attacco, un precorritore di Zeman: per lui il gioco del calcio è fare gol. I difensori perdono così il posto in squadra e fanno festa gli attaccanti. Leggiamone alcune righe: “…ricordo una partita in cui eravamo sul 4 a 4: sono andato in difesa per aiutare Pedrazzi ad arginare un contropiede e ho dovuto fermare la palla sulla linea di porta. Alla fine del primo tempo, negli spogliatoi, el Mister mi è venuto vicino e ha cominciato a sgridarmi: - Che ci faceva lei lì, a perdere tempo! La sua porta è l’altra, cazzo!” (“Peregrino Fernandez”); nello stesso racconto l’allenatore, molto fantasioso, fa giocare la propria squadra con 12 e perfino 13 calciatori: “…faceva cambiare il cileno Jara, lo nascondeva tra il massaggiatore e il factotum della squadra e all’improvviso, appena si scatenava un parapiglia attorno all’arbitro, lo faceva entrare in campo di nascosto. Il trucco funzionava quasi sempre…” Nella loro assurdità questi racconti portano a dubitare che sia tutto frutto della sua fantasia: ci sono i nomi e i soprannomi dei giocatori, le date, gli stadi, i riferimenti a squadre europee e italiane, ci sono Pelè e Maradona, ma, sia come sia, è bello crederci. Come bello è credere al voto della prostituta francese Zulema che, ci ricorda Soriano, sarebbe piaciuta a Fellini: “…Il suo contributo allo sforzo bellico dei compatrioti era stato fermo e deciso: fino alla liberazione di Parigi non un solo uomo di nazionalità tedesca si distese sulle sue lenzuola…” (“Geneviève”) Soriano, amante delle donne, del calcio e della sua espressione massima, il gol: “…per il gol c’è un angelo particolare. Un non so che. O ce l’hai o non ce l’hai. Tu l’hai visto: ci sono attaccanti che non segnano più di cinque gol a campionato, non è serio!” (“Nostalgie”) Per concludere segnalo come l’esplosione della sua narrativa si componga magnificamente nelle pagine del racconto “Lo scudetto del ciclone rossoblu”, archetipo dei sogni, delle gioie e pazzie di tutti i tifosi che amano squadre minori, “grandi” solo nel loro cuore: “…che cosa significhi essere campioni, domandate? Guardate: è qualcosa come uno champagne ben secco e gelato che scende per la gola. Un solletico lieve lì dove ti piace. La pelle che ringiovanisce di colpo. In una sola notte ai calvi tornano i capelli, spariscono i bruciori di stomaco. Io, per esempio, usavo gli occhiali per leggere e scrivere. Bene, non più, sono guarito. Queste righe che sto scrivendo scendono dalla mano di Dio onnipotente, vedo le lettere di “San Lorenzo campione” con la stessa nitidezza con cui Beethoven riusciva a udire al di là dei brusii e della sordità. Ragazzi del glorioso Ciclon: grazie di tutto. Tornate a casa felici. Questo non sarà il Boca né il River né il Milan, ma ha la sua storia e un cuore grande come una lingua di cinghiale. Siete già nella nostra piccola storia. Potete chiedere quel che volete e vi sarà dato. Avete vinto con i colori che io posso vestire soltanto nei miei sogni. Le tre di notte a Parigi. Telefono per affittare uno smoking e una Rolls Royce e poi esco a incendiare la notte. Che mi trovino sbronzo su un ponte della Senna o fra le braccia di Margherita Gautier. Fate largo, passa un campione!...” Racconti bellissimi che trascendono dal calcio e parlano della vita. GIULIETTA E’ NA ZOCOLA FANTASIA AL POTERE, UNA RISATA VI SEPPELLIRA’: chi, come me, era giovane nel ’68 ricorderà questi slogan, scritti sugli striscioni, sui muri delle città e urlati nelle manifestazioni. Slogan dalla potenza dirompente, sebbene scevri da una connotazione politica immediata: il sogno era scardinare la staticità del sistema con la leggerezza, apparente, della gioia e del non prendersi troppo sul serio. Il libro di cui voglio consigliarvi la lettura, il primo della mia collaborazione con Nerazzurro, va proprio nella direzione dello scherzo, della risata o, quantomeno, del sorriso. GIULIETTA E’ NA ZOCCOLA, anno 2004, del comico cabarettista Cristiano Militello è un’esilarante carrellata di slogan riportati sugli striscioni esposti negli stadi italiani. Libro da sorseggiare nel dopopartita come un tempo veniva consigliato di fare con il liquore sponsor ( ma all’epoca non era ancora in voga questo termine ) della trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”: buono per ogni occasione, vittoria, sconfitta o pareggio. Buono per rifarsi degli sfottò degli avversari, per lenire offese e proclami di superiorità, per rivendicare, al di là dei risultati, la propria appartenenza ai colori d’una maglia amata come la mamma, per sfogare la propria goliardia troppo spesso tarpata dalle regole del “buon comportamento”. Soprattutto per liberare una delle armi più potenti a disposizione di noi uomini, l’ironia. Gli striscioni che con sagacia Militello menziona sono solo una piccola parte della vasta produzione artistica dei tifosi: tutti insieme fascerebbero facilmente tutta l’Italia, dando vita a un’opera degna del miglior Christo, l’artista bulgaro-americano che impacchetta i monumenti e avvolge con stoffa ponti e strade. Negli stadi però si sa essere più allegri e popolari. Vediamo. Critica sociale e politica, AGNELLI, NON FARE IL FURBO: VENDI LA JUVE NON GLI OPERAI ( Roma-Juve 2002/03 ), FININVEST SANGUISUGHE ( MilanBari 1990/91 ), MA QUALI STALINISTI: SOLO BAGNINI E SURFISTI ( LivornoPisa 2001/02 ); ironia feroce su usi e costumi, SIETE COME I CAPELLI DI CONTE: FINTI ( Torino-Juve 2001/02 ), CEPU: RIMBORSATE DEL PIERO ( Inter-Juve 1999/00 ), BASTA CON LA VIOLENZA- VIA LA POLIZIA DAGLI STADI ( Cosenza ), RESISTETE CHE PIOVE ( Fiorentina- Napoli 1991/92 ); flash presi a prestito da musica, cinema e letteratura, CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI PER NON VEDERE POTENZA ( Matera-Potenza 2000/01 ), ANCHE I RICCHI RUBANO ( Milan-Genoa 1989/90 ), ABBASSO I BEATLES-W LANDO FIORINI ( Roma-Liverpool 2001/02 ), VOLA AL CINEMA CON MARLON BRANDAO ( Inter-Milan 1991/92 ); ispirazione religiosa, SAN LUCA SE BUCA ( Bologna-Roma ), Il SANTO DEGLI SCEMI: SAN SEPOLCRO ( SangiovanneseSansepolcro ), DIO C’E’ E HA IL CODINO ( Brescia-Bologna 2001/02 ); goliardia maschilista, VOI COMASCHI-NOI COLLE FEMMINE ( Fiorentina-Como 1988/89 ), TU CHIEVO-IO CHIAVO ( Chievo-Bologna 2001/02 ). Intelligenza spicciola dirà qualcuno, dimostrando così la sua scarsa sportività e dimenticando che il fare classifiche sul potenziale intellettivo del prossimo è già l’anticamera del razzismo. Per me, invece, lampi di genialità che il libro di Militello permette di non far cadere nell’oblio, strappandoci un sorriso e facendoci sperare che il calcio, il gioco più bello del mondo, possa sempre divertirci. Il libro di Militello è anche un’occasione per ridere di noi. Io, tifoso del Cagliari, ricordo uno striscione degli anni ‘70/80 che diceva VI RUBEREMO IL GREGGE: geniale, ma prego affinché nessuno lo attui, mi piace troppo il pecorino. Impossibile poi non citare il botta e risposta fra tifosi veronesi e napoletani che dimostra come anche l’offesa o l’augurio cattivo possano stimolare l’intelligenza e l’arguzia della risposta: VESUVIO FACCI SOGNARE ( Verona ) e GIULIETTA SI ‘NA ZOCCOLA ( Napoli ). Talmente bello il secondo da meritare il il titolo del libro. Vorrei in conclusione citare uno striscione che non compare in questa rassegna, ma che dimostra le stranezze e le storture del mondo del calcio: uno striscione considerato pericoloso, non autorizzato, che ha subito il tentativo di rimozione da parte delle forze dell’ordine, rimozione per fortuna poi non attuata. Bergamo 6 ottobre 2007, Atalanta-Udinese: partita che festeggiava il centenario della fondazione della squadra nerazzurra. ATALANTA FOLLE AMORE NOSTRO IL CALCIO ALLA SBARRA Il libro di oggi è per persone forti, quindi, prima di leggerlo, è opportuno porsi alcune domande: ho lo stomaco abbastanza saldo per resistere a tutte le schifezze che verrò a conoscere? Sono sufficientemente sportivo da accettare critiche alla mia squadra del cuore? Posso sopportare la terribile notizia che i miti, se mai sono esistiti, sono una razza già da tempo estinta? Se avete risposto ogni volta sì, potete procedere: non abbiate paura di essere toccati nel cuore della vostra fede calcistica perché, vi assicuro, siete in buona compagnia. Ogni maglia, dalla più blasonata a quella misconosciuta, è parte del meccanismo perverso che ha infestato il nostro calcio. Il libro di Oliviero Beha e di Andrea Di Caro è crudele, crudele come ogni avvenimento che mina la nostra serenità. S’insinua nelle nostre certezze (?) rivelando scandali, combine, scommesse; sciorinando nomi di farmaci proibiti e stravaganti somministrazioni ( vi sembra normale somministrare 240 flebo in un anno a un calciatore? ), con medici, direttori sportivi e calciatori conniventi; elencando procuratori e presidenti facili all’evasione fiscale, alla bancarotta, all’entrata in Borsa, alle plusvalenze, alla tratta di ragazzini extraeuropei codificati come “merce” e non dimenticando quei politici che hanno varato le leggi spalma debiti. L’olezzo che si sprigiona è infernale, ma, parafrasando una famosa battuta di Totò, SIAMO UOMINI O STRUZZI? Leggiamo. Uno dei primi elementi presi in considerazione dal libro è l’impatto prodotto dall’intromissione massiccia della televisione nel mondo del calcio e del tifo. Così si esprimono gli autori: “l’importante è il prodotto TV, il pubblico di consumatori, di tifosi, che chiama pubblicità in base ai grandi numeri. E’ l’indotto che prevale sulla partita, sulla sua regolarità”. Ancora: “truccano le partite così da garantire le vincite al banco delle scommesse? E il tifoso non solo si è bevuto partite truccate, ma non vede l’ora che lo scandalo finisca, possibilmente che la squadra avversaria, che è stata promossa, venga penalizzata o retrocessa ma soltanto perché ci guadagni qualcosa la squadra propria, e che al più presto il calciomercato e il calcio giocato mettano in fuga scandalosi fantasmi”. Ma se questo pensano i tifosi, qual è l’opinione degli addetti ai lavori? Un grande giocatore, dopo una cocente sconfitta in Champions rilascia questa dichiarazione: …siamo stati superiori al Borussia, ma l’arbitro non ha avuto il coraggio di darci il rigore, certe sue decisioni hanno pesato in modo evidente sul risultato. Abbiamo perso contro una federazione forte, troppo forte, più potente della nostra… Il commento di Beha e Di Caro è: “la chiave di lettura è duplice. Allora quando vinci è perché la tua federazione conta di più? E tra i confini nazionali, se vale la stessa logica, chi ci guadagna?” Ma le storture non sono casi isolati: come può succedere che un quotidiano sportivo pubblichi in anticipo le squalifiche che saranno comminate dagli organismi federali? Perché le inchieste penali, dopo le strombazzate iniziali, si esauriscono il più delle volte in ridicole sanzioni, in “gravi” censure? Esaminiamo l’argomento farmaci: un ginepraio di coperture, di manipolazioni, di documentazioni sparite, di laboratori d’analisi inefficienti e/o compiacenti. Zdenek Zeman esterna critiche sull’utilizzo di farmaci non necessari, di cui non si conoscono gli effetti a lungo termine: …se la creatina la si somministra perché un giocatore sta male ha un senso, altrimenti no. Pur di ottenere il risultato si potrebbe scatenare una corsa all’uso di sostanze farmacologiche sempre maggiori: se un calciatore assume 3 grammi, un altro per fare meglio ne prenderà 20, poi 30 e infine 40. Mutare i controlli non cambia niente, ci vuole una diversa mentalità… So di molti medici passati dalla bicicletta al pallone. Bisogna evitare che il campionato diventi come il Tour… Il sistema calcio si difende con parole pesanti, con accuse per il boemo di falsità e di irresponsabilità; si parla di terrorismo, si chiede una squalifica esemplare. Come spesso succede in Italia ci si scaglia contro chi denuncia certe anomalie piuttosto che indagare seriamente. Passano così in secondo piano le “prove”, il fatto che il sistema antidoping fa acqua da tutte le parti e che le procedure sono lacunose; ci si scorda che alti dirigenti, dopo aver per mesi negato, sono costretti ad ammettere che i laboratori effettuavano test solo a campione e che le attrezzature impiegate erano inefficienti o, udite udite!, tarate male. Ma sentiamo dalla viva voce di alcuni protagonisti le “normali” procedure dell’impiego dei farmaci: …il giorno della partita tutti i titolari venivano sistematicamente sottoposti ad alcune iniezioni. Ci dicevano che erano vitamine, ma se non le facevi ti mettevi contro la società… si erano inventati una ricetta contro il freddo invernale: prima della gara prendevamo due o tre palline di Micoren più un caffè con dentro due aspirine tritate… avevamo pronti tre accappatoi con doppia tasca e facevano pipì in una provetta da clistere quelli che non giocavano. Chi doveva presentarsi, nascondeva la provetta sotto l’accappatoio e ne spremeva il contenuto nel barattolo federale… mentre mi parlava se ne stava attaccato alle flebo. Gliene facevano in continuazione, nel letto era tutto un tremore, uno scatto di nervi e di muscoli che mi ricordavano gli spasmi dei polli dopo che gli hanno tirato il collo … Se abbiamo ancora forza per affrontare argomenti “vergognosi” il libro ci riporta anche la scala economica della nostra amata sfera. …17 cents è quanto un cucitore di palloni guadagna per cucirne uno, contro i 91 dollari di vendita sul mercato… Un po’ ci rimorde la coscienza, pensando ai tanti palloni a cui abbiamo dato calci? Leggete, a proposito, cosa dice un calciatore, ovviamente anonimo, che ha scelto Famiglia Cristiana per confessarsi: …padre mi sono venduto in una partita importantissima. Non vivo più da quando ho fatto quello che le sto raccontando. Mi sono comportato in modo da danneggiare la mia squadra, allettato dalle promesse di un ottimo contratto… Ma se di soldi dobbiamo parlare ecco che Il Calcio Alla Sbarra ci porta ad affrontare lo scandalo economico sollevato da Gazzoni, l’ex presidente del Bologna: …vedo una Roma talmente forte, però noi paghiamo 14 milioni di IRPEF e li paghiamo tutti gli anni. La Lazio non paga le imposte, la Roma non le paga. Anche noi, se non le pagassimo acquisteremmo quattro giocatori buoni, e con quattro giocatori si fa strada … potrei saper perché certe società devono somme enormi allo Stato e hanno chiesto di rateizzarle in 10 anni? Se si può fare, dovevano dirmelo, avrei voluto approfittarne anch’io e invece di darli al fisco li avrei spesi sul mercato... C’è da rimanere storditi. Per concludere definirei il libro di Beha e Di Caro un libro coraggioso, che solleva il sipario su un palco calcato da attori mediocri a cui siamo abituati tributare elogi e applausi. Coraggioso perché cita date e nomi degli addetti ai lavori senza fare alcuno sconto. Coraggioso perché si mette contro tutti noi amanti del calcio, dandoci uno schiaffo sonoro e riportandoci sulla terra, e Dio volesse fosse quella di un campo di calcio dove lo sport sia ancora il principale protagonista. Coraggioso perché si presenta con 700 pagine e con una copertina dimessa, senza trovate roboanti che catturino l’attenzione. Ma allora come la mettiamo? Gianni Rivera, nell’ultima parte del libro, fa un’analisi amara: “Viviamo le conseguenze di una politica del calcio che cura gli interessi delle squadre più ricche e potenti. Gli arbitri sono condizionati dalla situazione ambientale. Sanno che il loro futuro dipende dal fatto che siano accettati o meno dalle grandi società. Forse se la gente non andasse più allo stadio…” Il finale alla penna di Beha: …ma se c’è in giro questa puzza di bruciato come fare a continuare, a vedere ancora partite, ad andare allo stadio, a “far finta di essere sani”, per dirla alla Giorgio Gaber? Forse il calcio resiste come calamita sia pure mutata e degradata proprio perché rimuoviamo il suo aspetto deteriore e lo vediamo come lo vogliamo vedere, “fuori dalla toilette”. LA VITA E’ UN PALLONE ROTONDO Il calcio a volte aiuta. L’ha fatto sicuramente con lo scrittore Vladimir Dimitrijevic: fu grazie alla passione e alla sua buona predisposizione per questo gioco che infatti, dopo un’avventurosa fuga dalla Jugoslavia di Tito, riuscì ad avere un permesso di lavoro in Svizzera. Calcio e letteratura le sue passioni. Il libro in questione è di facile lettura, costituito da brevi capitoli che raccontano episodi calcistici della sua infanzia e, al tempo stesso, commentano il gioco, i calciatori e le nazionali di allora, tracciando una linea di demarcazione con il gioco, i calciatori, le nazionali attuali; il gioco “del cuore” contro quello “schiavo” del risultato e degli affari. I capitoli ci catturano con il loro bagaglio di ingenuità e di definizioni d’altri tempi ( …la vetturetta di mio padre … ). Partiamo dall’originalità dell’esordio di Dimitrijevic. “ Il calcio è il re dei giochi. Per quale motivo? Secondo me perché, come la danza, riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri movimenti. Nel calcio potete adoperare - se non giocate in porta, beninteso – soltanto piedi e gambe, antenati sottosviluppati delle mani e delle braccia ” Insistendo sul concetto anatomico: “ Avere ai piedi le scarpe con i tacchetti è quasi come avere un paio di zoccoli “ In altre pagine paragona il gioco del calcio agli scacchi, dove ciò che conta è la condanna a morte del re, lo scacco matto. E lo scacco matto, nel calcio, si chiama gol. Tutti quelli che hanno più di cinquant’anni sanno dell’emozione di possedere un pallone di cuoio: ai tempi era uno dei regali più sognati. Addirittura, prima della guerra era, ma lo è ancora oggi in parti del mondo meno fortunate delle nostre, il risultato dell’unione di panni, stracci, lacci e di qualsiasi materiale che potesse contribuire a ottenere una forma più o meno sferica. Pallone e scarpette. “ Inutile dire che non erano nuove, né della mia misura. Queste scarpe appartenevano al club. Le imbottivamo di carta di giornale per riempire gli spazi vuoti. E se invece erano troppo piccole, stringevamo i piedi. Capitava anche che il paio non fosse un paio, ma due scarpe diverse, il che talvolta creava comici effetti di claudicazione, come i puledri e i vitelli che, appena nati, provano a tenersi in piedi ” Piccole soddisfazioni per chi considera il calcio la consolazione degli umili. “ L’uomo di oggi non può più vivere in una società eroica; siccome ha scelto la pseudo democrazia che lo fa vegetare in una sorta di indifferenza, va alla partita. La povera gente ottiene qualche vittoria, certo illusoria, perché un domani subirà licenziamenti, rifiuti o forse finirà col divorziare. Io sono d’accordo con l’idea di costruire stadi, campi di basket o palestre nei quartieri difficili. Ma non sono né le tenute eleganti, né i parquet, né i prati ben curati a rendere sano il corpo. E’ il desiderio di ricominciare o continuare a fare in segreto ciò che lo appassiona, come fanno tutti gli umili dalle passioni segrete. Del resto, mi domando cosa resti a quelli socialmente arrivati… ” Meglio i sogni. Eccone alcuni stralci. “ La squadra è un sogno, la squadra è una fede. E’ come l’equipaggio di un aereo da combattimento: ognuno deve assolvere il proprio compito per la sopravvivenza di tutti, per segnare dei gol evitando di incassarne… sono tutti veri giocatori quelli che da bambini hanno dato qualche calcio al pallone, sognando la squadra del cuore. Al punto che quando vanno alla partita, loro sono la partita… quando, dopo un’assenza di ventisei anni, sono tornato per la prima volta a Belgrado a causa di un lutto, i miei amici, per consolarmi, mi hanno portato a una partita della Stella Rossa. Accanto a me c’era un padre che spiegava al figlioletto: - Vedi, se non avessi questo guaio alla gamba – e mostrava la sua gamba sinistra, che sembrava effettivamente ridotta piuttosto male – allora, vedi, ci sarei anch’io, in campo – Lui non lo sapeva, ma c’era. Avrei voluto dirgli: - Non ti lamentare! Tu, in campo, ci sei davvero – E’ una comunione. Lasciateci almeno questa, di comunione ” Il sogno è però in contrasto col dio denaro e allora Dimitrijevic dà spazio a considerazioni economiche e all’emozione per il gioco africano. “ Oggi i calciatori sono ossessionati dalla posta in gioco e dalla paura di sbagliare. Le somme che gravano su di loro sono sproporzionate, con un’inflazione che tende all’astrazione. Si gioca per giustificare gli investimenti delle grandi multinazionali, che sponsorizzano magliette, calzoncini, scarpe, naso e orecchie dei calciatori. Oggi la paura di non ottenere risultati è paralizzante. Gli africani invece giocano come quando si ha dieci anni, cioè si esprimono attraverso il gioco, dribblano, si lasciano andare come puledri su un prato. Se osservate i difensori di oggi, vedrete che non si azzardano più ad attaccare uno che è capace di dribblare, hanno perso l’istinto elementare del duello. Aspettano di avere dietro di loro un compagno che recuperi il pallone, senza nobiltà ” A dimostrazione della sua simpatia al “sogno” l’autore non si entusiasma per la bravura dei vari Pelè o Platinì pur, ovviamente, riconoscendone le immense doti; no, lui è per la strafottenza, per la genialità, per la voce fuori dal coro. Lui è per Maradona. “ Dopo aver scartato tutta la difesa, Maradona con un buffetto scodella la palla in fondo alla rete. Pochi minuti prima, con una schiacciata degna di un pallavolista, la stessa celestiale canaglia aveva segnato un gol che, fra lo stupore dell’intero stadio, era stato convalidato dall’arbitro. Ma la magia del secondo gol è stata così avvincente, così inarrivabile, da cancellare l’affronto e la scorrettezza di quello spregevole fallo di mano “ Perché questa ammirazione? “Pelè ha cercato il favore dei giornalisti, diventando il beniamino dei media e il trastullo dei politici. Diventerà ministro, presidente, costruttore di stadi, come Platinì. Nel calcio, come in letteratura, preferisco quelli che hanno mantenuto l’impertinenza dei bambini. E’ un gran bene per la società che ci siano gli adulti, ma io preferisco Maradona. Un mio amico mi dice: è una canaglia. Sì, e proprio per questo mi piace. Anche Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista; imperturbabile, sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua a vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla. Quando don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui ” Dimitrijevic è come uno di noi, s’infiamma, soffre, gode per le improvvisazioni del “matto” di turno; “matto” ricordato dai tifosi con simpatia, con affetto e, come affermano gli ultras, con onore. E proprio degli ultras Dimitrijevic descrive lo spirito migliore “: … c’erano uomini che non erano calciatori, ma la cui unica passione era il calcio. Vivevano per la loro squadra e la squadra era tutta la loro vita. Erano gli archivi viventi del loro club, che cercavano di seguire dovunque, spendendo tutto il denaro per pagarsi il viaggio… talvolta si conciavano in modo bizzarro, ricoprendosi di distintivi e di diversi strati di maglie, di gagliardetti, di bandiere sventolanti… quegli uomini amano senza riserve, non si risparmiano, vanno a tutte le partite, fanno il giro d’onore quando la squadra vince, e quelle vittorie rappresentano i giorni più belli della loro vita… ” I cinquanta capitoli di La Vita E’ Un Pallone Rotondo si sgranano come un rosario e svariano dagli anni della seconda guerra mondiale agli anni 2000. E il futuro, che già in parte viviamo, cosa ci riserverà? Queste le sue parole ironiche: “ Capire come il denaro trasformerà questo magico sport in un divertimento da juke-box resta naturalmente una questione aperta. Forse presto ci si accontenterà di valutare in dollari il peso delle squadre e di proclamare vincitrice la più “pesante” delle due. Questo ci risparmierà novanta minuti di noia. Oppure, al posto dell’interminabile partita, si potrà far tirare qualche calcio di punizione o di rigore, alternandolo ad alcuni giri di campo di cosce di majorette. Essendo stato educato all’epoca delle grandi speranze e del radioso avvenire, conservo alcune registrazioni riguardanti gli aborigeni che un tempo praticarono il gioco chiamato calcio “ LE PARTITE NON FINISCONO MAI Libro per gli autentici fedeli del calcio, quelli che pur credendo in una religione rispettano le altre. Darwin Pastorin, giornalista italo brasiliano racconta infatti, in modo pacato e in buono stile, di giocatori, ruoli, allenatori, nazionali, di incontri e scontri calcistici sempre col dovuto riconoscimento degli avversari: se un tackel è necessario lo fa sul pallone e non sulla persona. Accade così col grande Torino, con Zico, Maradona, Bearzot, Platinì e tanti altri. In lui, e nel suo libro, è la cultura a prevalere, quella che antepone la sportività al becero esercizio delle ugole violente. Cultura che lo porta a colorire le sue cronache con intromissioni musicali, politiche e letterarie. Perché il calcio, come dichiara lui stesso nella prefazione “ è passione, letteratura, medicina, vertigine, tenerezza”. Anche sul tifo la sua idea è ben chiara “ una squadra si ama indipendentemente dalle vittorie e dalle sconfitte. Si ama, e basta. Di un amore cieco, assurdo, ottuso, fanatico. E, crescendo, il fuoco, invece di spegnersi, aumenta sempre più “ LE PARTITE NON FINISCONO MAI è l’insieme di storie di calcio che si svolgono anche sui campi erbosi; infatti, grazie all’ingegno e alla generosità dell’autore, i racconti si dilatano conquistando spazi estranei, offrendoci un ampio ventaglio di opportunità: la strofa d’una poesia, l’articolo d’un collega, il brano d’un libro. Un puzzle senza fine, una gioia per chi ama perdere la retta via e avventurarsi su sentieri alternativi. Succede così che un’azione riesumi ricordi dell’infanzia, coi profumi e le voci di una casa o di una via; che l’evento sportivo sia stigmatizzato da una formazione sciorinata a memoria; che le figurine Panini facciano bella mostra, ma le gambe più famose appartengano all’attrice Marlene Dietrich; che si parli del ruolo del portiere e si finisca col nominare Nabokov, l’autore di Lolita, o Bruno Conti, invitato dai ragazzini di Copacabana, coi quali si era messo a giocare, a sistemarsi in porta, ruolo proverbialmente assegnato in Brasile ai più scarsi; che Gigi Meroni, l’ala destra granata scomparso nel 1967, sia il viatico alle canzoni di De Andrè e Luigi Tenco; che una cena con i brasiliani Zico, Edinho, Pedrinho, Junior si concluda cantando C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones; che Guccini e Venditti siano la colonna sonora per ideali e speranze in un mondo migliore; che lo stukas, così chiamavano gli amici Pier Paolo Pasolini, sia in buona compagnia con Kerouac, Anastasi e Che Guevara, con Omar Sivori, Garrincha, Riva e Jorge Amado. Nel suo raccontare Darwin Pastorin mescola in continuazione il Brasile, dove ha vissuto i suoi primi sei anni e il Palmeiras, un tempo Palestra Italia, la squadra pluricampione di cui è tifoso appassionato e di cui si sente console onorario in Italia: la maglietta della Verdao, così è chiamato il Palmeiras per i suoi colori, sempre sul cuore. Ma in questo raccontare lieve, privo di autocelebrazioni, come in un parlare fra amici, fa l’ingresso anche la madre, in una sorta di simpatica vignetta – “ Caro Fabrizio (Ravanelli), sono la mamma di Darwin. Devo farle i complimenti: sta giocando davvero bene. Continui così. Sacchi dovrebbe impiegarla con maggiore frequenza. Arrivederci “ Ravanelli, ogni volta che mi incontra chiede di mia madre. Riferisco. E la mia cara mamma “ Con quel centrocampo, non andranno molto lontano. Ma Fabrizio non sarebbe servito alla Juve o al Milan? “ A casa mia sono passati diversi giocatori e tutti sono diventati figli per mia madre. Ai brasiliani preparava la feijoada. Agli altri, specialità veronesi. Soprattutto a base di polenta. Alla fine, una lezione di tattica “ Una cosetta così, leggera “ E loro ad ascoltare, con me in un angolo. “ Perché, per carità, lui di calcio ne capisce. Ma date retta a me “ Che è meglio non lo ha aggiunto mai: ma soltanto perché sono suo figlio – Non tutti i rami del grande fiume dei racconti però sono pacifici e ameni, c’è posto anche per quelli fangosi e persino per le sabbie mobili, affrontati da Darwin Pastorin con onestà e coerenza. Nel caso di Maradona non sale sul carro di quanti, dopo aver sfruttato le “briciole” che il carrozzone dell’Argentino nel suo incedere lasciava cadere, ora indossano la tunica verginale, gli voltano le spalle e ne prendono le distanze “ Voglio denunciare il mio disprezzo nei confronti di tutti coloro, e sono tanti, che hanno calpestato l’idolo infranto. Adesso non porta più benessere e pubblicità, non serve più: è merce per psichiatri, per qualche pseudointellettuale in vena di impartire lezioni a buon mercato. Siamo rimasti in pochi: orgogliosi di difenderlo, di proteggerlo. Ma gli vogliamo bene lo stesso, e anche di più. Perché ci ha regalato quel gioiello raro che si chiama amicizia, perché le notti di Maradona non sono state soltanto notti sbagliate. Ne ricordo alcune insieme: a recuperare il passato, una semplice nostalgia di Sudamerica, quel giorno a Torino dai bambini malati. Senza giornali, senza riflettori. E poi ci ha regalato giorni indimenticabili di calcio. E sarebbe bastato quel gol all’Inghilterra per dire: “ Calate il sipario. In questo preciso momento il football, avendo raggiunto l’apice della sua bellezza, non ha più ragione di esistere” E rispetto al dramma dei bambini schiavi, fa sue la parole di Gianni Minà: “ Io dico che il calcio deve arrivare persino a boicottare le manifestazioni internazionali: perché prendere a calci certi palloni significherebbe prendere a calci la vita di molti innocenti che lavorano dodici ore al giorno senza tutela alcuna per fabbricare gli attrezzi sportivi. Si sfruttano esseri umani in modo medioevale e poi nei grandi consessi, tipo Olimpiadi, si sostiene che sono prevalsi i valori dello sport. Quali? Eppure avete visto o sentito atleti super pagati dalle multinazionali dell’abbigliamento, o dirigenti che vivono come sultani a Montecarlo, alzare la voce per denunciare questo obbrobrio?” Darwin Pastorin, oltre al Palmeiras, ha nel cuore la Juventus: l’amore iniziò ai tempi di Leoncini e Menichelli e si sublimò con l’idolo Anastasi. Il libro parla di questa passione, ma lo fa con tale sobrietà che non può non attirare anche chi professa una differente confessione calcistica: un amico è sempre un amico, al di là della squadra per cui tifa, e Pastorin ci appare tale. Un amico che racconta, ma, come un vero amico capace di ascoltare: potremmo sostituirci a lui e confidargli le nostre speranze e delusioni, parlargli della nostra squadra e dei nostri idoli. Sono certo che capirebbe. Del resto, nel capitolo La memoria del pallone, esprime perfettamente il suo spirito sportivo “ Quando il calcio diventa ricettacolo di odi e di veleni, scusate, ma mi metto da parte. Non ci sto. Non ci sto ad accendere la miccia di una polemica, a diventare fautore di processi del lunedì. Per me il pallone continua a essere un “sogno fanciullo”, la magia del prato verde, l’euforia per un bel gol. Per me il calcio è tutto racchiuso nel sinistro di Riva, nello scatto di Anastasi, nella lealtà di Scirea, nell’elegante furore agonistico di Tardelli, nella grazia di Rivera. Per me il calcio contempla anche l’errore dell’arbitro”. Simpatica la rivelazione ottenuta dall’arbitro De Marchi: - Fischiai un fallo, il difensore Tino Castano mi giurò sulle figlie che non aveva fatto niente. Gli credetti: scoprii, poi, che non aveva figlie – Ecco le parole che ci regala in conclusione “Ma perché il calcio non ritorna “normale”, non recupera il vestito della festa? Quando andavo allo stadio al massimo volava qualche insulto. Importante era sventolare le bandiere, tifare per i propri beniamini, andare al campo di allenamento per la felicità di un autografo. Gli scudetti vanno e vengono: ma deve restare l’amore per una passione pura, per una fedeltà a prova di gol dato o non dato, di rigore concesso o no. Dov’è finita la discussione. Dove sono finiti i toni leggeri?” A dispetto del titolo, LE PARTITE NON FINISCONO MAI finisce; giusto, le cose terrene devono avere una fine. Eppure rimane la sensazione di una voce che continua a farci compagnia, che continua a sussurrarci nomi di campioni, noti e meno noti, partite e formazioni. Della più impareggiabile, quella che stila nell’ultima pagina non svelo i nomi, ma do indizi: un rivoluzionario, uno scrittore, un cantautore, un’attrice, un giornalista e, ovviamente, qualche grande calciatore. QUANDO GIOCAVA PASOLINI Libro particolare, questo di Valerio Piccioni. Parla sì di calcio, ma per interposta persona: sono infatti le testimonianze, i ricordi, gli scritti di Pasolini a descriverne la valenza sociale e ludica, a offrircene un’inquadratura particolare. Sì, perché Pasolini, intellettuale controverso che fa ancora discutere per la sua critica alla società dei consumi, per il suo carattere indipendente e non omologabile, per la profondità delle sue opere, era un grande appassionato del pallone. Passione di cui pochi sono a conoscenza. Sappiamo del cinema, della letteratura, della politica, certo, ma non del calcio. Il libro possiede il merito di farci scoprire quest’aspetto meno noto dell’intellettuale bolognese e a ricondurlo a dimensioni più vicine a noi. Nel 1973, in un’intervista, Enzo Biagi gli chiese cosa gli sarebbe piaciuto diventare se non fosse stato regista e scrittore. Lui rispose “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Appassionato di calcio lo era stato fin da ragazzino, quando, come facevano molti di noi, giocava per ore con il pallone su campi più o meno precari. “Nel pomeriggio andavo a giocare al calcio: in questo consisteva il mio unico e innocente conforto” Era in grado di giocare ininterrottamente per 6/7 ore, per vere e proprie partite maratona. Gli amici lo avrebbero poi chiamato Stukas, come il famoso bombardiere tedesco. Non lesinava infatti l’impegno ed era dotato di una discreta tecnica, pur non segnando mai troppo. Per lui, attratto dalla fisicità, lo sport in genere e il calcio in particolare diventarono anche un espediente per preservare con civetteria il proprio corpo dai segni dell’età, per mantenerlo integro, adolescente. Il gioco è però anche suggestione dei corpi altrui, sinonimo, nell’incontro fisico, di emozione erotica e il campo un luogo dove confrontarsi con le proprie voglie più nascoste. In Atti Impuri scrive …i primi mutamenti avvenivano in lui, trasformando il suo corpo con ritocchi che parevano sfumature ma che finivano col diventare essenziali. Ero già dunque un altro, un diverso. Ne ero disperato. Giocavo al pallone irruento e allegro come al solito, ma dentro, nel cuore, ero tutto sanguinante e bruciato… Negli anni bolognesi è il capitano della squadra della facoltà di Lettere che, nel 1941, si aggiudica il campionato interfacoltà. In anni più maturi giocherà nella nazionale degli scrittori e in quella dello spettacolo. A questo proposito, belle le fotografie che Valerio Piccioni ha inserito nel volume che lo ritraggono con Gianni Morandi e con Enrico Montesano; bellissime quelle che ce lo mostrano in abiti borghesi palleggiare a braccia tese e col piede destro ad accarezzare il pallone. La migliore, quella della copertina: in completo grigio, intento a calciare un pallone fra la rada erba di un campetto pietroso, in compagnia di alcuni ragazzi sorridenti e con un brutto palazzone popolare a fare da sfondo. Serio e concentrato, quasi accigliato. La copertina simboleggia quelli che furono, per molti anni, gli scenari di gioco preferiti, più volte descritti nelle pagine dei suoi libri: “prati secchi”, “nel piccolo spazio tra l’immondezza”, “sugli spiazzi di terra battuta delimitati dai mucchi di rifiuti”, “nel vecchio fango della spianata”. Non nomina mai il campo, preferendo il termine campetto: spazio di periferia che resiste all’avanzare inesorabile della speculazione edilizia, quello dove spesso i giocatori sono piccoli delinquenti, nullafacenti, espressioni di un’umanità ai margini da cui Pasolini si sente attratto. Spazio dove si giocano partite improvvisate, entrando e uscendo dalla competizione a seconda della voglia, dell’umore; partite che lui vuole confuse, che a volte non siano nemmeno partite, che non abbiano né inizio né fine; partite dove la parola gol è quasi sconosciuta perché nello spaccato di umanità disgraziata un brivido vincente stonerebbe come possibilità di successo, di realizzazione. Così non c’è mai chi s’incarica di tenere il punteggio; tutto si brucia in un’azione, in un movimento. Pasolini ci parla di sfide in cui non si riconoscono vinti o vincitori, ma magari forti e deboli, grandi e piccoli, trasteverini e borgatari, figli di mignotta e figli di papà. Conta più l’acuto, la furbata, il tunnel che fa fesso l’avversario, rispetto al gol o alla vittoria. L’autore, Valerio Piccioni, nella prefazione ci ricorda come il calcio di Pasolini sia di un’ epoca in cui non erano ancora arrivate, o iniziavano ad arrivare, le novità che lo hanno poi reso un po’ tutto uguale; dove non si era ancora sacrificato il fascino dell’immaginazione sull’altare del “vedere” tutto, tutto quello che vuoi, quando vuoi, dove vuoi. E Pasolini, in un’intervista del 1970, così descrive il calcio: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. E’ uno spettacolo infatti in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso”. Tutti i connotati della rappresentazione teatrale sono racchiusi nel gioco del pallone che è, con la sua capacità aggregativa, prepotenza, esibizione, sgarbo da compiere o da subire, onta da vendicare, sfoggio di un’età, di un corpo, di una sicurezza più grandi. Pasolini studia l’indotto del fenomeno, la sua periferia, gli spalti, le storie che vivono alle spalle di chi gioca e di chi guarda. Lo stadio, un bacino sociologico in cui intercettare suggestioni. Suggestioni erano anche quelle che gli dava il Bologna, il Bologna degli anni trenta, il più forte della storia, quello che “tremare il mondo fa” e che vinse tre scudetti consecutivi, dal ’35 al ‘38. Il Bologna dei Biavati, Sansone, Reguzzoni, Schiavio, Andreolo, Fedullo e Pagotto. Lui, nato a Bologna, così spiega l’amore per la squadra felsinea: “Non ha importanza, non è determinante dove si è nati, quanto come e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita. Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre”. Nel 1954, scrive all’amico poeta Vittorio Sereni, interista: “Intanto ti avverto che domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi ( l’amico scrittore ): tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta”. Ecco, invece, un sonetto dedicato alla sua squadra del cuore: “E io so come sia terso in questo ottobre il colle di San Luca sopra il mare di teste che copre il cerchio dello stadio”. In queste frasi Pasolini estromette la falsità di chi vuole leggere il calcio come una manifestazione adatta esclusivamente a persone prive di cultura: ne rivendica invece l’importanza, la valenza sociale e non si vergogna a presentare il suo tifo come letteratura, come linguaggio. “Quando Giocava Pasolini” è un libro di scoperta, d’informazione, di spunti letterari da approfondire, ma è anche un libro di viaggio fatto di incontri, confronti e scontri; con articoli, fotografie e interviste. Un libro per chi ama “condire” il pallone con spezie mai banali. Come ultimo saluto al Pasolini calciatore ecco alcuni “pizzichi di sapore” rilasciati da chi ci giocò insieme. Giacomo Ciarlantini, agente cinematografico: Pasolini era instancabile e generoso: non l’ho mai visto insultare un avversario. Diceva sempre che una partita di calcio era come un mese di vacanze. Mi ricordo di un suo gol, splendido, all’incrocio dei pali: ebbro di gioia, corse come un ragazzino impazzito. Giovanni Galeone, allenatore: Era bravo, veloce. E i suoi compagni di squadra, voglio dire gli altri registi, gli attori, quelli che chiamava da fuori, lo circondavano di rispetto, di affetto. Ecco, ti accorgevi che aveva delle cose da dire. Edy Reja, allenatore: Quella sera portava il numero 7. Si giocava a uomo, alla zona non ci si pensava: lo controllavo ovviamente senza esagerare, era veloce, pregevole dal punto di vista tattico, si vedeva che ci teneva in modo particolare. Angelo Sormani, calciatore: Pasolini giocava bene, certo non al nostro livello, ma comunque bene. SAN ISIDRO FUTBOL L’autore, Pino Cacucci, è noto ai più per il successo ottenuto con Puerto Escondido, libro da cui Gabriele Salvatores ha tratto l’omonimo film campione d’incassi. Con San Isidro Futbol ha ribadito il suo attaccamento al Messico, ambientandovi quella che si può definire una vera e propria chicca letteraria: un western calcistico in forma di favola a lieto fine, dove più elementi concorrono a renderlo esilarante e consigliato a chi ama leggere parole di qualità e, al tempo stesso, divertirsi. La storia si svolge in un piccolo paese, ma in effetti “…San Isidro non era neppure un paese. Ventidue case di legno e lamiera non giustificavano alcuna menzione nelle mappe federali…” Difficile anche dire di quale giurisdizione politica facesse parte “...Il problema, semmai, era stabilire se San Isidro appartenesse allo stato di Veracruz, di Puebla o di Oaxaca. Questo aveva occupato dodici riunioni fiume del Consiglio, quattro votazioni di cui una invalidata per ubriachezza scomposta di Fulgencio Murillo, e una delibera salomonica che assegnava l’appartenenza al primo dei tre stati che avessero asfaltato la strada fino a Cerro Mojarra. Siccome quei circa venti chilometri erano rimasti tali e quali, cioè terra battuta nei mesi secchi e torrente di fango nella stagione delle piogge, San Isidro manteneva la sua sdegnosa indipendenza federale…” Nel romanzo scorrono i ricordi della Rivoluzione, quando gli uomini portavano lunghissimi baffi a manubrio, bandoliera sul petto e sombrero in testa; scorre anche l’ingenuità accattivante di chi vive ai confini del mondo “civilizzato” e scorre a fiumi ( e come potrebbe essere altrimenti trovandoci in Messico! ), il mezcal, il distillato dell’agave aromatizzato da un verme, il gusano rojo, che riposa sul fondo della bottiglia “…Il verme si conserva per molto tempo integro nelle sue grassocce fattezze grazie all’alcol in cui è immerso. Ed è altresì un ambito traguardo arrivare all’ultima mescita della bottiglia, per conquistare il diritto a mangiarselo dopo averlo impreziosito di abbondante peperoncino e sale...” Non possono poi mancare, come in ogni favola che si rispetti, i cattivi, i loschi figuri facili alla violenza e alle conseguenti sparatorie: a San Isidro, però, i gaglioffi suscitano la mobilitazione degli abitanti in “armi” ottenendo così pane per i loro denti “…Due carabine ad avancarica; uno schioppo ad aria compressa, per l’occasione dotato di baionetta, nel senso che aveva legato col fil di ferro un coltellaccio da cucina alla canna; doppiette caricate con cartucce a pietra e chiodi arrugginiti; un arco chichimeca, machete e tasche piene di sassi…” Ma il calcio? Data la sua estrema capacità di propagazione, niente di strano che lo si giochi anche nel pueblo sperduto di San Isidro e nei ranchos vicini, dando vita a tornei dove le vittorie acquisiscono significati d’onore e di prestigio inimmaginabili, e dove le formazioni risentono del despotismo del potente di turno “…Visto che il padrone si incaricava di decidere qualsiasi cosa, compresa la squadra di calcio e i ruoli dei giocatori. E sempre il padrone provvedeva alle magliette e in certi casi persino alle scarpe, oltre alle spese di trasporto da un rancho all’altro…” Nella Sierra messicana, dove il caldo torrido allenta regole e regolamenti “ …Era molto diffusa , ad esempio, l’usanza di spostarsi tutti e venti davanti alla porta opposta a quella da dove veniva lanciata la palla, cosa che scatenava furibonde mischie con vari contusi e feriti. Inutile sottolineare che il concetto di fuorigioco era assolutamente sconosciuto…” Ma lì, nessun delegato FIFA si è mai avventurato. Il calcio di San Isidro è un calcio giocato da squadre sgangherate e da altrettanti sgangherati calciatori, come tutti gli uomini impastati con vizi e virtù, sebbene i vizi stacchino con netto divario le virtù. Di volta in volta, i protagonisti, subiscono quindi l’influenza del sesso, dell’amore, delle nottate brave passate a bere, a volte dell’energetico che fa “volare”, portandoci con un veloce salto temporale ai giorni nostri. Chi non ricorda quanti degli “eroi” nostrani hanno riempito le cronache mondane con i loro comportamenti estrosi? Non è un bell’esercizio giudicare, eppure, quanta maggiore indulgenza verso gli atleti nati dalla fantasia di Cacucci. Uno per tutti, l’attaccante Quintino Polvora “…Quintino Polvora, per raggiungere casa sua, doveva passare davanti a quella di Antonia, la cui sola vista gli causava da qualche tempo delle strane reazioni sullo stato mentale e persino fisico. Qualcosa che non riusciva bene a spiegarsi, ma che si manifestava con un improvviso freddo ai piedi e un calore assurdo alla faccia. Per non parlare della scarica di tamburo che gli esplodeva nel petto. E Antonia, quella sera, se ne stava sdraiata sull’amaca a oscillare mollemente nella penombra, con una gamba abbandonata nel vuoto. L’istinto suggerì a Quintino di abbassare la testa e tirare dritto; ma non appena risuonò il saluto di lei, con quella voce morbida come la polpa del maguey, l’istinto cambiò subito parere e lo consigliò di fermarsi. Quando Quintino scoprì il tepore umido della sua bocca, non ebbe più coscienza neppure di trovarsi in un posto chiamato San Isidro, né su questo pianeta anziché un altro…” Facciamo però un passo indietro. Il campo dove la squadra del paese gioca è in discesa e con un albero di mango al centro, impossibilitato ad essere quindi sfruttato per il torneo. Di conseguenza, tutte le partite devono essere giocate in trasferta, con l’obbligo di contribuire alla manutenzione dei campi avversari. Questa volta viene richiesto un sacco di calce per delimitare i confini: merce al momento irreperibile, a meno di coinvolgere Alvaro Cristobal. “… - Neanche se scende San Miguel con tutti i cherubini! Il mio concime non lo do a nessuno – Le donne si segnarono velocemente, gli uomini scossero la testa. Ormai era chiaro che volevano costringerlo a cedere un sacco di quel concime biancastro, ma Alvaro non sentiva ragioni: per lui si trattava di uno spreco inammissibile, e proprio quando mancava meno di un mese al raccolto. Una certa calma fu ristabilita dall’annuncio di Chepe Chamaco, il proprietario dell’unica rivendita di alcolici, che dichiarò – Mi venga uno sbocco di sangue se ti vendo più una goccia di mezcal! – Il povero Alvaro sbiancò” A questo punto la partita si gioca. Nella squadra del San Isidro l’elemento di maggior valore è Quintino Polvora, il matador “…Termine che nel gergo della Sierra Madre Sud Orientale indicava un ruolo privo di qualsiasi restrizione. Piccolo, magrissimo, tutto tendini e nervi, era abilissimo nello sgusciare tra le gambe degli avversari e nell’evitare i tentativi di acchiapparlo” Questo succedeva normalmente, ma la normalità non prevedeva la sosta prolungata per l’intera notte nelle braccia e nelle cosce di Antonia, con la conseguenza che “...Le gambe di Quintino, una massa di gelatina disossata…” Dopo dieci minuti, disgrazia: il San Isidro è sotto di sei gol. Il destino però vuole che Quintino cada col viso proprio sulla linea bianca del campo, una di quelle tracciate con il concime reperito fortuitamente da Alvaro nella fitta boscaglia dove si era recato per cercare funghi. Il miracolo avviene. Il giocatore si trasforma “…In un singhiozzo di rabbia si riempì il naso di quella polvere bruciante. Si lanciò di corsa nella mischia, correva, correva attraversando il campo da una parte all’altra e sparò un tiro che mandò il pallone a trapassare la rete e la sua stessa scarpa nello stomaco del portiere…” Alla fine del primo tempo la partita è già sul pareggio. Tutto bene? E i cattivi? Arrivano, arrivano a rivendicare il loro bianco “concime”, fanno i gradassi, minacciano, rovistano nelle capanne, ma il paese, anche con l’aiuto di Padre Pedro, un gigantesco missionario basco da trent’anni pastore delle loro anime, ne esce vincitore: ne guadagna un asilo, una sede per gli Alcolisti Anonimi, una chiesa, una jeep. Dimenticavo: il San Isidro, squadra di sfolgorante potenza, è attualmente in testa al torneo. TUTTI I COLORI DEL CALCIO Palata, Troncata, Piena, Fasciata, Partita, Bordata, Crociata, Inquadrata, Trinciata. Cosa sono? Nient’altro che alcune tipologie delle maglie delle squadre di calcio, derivate dagli scudi araldici. Il libro di Salvi e Savorelli, con un’indagine interessante, ci consente di riannodare i fili con le giostre e i tornei d’un tempo di cui il calcio non ne è che una moderna riedizione. Nelle antiche battaglie il colore delle uniformi era indispensabile per ritrovare, nella mischia, i “miei”, per non sentirsi soli, per avere un riferimento quando il sangue colava sugli occhi e gli elmi riducevano la nitidezza delle immagini, per dare modo ai comandanti di manovrare i reparti individuando, solitamente dall’alto, le masse colorate. Il calcio quindi come battaglia simulata, che assume gli aspetti simbolici della guerra: campo di battaglia, schieramento dei soldati, bandiere, vessilli, urla. Si va allo stadio perché c’è dato di nuovo vedere un “eroe”, un cavaliere del bel tempo antico indossare la sua sopravveste colorata con le insegne del nostro dio. Pensiamo anche a certi termini utilizzati dai commentatori sportivi: “inizio delle ostilità”, “retrovie”, “rifornimenti”, “manovra”, “bomba”, “missile”. “Tutti I Colori Del Calcio” va alla ricerca dell’origine dei colori delle maglie di centinaia di club, italiani e stranieri: a volte ereditata dai gonfaloni della città di appartenenza, altre adottate per connotazioni politiche, sociali, per simbiosi di colori di più società sportive preesistenti, e spesso per il caso e il gusto del momento. Una maniera per soddisfare la curiosità di chi ama a 360 gradi la propria squadra e per gli amanti dei particolari e dei retroscena del calcio. Vediamo alcuni esempi. Quali i colori più utilizzati? Nei campionati di serie A, dal 1928 al 2008, prevalgono il bianco e il rosso, seguiti dall’azzurro, il nero, il giallo, il celeste, il verde, l’arancione. La forma di accostamento prevalente è il “palato”, ovvero a righe verticali ( Juventus, Barcellona, Milan, Lecce, Inter, Vicenza ). In seconda posizione sono le maglie a “partita”, cioè quelle divise in due larghe zone uguali ( Bologna, Cagliari, Genoa ). Caratteristica italiana sono le maglie “piene”, monocrome ( Torino, Lazio, Napoli; all’estero Liverpool ). Rappresentano una percentuale irrisoria, invece, le maglie che abbinano 3/4 colori ( Sampdoria, Venezia ). Rare anche le maglie “fasciate”, a righe orizzontali, ( Pro Patria, mentre all’estero troviamo Celtic, Sporting Lisbona ). Per tutti i tifosi i colori sono un segno d’appartenenza, è innegabile. Al punto che: “ L’identificazione con i colori della squadra si estende anche alla vita domestica e intima: la proliferazione degli accessori del tifo consente di decorare l’interno della propria abitazione, l’automobile, i vestiti. E, fra i più ferventi, neppure la biancheria intima femminile e maschile sfugge a questo furore cromatico!” Ma quanti tifosi conoscono le motivazioni che hanno portato alla scelta di quei colori? Ad esempio perché la maglia del Chelsea è azzurra, quella del Liverpool rossa e quella del Celtic bianco verde? Perché la Juventus, dopo un esordio in rosa, passò al bianconero? Perché il Boca ha l’azzurro e il giallo, l’Atalanta il nerazzurro e il Palermo il rosanero? Perché chiamiamo derby l’incontro fra squadre della stessa città, anche se è invaso l’uso inappropriato del termine anche per partite fra squadre extra cittadine, vedi derby dello Stretto (Reggina-Messina ), derby degli Appennini ( Fiorentina- Bologna ), derby del Sole ( Roma-Napoli ). Attenendoci a quelli definiti correttamente sapevate che un tempo c’erano, oltre a quelli di Milano, Torino, Genova e Roma anche Pisa-Gerbi, Firenze-Itala, Bologna-Virtus, Lucca-Libertas, Padova-Petrarca, Como-Esperia, Modena-Audax? Ancora, quale significato hanno simboli e totem? Pensiamo al diavolo di Manchester United e Milan; al cannone dell’Arsenal; l’alabarda della Triestina; i quattro mori del Cagliari; la ninfa ( chiamata dea ) dell’Atalanta; il leone di Brescia, Rangers, Aston Villa, Frosinone; l’aquila di Palermo, Lazio, AEK, Benfica, Catanzaro; il lupo di Lecce, Avellino, Roma, Piacenza, Dinamo Bucarest; il coccodrillo del Nimes; il pipistrello di Valencia e Levante; l’asino del Napoli; il toro di Torino e Red Bull di Salisburgo. Insomma un turbinio di maglie e colori, con storie a volte buffe e simpatiche; a volte con risvolti negativi come nel caso della squadra di Trieste: nell’avvicendamento politico e nazionale subito in seguito a due guerre i suoi cittadini e quindi anche i calciatori si ritrovarono ad essere Austriaci, Italiani, divisi in Italiani e Jugoslavi e, in attesa di una assegnazione, anche solo Triestini ( Trieste rimarrà zona limbo fino al 1964 ). Questo a dimostrazione di come la nazionalità legale, più che una caratteristica sostanziale, sia un accidente dovuto alla lotteria della storia. E se parliamo di nazionale, sappiamo che il colore della nostra è in qualche modo legato al vecchio Regno di Sardegna e, con Germania e Olanda, fa parte di una ristretta cerchia di maglie che non rappresentano nemmeno un colore della bandiera dello stato? Ma i “veri” colori del calcio, concludono Salvi e Savorelli, sono quelli dei club: così come il calcio più autentico, privo di suggerimenti, imposizioni e mediazioni istituzionali, è quello giocato fra club. C’è insomma di che divertirsi a leggere Tutti I Colori Del Calcio: osservando le maglie pazze di alcune squadre, scoprendo l’evoluzione che ha portato ai colori di quelle odierne. Scoprendo che, molto spesso, i colori che osanniamo sono stati nel passato proprio quelli dei nostri avversari…