Il Corpo Culturale della Donna: fra Anoressia e

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Il Corpo Culturale della Donna: fra Anoressia e
Il Corpo Culturale della Donna: fra Anoressia e
Bulimia
Senza voler qui propormi di comprendere e di spiegare perchè la magrezza sia
divenuta oggi un ideale quasi dominante e l'anoressia sia assurta al rango di malattia
sottile di una stagione opulenta, mi domando: si tratta di una specie di epidemia
riservata prevalentemente alle giovani, si potrebbe parlare di ''effetto di emulazione'' da
mass media; oppure siamo di fronte a un vero e proprio segno e sintomo di una
modificazione o trasformazione culturale? Si tratta di una sfida all'imperante modello
medico e psicologico o piuttosto a canoni estetici in via di esaurimento?
In questa magra, emaciata e pallida figura, a volte quasi scheletrica, la
femminilità appare negata, l'identità sessuale confusa, la carnosa fecondità ripudiata,
quasi con orrore: è solo una voce differente? E' una donna che ama farsi male? E' un
nuovo soggetto morale? Può darsi... Ma certamente è anche la dura e lucida messa in
crisi del noto e accettato aspetto sociale e politico del corpo femminile (Susan Bordo) ,è
l'ostile rifiuto anoressico come metafora del nostro tempo (Susie Orbach), è
l'onnipotente plasticità culturale del corpo post-moderno, 1'età d'oro surrealista
(Emanuela Agnoli); ed è anche, e forse soprattutto,una delle declinazioni
psicopatologiche del cibarsi, dove il cibo ha tutta l'ambiguità del ''farmaco'': salute o
veleno, Eucaristia o Erisittone, incontro agapico o narcisismo divorante.
L'appetizione della magrezza può esser considerata come una peculiare modalità
tossicomane, che si esplica fondamentalmente sul piano estetico dell'esperienza vissuta
nell'ossessionante decostruzione, alimentare e farmacologica, del corpo-proprio, inteso
quasi esclusivamente in una dimensione esistenziale che, per noi, è psicopatologica.
Potrebbe trattarsi di una forma particolare di dismorfofobia o, meglio, una Body Image
Distortion Syndrome (BIDS), come nel lontano 1962 ci propose Hilde Bruch, sindrome
''contestata'' dalla prospettiva culturale femminista. A me pare, in vero, che
nell'anoressica (come tipologia) il declinarsi corporeo nel mondo è estremamente
carente di rilievi alter-egoici, cioè di relazionalità personale, ed è tutto rivolto
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all'immagine di sé, dove l'apparire fa tutt'uno col sentirsi e dove si profila, occhiuto e
malefico, il cibo.
Io, che gli altri dicono ''anoressica'', sono totalmente impegnata nel mio rivelarmi
corporeo, nell' identificarmi nella magrezza o snellezza, come immagine pregnante e
mai totalmente fatta propria della corretta gestione del desiderio femminile. L'intensità
disgustosa e umiliante di ''sentirsi troppa'' (come asseriva una mia cara paziente) la
portava ad irrigidirsi nel suo progetto di mondo (la Weltentwurf, di Ludwig
Binswanger), nel perseguimento freddo e passionale a un tempo di una decisione
assunta una volta per tutte, una vera e propria forma di ''esalazione fissata'' (forse la
binswangeriana modalità della Verstiegenheit).
Nella persona anoressica,dunque,il cibo viene assunto ambiguamente, come
farmaco potenzialmente pericoloso e non solo apportatore di salute; il cibo come
avversario dell'estetica e non a caso si è parlato da molti anni di ''ipocondria di bellezza''
(la Schonhei-Shypochondrie, di Jahrreiss), il cibo con valenza di mezzo cosmetico. Il
cibo è, come il farmaco della Medea di Euripide o come la ciotola di cicuta per il
Socrate platonico, vettore di
male, è minaccia all'integrità magra del proprio corpo in tutte le sue implicazioni
bio-psico-sociali; il cibo come unica realtà alter-egoica, quasi come primaria relazione
intersoggettiva, nel suo minaccioso trapassare in bulimia, nel suo abbuffarsi
bulimaressico - binge eating - (Boskind, Callieri), nel suo transito verso la bulimia
multicompulsiva e autolesiva.
Donde il rifiuto di quel corpo che abitualmente si nutre insieme ai còrpi altrui, e
anzi si arricchisce di prospettive vitali proprio nell'incontro agapico. Siamo, con Fallon
(1990), nella piena ''cultura dello specchio'', che sa mostrarci come e quanto la relazione
interpersonale dell'anoressica, della bulimaressica, della bulimica sia estremamente
impoverita (Blake Woodside), con effetti marcatamente negativi anche nella vita di
coppia; perfino sulla validità del consenso matrimoniale (incapacitas assumendi oacra,
Mendonca e Sangal, 1996). D'altronde a me pare che il soggetto anoressico si confronti
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col mondo per sconfiggerlo, e proprio sul terreno mondano del proprio corpo, della sua
''esistenza incarnata'', del suo ''embodiment'' (Zaner).
E' qui che io, nella mia attività professionale, ho molto spesso trovato
l'anoressica impegnata decisamente nella sua sfida: vuota per sempre (De Luca), con la
sua ombra, il suo pendant bulimico, eracliteo, il ''pieno per sempre'' (Artusi). A
prescindere da ogni riflesso sulla vita pratica, dal lavoro al matrimonio, dall'aggressività
al sesso, dall'economia energetica a quella intellettuale, si può ben dire che il mito del
corpo senza carne, del corpo diafano, essenza senza esistenza e pur ancor sempre
maledettamente corpo, è il limite e anche l'orizzonte del mondo anoressico, vuota
metafora del viaggio verso la non-esistenza. Qui è del tutto evidente la valenza di
''veleno'', inerente al cibo; veleno comunque, in quanto espressione della graffiante
dialettica fra bisogno e desiderio (Lacan, Seminario XX), nell'inestricabile correlazione
anoressia-bulimia, nell'ineliminabile contrappsizione del vuoto e del pieno nella
domanda d'amore (Candido e Auteri,1997); dialettica che non può essere placata
psicologicamente (Ripa di Meana), né può essere ridotta a prevalente determinazione
culturale (Brussat).
Inevitabile qui è l'aggancio al cibo come veicolante le ''malattie dell'immagine'',
come mezzo subdolo che si pone tra ''perfezione'' e ''deformazione'': l'anoressica di
Jenniferm Shute dice che ''nel corpo come nell'arte si arriva alla perfezione non quando
non resta più nulla
da aggiungere, bensì quando non c'è più nulla da togliere''. La giovane donna
emaciata, sciupata, quasi spettrale, esibisce le sue ossa con sorprendente mancanza di
senso estetico e/o di critica; non capisce proprio perchè mai la si voglia curare... dicono
che è dimagrita... ma lei non è ancora magra abbastanza, anzi, se non sta attenta, rischia
di ingrassare. Quante volte ho sentito dire ''mi vedo grassa, sono piena di angoscia, mi
vergogno, mi sento piena e gonfia, deformata, sformata... vorrei non mangiar più niente
o, se devo mangiare, vorrei poi vomitare... mi odio perchè mi vedo pesante, grassa,
dilatata, le cosce non me le posso più sentire...''. E' un ritornello sempre uguale, che però
ogni volta non cessa di stupirmi.
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Anche se da qualche anno, con Hsu, si comincia a mettere in discussione
l'importanza basica dell'impatto dei ''disturbi dell'immagine del corpo'', sottolineando
l'importanza dello studio degli ''atteggiamenti e sensazioni del corpo'', è tuttavia
indubbio che per l'anoressica l'attenzione alle sollecitazioni immaginarie é sempre
particolarmente presente, sia come aspetto costitutivo sia come momento costituente
delle sue vivaci e persistenti pareidolie. Qui, innegabile nella sua potenza provocatoria,
la presenza dello specchio (come in certe fiabe di Basile), specchio malvagio, carico di
valenze angoscianti, inquietanti, persecutorie, fino ad un vero e proprio delirio di
alterazione (da intendersi come un disturbo non tanto percettivo quanto immaginativoaffettivo - Birtchnell): ad es. il proprio ventre,ormai infossalo e raggrinzito, viene visto
come grosso e prominente.
René Magritte (1928) ci ha lasciato degli oli d'una eloquenza conturbante, che
con densa efficacia e penetrante impressione ci offrono quell'impasto di rifiuto e
recupero da cui sono gravate tante persone anoressiche e bulimiche, le pesanti e le
leggere, le manifeste e le celate. Entrambe le tipologie addensano ai loro estremi
l'ossessione della leggerezza, la tirannia della snellezza, come ben diceva Chernin
venticinque anni fa... Il peso che grava, il poco peso che tende, leggero, verso
1'evanescenza, verso il ''Perelà, uomo di fumo'' di Aldo Palazzeschi: polarità che si
avvicendano, in un circolo perverso (Bordo). Con termine linguisticamente criticabile
ma di piena pregnanza fonetica ed evocativa, la bulimaressia, tendiamo oggi a
riassumere l'oralità dell'incorporazione e dell'astinenza, rinviando con un salto di
secoli alle suggestive figure classiche: dal mito callimacheo del tessalo Erisìttone e
dall'infrenabile bulimia dell'imperatore Vitellio, di svetoniana memoria, all'anoressia di
Antioco, il figlio di Seleuco di Siria guarito psicologicamente dal medico Erasistrato,
agli asceti del deserto egiziano a alle sante mediavali anoressiche (R.M. Bell), così ben
evocate ora da Laura Dalla Regione).
E' il regno dell'esistenza condizionata a rigidi e inflessibilmente perseguiti rituali
di evitamento e all'esodo verso il paradiso dell'astinenza alimentare: astinenza svolta ed
espletata nella provocazione e nell'esibizione, astinenza che alimenta la linea del ricatto
e della paura, linea indispensabile a non poche anoressiche per impugnare fermamente il
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timone della famiglia, della biga parentale (Gatti), manovrando la leva potente del cibo
farmaco-veleno. Alla mia pluriennale attività clinica in re sembra che le giovani
anoressiche che si affacciano ogi alla ribalta di un mutato scenario culturale (ma il
discorso vale anche per molte pseudo-anoressiche tali per esigenze professionali: per es.
ballerine, indossatrici, veline, sportive, etc.) si condannino o si consacrino al voto della
frustrazione e della privazione, pur in un laico clima di liberazione, come vincente
risorsa antagonista all'etica moderna dell'appagamento. E' qui che la prospettiva
cultural-femminista circa il corpo pratico, il corpo sociale, 1'autogestione del corpo, il
corpo post-moderno e la sua decostruzione, si pone come sfida al modello medico,
anche a rischio di appoggiarsi a modelli culturali troppo pervasivi.
Ma anche la bulimica (o buliressica che dir si voglia) vive alla ribalta
dell'assurdo: la marionetta del desiderio, per render conto di madornali abbuffate
segrete, come diceva Russell. Il bulimico è la peggiore paura dell'anoressico, fatta sua
intima realtà! E il cibo, come farmaco/veleno, sollecita lo zoccolo antropologico del mio
prospettarsi clinico; sollecitandomi verso 1'imperioso richiamo della ''coscienza del
corpo'' (Castellana), verso il ruolo degli affetti nella formazione dell'imago corporis
(P.Montella) e verso la donazione di un senso a quest'immagine (Di Petta). Certamente
non è facile valutare esattamente la valenza psicopatologica dei comportamenti di
restrizione alimentare; non si può trascurale la ''macropsia'' dell'alimento, per cui il
nutrirsi è sempre accompagnato da paura ed evitamento. L'alimento qui si pone soltanto
come connotazione negativa, culturalmente, rispetto a certi tradizionali valori eticoreligiosi: digiuni rituali, regolati da norme precise; il tutto legato al "mépris de la chair"
(Calvi, Vandereycken).
In conclusione, il sito antropologico-esistenziale della persona buliressica lascia
al discorso del soggetto tutto il suo ambiguo sguardo e la sua assurda oralità, come
nouvelle addiction (Vanisse, 1990)e gli lascia lo stigma del ''disturbo da
disorganizzazione cognitivo-emozionale''; ma, per finire
che cibo consigliare, un cibo che possibilmente sia farmaco e non veleno? Senza
esitare consiglierei, come magico, i ''datteri della luce'', i deglet nur, fra i più buoni del
Maghreb, dolci come l'amore e nutrienti come la fede.
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