Recensioni libri sul calcio

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Recensioni libri sul calcio
FEBBRE A 90’
Libro divenuto ormai culto della letteratura sportiva. L’autore, l’inglese Nick Hornby,
analizza e seziona con sincerità la sua passione per il calcio. Lo fa in maniera
spassosa e sempre lontana dal “politicamente corretto”. Ciò che spesso, in nome di
sportività e lealtà, non si ha il coraggio di confessare, Hornby lo dichiara con forza:
sportività e lealtà sono sì grandi valori, ma il tifo “è un’altra cosa”! Infatti la passione
per il calcio e per la propria squadra trasformano radicalmente la vita di un uomo e ne
condizionano i rapporti. Lo dice con cognizione di causa, avendo egli stesso
impregnato di tifo ogni aspetto della sua vita. Eccone alcuni esempi.
“qualche volta mi lascio totalmente sopraffare e tutta la mia vita calcistica mi balena
davanti agli occhi ( il pallonetto che supera il portiere avversario, il gran tiro al volo,
il colpo di tacco smarcante, il destro nell’angolo opposto ) - A cosa stai pensando? –
chiede lei. A questo punto mento. Non stavo affatto pensando a Gerard Depardieu o
al Partito Laburista. D’altronde, gli ossessionati non hanno scelta: in occasioni come
queste devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere
rapporti con chi vive nel mondo reale”; “a venti minuti dalla fine l’Exeter passò in
vantaggio e la mia ragazza, prontamente, fece quello che avevo sempre presunto che
le donne fossero capaci di fare nei momenti di crisi: svenne. La sua amica la portò
fuori dal medico; io, nel frattempo, non feci niente, a parte pregare per un pareggio,
che arrivò, seguito pochi minuti più tardi dal gol della vittoria. Fu solo dopo che i
giocatori avevano fatto saltare l’ultimo tappo di champagne sulla folla esultante che
cominciai a sentirmi in colpa per la precedente indifferenza, ma quando sono a una
partita, non ho voglia di dovermi occupare di qualcuno; quando sono a una partita
non sono in grado di occuparmi di qualcuno. Se dovesse succedere di nuovo, avrò la
decenza di assicurarmi che le vengano prestate le cure adeguate? O sposterò in un
angolo il suo corpo accasciato, continuando a prendermela con il guardalinee e
sperando che lei respiri ancora alla fine dei novanta minuti, sempre che non si arrivi
ai tempi supplementari e ai rigori?”; “lo Swindon segnò altre due volte: il primo fu il
risultato di un’azione confusa, mentre il secondo venne realizzato dopo una splendida
fuga di cinquanta metri, e fu decisamente troppo da sopportare. Al fischio finale mio
padre si alzò in piedi ad applaudire quegli straordinari sfavoriti, e io, sentendomi
tradito, corsi verso l’uscita. Mio padre poi mi propinò le sue idee sullo spirito
sportivo con grande ardore, ma a me cosa me ne fregava dello spirito sportivo?”
Noi, come ci saremmo comportati? Confesseremmo con altrettanta sincerità le
nostre “debolezze”?
Hornby è tifoso dell’Arsenal, di cui non perde una partita e per cui annulla
appuntamenti o inviti: ne racconta le vicissitudini, i pochi momenti radiosi e i
molti anni infelici. Il libro, quindi, è impregnato di Arsenal, ma il lettore può
sostituire questo nome con quello della propria squadra, specialmente se questa non è
proprio di primissima fascia: troverà gli stessi patimenti, i nodi alla gola, i battiti
accelerati del cuore e i crampi allo stomaco; troverà le speranze, le giornate
condizionate dai risultati, le arrabbiature inconsolabili e la pazzia della gioia per un
pallone che varca la linea di porta e gonfia la rete. Non potrà che essere d’accordo
con le sue parole “quando giochiamo in casa ho una tale paura di perdere che non
riesco a pensare o a parlare, e certe volte nemmeno a respirare”
Il libro è anche un’esplorazione di alcuni significati che il calcio sembra racchiudere.
Lo stesso Hornby, nella prefazione, afferma che “nonostante i particolari esposti
riguardino solo me, spero stuzzichino quanti si siano mai scoperti andare alla deriva,
nel bel mezzo di una giornata di lavoro o di un film, verso un sinistro al volo nel
sette, sferrato dieci o quindici o venticinque anni fa” e ancora “mi innamorai del
calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente,
inesplicabilmente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato
con sé”
In un panorama con colonna sonora fatta dai dischi dei Led zeppelin, Van Morrison,
Ramones, l’autore affronta i temi legati al calcio partendo sempre dal suo vissuto
personale, col presupposto che “la vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa
per 2-0 contro i primi in classifica con la pancia piena di patatine fritte”
Racconta così esperienze di piccolo hooligan “chi vuole rimanere uguale a se
stesso per tutta la vita? A me, una volta tanto, anziché essere l’idiota provinciale
occhialuto dalle orecchie a sventola, piaceva riuscire a spaventare i negozianti. Le
mie occasioni di intimidire la gente erano state fino a quel momento piuttosto
limitate, anche se sapevo che non ero certo io che facevo scappare le persone;
eravamo noi, e io ero una parte del noi, un organo del corpo hooligan. Il fatto che
fossi l’appendice – piccola, inutile – non importava niente”; esperienze di maschio
sotto la lente indagatrice delle donne ”una mia collega si rifiutò letteralmente di
credere che io guardavo l’Arsenal, incredulità a quanto pare dovuta al fatto che una
volta avevamo parlato di un romanzo femminista. Come potevo aver letto quel libro
ed essere stato allo stadio? Dì a una donna intelligente che ti piace il calcio, e ti farai
un’idea piuttosto deprimente della concezione che le donne hanno dell’uomo”;
esperienze di convivenza col razzismo “vorrei che i commentatori di calcio
esprimessero molta più indignazione di quello che fanno, vorrei che l’Arsenal
chiedesse davvero di buttare fuori i tifosi che intonano canzoni su Hitler che asfissia
gli ebrei, vorrei che tutti i giocatori, bianchi e neri, manifestassero di più il loro
disgusto. Ma vorrei soprattutto essere enorme e di indole violenta, per poter
affrontare qualsiasi problema che sorge nei mie paraggi in maniera adeguata alla
rabbia che provo”
In Febbre a 90’ ogni capitolo è accompagnato dall’atmosfera e dall’andamento di una
partita, partendo dal battesimo della prima volta dell’autore, nel ’68, al ’92, passando
così dalle emozioni del ragazzino alle considerazioni dell’adulto, con un percorso che
diventa anche indagine sociale; piccole autobiografie che suonano il suo essere tifoso,
con tutti gli accordi, quelli belli e quelli stonati.
Assistere a una partita per Hornby non è un divertimento, è pura sofferenza, ma alla
quale non si può rinunciare: è un atto di appartenenza, di fede.
“quella vittoria a Wembley fu tanto mia quanto dei giocatori, e io faticai tanto quanto
loro. L’unica differenza tra loro e me è che io ci ho dedicato più ore, più anni, più
decenni di loro, e quindi capii meglio quel pomeriggio, e apprezzo di più la ragione
per cui il sole brilla ancora quando lo ricordo” E lo stadio diventa simulacro della
vita “non trovi niente di simile fuori da uno stadio; non c’è nessun altro posto in tutto
il paese in cui ti senti come se tu fossi al centro di tutto. Perché in qualunque
discoteca o ristorante tu vada, o qualunque commedia, o film, o concerto, la vita sarà
andata avanti in tua assenza, come sempre; ma quando sono allo stadio a vedere certe
partite, è come se il resto del mondo si fosse fermato e fosse accorso fuori dallo
stadio, ad aspettare di sentire il risultato finale”
Per Hornby, come per tutti gli ossessionati di calcio, l’apoteosi rimane però il gol.
Ecco, a conclusione, un esempio, testimonianza di una vittoria sofferta: “sapevo che
era solo un gioco, che succedono cose peggiori nel mondo, che in Africa la gente
muore di fame, che avrebbe potuto esserci un olocausto nucleare; sapevo che
il punteggio era ancora sul 2-2. Ma niente di tutto questo poteva essermi d’aiuto.
Guardavo, ma non vedevo… poi Alan Sunderland mise il piede sul pallone, lo infilò
dentro, proprio nella porta di fronte a me, e io non gridai SI o Gol o uno di quei versi
che normalmente mi salgono dalla gola in questi momenti, ma solo
AAAARRRRGGGGHHHH, un rumore che nasceva da gioia assoluta e incredulità”
FUTBOL
Il libro di cui oggi consiglio la lettura è di un autore considerato a ragione un classico
della letteratura sudamericana, l’argentino Osvaldo Soriano. In gioventù fu un
centravanti di buone speranze, stroncate purtroppo da un incidente; tifoso del San
Lorenzo, si convertì prima in cronista sportivo e poi in scrittore. Tra i libri che lo
resero famoso, tassativamente scritti di notte, spiccano quelli di argomento calcistico.
Di norma, tranne in rarissimi casi, gli esperimenti di fiction ambientati nel mondo del
calcio sono stati inferiori alle aspettative: Soriano è una di queste eccezioni.
FUTBOL racchiude 25 racconti, scritti con penna finissima, capace di tingere, con il
colore della qualità, lande deserte, campi pietrosi, acquitrini, fango, terra e miseria.
L’autore parla di calcio, ma non dimentica la sua militanza per la democrazia e lancia
forti critiche alla violenza del potere, con accuse mascherate da humor e dotate di una
profondità straordinaria.
I racconti sono popolati da personaggi “imperfetti”, reali o nati dalla sua fantasia;
personaggi che giocano partite senza fine, contro un avversario o contro la vita,
descritti con lo stesso amore, siano grandi campioni od oscuri portieri, arbitri
impossibili o allenatori visionari: tutti sognatori o fuggitivi, persi tra i bordelli di
provincia, alla caccia di difficili successi su campi che mai hanno visto un filo d’erba.
Personaggi che incarnano il desiderio di rivincita contro un destino gramo.
Leggere i racconti di FUTBOL è come far girare una ruota della fortuna: ovunque si
fermi si vince un premio.
Affascinante, pur nella descrizione di uno psicodramma collettivo, è il primo
racconto, “Obdulio Varela”, dove si scoprono una solidarietà e un senso sportivo
ormai perduti. Varela, capitano di quell’Uruguay che vinse per 2-1 la finale di Coppa
del Mondo del 16 luglio 1950 contro il Brasile, rovinò la festa ai 150.000 presenti al
Maracanà e al popolo brasiliano intero. Ci furono ambulanze tutta la notte, ci furono
suicidi. Lui ebbe rimorso per tutta la vita, arrivando a dire che se avesse potuto
rigiocare quella partita si sarebbe segnato un gol contro.
“…ci siamo ficcati in un angolo a bere e da lì guardavo la gente. Tutti stavano
piangendo. D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava
disperato. Piangeva come un bambino e diceva – Obdulio ci ha fottuti – Io lo
guardavo e mi faceva pena. Mi sentivo male. Avevamo un titolo, ma cosa importava
in confronto a tutta quella tristezza? Il proprietario del bar si è avvicinato a noi
insieme a quel tizio. Gli ha detto – Lo sai chi è questo qui? E’ Obdulio – Io ho
pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e
ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: - Obdulio, accetta di venire a bere
un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce? – Come potevo dirgli di no!
Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all’altro…”
Leggendo i racconti di Soriano, el Gordo, ci si perde nel tempo dilatato, nella realtà
sfumata, nelle fantasie che varcano continenti e rigidi schemi: come potrebbe se no
esistere la storia “Il rigore più lungo del mondo”, vera chicca della nostra ruota
letteraria.
“…l’arbitro, Herminio Silva, fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente,
e indicò il punto del rigore. A quell’epoca, il luogo dell’esecuzione non era segnato
con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non
riuscì nemmeno a raccogliere il pallone perché l’ala destra, detto el Cholo, lo stese
con un pugno sul naso. La rissa durò così tanto che scese la sera e non ci fu modo di
sgomberare il campo né di risvegliare Hermino Silva. Il commissario, con una
lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria… Secondo il
tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano giocare
ancora venti secondi a partire dall’esecuzione del calcio di rigore, e quel match
privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Diaz in porta, avrebbe avuto
luogo la domenica dopo a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana…”
Ma nei campi di calcio di Soriano ne succedono di tutti i colori: può capitare che
l’allenatore fornisca agli attaccanti spine di cactus per pungere le natiche dei portieri
avversari (“Orlando el Sucio”); che el Cacho, dotato di un’ugola d’oro, abbia il
compito, prima dell’inizio della partita, di andare a trovare gli avversari, soprattutto il
portiere, per farli parlare e apprenderne le tonalità della voce: una volta in campo la
sua qualità d’imitatore viene buona per ingannare col suo “lascia!” avversari che non
ribattono la palla e la consegnano ai suoi piedi marpioni (“Centrofobal”); che nella
sperduta Patagonia si giochi il mondiale del ’42, quello che a causa della guerra non
figura in nessun libro di storia, quello dove gli arbitri utilizzano la pistola per farsi
rispettare, i portieri difendono la porta con il lancio di pietre, dove si assegnano 3
rigori di fila per punizione, ma che spesso non si possono tirare a causa della
sparizione delle porte, dove le donne mapuches assistono agli incontri ballando a
seno nudo (“Il figlio di Butch Cassidy”); dove un allenatore si presenta come
l’antesignano del modulo d’attacco, un precorritore di Zeman: per lui il gioco del
calcio è fare gol. I difensori perdono così il posto in squadra e fanno festa gli
attaccanti. Leggiamone alcune righe: “…ricordo una partita in cui eravamo sul 4 a 4:
sono andato in difesa per aiutare Pedrazzi ad arginare un contropiede e ho dovuto
fermare la palla sulla linea di porta. Alla fine del primo tempo, negli spogliatoi, el
Mister mi è venuto vicino e ha cominciato a sgridarmi: - Che ci faceva lei lì, a
perdere tempo! La sua porta è l’altra, cazzo!” (“Peregrino Fernandez”); nello stesso
racconto l’allenatore, molto fantasioso, fa giocare la propria squadra con 12 e perfino
13 calciatori: “…faceva cambiare il cileno Jara, lo nascondeva tra il massaggiatore e
il factotum della squadra e all’improvviso, appena si scatenava un parapiglia attorno
all’arbitro, lo faceva entrare in campo di nascosto. Il trucco funzionava quasi
sempre…”
Nella loro assurdità questi racconti portano a dubitare che sia tutto frutto della sua
fantasia: ci sono i nomi e i soprannomi dei giocatori, le date, gli stadi, i riferimenti a
squadre europee e italiane, ci sono Pelè e Maradona, ma, sia come sia, è bello
crederci. Come bello è credere al voto della prostituta francese Zulema che, ci ricorda
Soriano, sarebbe piaciuta a Fellini: “…Il suo contributo allo sforzo bellico dei
compatrioti era stato fermo e deciso: fino alla liberazione di Parigi non un solo uomo
di nazionalità tedesca si distese sulle sue lenzuola…” (“Geneviève”)
Soriano, amante delle donne, del calcio e della sua espressione massima, il gol:
“…per il gol c’è un angelo particolare. Un non so che. O ce l’hai o non ce l’hai. Tu
l’hai visto: ci sono attaccanti che non segnano più di cinque gol a campionato, non è
serio!” (“Nostalgie”)
Per concludere segnalo come l’esplosione della sua narrativa si componga
magnificamente nelle pagine del racconto “Lo scudetto del ciclone rossoblu”,
archetipo dei sogni, delle gioie e pazzie di tutti i tifosi che amano squadre minori,
“grandi” solo nel loro cuore: “…che cosa significhi essere campioni, domandate?
Guardate: è qualcosa come uno champagne ben secco e gelato che scende per la gola.
Un solletico lieve lì dove ti piace. La pelle che ringiovanisce di colpo. In una sola
notte ai calvi tornano i capelli, spariscono i bruciori di stomaco. Io, per esempio,
usavo gli occhiali per leggere e scrivere. Bene, non più, sono guarito. Queste righe
che sto scrivendo scendono dalla mano di Dio onnipotente, vedo le lettere di “San
Lorenzo campione” con la stessa nitidezza con cui Beethoven riusciva a udire al di là
dei brusii e della sordità. Ragazzi del glorioso Ciclon: grazie di tutto. Tornate a casa
felici. Questo non sarà il Boca né il River né il Milan, ma ha la sua storia e un cuore
grande come una lingua di cinghiale. Siete già nella nostra piccola storia. Potete
chiedere quel che volete e vi sarà dato. Avete vinto con i colori che io posso vestire
soltanto nei miei sogni. Le tre di notte a Parigi. Telefono per affittare uno smoking e
una Rolls Royce e poi esco a incendiare la notte. Che mi trovino sbronzo su un ponte
della Senna o fra le braccia di Margherita Gautier. Fate largo, passa un campione!...”
Racconti bellissimi che trascendono dal calcio e parlano della vita.
GIULIETTA E’ NA ZOCOLA
FANTASIA AL POTERE, UNA RISATA VI SEPPELLIRA’: chi, come me, era
giovane nel ’68 ricorderà questi slogan, scritti sugli striscioni, sui muri delle città e
urlati nelle manifestazioni. Slogan dalla potenza dirompente, sebbene scevri da una
connotazione politica immediata: il sogno era scardinare la staticità del sistema con la
leggerezza, apparente, della gioia e del non prendersi troppo sul serio.
Il libro di cui voglio consigliarvi la lettura, il primo della mia collaborazione con
Nerazzurro, va proprio nella direzione dello scherzo, della risata o, quantomeno, del
sorriso. GIULIETTA E’ NA ZOCCOLA, anno 2004, del comico cabarettista
Cristiano Militello è un’esilarante carrellata di slogan riportati sugli striscioni esposti
negli stadi italiani.
Libro da sorseggiare nel dopopartita come un tempo veniva consigliato di fare con il
liquore sponsor ( ma all’epoca non era ancora in voga questo termine ) della
trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”: buono per ogni
occasione, vittoria, sconfitta o pareggio. Buono per rifarsi degli sfottò degli avversari,
per lenire offese e proclami di superiorità, per rivendicare, al di là dei risultati, la
propria appartenenza ai colori d’una maglia amata come la mamma, per sfogare la
propria goliardia troppo spesso tarpata dalle regole del “buon comportamento”.
Soprattutto per liberare una delle armi più potenti a disposizione di noi uomini,
l’ironia.
Gli striscioni che con sagacia Militello menziona sono solo una piccola parte della
vasta produzione artistica dei tifosi: tutti insieme fascerebbero facilmente tutta
l’Italia, dando vita a un’opera degna del miglior Christo, l’artista bulgaro-americano
che impacchetta i monumenti e avvolge con stoffa ponti e strade. Negli stadi però
si sa essere più allegri e popolari. Vediamo.
Critica sociale e politica, AGNELLI, NON FARE IL FURBO: VENDI LA JUVE
NON GLI OPERAI ( Roma-Juve 2002/03 ), FININVEST SANGUISUGHE ( MilanBari 1990/91 ), MA QUALI STALINISTI: SOLO BAGNINI E SURFISTI ( LivornoPisa 2001/02 ); ironia feroce su usi e costumi, SIETE COME I CAPELLI DI
CONTE: FINTI ( Torino-Juve 2001/02 ), CEPU: RIMBORSATE DEL PIERO (
Inter-Juve 1999/00 ), BASTA CON LA VIOLENZA- VIA LA POLIZIA DAGLI
STADI ( Cosenza ), RESISTETE CHE PIOVE ( Fiorentina- Napoli 1991/92 ); flash
presi a prestito da musica, cinema e letteratura, CRISTO SI E’ FERMATO AD
EBOLI PER NON VEDERE POTENZA ( Matera-Potenza 2000/01 ), ANCHE I
RICCHI RUBANO ( Milan-Genoa 1989/90 ), ABBASSO I BEATLES-W LANDO
FIORINI ( Roma-Liverpool 2001/02 ), VOLA AL CINEMA CON MARLON
BRANDAO ( Inter-Milan 1991/92 ); ispirazione religiosa, SAN LUCA SE BUCA (
Bologna-Roma ), Il SANTO DEGLI SCEMI: SAN SEPOLCRO ( SangiovanneseSansepolcro ), DIO C’E’ E HA IL CODINO ( Brescia-Bologna 2001/02 ); goliardia
maschilista, VOI COMASCHI-NOI COLLE FEMMINE ( Fiorentina-Como 1988/89
), TU CHIEVO-IO CHIAVO ( Chievo-Bologna 2001/02 ).
Intelligenza spicciola dirà qualcuno, dimostrando così la sua scarsa sportività e
dimenticando che il fare classifiche sul potenziale intellettivo del prossimo è già
l’anticamera del razzismo. Per me, invece, lampi di genialità che il libro di Militello
permette di non far cadere nell’oblio, strappandoci un sorriso e facendoci sperare che
il calcio, il gioco più bello del mondo, possa sempre divertirci.
Il libro di Militello è anche un’occasione per ridere di noi. Io, tifoso del Cagliari,
ricordo uno striscione degli anni ‘70/80 che diceva VI RUBEREMO IL GREGGE:
geniale, ma prego affinché nessuno lo attui, mi piace troppo il pecorino.
Impossibile poi non citare il botta e risposta fra tifosi veronesi e napoletani che
dimostra come anche l’offesa o l’augurio cattivo possano stimolare l’intelligenza e
l’arguzia della risposta: VESUVIO FACCI SOGNARE ( Verona ) e
GIULIETTA SI ‘NA ZOCCOLA ( Napoli ). Talmente bello il secondo da meritare il
il titolo del libro.
Vorrei in conclusione citare uno striscione che non compare in questa rassegna, ma
che dimostra le stranezze e le storture del mondo del calcio: uno striscione
considerato pericoloso, non autorizzato, che ha subito il tentativo di rimozione da
parte delle forze dell’ordine, rimozione per fortuna poi non attuata.
Bergamo 6 ottobre 2007, Atalanta-Udinese: partita che festeggiava il centenario della
fondazione della squadra nerazzurra.
ATALANTA FOLLE AMORE NOSTRO
IL CALCIO ALLA SBARRA
Il libro di oggi è per persone forti, quindi, prima di leggerlo, è opportuno porsi alcune
domande: ho lo stomaco abbastanza saldo per resistere a tutte le schifezze che verrò a
conoscere? Sono sufficientemente sportivo da accettare critiche alla mia squadra del
cuore? Posso sopportare la terribile notizia che i miti, se mai sono esistiti, sono una
razza già da tempo estinta?
Se avete risposto ogni volta sì, potete procedere: non abbiate paura di essere toccati
nel cuore della vostra fede calcistica perché, vi assicuro, siete in buona compagnia.
Ogni maglia, dalla più blasonata a quella misconosciuta, è parte del meccanismo
perverso che ha infestato il nostro calcio.
Il libro di Oliviero Beha e di Andrea Di Caro è crudele, crudele come ogni
avvenimento che mina la nostra serenità. S’insinua nelle nostre certezze (?) rivelando
scandali, combine, scommesse; sciorinando nomi di farmaci proibiti e stravaganti
somministrazioni ( vi sembra normale somministrare 240 flebo in un anno a un
calciatore? ), con medici, direttori sportivi e calciatori conniventi; elencando
procuratori e presidenti facili all’evasione fiscale, alla bancarotta, all’entrata in Borsa,
alle plusvalenze, alla tratta di ragazzini extraeuropei codificati come “merce” e non
dimenticando quei politici che hanno varato le leggi spalma debiti.
L’olezzo che si sprigiona è infernale, ma, parafrasando una famosa battuta di Totò,
SIAMO UOMINI O STRUZZI? Leggiamo. Uno dei primi elementi presi in
considerazione dal libro è l’impatto prodotto dall’intromissione massiccia della
televisione nel mondo del calcio e del tifo. Così si esprimono gli autori: “l’importante
è il prodotto TV, il pubblico di consumatori, di tifosi, che chiama pubblicità in base ai
grandi numeri. E’ l’indotto che prevale sulla partita, sulla sua regolarità”. Ancora:
“truccano le partite così da garantire le vincite al banco delle scommesse? E il tifoso
non solo si è bevuto partite truccate, ma non vede l’ora che lo scandalo finisca,
possibilmente che la squadra avversaria, che è stata promossa, venga penalizzata o
retrocessa ma soltanto perché ci guadagni qualcosa la squadra propria, e che al più
presto il calciomercato e il calcio giocato mettano in fuga scandalosi fantasmi”.
Ma se questo pensano i tifosi, qual è l’opinione degli addetti ai lavori? Un grande
giocatore, dopo una cocente sconfitta in Champions rilascia questa dichiarazione:
…siamo stati superiori al Borussia, ma l’arbitro non ha avuto il coraggio di darci il
rigore, certe sue decisioni hanno pesato in modo evidente sul risultato. Abbiamo
perso contro una federazione forte, troppo forte, più potente della nostra…
Il commento di Beha e Di Caro è: “la chiave di lettura è duplice. Allora quando
vinci è perché la tua federazione conta di più? E tra i confini nazionali, se vale la
stessa logica, chi ci guadagna?”
Ma le storture non sono casi isolati: come può succedere che un quotidiano sportivo
pubblichi in anticipo le squalifiche che saranno comminate dagli organismi federali?
Perché le inchieste penali, dopo le strombazzate iniziali, si esauriscono il più delle
volte in ridicole sanzioni, in “gravi” censure?
Esaminiamo l’argomento farmaci: un ginepraio di coperture, di manipolazioni, di
documentazioni sparite, di laboratori d’analisi inefficienti e/o compiacenti.
Zdenek Zeman esterna critiche sull’utilizzo di farmaci non necessari, di cui non si
conoscono gli effetti a lungo termine: …se la creatina la si somministra perché un
giocatore sta male ha un senso, altrimenti no. Pur di ottenere il risultato si potrebbe
scatenare una corsa all’uso di sostanze farmacologiche sempre maggiori: se un
calciatore assume 3 grammi, un altro per fare meglio ne prenderà 20, poi 30 e infine
40. Mutare i controlli non cambia niente, ci vuole una diversa mentalità… So di molti
medici passati dalla bicicletta al pallone. Bisogna evitare che il campionato diventi
come il Tour…
Il sistema calcio si difende con parole pesanti, con accuse per il boemo di falsità e di
irresponsabilità; si parla di terrorismo, si chiede una squalifica esemplare.
Come spesso succede in Italia ci si scaglia contro chi denuncia certe anomalie
piuttosto che indagare seriamente. Passano così in secondo piano le “prove”, il fatto
che il sistema antidoping fa acqua da tutte le parti e che le procedure sono lacunose;
ci si scorda che alti dirigenti, dopo aver per mesi negato, sono costretti ad ammettere
che i laboratori effettuavano test solo a campione e che le attrezzature impiegate
erano inefficienti o, udite udite!, tarate male.
Ma sentiamo dalla viva voce di alcuni protagonisti le “normali” procedure
dell’impiego dei farmaci: …il giorno della partita tutti i titolari venivano
sistematicamente sottoposti ad alcune iniezioni. Ci dicevano che erano vitamine, ma
se non le facevi ti mettevi contro la società… si erano inventati una ricetta contro il
freddo invernale: prima della gara prendevamo due o tre palline di Micoren più un
caffè con dentro due aspirine tritate… avevamo pronti tre accappatoi con doppia
tasca e facevano pipì in una provetta da clistere quelli che non giocavano. Chi doveva
presentarsi, nascondeva la provetta sotto l’accappatoio e ne spremeva il contenuto nel
barattolo federale… mentre mi parlava se ne stava attaccato alle flebo. Gliene
facevano in continuazione, nel letto era tutto un tremore, uno scatto di nervi e di
muscoli che mi ricordavano gli spasmi dei polli dopo che gli hanno tirato il collo …
Se abbiamo ancora forza per affrontare argomenti “vergognosi” il libro ci riporta
anche la scala economica della nostra amata sfera.
…17 cents è quanto un cucitore di palloni guadagna per cucirne uno, contro i 91
dollari di vendita sul mercato…
Un po’ ci rimorde la coscienza, pensando ai tanti palloni a cui abbiamo dato calci?
Leggete, a proposito, cosa dice un calciatore, ovviamente anonimo, che ha scelto
Famiglia Cristiana per confessarsi: …padre mi sono venduto in una partita
importantissima. Non vivo più da quando ho fatto quello che le sto raccontando. Mi
sono comportato in modo da danneggiare la mia squadra, allettato dalle promesse di
un ottimo contratto…
Ma se di soldi dobbiamo parlare ecco che Il Calcio Alla Sbarra ci porta ad affrontare
lo scandalo economico sollevato da Gazzoni, l’ex presidente del Bologna: …vedo
una Roma talmente forte, però noi paghiamo 14 milioni di IRPEF e li paghiamo tutti
gli anni. La Lazio non paga le imposte, la Roma non le paga. Anche noi, se non le
pagassimo acquisteremmo quattro giocatori buoni, e con quattro giocatori si fa strada
… potrei saper perché certe società devono somme enormi allo Stato e hanno chiesto
di rateizzarle in 10 anni? Se si può fare, dovevano dirmelo, avrei voluto approfittarne
anch’io e invece di darli al fisco li avrei spesi sul mercato...
C’è da rimanere storditi.
Per concludere definirei il libro di Beha e Di Caro un libro coraggioso, che solleva il
sipario su un palco calcato da attori mediocri a cui siamo abituati tributare elogi e
applausi. Coraggioso perché cita date e nomi degli addetti ai lavori senza fare alcuno
sconto. Coraggioso perché si mette contro tutti noi amanti del calcio, dandoci uno
schiaffo sonoro e riportandoci sulla terra, e Dio volesse fosse quella di un campo di
calcio dove lo sport sia ancora il principale protagonista. Coraggioso perché si
presenta con 700 pagine e con una copertina dimessa, senza trovate roboanti che
catturino l’attenzione.
Ma allora come la mettiamo? Gianni Rivera, nell’ultima parte del libro, fa un’analisi
amara: “Viviamo le conseguenze di una politica del calcio che cura gli interessi delle
squadre più ricche e potenti. Gli arbitri sono condizionati dalla situazione ambientale.
Sanno che il loro futuro dipende dal fatto che siano accettati o meno dalle grandi
società. Forse se la gente non andasse più allo stadio…”
Il finale alla penna di Beha: …ma se c’è in giro questa puzza di bruciato come fare a
continuare, a vedere ancora partite, ad andare allo stadio, a “far finta di essere sani”,
per dirla alla Giorgio Gaber? Forse il calcio resiste come calamita sia pure mutata e
degradata proprio perché rimuoviamo il suo aspetto deteriore e lo vediamo come lo
vogliamo vedere, “fuori dalla toilette”.
LA VITA E’ UN PALLONE ROTONDO
Il calcio a volte aiuta. L’ha fatto sicuramente con lo scrittore Vladimir Dimitrijevic:
fu grazie alla passione e alla sua buona predisposizione per questo gioco che infatti,
dopo un’avventurosa fuga dalla Jugoslavia di Tito, riuscì ad avere un permesso di
lavoro in Svizzera. Calcio e letteratura le sue passioni.
Il libro in questione è di facile lettura, costituito da brevi capitoli che raccontano
episodi calcistici della sua infanzia e, al tempo stesso, commentano il gioco, i
calciatori e le nazionali di allora, tracciando una linea di demarcazione con il gioco, i
calciatori, le nazionali attuali; il gioco “del cuore” contro quello “schiavo” del
risultato e degli affari. I capitoli ci catturano con il loro bagaglio di ingenuità e di
definizioni d’altri tempi ( …la vetturetta di mio padre … ). Partiamo dall’originalità
dell’esordio di Dimitrijevic.
“ Il calcio è il re dei giochi. Per quale motivo? Secondo me perché, come la danza,
riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri
movimenti. Nel calcio potete adoperare - se non giocate in porta, beninteso – soltanto
piedi e gambe, antenati sottosviluppati delle mani e delle braccia ”
Insistendo sul concetto anatomico: “ Avere ai piedi le scarpe con i tacchetti è quasi
come avere un paio di zoccoli “
In altre pagine paragona il gioco del calcio agli scacchi, dove ciò che conta è la
condanna a morte del re, lo scacco matto. E lo scacco matto, nel calcio, si chiama
gol.
Tutti quelli che hanno più di cinquant’anni sanno dell’emozione di possedere un
pallone di cuoio: ai tempi era uno dei regali più sognati. Addirittura, prima della
guerra era, ma lo è ancora oggi in parti del mondo meno fortunate delle nostre, il
risultato dell’unione di panni, stracci, lacci e di qualsiasi materiale che potesse
contribuire a ottenere una forma più o meno sferica. Pallone e scarpette.
“ Inutile dire che non erano nuove, né della mia misura. Queste scarpe appartenevano
al club. Le imbottivamo di carta di giornale per riempire gli spazi vuoti. E se invece
erano troppo piccole, stringevamo i piedi. Capitava anche che il paio non fosse un
paio, ma due scarpe diverse, il che talvolta creava comici effetti di claudicazione,
come i puledri e i vitelli che, appena nati, provano a tenersi in piedi ”
Piccole soddisfazioni per chi considera il calcio la consolazione degli umili.
“ L’uomo di oggi non può più vivere in una società eroica; siccome ha scelto la
pseudo democrazia che lo fa vegetare in una sorta di indifferenza, va alla partita. La
povera gente ottiene qualche vittoria, certo illusoria, perché un domani subirà
licenziamenti, rifiuti o forse finirà col divorziare. Io sono d’accordo con l’idea di
costruire stadi, campi di basket o palestre nei quartieri difficili. Ma non sono né le
tenute eleganti, né i parquet, né i prati ben curati a rendere sano il corpo. E’ il
desiderio di ricominciare o continuare a fare in segreto ciò che lo appassiona, come
fanno tutti gli umili dalle passioni segrete. Del resto, mi domando cosa resti a quelli
socialmente arrivati… ”
Meglio i sogni. Eccone alcuni stralci.
“ La squadra è un sogno, la squadra è una fede. E’ come l’equipaggio di un aereo da
combattimento: ognuno deve assolvere il proprio compito per la sopravvivenza di
tutti, per segnare dei gol evitando di incassarne… sono tutti veri giocatori quelli che
da bambini hanno dato qualche calcio al pallone, sognando la squadra del cuore. Al
punto che quando vanno alla partita, loro sono la partita… quando, dopo un’assenza
di ventisei anni, sono tornato per la prima volta a Belgrado a causa di un lutto, i miei
amici, per consolarmi, mi hanno portato a una partita della Stella Rossa. Accanto a
me c’era un padre che spiegava al figlioletto: - Vedi, se non avessi questo guaio alla
gamba – e mostrava la sua gamba sinistra, che sembrava effettivamente ridotta
piuttosto male – allora, vedi, ci sarei anch’io, in campo – Lui non lo sapeva, ma
c’era. Avrei voluto dirgli: - Non ti lamentare! Tu, in campo, ci sei davvero – E’ una
comunione. Lasciateci almeno questa, di comunione ”
Il sogno è però in contrasto col dio denaro e allora Dimitrijevic dà spazio a
considerazioni economiche e all’emozione per il gioco africano.
“ Oggi i calciatori sono ossessionati dalla posta in gioco e dalla paura di sbagliare. Le
somme che gravano su di loro sono sproporzionate, con un’inflazione che tende
all’astrazione. Si gioca per giustificare gli investimenti delle grandi multinazionali,
che sponsorizzano magliette, calzoncini, scarpe, naso e orecchie dei calciatori. Oggi
la paura di non ottenere risultati è paralizzante. Gli africani invece giocano come
quando si ha dieci anni, cioè si esprimono attraverso il gioco, dribblano, si lasciano
andare come puledri su un prato.
Se osservate i difensori di oggi, vedrete che non si azzardano più ad attaccare uno che
è capace di dribblare, hanno perso l’istinto elementare del duello. Aspettano di avere
dietro di loro un compagno che recuperi il pallone, senza nobiltà ”
A dimostrazione della sua simpatia al “sogno” l’autore non si entusiasma per la
bravura dei vari Pelè o Platinì pur, ovviamente, riconoscendone le immense doti; no,
lui è per la strafottenza, per la genialità, per la voce fuori dal coro. Lui è per
Maradona.
“ Dopo aver scartato tutta la difesa, Maradona con un buffetto scodella la palla in
fondo alla rete. Pochi minuti prima, con una schiacciata degna di un pallavolista, la
stessa celestiale canaglia aveva segnato un gol che, fra lo stupore dell’intero stadio,
era stato convalidato dall’arbitro. Ma la magia del secondo gol è stata così
avvincente, così inarrivabile, da cancellare l’affronto e la scorrettezza di quello
spregevole fallo di mano “ Perché questa ammirazione?
“Pelè ha cercato il favore dei giornalisti, diventando il beniamino dei media e il
trastullo dei politici. Diventerà ministro, presidente, costruttore di stadi, come Platinì.
Nel calcio, come in letteratura, preferisco quelli che hanno mantenuto l’impertinenza
dei bambini. E’ un gran bene per la società che ci siano gli adulti, ma io preferisco
Maradona. Un mio amico mi dice: è una canaglia. Sì, e proprio per questo mi piace.
Anche Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista;
imperturbabile, sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua a vivere
un’esistenza che non mi appassiona per nulla. Quando don Diego fa il suo ingresso in
un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no,
aspettano che il giro lo paghi lui ”
Dimitrijevic è come uno di noi, s’infiamma, soffre, gode per le improvvisazioni del
“matto” di turno; “matto” ricordato dai tifosi con simpatia, con affetto e, come
affermano gli ultras, con onore. E proprio degli ultras Dimitrijevic descrive lo spirito
migliore “: … c’erano uomini che non erano calciatori, ma la cui unica passione era il
calcio. Vivevano per la loro squadra e la squadra era tutta la loro vita. Erano gli
archivi viventi del loro club, che cercavano di seguire dovunque, spendendo tutto il
denaro per pagarsi il viaggio… talvolta si conciavano in modo bizzarro, ricoprendosi
di distintivi e di diversi strati di maglie, di gagliardetti, di bandiere sventolanti…
quegli uomini amano senza riserve, non si risparmiano, vanno a tutte le partite, fanno
il giro d’onore quando la squadra vince, e quelle vittorie rappresentano i giorni più
belli della loro vita… ”
I cinquanta capitoli di La Vita E’ Un Pallone Rotondo si sgranano come un rosario e
svariano dagli anni della seconda guerra mondiale agli anni 2000.
E il futuro, che già in parte viviamo, cosa ci riserverà?
Queste le sue parole ironiche: “ Capire come il denaro trasformerà questo magico
sport in un divertimento da juke-box resta naturalmente una questione aperta. Forse
presto ci si accontenterà di valutare in dollari il peso delle squadre e di proclamare
vincitrice la più “pesante” delle due. Questo ci risparmierà novanta minuti di noia.
Oppure, al posto dell’interminabile partita, si potrà far tirare qualche calcio di
punizione o di rigore, alternandolo ad alcuni giri di campo di cosce di majorette.
Essendo stato educato all’epoca delle grandi speranze e del radioso avvenire,
conservo alcune registrazioni riguardanti gli aborigeni che un tempo praticarono il
gioco chiamato calcio “
LE PARTITE NON FINISCONO MAI
Libro per gli autentici fedeli del calcio, quelli che pur credendo in una religione
rispettano le altre. Darwin Pastorin, giornalista italo brasiliano racconta infatti, in
modo pacato e in buono stile, di giocatori, ruoli, allenatori, nazionali, di incontri e
scontri calcistici sempre col dovuto riconoscimento degli avversari: se un tackel è
necessario lo fa sul pallone e non sulla persona. Accade così col grande Torino, con
Zico, Maradona, Bearzot, Platinì e tanti altri. In lui, e nel suo libro, è la cultura a
prevalere, quella che antepone la sportività al becero esercizio delle ugole violente.
Cultura che lo porta a colorire le sue cronache con intromissioni musicali, politiche e
letterarie. Perché il calcio, come dichiara lui stesso nella prefazione “ è passione,
letteratura, medicina, vertigine, tenerezza”. Anche sul tifo la sua idea è ben chiara “
una squadra si ama indipendentemente dalle vittorie e dalle sconfitte. Si ama, e basta.
Di un amore cieco, assurdo, ottuso, fanatico. E, crescendo, il fuoco, invece di
spegnersi, aumenta sempre più “
LE PARTITE NON FINISCONO MAI è l’insieme di storie di calcio che si svolgono
anche sui campi erbosi; infatti, grazie all’ingegno e alla generosità dell’autore, i
racconti si dilatano conquistando spazi estranei, offrendoci un ampio ventaglio di
opportunità: la strofa d’una poesia, l’articolo d’un collega, il brano d’un libro. Un
puzzle senza fine, una gioia per chi ama perdere la retta via e avventurarsi su sentieri
alternativi.
Succede così che un’azione riesumi ricordi dell’infanzia, coi profumi e le voci di una
casa o di una via; che l’evento sportivo sia stigmatizzato da una formazione sciorinata
a memoria; che le figurine Panini facciano bella mostra, ma le gambe più famose
appartengano all’attrice Marlene Dietrich; che si parli del ruolo del portiere e si
finisca col nominare Nabokov, l’autore di Lolita, o Bruno Conti, invitato dai
ragazzini di Copacabana, coi quali si era messo a giocare, a sistemarsi in porta, ruolo
proverbialmente assegnato in Brasile ai più scarsi; che Gigi Meroni, l’ala destra
granata scomparso nel 1967, sia il viatico alle canzoni di De Andrè e Luigi Tenco;
che una cena con i brasiliani Zico, Edinho, Pedrinho, Junior si concluda cantando
C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones; che
Guccini e Venditti siano la colonna sonora per ideali e speranze in un mondo
migliore; che lo stukas, così chiamavano gli amici Pier Paolo Pasolini, sia in buona
compagnia con Kerouac, Anastasi e Che Guevara, con Omar Sivori, Garrincha, Riva
e Jorge Amado.
Nel suo raccontare Darwin Pastorin mescola in continuazione il Brasile, dove ha
vissuto i suoi primi sei anni e il Palmeiras, un tempo Palestra Italia, la squadra
pluricampione di cui è tifoso appassionato e di cui si sente console onorario in
Italia: la maglietta della Verdao, così è chiamato il Palmeiras per i suoi colori, sempre
sul cuore. Ma in questo raccontare lieve, privo di autocelebrazioni, come in un
parlare fra amici, fa l’ingresso anche la madre, in una sorta di simpatica vignetta – “
Caro Fabrizio (Ravanelli), sono la mamma di Darwin. Devo farle i complimenti: sta
giocando davvero bene. Continui così. Sacchi dovrebbe impiegarla con maggiore
frequenza. Arrivederci “ Ravanelli, ogni volta che mi incontra chiede di mia madre.
Riferisco. E la mia cara mamma “ Con quel centrocampo, non andranno molto
lontano. Ma Fabrizio non sarebbe servito alla Juve o al Milan? “
A casa mia sono passati diversi giocatori e tutti sono diventati figli per mia madre. Ai
brasiliani preparava la feijoada. Agli altri, specialità veronesi. Soprattutto a base di
polenta. Alla fine, una lezione di tattica “ Una cosetta così, leggera “ E loro ad
ascoltare, con me in un angolo. “ Perché, per carità, lui di calcio ne capisce. Ma date
retta a me “ Che è meglio non lo ha aggiunto mai: ma soltanto perché sono suo figlio
–
Non tutti i rami del grande fiume dei racconti però sono pacifici e ameni, c’è posto
anche per quelli fangosi e persino per le sabbie mobili, affrontati da Darwin Pastorin
con onestà e coerenza. Nel caso di Maradona non sale sul carro di quanti, dopo aver
sfruttato le “briciole” che il carrozzone dell’Argentino nel suo incedere lasciava
cadere, ora indossano la tunica verginale, gli voltano le spalle e ne prendono le
distanze “ Voglio denunciare il mio disprezzo nei confronti di tutti coloro, e sono
tanti, che hanno calpestato l’idolo infranto. Adesso non porta più benessere e
pubblicità, non serve più: è merce per psichiatri, per qualche pseudointellettuale in
vena di impartire lezioni a buon mercato. Siamo rimasti in pochi: orgogliosi di
difenderlo, di proteggerlo. Ma gli vogliamo bene lo stesso, e anche di più. Perché ci
ha regalato quel gioiello raro che si chiama amicizia, perché le notti di Maradona non
sono state soltanto notti sbagliate. Ne ricordo alcune insieme: a recuperare il passato,
una semplice nostalgia di Sudamerica, quel giorno a Torino dai bambini malati.
Senza giornali, senza riflettori. E poi ci ha regalato giorni indimenticabili di calcio. E
sarebbe bastato quel gol all’Inghilterra per dire: “ Calate il sipario. In questo preciso
momento il football, avendo raggiunto l’apice della sua bellezza, non ha più ragione
di esistere”
E rispetto al dramma dei bambini schiavi, fa sue la parole di Gianni Minà: “ Io dico
che il calcio deve arrivare persino a boicottare le manifestazioni internazionali:
perché prendere a calci certi palloni significherebbe prendere a calci la vita di molti
innocenti che lavorano dodici ore al giorno senza tutela alcuna per fabbricare gli
attrezzi sportivi. Si sfruttano esseri umani in modo medioevale e poi nei grandi
consessi, tipo Olimpiadi, si sostiene che sono prevalsi i valori dello sport. Quali?
Eppure avete visto o sentito atleti super pagati dalle multinazionali
dell’abbigliamento, o dirigenti che vivono come sultani a Montecarlo, alzare la voce
per denunciare questo obbrobrio?”
Darwin Pastorin, oltre al Palmeiras, ha nel cuore la Juventus: l’amore iniziò ai tempi
di Leoncini e Menichelli e si sublimò con l’idolo Anastasi. Il libro parla di questa
passione, ma lo fa con tale sobrietà che non può non attirare anche chi professa una
differente confessione calcistica: un amico è sempre un amico, al di là della squadra
per cui tifa, e Pastorin ci appare tale.
Un amico che racconta, ma, come un vero amico capace di ascoltare: potremmo
sostituirci a lui e confidargli le nostre speranze e delusioni, parlargli della nostra
squadra e dei nostri idoli. Sono certo che capirebbe. Del resto, nel capitolo La
memoria del pallone, esprime perfettamente il suo spirito sportivo “ Quando il
calcio diventa ricettacolo di odi e di veleni, scusate, ma mi metto da parte. Non ci sto.
Non ci sto ad accendere la miccia di una polemica, a diventare fautore di processi del
lunedì. Per me il pallone continua a essere un “sogno fanciullo”, la magia del prato
verde, l’euforia per un bel gol. Per me il calcio è tutto racchiuso nel sinistro di Riva,
nello scatto di Anastasi, nella lealtà di Scirea, nell’elegante furore agonistico di
Tardelli, nella grazia di Rivera. Per me il calcio contempla anche l’errore
dell’arbitro”. Simpatica la rivelazione ottenuta dall’arbitro De Marchi: - Fischiai un
fallo, il difensore Tino Castano mi giurò sulle figlie che non aveva fatto niente. Gli
credetti: scoprii, poi, che non aveva figlie –
Ecco le parole che ci regala in conclusione “Ma perché il calcio non ritorna
“normale”, non recupera il vestito della festa? Quando andavo allo stadio al massimo
volava qualche insulto. Importante era sventolare le bandiere, tifare per i propri
beniamini, andare al campo di allenamento per la felicità di un autografo. Gli scudetti
vanno e vengono: ma deve restare l’amore per una passione pura, per una fedeltà a
prova di gol dato o non dato, di rigore concesso o no. Dov’è finita la discussione.
Dove sono finiti i toni leggeri?”
A dispetto del titolo, LE PARTITE NON FINISCONO MAI finisce; giusto, le cose
terrene devono avere una fine. Eppure rimane la sensazione di una voce che continua
a farci compagnia, che continua a sussurrarci nomi di campioni, noti e meno noti,
partite e formazioni. Della più impareggiabile, quella che stila nell’ultima pagina non
svelo i nomi, ma do indizi: un rivoluzionario, uno scrittore, un cantautore, un’attrice,
un giornalista e, ovviamente, qualche grande calciatore.
QUANDO GIOCAVA PASOLINI
Libro particolare, questo di Valerio Piccioni. Parla sì di calcio, ma per interposta
persona: sono infatti le testimonianze, i ricordi, gli scritti di Pasolini a descriverne
la valenza sociale e ludica, a offrircene un’inquadratura particolare. Sì, perché
Pasolini, intellettuale controverso che fa ancora discutere per la sua critica alla
società dei consumi, per il suo carattere indipendente e non omologabile, per la
profondità delle sue opere, era un grande appassionato del pallone. Passione di cui
pochi sono a conoscenza.
Sappiamo del cinema, della letteratura, della politica, certo, ma non del calcio. Il libro
possiede il merito di farci scoprire quest’aspetto meno noto dell’intellettuale
bolognese e a ricondurlo a dimensioni più vicine a noi.
Nel 1973, in un’intervista, Enzo Biagi gli chiese cosa gli sarebbe piaciuto diventare
se non fosse stato regista e scrittore. Lui rispose “Un bravo calciatore. Dopo la
letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.
Appassionato di calcio lo era stato fin da ragazzino, quando, come facevano molti di
noi, giocava per ore con il pallone su campi più o meno precari. “Nel pomeriggio
andavo a giocare al calcio: in questo consisteva il mio unico e innocente conforto”
Era in grado di giocare ininterrottamente per 6/7 ore, per vere e proprie partite
maratona. Gli amici lo avrebbero poi chiamato Stukas, come il famoso bombardiere
tedesco. Non lesinava infatti l’impegno ed era dotato di una discreta tecnica, pur non
segnando mai troppo. Per lui, attratto dalla fisicità, lo sport in genere e il calcio in
particolare diventarono anche un espediente per preservare con civetteria il proprio
corpo dai segni dell’età, per mantenerlo integro, adolescente. Il gioco è però anche
suggestione dei corpi altrui, sinonimo, nell’incontro fisico, di emozione erotica e il
campo un luogo dove confrontarsi con le proprie voglie più nascoste. In Atti Impuri
scrive …i primi mutamenti avvenivano in lui, trasformando il suo corpo
con ritocchi che parevano sfumature ma che finivano col diventare essenziali. Ero già
dunque un altro, un diverso. Ne ero disperato. Giocavo al pallone irruento e allegro
come al solito, ma dentro, nel cuore, ero tutto sanguinante e bruciato…
Negli anni bolognesi è il capitano della squadra della facoltà di Lettere che, nel 1941,
si aggiudica il campionato interfacoltà. In anni più maturi giocherà nella nazionale
degli scrittori e in quella dello spettacolo. A questo proposito, belle le fotografie che
Valerio Piccioni ha inserito nel volume che lo ritraggono con Gianni Morandi e con
Enrico Montesano; bellissime quelle che ce lo mostrano in abiti borghesi palleggiare
a braccia tese e col piede destro ad accarezzare il pallone. La migliore, quella della
copertina: in completo grigio, intento a calciare un pallone fra la rada erba di un
campetto pietroso, in compagnia di alcuni ragazzi sorridenti e con un brutto
palazzone popolare a fare da sfondo. Serio e concentrato, quasi accigliato. La
copertina simboleggia quelli che furono, per molti anni, gli scenari di gioco preferiti,
più volte descritti nelle pagine dei suoi libri: “prati secchi”, “nel piccolo spazio tra
l’immondezza”, “sugli spiazzi di terra battuta delimitati dai mucchi di rifiuti”, “nel
vecchio fango della spianata”. Non nomina mai il campo, preferendo il termine
campetto: spazio di periferia che resiste all’avanzare inesorabile della speculazione
edilizia, quello dove spesso i giocatori sono piccoli delinquenti, nullafacenti,
espressioni di un’umanità ai margini da cui Pasolini si sente attratto.
Spazio dove si giocano partite improvvisate, entrando e uscendo dalla competizione a
seconda della voglia, dell’umore; partite che lui vuole confuse, che a volte non siano
nemmeno partite, che non abbiano né inizio né fine; partite dove la parola gol è quasi
sconosciuta perché nello spaccato di umanità disgraziata un brivido vincente
stonerebbe come possibilità di successo, di realizzazione. Così non c’è mai chi
s’incarica di tenere il punteggio; tutto si brucia in un’azione, in un movimento.
Pasolini ci parla di sfide in cui non si riconoscono vinti o vincitori, ma magari forti e
deboli, grandi e piccoli, trasteverini e borgatari, figli di mignotta e figli di papà.
Conta più l’acuto, la furbata, il tunnel che fa fesso l’avversario, rispetto al gol o alla
vittoria.
L’autore, Valerio Piccioni, nella prefazione ci ricorda come il calcio di Pasolini sia di
un’ epoca in cui non erano ancora arrivate, o iniziavano ad arrivare, le novità che lo
hanno poi reso un po’ tutto uguale; dove non si era ancora sacrificato il fascino
dell’immaginazione sull’altare del “vedere” tutto, tutto quello che vuoi, quando vuoi,
dove vuoi.
E Pasolini, in un’intervista del 1970, così descrive il calcio: “Il calcio è l’ultima
rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Il
calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. E’ uno spettacolo infatti in cui un
mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti
reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso”.
Tutti i connotati della rappresentazione teatrale sono racchiusi nel gioco del pallone
che è, con la sua capacità aggregativa, prepotenza, esibizione, sgarbo da compiere o
da subire, onta da vendicare, sfoggio di un’età, di un corpo, di una sicurezza più
grandi. Pasolini studia l’indotto del fenomeno, la sua periferia, gli spalti, le storie che
vivono alle spalle di chi gioca e di chi guarda. Lo stadio, un bacino sociologico in cui
intercettare suggestioni.
Suggestioni erano anche quelle che gli dava il Bologna, il Bologna degli anni trenta,
il più forte della storia, quello che “tremare il mondo fa” e che vinse tre scudetti
consecutivi, dal ’35 al ‘38. Il Bologna dei Biavati, Sansone, Reguzzoni, Schiavio,
Andreolo, Fedullo e Pagotto. Lui, nato a Bologna, così spiega l’amore per la squadra
felsinea: “Non ha importanza, non è determinante dove si è nati, quanto come e dove
si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il
tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita. Io abitavo a Bologna. Soffrivo
allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre”. Nel
1954, scrive all’amico poeta Vittorio Sereni, interista: “Intanto ti avverto che
domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi ( l’amico
scrittore ): tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la
gioia nostra sarà la tua disfatta”. Ecco, invece, un sonetto dedicato alla sua squadra
del cuore: “E io so come sia terso in questo ottobre il colle di San Luca sopra il mare
di teste che copre il cerchio dello stadio”.
In queste frasi Pasolini estromette la falsità di chi vuole leggere il calcio come una
manifestazione adatta esclusivamente a persone prive di cultura: ne rivendica invece
l’importanza, la valenza sociale e non si vergogna a presentare il suo tifo come
letteratura, come linguaggio.
“Quando Giocava Pasolini” è un libro di scoperta, d’informazione, di spunti letterari
da approfondire, ma è anche un libro di viaggio fatto di incontri, confronti e scontri;
con articoli, fotografie e interviste. Un libro per chi ama “condire” il pallone con
spezie mai banali.
Come ultimo saluto al Pasolini calciatore ecco alcuni “pizzichi di sapore” rilasciati da
chi ci giocò insieme.
Giacomo Ciarlantini, agente cinematografico: Pasolini era instancabile e generoso:
non l’ho mai visto insultare un avversario. Diceva sempre che una partita di calcio era
come un mese di vacanze. Mi ricordo di un suo gol, splendido, all’incrocio dei pali:
ebbro di gioia, corse come un ragazzino impazzito.
Giovanni Galeone, allenatore: Era bravo, veloce. E i suoi compagni di squadra,
voglio dire gli altri registi, gli attori, quelli che chiamava da fuori, lo circondavano di
rispetto, di affetto. Ecco, ti accorgevi che aveva delle cose da dire.
Edy Reja, allenatore: Quella sera portava il numero 7. Si giocava a uomo, alla zona
non ci si pensava: lo controllavo ovviamente senza esagerare, era veloce, pregevole
dal punto di vista tattico, si vedeva che ci teneva in modo particolare.
Angelo Sormani, calciatore: Pasolini giocava bene, certo non al nostro livello, ma
comunque bene.
SAN ISIDRO FUTBOL
L’autore, Pino Cacucci, è noto ai più per il successo ottenuto con Puerto Escondido,
libro da cui Gabriele Salvatores ha tratto l’omonimo film campione d’incassi. Con
San Isidro Futbol ha ribadito il suo attaccamento al Messico, ambientandovi quella
che si può definire una vera e propria chicca letteraria: un western calcistico in forma
di favola a lieto fine, dove più elementi concorrono a renderlo esilarante e consigliato
a chi ama leggere parole di qualità e, al tempo stesso, divertirsi. La storia si svolge in
un piccolo paese, ma in effetti “…San Isidro non era neppure un paese. Ventidue case
di legno e lamiera non giustificavano alcuna menzione nelle mappe federali…”
Difficile anche dire di quale giurisdizione politica facesse parte “...Il problema,
semmai, era stabilire se San Isidro appartenesse allo stato di Veracruz, di Puebla o di
Oaxaca. Questo aveva occupato dodici riunioni fiume del Consiglio, quattro
votazioni di cui una invalidata per ubriachezza scomposta di Fulgencio Murillo, e una
delibera salomonica che assegnava l’appartenenza al primo dei tre stati che avessero
asfaltato la strada fino a Cerro Mojarra. Siccome quei circa venti chilometri erano
rimasti tali e quali, cioè terra battuta nei mesi secchi e torrente di fango nella stagione
delle piogge, San Isidro manteneva la sua sdegnosa indipendenza federale…”
Nel romanzo scorrono i ricordi della Rivoluzione, quando gli uomini portavano
lunghissimi baffi a manubrio, bandoliera sul petto e sombrero in testa; scorre anche
l’ingenuità accattivante di chi vive ai confini del mondo “civilizzato” e scorre a
fiumi ( e come potrebbe essere altrimenti trovandoci in Messico! ), il mezcal, il
distillato dell’agave aromatizzato da un verme, il gusano rojo, che riposa sul fondo
della bottiglia “…Il verme si conserva per molto tempo integro nelle sue grassocce
fattezze grazie all’alcol in cui è immerso. Ed è altresì un ambito traguardo arrivare
all’ultima mescita della bottiglia, per conquistare il diritto a mangiarselo dopo averlo
impreziosito di abbondante peperoncino e sale...”
Non possono poi mancare, come in ogni favola che si rispetti, i cattivi, i loschi figuri
facili alla violenza e alle conseguenti sparatorie: a San Isidro, però, i gaglioffi
suscitano la mobilitazione degli abitanti in “armi” ottenendo così pane per i loro denti
“…Due carabine ad avancarica; uno schioppo ad aria compressa, per l’occasione
dotato di baionetta, nel senso che aveva legato col fil di ferro un coltellaccio da
cucina alla canna; doppiette caricate con cartucce a pietra e chiodi arrugginiti; un arco
chichimeca, machete e tasche piene di sassi…”
Ma il calcio? Data la sua estrema capacità di propagazione, niente di strano che lo si
giochi anche nel pueblo sperduto di San Isidro e nei ranchos vicini, dando vita a
tornei dove le vittorie acquisiscono significati d’onore e di prestigio inimmaginabili,
e dove le formazioni risentono del despotismo del potente di turno “…Visto che il
padrone si incaricava di decidere qualsiasi cosa, compresa la squadra di calcio e i
ruoli dei giocatori. E sempre il padrone provvedeva alle magliette e in certi casi
persino alle scarpe, oltre alle spese di trasporto da un rancho all’altro…”
Nella Sierra messicana, dove il caldo torrido allenta regole e regolamenti “ …Era
molto diffusa , ad esempio, l’usanza di spostarsi tutti e venti davanti alla porta
opposta a quella da dove veniva lanciata la palla, cosa che scatenava furibonde
mischie con vari contusi e feriti. Inutile sottolineare che il concetto di fuorigioco era
assolutamente sconosciuto…” Ma lì, nessun delegato FIFA si è mai avventurato.
Il calcio di San Isidro è un calcio giocato da squadre sgangherate e da altrettanti
sgangherati calciatori, come tutti gli uomini impastati con vizi e virtù, sebbene i vizi
stacchino con netto divario le virtù. Di volta in volta, i protagonisti, subiscono
quindi l’influenza del sesso, dell’amore, delle nottate brave passate a bere, a volte
dell’energetico che fa “volare”, portandoci con un veloce salto temporale ai giorni
nostri. Chi non ricorda quanti degli “eroi” nostrani hanno riempito le cronache
mondane con i loro comportamenti estrosi? Non è un bell’esercizio giudicare, eppure,
quanta maggiore indulgenza verso gli atleti nati dalla fantasia di Cacucci. Uno per
tutti, l’attaccante Quintino Polvora “…Quintino Polvora, per raggiungere casa sua,
doveva passare davanti a quella di Antonia, la cui sola vista gli causava da qualche
tempo delle strane reazioni sullo stato mentale e persino fisico. Qualcosa che non
riusciva bene a spiegarsi, ma che si manifestava con un improvviso freddo ai piedi e
un calore assurdo alla faccia. Per non parlare della scarica di tamburo che gli
esplodeva nel petto. E Antonia, quella sera, se ne stava sdraiata sull’amaca a oscillare
mollemente nella penombra, con una gamba abbandonata nel vuoto. L’istinto suggerì
a Quintino di abbassare la testa e tirare dritto; ma non appena risuonò il saluto di lei,
con quella voce morbida come la polpa del maguey, l’istinto cambiò subito parere e
lo consigliò di fermarsi. Quando Quintino scoprì il tepore umido della sua bocca, non
ebbe più coscienza neppure di trovarsi in un posto chiamato San Isidro, né su questo
pianeta anziché un altro…”
Facciamo però un passo indietro. Il campo dove la squadra del paese gioca è in
discesa e con un albero di mango al centro, impossibilitato ad essere quindi sfruttato
per il torneo. Di conseguenza, tutte le partite devono essere giocate in trasferta, con
l’obbligo di contribuire alla manutenzione dei campi avversari. Questa volta viene
richiesto un sacco di calce per delimitare i confini: merce al momento irreperibile, a
meno di coinvolgere Alvaro Cristobal. “… - Neanche se scende San Miguel con tutti
i cherubini! Il mio concime non lo do a nessuno – Le donne si segnarono
velocemente, gli uomini scossero la testa. Ormai era chiaro che volevano costringerlo
a cedere un sacco di quel concime biancastro, ma Alvaro non sentiva ragioni: per lui
si trattava di uno spreco inammissibile, e proprio quando mancava meno di un mese
al raccolto. Una certa calma fu ristabilita dall’annuncio di Chepe Chamaco, il
proprietario dell’unica rivendita di alcolici, che dichiarò – Mi venga uno sbocco di
sangue se ti vendo più una goccia di mezcal! – Il povero Alvaro sbiancò”
A questo punto la partita si gioca. Nella squadra del San Isidro l’elemento di maggior
valore è Quintino Polvora, il matador “…Termine che nel gergo della Sierra Madre
Sud Orientale indicava un ruolo privo di qualsiasi restrizione. Piccolo, magrissimo,
tutto tendini e nervi, era abilissimo nello sgusciare tra le gambe degli avversari e
nell’evitare i tentativi di acchiapparlo” Questo succedeva normalmente, ma la
normalità non prevedeva la sosta prolungata per l’intera notte nelle braccia e nelle
cosce di Antonia, con la conseguenza che “...Le gambe di Quintino, una massa di
gelatina disossata…” Dopo dieci minuti, disgrazia: il San Isidro è sotto di sei gol. Il
destino però vuole che Quintino cada col viso proprio sulla linea bianca del campo,
una di quelle tracciate con il concime reperito fortuitamente da Alvaro nella fitta
boscaglia dove si era recato per cercare funghi. Il miracolo avviene. Il giocatore si
trasforma “…In un singhiozzo di rabbia si riempì il naso di quella polvere bruciante.
Si lanciò di corsa nella mischia, correva, correva attraversando il campo da una
parte all’altra e sparò un tiro che mandò il pallone a trapassare la rete e la sua stessa
scarpa nello stomaco del portiere…” Alla fine del primo tempo la partita è già sul
pareggio.
Tutto bene? E i cattivi? Arrivano, arrivano a rivendicare il loro bianco “concime”,
fanno i gradassi, minacciano, rovistano nelle capanne, ma il paese, anche con l’aiuto
di Padre Pedro, un gigantesco missionario basco da trent’anni pastore delle loro
anime, ne esce vincitore: ne guadagna un asilo, una sede per gli Alcolisti Anonimi,
una chiesa, una jeep. Dimenticavo: il San Isidro, squadra di sfolgorante potenza, è
attualmente in testa al torneo.
TUTTI I COLORI DEL CALCIO
Palata, Troncata, Piena, Fasciata, Partita, Bordata, Crociata, Inquadrata, Trinciata.
Cosa sono? Nient’altro che alcune tipologie delle maglie delle squadre di calcio,
derivate dagli scudi araldici. Il libro di Salvi e Savorelli, con un’indagine interessante,
ci consente di riannodare i fili con le giostre e i tornei d’un tempo di cui il calcio non
ne è che una moderna riedizione.
Nelle antiche battaglie il colore delle uniformi era indispensabile per ritrovare, nella
mischia, i “miei”, per non sentirsi soli, per avere un riferimento quando il sangue
colava sugli occhi e gli elmi riducevano la nitidezza delle immagini, per dare modo ai
comandanti di manovrare i reparti individuando, solitamente dall’alto, le masse
colorate.
Il calcio quindi come battaglia simulata, che assume gli aspetti simbolici della guerra:
campo di battaglia, schieramento dei soldati, bandiere, vessilli, urla. Si va allo stadio
perché c’è dato di nuovo vedere un “eroe”, un cavaliere del bel tempo antico
indossare la sua sopravveste colorata con le insegne del nostro dio. Pensiamo anche a
certi termini utilizzati dai commentatori sportivi: “inizio delle ostilità”, “retrovie”,
“rifornimenti”, “manovra”, “bomba”, “missile”.
“Tutti I Colori Del Calcio” va alla ricerca dell’origine dei colori delle maglie di
centinaia di club, italiani e stranieri: a volte ereditata dai gonfaloni della città di
appartenenza, altre adottate per connotazioni politiche, sociali, per simbiosi di colori
di più società sportive preesistenti, e spesso per il caso e il gusto del momento. Una
maniera per soddisfare la curiosità di chi ama a 360 gradi la propria squadra e per gli
amanti dei particolari e dei retroscena del calcio. Vediamo alcuni esempi.
Quali i colori più utilizzati? Nei campionati di serie A, dal 1928 al 2008, prevalgono
il bianco e il rosso, seguiti dall’azzurro, il nero, il giallo, il celeste, il verde,
l’arancione. La forma di accostamento prevalente è il “palato”, ovvero a righe
verticali ( Juventus, Barcellona, Milan, Lecce, Inter, Vicenza ). In seconda
posizione sono le maglie a “partita”, cioè quelle divise in due larghe zone uguali (
Bologna, Cagliari, Genoa ). Caratteristica italiana sono le maglie “piene”,
monocrome ( Torino, Lazio, Napoli; all’estero Liverpool ). Rappresentano una
percentuale irrisoria, invece, le maglie che abbinano 3/4 colori ( Sampdoria, Venezia
). Rare anche le maglie “fasciate”, a righe orizzontali, ( Pro Patria, mentre all’estero
troviamo Celtic, Sporting Lisbona ).
Per tutti i tifosi i colori sono un segno d’appartenenza, è innegabile. Al punto che: “
L’identificazione con i colori della squadra si estende anche alla vita domestica e
intima: la proliferazione degli accessori del tifo consente di decorare l’interno della
propria abitazione, l’automobile, i vestiti. E, fra i più ferventi, neppure la biancheria
intima femminile e maschile sfugge a questo furore cromatico!”
Ma quanti tifosi conoscono le motivazioni che hanno portato alla scelta di quei
colori? Ad esempio perché la maglia del Chelsea è azzurra, quella del Liverpool rossa
e quella del Celtic bianco verde? Perché la Juventus, dopo un esordio in rosa, passò al
bianconero? Perché il Boca ha l’azzurro e il giallo, l’Atalanta il nerazzurro e il
Palermo il rosanero?
Perché chiamiamo derby l’incontro fra squadre della stessa città, anche se è invaso
l’uso inappropriato del termine anche per partite fra squadre extra cittadine, vedi
derby dello Stretto (Reggina-Messina ), derby degli Appennini ( Fiorentina- Bologna
), derby del Sole ( Roma-Napoli ). Attenendoci a quelli definiti correttamente
sapevate che un tempo c’erano, oltre a quelli di Milano, Torino, Genova e Roma
anche Pisa-Gerbi, Firenze-Itala, Bologna-Virtus, Lucca-Libertas, Padova-Petrarca,
Como-Esperia, Modena-Audax?
Ancora, quale significato hanno simboli e totem? Pensiamo al diavolo di Manchester
United e Milan; al cannone dell’Arsenal; l’alabarda della Triestina; i quattro mori del
Cagliari; la ninfa ( chiamata dea ) dell’Atalanta; il leone di Brescia, Rangers, Aston
Villa, Frosinone; l’aquila di Palermo, Lazio, AEK, Benfica, Catanzaro; il lupo di
Lecce, Avellino, Roma, Piacenza, Dinamo Bucarest; il coccodrillo del Nimes; il
pipistrello di Valencia e Levante; l’asino del Napoli; il toro di Torino e Red Bull di
Salisburgo.
Insomma un turbinio di maglie e colori, con storie a volte buffe e simpatiche; a volte
con risvolti negativi come nel caso della squadra di Trieste: nell’avvicendamento
politico e nazionale subito in seguito a due guerre i suoi cittadini e quindi anche i
calciatori si ritrovarono ad essere Austriaci, Italiani, divisi in Italiani e Jugoslavi e, in
attesa di una assegnazione, anche solo Triestini ( Trieste rimarrà zona limbo fino al
1964 ). Questo a dimostrazione di come la nazionalità legale, più che una
caratteristica sostanziale, sia un accidente dovuto alla lotteria della storia. E se
parliamo di nazionale, sappiamo che il colore della nostra è in qualche modo legato
al vecchio Regno di Sardegna e, con Germania e Olanda, fa parte di una ristretta
cerchia di maglie che non rappresentano nemmeno un colore della bandiera dello
stato?
Ma i “veri” colori del calcio, concludono Salvi e Savorelli, sono quelli dei club: così
come il calcio più autentico, privo di suggerimenti, imposizioni e mediazioni
istituzionali, è quello giocato fra club.
C’è insomma di che divertirsi a leggere Tutti I Colori Del Calcio: osservando le
maglie pazze di alcune squadre, scoprendo l’evoluzione che ha portato ai colori di
quelle odierne. Scoprendo che, molto spesso, i colori che osanniamo sono stati nel
passato proprio quelli dei nostri avversari…