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RASSEGNA STAMPA
Lunedì 31 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 28/08/2015
Riforma terzo settore, c’è un grande
fraintendimento sull’impresa sociale
Dopo Vincenzo Manes, Luciano Balbo, Achille Saletti, Luca Fazzi, Carlo Borzaga e
Stefano Lepri, nel dibattito sulla riforma interviene anche Pietro Vittorio Barbieri, portavoce
del Forum nazionale del terzo settore: “La vera questione è che uso si fa dell’eventuale
profitto”
Di Pietro Vittorio Barbieri, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore
Nelle scorse settimane ilfattoquotidiano.it ha ospitato un dibattito sull’impresa sociale,
consentendo a diversi interlocutori di far sentire la loro voce. Molte le idee presentate,
accomunate dal fatto che nell’impresa sociale tutti vedono un’opportunità, ma divergenti
circa le chiavi di lettura del fenomeno, il ruolo, le caratteristiche, le aspettative.
C’è chi vede in essa la scoperta di un nuovo modo di fare impresa, interpretazione italiana
dell’economia sociale di mercato. Un’ennesima via salvifica per riconciliare impresa e
valori. Indubbiamente vi è un gran bisogno di forme di convergenza tra mercato ed etica e
di ribaltare l’idea per cui non sono le persone a disposizione dell’economia ma, viceversa,
l’economia al servizio del benessere delle persone. Forse viene trascurato il fatto che in
Italia sono decenni che il fenomeno è letteralmente esploso con le cooperative sociali e
che forme “altre” di fare impresa, come il mutualismo e la cooperazione, affondano le loro
radici in secoli di storia. Inoltre la cooperazione sociale evidenzia risultati occupazionali
non certo trascurabili, con circa 1 milione di occupati. Né i valori della cooperazione, ancor
più se sociale, possono essere sub judice da ciò che ci propone la cronaca, sicuramente
spia di distorsioni esecrabili da perseguire con rigore assoluto.
Altre persone vi vedono invece un nuovo spazio imprenditoriale che finora non sarebbe
nato per limitatezza di risorse. Pertanto propongono l’apertura alla “finanza morigerata”,
una finanza cioè che si accontenta di bassi ritorni. Sorge ovvia la domanda: a quale livello
si pone l’asticella della morigeratezza? Quali i criteri per fissarla? Per quanto può durare
tale impostazione? Sottesa a tale posizione è la questione della distribuzione degli utili.
Qualcuno propone che basti porre dei limiti, affascinato dall’ultima moda del cosiddetto
“low profit”. La vera questione, però, non è che vi siano alti o bassi profitti, ma quale uso
viene fatto dell’eventuale profitto: distribuito agli investitori o reinvestito in nuove attività
sociali? In sostanza occorre chiedersi, e rispondersi, se il profitto è il fine o un semplice
mezzo, uno strumento per conseguire finalità sociali.
A seconda di come si risponde si hanno di fronte due scenari. Nel primo l’impresa sociale
è assimilata al pensiero “mainstream” per cui il fine di tutte le imprese è fare profitto, salvo
il fatto che quelle “sociali” si accontentano di low profit. Nel secondo l’impresa sociale è
soggetto portatore di una diversa idea e finalità di fare impresa, che anima il pluralismo dei
soggetti economici e sfugge al “pensiero unico” dominante incentrato sulla semplice
massimizzazione dell’utile.
Non deve sfuggire poi l’attenzione verso coloro che desiderano sostenere attività sociali,
investendo risorse economiche invece che donando il proprio tempo. Come Forum
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nazionale del terzo settore riteniamo che, come già previsto da anni per le cooperative a
mutualità prevalente, possano esser previste limitate e contenute modalità di distribuzione
degli utili, assicurando comunque la prevalente destinazione degli utili a riserva indivisibile.
Ci sono poi quelli che sostengono che sia sufficiente occuparsi di sociale perché un ente
possa qualificarsi impresa sociale. Vedremmo così incredibilmente consentito a tante
attuali srl e spa il riconoscimento della patente di “imprese sociali”, con accesso abenefici
e agevolazioni, per il solo fatto di occuparsi di sanità,servizi sociali o formazione, quasi con
un colpo di bacchetta magica. Noi riteniamo che occorra, per qualificarsi come “impresa
sociale”, rispettare anche altri principi: il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità
civiche e solidaristiche, realizzando attività di interesse generale e producendo beni e
servizi di utilità sociale, rientrando così in pieno dentro il terzo settore. Viceversa si
aprirebbero le strade (già vaticinate da alcuni) di un “quarto settore” di cui non si sente
alcun bisogno. Nel condividere in specie gli orientamenti espressi da Vincenzo Manes,
Carlo Borzaga e Stefano Lepri, desideriamo comunque richiamare l’attenzione su un
elemento forse sotteso a tutta la discussione, che riteniamo di estrema rilevanza, e che
cela un grande fraintendimento. Spesso il dibattito sul terzo settore, e in specie
sull’impresa sociale, ruota intorno alla necessità di introdurre efficienza,managerialità e
produttività nello svolgere i servizi. Vi è infatti chi propone che gli enti di terzo settore
debbano essere gestiti aziendalmente per combinare le risorse (input) per produrre beni e
servizi (output) e raggiungere i risultati efficaci (outcome). Sottesa, vi è l’idea che il terzo
settore, e a maggior ragione le imprese sociali, sia finalizzato a produrre servizi (in
particolare sociali), che debba farne sempre di più e sempre di meglio – specialmente oggi
in tempi di crisi e di mancanza di risorse e di risposte da parte degli enti pubblici –
imparando dalla cultura aziendale profit. Se non, addirittura, ibridandosi con essa.
Ma è proprio vero che il fine del terzo settore è realizzare servizi? Noi crediamo piuttosto
che essi siano lo strumento per conseguire una diversa finalità, cioè creare occasioni di
partecipazione, consentire a un numero sempre crescente di cittadini di attivarsi,
assumendosi responsabilità verso la cosa pubblica, donando il proprio tempo e/o risorse
economiche con l’obiettivo di creare beni relazionali o curare beni comuni. La riduzione a
semplice svolgimento di servizi in chiave manageriale e sostitutiva del pubblico non solo
snatura il terzo settore, ma rischia di vedere la disponibilità di sempre meno cittadini che si
sentiranno piuttosto strumentalizzati. La cultura propria del terzo settore è ben lontana
dall’ordinaria cultura aziendalista.
Ecco quindi il grande fraintendimento: scambiare i mezzi per le finalità e, pertanto,
compiere una eterogenesi dei fini. Importare e imporre una cultura aliena, piuttosto che far
crescere una cultura propria, ha già mostrato i suoi limiti con l’introduzione del criterio della
competizione, all’origine di larga parte degli scandali che viviamo, anziché proporre il
presupposto della legge 328/00, ovvero la co-progettazione e l’accreditamento. Tutto ciò
rischia di snaturare il terzo settore. Partecipazione, beni relazionali e cura dei beni comuni:
queste sono le molle del terzo settore. Occorre quindi che il percorso di riforma sia teso a
far sì che sempre più persone possano attivarsi, liberando queste risorse e creando quella
coesione sociale di cui ha così tanto bisogno il nostro Paese.
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ESTERI
Del 31/08/2015, pag. 1-26
Un giorno insieme alla fanteria dei peshmerga nell’offensiva contro le
forze del Califfato alla periferia di Kirkuk, la grande città petrolifera nel
nord dell’Iraq
La maggior parte dei jihadisti si ritira ma ricorre alle autobombe suicide
e ai cecchini per contrastare l’avanzata curda
Kurdistan
Rapporto dalla battaglia
ADRIANO SOFRI
KIRKUK
IL CAMPO di battaglia è vasto: alla fine i curdi avranno strappato al sedicente Califfato –
Daesh- 250 km quadrati, e una dozzina di villaggi. È il 26 agosto, mercoledì. Siamo a 40
km a sud di Kirkuk, oltre Daquq, sulla strada per Bagdad, lontana a sua volta meno di 200
km. L’avanzata dei peshmerga comincia prima dell’alba. Gli F16 hanno già preso di mira le
postazioni di Daesh, e continueranno nel corso della giornata. I primi ad avanzare sono i
blindati leggeri delle forze speciali, l’ “Antiterrorismo”, spetta a loro aprire la strada e
maneggiare il pericolo principale, le mine di cui è disseminata: una ogni 15 metri, circa!
Conto cinque carri armati –“T55 della Guerra mondiale, e T72 della fu Guardia di
Saddam…”- ed è l’esplosione di una grossa mina a fare le prime due vittime curde proprio
fra i carristi. Daesh ha ritirato da questo versante l’artiglieria pesante sofisticata di cui si
impadronì grazie alla rotta irachena a Mosul, e ricorre soprattutto ai mortai, alle mine –
centinaia- alle autobomba suicide e ai cecchini, mentre il grosso si ritira verso Ryadh e
Hawidja. Il morale di Daesh sul fronte curdo è al punto più basso. Ad Abu Zarga hanno
lasciato in una casa-cantina del capo villaggio 50 kg di TNT, una fabbrica di mine. Le
collocano nei frigoriferi delle case, accanto alle bombole, sotto i divani... “Le chiamiamo
trappole per i gonzi”. Esplodono con un filo a strappo, o coi telefoni: la copertura è tagliata
per impedire che se ne servano come telecomandi. Le autobomba sono più esattamente
micidiali vetture corazzate alla buona, per neutralizzare il fuoco avverso. Alla fine della
giornata potrò vederle da vicino, col loro effetto Mad Max. (Così a Ramadi, giovedì, un
jihadista suicida tedesco ha ucciso due generali, uno arabo iracheno e uno curdo, e
parecchi soldati). Si contano già, dalla parte curda, parecchi feriti. I più gravi vengono
portati fuori dal fuoco e caricati da un elicottero, gli altri dalle ambulanze. La battaglia era
annunciata: non c’è segretezza militare, qui. Non solo perché molti giovani combattenti
non rinunciano a mettere su Facebook foto e racconti, e perché la popolazione largamente
mista dell’uno e dell’altro lato favorisce l’intelligence reciproca di infiltrati; soprattutto
perché i curdi preavvisano i villaggi, evacuati in tempo dagli abitanti. In un villaggio un
gruppo di donne e bambini arabi si consegnano ai peshmerga: gli uomini vanno via con
Daesh. Gli arabi sunniti locali qui, dove i foreign fighters sono rari, sono il nerbo jihadista,
più che per un’adesione fanatica, per il terrore della ferocia delle milizie sciite: ma sono
inesperti e mal motivati. Un contadino arabo suicida alla guida del trattore imbottito di
esplosivo viene fermato in tempo dai tiratori curdi. L’avanzata è veloce, a costo di lasciarsi
alle spalle postazioni di cecchini e rinviare la perquisizione delle case. In una casa
bombardata che era la base dei miliziani neri è rimasta una dozzina di cadaveri.
L’avanzata è profonda una ventina di km: al-Tamor, Albo Shehab, al-Samaka al-Kabira, alSaghira, al-Riyanh, al-Zerka, al-Tabj, al-Tar… Mentre fotografo –senza obiezioni, i militari
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curdi sanno che se sono lì è perché sono stato autorizzato, e sono cordialissimi dall’equipaggio di tre pick-up gremiti di armati mi gridano “No picture!” È così che faccio la
conoscenza dei boots- on-the-ground americani, uomini non giovanissimi col fisico del
ruolo, 4 o 5, direi, gli altri sono curdi che li scortano. Cancello le loro foto: non credo che
siano preoccupati di essere visti sul terreno delle operazioni, quanto di essere esposti
come bersagli. L’Is ha appena pubblicato un elenco di nomi di piloti. I miei bruschi
americani sono i responsabili delle comunicazioni fra terra e cielo –qualcuno mi dice che ci
sono anche, con gli stessi compiti, due francesi, io non li ho visti. Stanno rientrando, il loro
equipaggiamento è nel cassonetto di un furgone, anche le maschere antigas. (L’Is ha
impiegato gas mostarda anche qui, a Makhmour). Più avanti altri americani, ex militari
“volontari”, sono impegnati nella ricognizione del terreno e prendono parte al fuoco.
La fanteria dei peshmerga e un vastissimo numero di veiÈ una coli diversi più o meno
adatti (qua e là si rischia l’ingorgo) conducono la vera occupazione del territorio. È uno
spettacolo eccentrico, perché se le prime truppe mostrano una professionalità da scuola
militare, il grosso dei peshmerga si muove ancora coi modi della guerra partigiana, e
spesso con gli stessi uomini. La prima linea è guidata da anziani capi della montagna, al
centro dei quali sta il leggendario Kosrat Rasul Ali, il “leone del Kurdistan”. Kosrat ha solo
64 anni ma una delle tante ferite lo ha reso da tempo invalido nei movimenti e ostacolato
nella parola; però sta sul campo con una specie di calma felicità. «È la sua terapia »,
dicono gli uomini, che lo venerano. In questa regione del KRG il partito egemone è il PUK,
quello che oggi si batte è il suo esercito, e Kosrat è il suo eroe. È una veterana l’unica
donna combattente che incontro, Tamina. Ha 55 anni, ha combattuto in montagna e
vissuto in Germania, è in campo con suo marito, Muhamad Haji Mahmoud, fondatore del
partito socialista democratico, hanno perduto due figli, uno nella prima resistenza contro
l’Is dentro Kirkuk. Questi comandanti peshmerga indossano lo sharoual o il ranku-joghal, il
costume tradizionale, senza uniformi.
Quasi nessuno indossa elmetti o giubbotti. I più sono a capo scoperto, altri hanno berretti
o turbanti che li proteggano, se non dai proiettili, dal sole cocente –è un’altra giornata da
45 gradi. Si mangia molta polvere. Qua e là l’Isis in fuga incendia le stoppie. La composita
armata peshmerga non completa ancora lo schieramento pittoresco, perché ci sono i
volontari. Sono giovani, alcuni proprio ragazzi, che arrivano nel loro abito quotidiano,
sandali e sneakers, il fucile a tracolla, posteggiano moto e motorini sul bordo della strada e
vanno a combattere. Nessuno li ha precettati, nessuno li organizza. Qualche ora dopo
tornano alla spicciolata, inforcano la moto e se ne rivanno a casa, ciascuno per sé. Su un
motorino che si infilava spericolato tra i blindati e i pick-up del rientro erano in tre,
aggrappati l’uno all’altro e ai loro simil-kalashnikov. I capi sono preoccupati he intralcino la
disciplina, ma non se la sentono di escluderli: curano solo che non interferiscano con le
operazioni avanzate. La battaglia di oggi dispiega almeno 2500 combattenti- nessuno sa
la cifra esatta: si tratta di togliere all’Is una posizione cruciale per le incursioni contro
Kirkuk, la grande città petrolifera, e contro l’autostrada. Non ci sono combattenti curdoturchi del PKK: in questi giorni devono vedersela coi bombardamenti dell’aviazione turca
sul loro territorio d’esilio, i monti Qandil. Non ci sono militari iracheni, né miliziani di Hashd
Al Shaabi, la cosiddetta “Mobilitazione popolare” sciita, che hanno perduto 5 uomini in
un’incursione della scorsa notte.
Dopo 8 o 9 ore, alcune delle forze rientrano e vengono sostituite. Il calcolo delle perdite
rispettive è difficile. Le curde sono dovute esclusivamente alle mine. Fra i jihadisti, che
ormai scelgono di fuggire, sono decine, dovute soprattutto agli aerei. Vedrò in un filmato
uno di loro, gravemente ferito, sembra un ragazzino. Un soldato ha ripreso col telefono un
comandante peshmerga che gli dà da bere e chiede: «Perché hai voluto farti questo? Non
hai pietà di te? Sei giovane, perché devi farlo? Siamo tutti musulmani… ». Il ragazzo gli
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prende la mano per baciarla, «No, no!», dice l’altro. I commenti alla scena saranno
contrastanti, qualcuno deplora che si abbia compassione per gente «che violenta le nostre
figlie, decapita i padri e ruba i bambini per farne dei mostri assassini», i più lodano: «Per
questo siamo diversi da loro». Il filmato finisce lì, poco dopo il ragazzo è morto dopo aver
ripronunciato la sua formula di martirio… I peshmerga che rientrano ostentano i trofei di
bandiere nere catturate: una, gli uomini dell’Is l’avevano issata in cima a un palo della
luce. Vengono via, solo ora, anche i grandi vecchi. Si fermano, soldati e capi, in un
poverissimo villaggio dai muri di fango a ridosso della strada, dove lo sheick è cieco,
benedice tutti e offre un pasto munificente. Ehi, Kosrat, Sher, leone - gli dico- come ti è
sembrata la giornata. Normale, dice.
Del 31/08/2015, pag. 15
L’Isis non si ferma. Abbattuto il tempio di Bel
Ancora una distruzione «messa in scena» dai terroristi dello Stato
Islamico a Palmira, in Siria Il secondo tesoro in parte demolito nel sito
patrimonio dell’umanità era il santuario meglio conservato
Lo scempio continua. L’agenzia delle Nazioni Unite Unitar non ha fatto in tempo a
confermare la distruzione da parte dell’Isis del tempio di Baal Shamin, conferma che arriva
dal confronto delle foto satellitari del sito prima e dopo la demolizione, che i miliziani hanno
fatto sapere al mondo di aver raso al suolo un altro tesoro dell’umanità. Questa volta
l’esplosivo, 30 tonnellate, avrebbe fatto crollare il tempio di Bel.
Edificato nel I secolo dopo Cristo, era considerato il meglio conservato, con le sue pareti e
le sue colonne imponenti, secondo in bellezza soltanto a Baal Shamin. L’Osservatorio
siriano per i diritti umani ha diffuso ieri sera la notizia, riportata da alcuni testimoni diretti.
Sembra che il millenario edificio non sia stato del tutto abbattuto dagli esplosivi: alcune
immagini mostrano da lontano soltanto un’alta colonna di fumo nero. Tuttavia, giudicando i
precedenti, è lecito credere che lo Stato Islamico abbia portato avanti la sua allucinante
opera di annichilimento dei patrimoni dell’umanità conservati a Palmira, azioni che
l’Unesco ha definito «crimini di guerra».
I miliziani del califfo sono entrati nella città siriana lo scorso maggio e da allora hanno
rafforzato il loro controllo sull’area. Il 18 agosto, i jihadisti avevano decapitato sulla piazza
antistante il museo Khaled al Asaad, 82 anni, studioso di fama internazionale e per 40
anni direttore del sito: Al Asaad, dopo aver nascosto parte dei reperti conservati nelle
strutture da lui curate, si era rifiutato di rivelarne l’ubicazione ai miliziani. La vendetta era
stata immediata e feroce. La furia iconoclasta dei miliziani si era poi rivolta alle strutture in
pietra che, nell’aria secca e tersa del deserto, hanno superato due millenni di storia
umana. Templi, colonnati, capitelli, statue: tutto per chi considera l’era pre-islamica «un
abominio da cancellare» andava raso al suolo. Le immagini diffuse qualche giorno dopo la
distruzione di Baal Shamin, il 25 agosto, hanno mostrato la tecnica utilizzata: barili pieni di
esplosivo sistemati alla base delle colonne e nei punti chiave della struttura. Il tempio di
Bel, grafia alternativa per Baal (assimilabile a Zeus per i greci o Giove per i romani), dopo
la conquista araba era stato convertito in una fortezza con annessa moschea: probabile
che abbia subito la stessa sorte.
La storia non interessa i fanatici del Califfo: per l’Isis il passato ha senso solo se riguarda
la propria versione delle gesta del Profeta, reale o meno ha poca importanza. Quello che
conta sono gli effetti propagandistici. Raggiunti.
Paolo Salom
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Del 31/08/2015, pag. 14
La lunga traccia dei desaparecidos attraversa
88 Paesi del mondo
Dal Messico all’Asia: c’è una lista Onu delle persone di cui le famiglie
attendono il ritorno
Ha detto che usciva con un vecchio amico. Non è più tornato. Era la sera del 24 gennaio
2010. Prageeth Eknaligoda, vignettista e oppositore politico, Sri Lanka. Di lui si parla al
presente. Sarà così finché non si farà vivo, o troveranno il corpo. Per la famiglia, gli amici,
la speranza è una specie di tortura.
C’è un’ufficio all’Onu, nel Consiglio per i Diritti Umani, che cerca di tenere una lista
aggiornata di quelli come Prageeth: 43.250 persone di cui è stata denunciata la
scomparsa in 88 Paesi del mondo. L’Asia è il continente più rappresentato. Lo Sri Lanka,
uscito da una sanguinosa guerra civile, è al primo posto con 5.676 casi; la Cina è a quota
30; la Nord Corea, una delle dittature più dure, solo 20. E questo spiega perché la lista
Onu sia parziale. Viene naturale, nell’International Day of the Disappeared che si è
celebrato ieri, pensare che di molti scomparsi sia scomparsa anche la traccia, il filo della
denuncia, una campagna per tener vivo il ricordo come è accaduto invece per mesi alle
ragazze di Chibok in Nigeria. È l’altra faccia (sporca) del principio dell’«Habeas Corpus»
(a 800 anni dalla Magna Charta), la forma di eliminazione tuttora più amata da certi regimi:
«Dite che l’abbiamo ammazzato? E allora fuori le prove, mostrateci il corpo». Anche del
vignettista Eknaligoda dicevano che fosse «riapparso» a Parigi. Amnesty International
riporta la storia di Ebrima Manneh, giornalista arrestato in Gambia nel 2008 e poi
«svanito»: le autorità di Banjul giurano che nelle patrie prigioni non c’è, secondo Amnesty
potrebbe essere detenuto nella stazione di polizia di Fatoto. Quello degli «scomparsi» è un
fiume che si ingrossa con discrezione, goccia per goccia, nome per nome: in Bosnia a due
decenni dalla fine del conflitto resta sconosciuta la sorte di oltre 8 mila persone. I droni
possono mappare i tesori minacciati dall’Isis. Ma non c’è occhio così potente da rilevare in
tempo reale le fosse comuni in Siria, o stabilire che fine hanno fatto gli oppositori
«inghiottiti» dalle miniere di sale del Turkmenistan. La verità affiora dopo, in differita. E
stato così per i desaparecidos dell’Argentina, le 20-30 mila persone fatte sparire dal
regime militare di Buenos Aires dal 1976 al 1983. La loro sorte è diventata verbo
universale. Non è un caso che in America Latina si è cominciata a celebrare (nel 1998) la
Giornata Mondiale del 30 agosto (da un gruppo con base in Costa Rica). Salvador e
Guatemala contano decine di migliaia di persone fatte sparire dai «maghi» delle dittature.
Ed è in Messico, dove nella «guerra sporca» degli anni Sessanta prese piede la
definizione di desaparecidos, che il fenomeno mantiene devastante rilevanza. Il governo
denuncia 25 mila sparizioni, senza contare che anche gli apparati di sicurezza hanno i loro
scheletri (fantasmi) nell’armadio. Nel settembre di un anno fa a Iguala scomparvero 43
studenti. È probabile che siano stati uccisi dai narcos (complice un sindaco). Avevano dai
17 ai 21 anni. I killer avrebbero impiegato 14 ore per bruciare quei futuri insegnanti e
disperderli in un canale. Ma finché non si troveranno i corpi, sono fantasmi a cui rendere
onore.
Michele Farina
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Del 31/08/2015, pag. 18
Italiano arrestato Filmava le violenze del
soldato israeliano sul ragazzino
Cisgiordania, il video shock è diventato virale L’accusa contro
l’attivista: tirava sassi ai militari La Farnesina: oggi potrebbe essere
espulso
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FABIO SCUTO
GERUSALEMME. Venerdì scorso a Nabi Saleh, in Cisgiordania, nel corso della protesta
le cui immagini hanno fatto il giro del mondo — con il soldato israeliano che tenta una
“cravatta” a un ragazzino palestinese di 12 anni con un braccio ingessato — c’erano
anche gli attivisti dell’International Solidarity Movement e con loro l’italiano Vittorio Fera
che è stato arrestato dai militari israeliani. Ogni venerdì da anni gli abitanti di Nabi Saleh
protestano contro la costruzione di un insediamento colonico illegale israeliano sulle terre
del villaggio. E diverse Ong partecipano a sostegno della popolazione per documentare la
protesta. Scaramucce sono scoppiate anche venerdì scorso con un lancio di sassi verso i
militari che hanno risposto nel modo che tutti hanno visto nel video diffuso ieri proprio
dall’Ism. Vittorio Fera è accusato di aver «lanciato pietre e attaccato i soldati» durante la
manifestazione e di aver il visto trimestrale di ingresso (rilasciato dagli israeliani) scaduto
da tempo. «Un’affermazione priva di fondamento », sottolineano dalla Ong. «Vittorio stava
filmando il violento attacco delle forze israeliane a un ragazzo palestinese, che veniva
aggredito e soffocato da un soldato ». Fera stamattina verrà portato davanti a un giudice
per stabilire l’entità delle accuse e la sua posizione per quanto riguarda il visto scaduto.
Sulla vicenda è intervenuto il M5s che ha attaccato il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni:
«A 48 ore dall’arresto di Vittorio Fera il silenzio della Farnesina è diventato inaccettabile»,
attaccano i deputati pentastellati in commissione Esteri. «Al momento, qualcosa è
trapelato soltanto attraverso il consolato generale a Gerusalemme: decisamente troppo
poco. Il ministro Gentiloni ha il dovere di chiarire le circostanze dell’arresto e i capi
d’accusa rivolti dalle autorità israeliane al nostro concittadino».
Stoppa sul nascere la polemica il ministero degli Esteri. Il Consolato generale italiano a
Gerusalemme e l’ambasciata italiana a Tel Aviv, spiega la Farnesina, informati del caso
stanno «seguendo sin dall’inizio il caso del connazionale Vittorio Fera, posto in stato di
fermo in Cisgiordania». E anche la Farnesina precisa che la posizione del militante
dell’Ism «è in corso di esame da parte delle Autorità israeliane competenti, che hanno
informato della possibilità di una espulsione nelle prossime ore».
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INTERNI
Del 31/08/2015, pag. 12
Il Pd al Senato rischia il caos Zanda richiama i
dissidenti “Ora basta lotte di partito”
Il capogruppo: si decide a maggioranza, così come nei condomìni.
Fi:rischiamo di dare l’Italia a Grillo
ALESSIA GALLIONE
MILANO. Ad aprile, in piena discussione sull’Italicum, aveva “strigliato” i suoi per le troppe
assenze in aula e in commissione con una lettera dai toni durissimi: «Se il gruppo dovesse
perdere la tensione, la stessa continuità della legislatura verrebbe messa a forte rischio ».
Questa volta, a poco più di una settimana dalla ripresa dei lavori a Palazzo Madama e del
percorso di una riforma del Senato caricata di una tensione da resa dei conti anche
all’interno del Pd, il capogruppo democratico Luigi Zanda “richiama” la minoranza del
partito alla responsabilità. E all’ordine. Un messaggio lanciato direttamente dal palco della
Festa dell’Unità di Milano: «Penso che la lotta politica si debba fare dentro il partito. In
Parlamento si fa la lotta sui lavori parlamentari», dice. Ed è a questo punto che introduce
una questione che lui stesso definisce «molto delicata ». Premette di muoversi «in punta di
piedi», ma le parole risuonano comunque chiare. Le «decisioni nei gruppi si prendono a
maggioranza». E una volta che si decide è a quelle che, poi, «ci si dovrebbe attenere».
Una regola che, ricorda, era stata scritta per “Italia bene comune”. Ma senza andare a
scomodare il programma della coalizione del 2013, aggiunge: senza questo principio «non
dico i parlamenti ma i condomini, i cda delle grandi aziende o le bocciofile non potrebbero
funzionare». È una vigilia tormentata quella del nuovo passaggio parlamentare della
riforma. Siamo al terzo giro e il testo rischia di essere sommerso dagli oltre 500mila
emendamenti - quasi tutti della Lega - presentati. Una questione di numeri, come quelli
della maggioranza. Su questo, Zanda mostra ottimismo: «È dal 2006 che combatto con
numeri bassi. Alla fine ce la faremo anche questa volta». Perché il mantra è lo stesso del
presidente del Consiglio Matteo Renzi. Anche il responsabile dem lo ripete: «Penso che
alla fine la riforma verrà approvata in tempi ragionevoli. Anche perché siamo tutti
d’accordo: il bicameralismo perfetto deve finire». Ed è da questa linea comune che ci si
può confrontare «con tutti ». Al suo fianco sul palco c’è il capogruppo al Senato di Forza
Italia Paolo Romani che oggi volerà a Villa Certosa per fare il punto con Berlusconi. Per
ora, il soccorso azzurro non arriva: «L’articolo 55 è stato stravolto e il Senato è stato
trasformato in qualcosa di inutile, un dopolavoro dei consiglieri regionali. Forse sarebbe
meglio tornare all’elezione dei futuri senatori», dice. Altrimenti, l’unione di questa riforma e
della legge elettorale «consegnerebbe l’Italia nelle mani di Grillo». Sel ribadisce con Arturo
Scotto: «Sì alle riforme, ma queste sono scadenti e ci batteremo perché non vengano
fatte».
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Del 31/08/2015, pag. 13
Grasso spiazza Renzi sull’articolo 2 “Va
rivotato”. E informa il Quirinale
IL RETROSCENA
FRANCESCO BEI
ROMA . Piero Grasso ha deciso. Dopo aver passato l’estate a consultare costituzionalisti
e a studiare il lungo report preparatogli dagli uffici, il presidente del Senato si appresta a
dare un grosso dispiacere a Renzi. Sancendo- è nei suoi poteri - l’emendabilità
dell’articolo 2 della riforma costituzionale. In sostanza, fuori dai commi e codicilli, significa
che la partita sull’elettività dei futuri senatori, cuore dello scontro politico tra maggioranza e
minoranza dem, è aperta. Apertissima. Dopo aver maturato questa decisione ora Grasso
attende di comunicarla direttamente al governo. Intanto, in via informale, ne ha informato il
capo dello Stato. Dunque l’ormai famoso articolo 2, che i renziani credevano di aver
messo in sicurezza grazie alla “doppia lettura conforme” tra Camera e Senato, diventerà
un terreno di battaglia micidiale, con decine di voti a rischio sugli emendamenti. E non un
solo voto secco “Sì” o “No”. Si tratta di una novità rilevante, dovuta a una svista marginale,
una piccola preposizione, che tuttavia rende l’articolo 2 non letteralmente identico nella
versione approvata a palazzo Madama e poi a Montecitorio. Quindi, secondo il
regolamento del Senato, si può riaprire. Un’evenienza che spaventa il premier, tanto che
sul Corriere della sera ieri aveva provato a erigere un muro difensivo sostenendo che
rivotare una cosa già votata due volte sarebbe stato «un colpo incredibile» a un principio
che vige da decenni. Eppure dovrà fare i conti con questa sgradita sorpresa.
A questo punto, visti i numeri ballerini del Senato, anche la strategia del governo dovrà
cambiare. La tentazione del colpo di forza, basata sui numeri assicurati dai fuoriusciti dei
vari partiti, a partire dai verdiniani, sta perdendo quota. «Perché un conto è vincere una
volta e passare oltre. Un altro - ragiona un renziano di palazzo Madama - dover assicurare
la maggioranza per superare decine di emendamenti».
Per questo, nelle telefonate che precedono in queste ore il rientro della maggior parte dei
protagonisti nella Capitale, si va affacciando l’ipotesi di una soluzione politica. Interna al
Pd. Ne parlano tutti. Lo vorrebbe la minoranza Pd, se lo sognano a occhi aperti anche i
renziani più prudenti, preoccupati per un fine corsa che a questo punto non sembra fuori
dalla realtà. L’ipotesi dunque è quella di un patto tra gli unici due che potrebbero
sottoscriverlo: lo stesso Renzi e Pier Luigi Bersani. Non un accordo politico
onnicomprensivo, ma una cornice minima di rispetto per portare a casa la riforma ed
evitare il voto anticipato. Lo stesso Mattarella ha iniziato a lanciare segnali di
preoccupazione per la deriva oltranzista presa da entrambe le parti. Uno gioco al rialzo, tra
chi minaccia Vietnam e chi risponde picche, che non fa certo piacere al capo dello Stato.
Perché rischia di mettere fuori gioco il paese nella vera partita che si sta per aprire, quella
con Bruxelles sulla flessibilità. Se davvero Renzi ha iniziato a credere che Bersani e i suoi
si vogliano misurare al prossimo congresso del 2017, senza provocare una crisi di
governo al buio, allora un’intesa appare non impossibile. Quale potrebbe essere questo
«punto d’incontro » di cui parla il premier non è ancora chiaro. Al momento non si va più in
là dell’ipotesi già ventilata di un listino da affiancare alla lista dei consiglieri regionali per
indicare chi andrà a palazzo Madama. Ieri Cesare Damiano, certo non un sostenitore
interno di Renzi, ha invitato la minoranza ad accettare il compromesso: «La soluzione è
quella del listino. Un’ipotesi che può trovare una larga convergenza e che ha trovato il
sostegno autorevole di Luciano Violante». Un’altro a-renziano come Dario Ginefra l’ha
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sposata subito: «si puó e si deve trovar un’intesa che faccia progredire il testo in
discussione e che tagli le ali ai falchi che si annidano da una parte e dall’altra ». Damiano
e Ginefra danno voce a quello che pensa una gran parte dei parlamentari di mezzo, nè
renziani né antirenziani, il corpaccione del partito che inizia a vivere con crescente
insofferenza questa contrapposizione totale.
Al momento da palazzo Chigi fanno sapere che l’ipotesi di un incontro Renzi-Bersani è
quantomeno prematura. Che i toni sono stati troppo accesi per pensare che possa finire a
tarallucci e vino con un faccia a faccia. Ma la pace alla fine, si fa con i nemici. E Renzi al
Senato non se ne può permettere troppi.
Del 31/08/2015, pag. 14
Sulle unioni civili governo pronto all’asse con
i 5Stelle
Maggioranza “alternativa” per superare il no dei centristi. Mercoledì
sfida in commissione
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA . Chiusa la strada dall’ostruzionismo di Area popolare, l’esecutivo ha già sul tavolo
una exit strategy. Sostituire in corso d’opera il gruppo di Alfano con il M5s. E approvare
così il testo sulle unioni civili entro l’anno, come annunciato a più riprese da Matteo Renzi.
Un precedente, d’altro canto, che fa il paio con la mossa di Palazzo Chigi. Spiega Monica
Cirinnà, relatrice al testo sulle unioni civili: «I numeri li abbiamo. Ricordo che in
commissione, il 26 marzo scorso, il testo base è stato approvato con l’apporto del M5s, del
Pd e di Sel». Tra 48 ore, giorno in cui si riunirà la commissione Giustizia di Palazzo
Madama, sarà l’ora della verità. In quella sede, infatti, si consumerà la prima battaglia
parlamentare. Quella sulle unioni civili, il cosiddetto ddl Cirinnà. Uno scontro che potrebbe
segnare le sorti della legislatura e del governo Renzi. Il premier ha già fatto sapere che
non ne vuol sapere di compromessi a ribasso. E al Corriere della Sera ha assicurato: «Le
unioni civili si faranno. Punto. Anche qui: usciamo da venti anni di scontri ideologici. Anche
qui: ci sono i numeri per una forzatura, ma spero di trovare un punto d’intesa». Al
momento, però, non sembrerebbe esserci un accordo all’interno della maggioranza, visto il
clima tra Pd e Area popolare (Ncd). L’impianto della legge dovrebbe contenere tre assi
portanti: l’estensione dei diritti sociali alle coppie omosessuali, la reversibilità delle
pensioni per le coppie dello stesso sesso e la step child adoption. Sparisce, invece, come
ha scritto la Corte Costituzionale nella sentenza del 2010, la equiparazione formale fra il
nuovo istituto giuridico e il matrimonio. Gli oltranzisti del gruppo alfaniano, come Maurizio
Sacconi e Carlo Giovanardi, sostengono invece che non sia così. Anzi. «Il testo richiamasottolinea Giovanardi - con un altro nome al matrimonio. Il presidente emerito della Corte
Cesare Mirabelli lo ha detto a chiare lettere: va riscritto». Anche Forza Italia si oppone
strenuamente. «Conviene in primo luogo a Renzi e al Pd non tirare troppo la corda su un
tema così delicato», tuona il senatore Maurizio Gasparri. Tanti i nodi da sciogliere,
dunque. I temi più divisivi risultano: la reversibilità delle pensioni anche per le coppie
omosessuali e la step child adoption. Quest’ultimo si rifa a un istituto giuridico
anglosassone con il quale si indica la adozione, da parte di uno dei due componenti di una
coppia, del figlio del partner. Ed è proprio su questi due temi che le distanze appaiono
incolmabili. Dal gruppo del Pd in Senato minimizzano: «Le defezioni all’interno di area
popolare si ridurranno semplicemente a Sacconi, Giovanardi e Formigoni. I restanti 32
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saranno con noi». Ad ogni modo il percorso parlamentare appare obbligata. In
commissione Giustizia la maggioranza avrebbe già l’accordo con il presidente Francesco
Nitto Palma per portare il testo direttamente in aula. L’obiettivo è quello di approvare il
provvedimento entro la metà di ottobre. E in via definitiva, entro la fine dell’anno. Con o
senza Area Popolare.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 31/08/2015, pag. 21
Il colloquio «Io, minacciato e picchiato dai
boss Mi è tornata la balbuzie, ma non ho
paura»
Ha svelato il potere dei clan nella terra di Montalbano Così il giornalista
Borrometi è dovuto scappare dalla Sicilia a Roma «Ma i mafiosi
continuano a perseguitarmi anche qui» Non ha una scorta fissa
ROMA «Stai attento». La prima minaccia era stata incisa a caratteri cubitali sulla fiancata
della station wagon: «Si fossero fermati alle scritte ci avrei messo la firma», sorride amaro
Paolo Borrometi, giornalista 32enne ragusano, cui la mafia l’ha giurata. Prima dei suoi
articoli Scicli era, quasi per tutti, la terra senza mafia del commissario Montalbano. Ora,
dopo i suoi pezzi, scritti in solitudine sul sito «laspia.it» è il comune sciolto per infiltrazioni
con il sindaco rinviato a giudizio per concorso esterno.
Dopo le scritte venne altro. Una spalla frantumata. La porta di casa data alle fiamme.
Minacce, sempre più pesanti. Fino all’ultima, gravissima, di pochi giorni fa, a Roma, che gli
è valsa la solidarietà del presidente del Senato, Piero Grasso. Ma non ancora un’auto
blindata e una scorta 24 ore su 24.
«La prima cosa che pensi è: “Oddio che ho fatto?” — racconta con semplicità —. Poi una
rabbia assurda per quei gesti vili. Ma la cosa che più ti fa gelare il sangue è chi ti dice: “Chi
te lo fa fare?”». Lo stesso refrain delle minacce che riceve per telefono e su Facebook.
A vederlo, lo sguardo monello dietro gli occhiali trasparenti, nessuna posa da vate
antimanfia, non lo diresti che è riuscito a far saltare i nervi alle cosche del ragusano e alle
‘ndrine di Gioia Tauro.
Come è iniziata? «Non mi occupavo di mafia. Inizio a seguire il caso di Ivano Inglese che
stavano per archiviare. Lancio un appello in tv a parlare. Qualcosa si muove». Lavora su
Scicli. Arriva il primo avvertimento. Non lo segue. Il 16 aprile 2014 l’agguato.
«Ero in campagna, da Bonnie. Il mio cane, che era molto irrequieta. Penso sia per la
mancata passeggiata. Mi sento afferrare da dietro il braccio destro. Saltano i tendini. Le
ossa. Cado a terra. Due uomini incappucciati mi prendono a calci gridando: “U capisti che
t’hai a fare i fatti tuoi?”. Dura forse 30 secondi. I più lunghi e più difficili della mia vita. Con
le cure il braccio è tornato a funzionare, anche se meno. Ma quella violazione della mia
intimità, nel luogo dei miei sogni, non si è più rimarginata».
Ci pensa su tre giorni. Infernali. Poi decide. Non si atteggia né a vittima, né a eroe. Anzi,
sorride nel ricordare: «Mi sentivo come un gattino, bagnato, nell’angolo. Ma scelgo di
continuare a dare il mio contributo alla verità. Molti mi sono vicino. Ma poche istituzioni».
Cominciano le voci che attribuiscono il suo agguato a una «storia di corna».
Lui insiste. Pubblica la prima puntata dell’inchiesta sul boss di Scicli che chiedeva il pizzo
di un euro a manifesto per fare pubblicità ai candidati e del sindaco che, vinte le elezioni,
gli aveva assegnato l’appalto dei rifiuti. Su un muro scrivono: «Borrometi sei morto». Non
molla. Tornano. «Ero tornato a vivere dai miei. Un bastardo, di notte, da fuoco alla porta di
casa. Si può immaginare cosa provi la mamma di un figlio unico. Mio padre, mai loquace,
mi disse: “Mai giù. Sempre su».
Poi tutto va veloce. Scrive del capo ‘ndrina di Gioia Tauro che distribuiva la droga nel
ragusano per conto della mafia. La figlia del boss «sparato in faccia» interrompe il lutto per
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intimargli d smettere. Arrivano l’avviso di garanzia al sindaco, l’arresto del boss e il
commissariamento della città di Montalbano. Lo trasferiscono a Roma per proteggerlo.
Scrive di mafia anche da qui. Del mercato ortofrutticolo di Vittoria e del boss becchino
Gianbattista Ventura che aveva intestato l’agenzia funebre a Padre Pio. Lui, via mail, gli
scrive: «Ti scippo la testa. Anche dentro il commissariato». Infine il segnale più grave, sul
quale gli inquirenti ora indagano. Smetterà? Lui sorride: «No. La paura c’è. Sono un ex
balbuziente. Dall’altra sera sono tornato un po’ a balbettare. Ma sogno un mattino di
svegliarmi e dire: visto che valeva la pena».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 31/08/2015, pag. 2
Ue, vertice d’emergenza sui migranti
Prime mosse, riunione il 14 settembre dei responsabili degli Interni e
della Giustizia Il ministro britannico May: porte aperte solo ai cittadini
comunitari che hanno già un lavoro
Anche se sulla sua pagina web alla Commissione europea fino a ieri sera si leggeva
«lunedì, nessun evento in programma», oggi il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri
Avramopoulos andrà a visitare uno dei punti più «caldi» della frontiera comunitaria,
assediato da migliaia di migranti: andrà a Calais, in Francia, al porto da cui partono i
traghetti per Dover in Gran Bretagna, e all’imboccatura dell’Eurotunnel ferroviario per
Londra. Là, il commissario greco sarà accolto dal primo ministro francese Manuel Valls e
dal suo ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve.
Un ennesimo vertice o mini-vertice, stavolta fra la Ue e la Francia, mentre il Papa grida
«basta con le stragi».La prossima «riunione straordinaria» dei ministri degli Interni e della
Giustizia si terrà il 14 settembre, a Bruxelles, e l’Italia porterà la proposta illustrata dal
premier Renzi ieri al Corriere : «Si scelga finalmente di superare Dublino e di avere una
politica di immigrazione europea, con un diritto di asilo europeo. Andremo negli Stati di
provenienza per valutare le richieste, gestiremo insieme i rimpatri».
Ormai il ritmo di questi incontri — a Berlino, a Parigi, a Bruxelles, in altre capitali ancora —
è quasi quotidiano. Il cerino ardente gira di mano in mano, da un ministro all’altro, e alla
fine resta fra le mani di qualcun altro che non governa alcun Paese, e neppure la propria
vita. Nella girandola degli incontri politici, che forse è insieme sintomo e con-causa della
paralisi decisionale, sembra sfaldarsi la stessa dimensione comunitaria dell’Unione. Forse
è inevitabile, con 28 singoli Paesi posti di fronte a una tragedia di dimensioni bibliche, tutti
a parole desiderosi di regole comuni, e nella realtà frementi per il proprio ordine interno.
Forse è inevitabile, ma fa impressione lo stesso.
Come fa impressione la mossa della Gran Bretagna, già esonerata dagli accordi di
Schengen, che ora minaccia di chiudere le frontiere anche ai cittadini Ue privi di un
contratto di lavoro. Anche se il ministero britannico degli Interni Theresa May lo nega, a
Bruxelles non hanno molti dubbi: questa è o sarebbe la violazione aperta di una normapilastro dell’Ue, la stessa che garantisce la libera circolazione delle persone, dei capitali,
delle merci e delle idee. Negandola, è come se il Regno Unito socchiuda già la porta
dell’Unione, davanti alla quale esita da tanti anni, e faccia un passo al di fuori.
L’emergenza si legge anche nelle formalità diplomatiche. L’incontro di oggi a Calais, per
esempio, sembra programmato per riassumere in sé le dimensioni del dramma. Alle 10 del
mattino, il commissario Ue con i governanti francesi visiteranno il Centro migranti, e forse
anche la «giungla» di tende lì accanto, dove vivono 3 mila disperati.
Poi si recheranno all’imbocco dell’Eurotunnel per controllare le barriere anti-migranti. Poi
ancora all’ospedale di Calais. E infine, parteciperanno a un incontro con tutte le forze «di
sicurezza». Parola che non è mai stata tanto incerta ed ambigua, nella vecchia Europa,
come oggi.
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Del 31/08/2015, pag. 3
«Tutti rispettino i patti e le quote
Errore di Londra, alimenta la paura»
Alfano: finanzieremo i progetti di accoglienza dei Comuni per il 95 per
cento
di Fiorenza Sarzanini
ROMA Immigrazione, sicurezza, ma anche unioni civili con un messaggio esplicito del
ministro dell’Interno Angelino Alfano al premier Matteo Renzi: «La legge non era nel patto
di governo, noi di Ncd ci sentiamo liberi di non votarla».
L’Unione Europea ha convocato un vertice straordinario sull’immigrazione. Si
arriverà a una vera intesa?
«Finalmente in Europa mi sembra prevalgano razionalità e concretezza. Purtroppo ci sono
voluti centinaia di morti non solo nel Mediterraneo, ma anche sulla rotta balcanica e dentro
i Tir. Noi lo chiediamo da mesi e invece abbiamo dovuto affrontare la crisi dell’Eurotunnel, i
problemi enormi a Calais, la crisi diplomatica tra Grecia e Macedonia, i flussi massicci
sulla rotta balcanica e il boom di richieste di asilo in Germania prima di ottenere una reale
consapevolezza del problema».
La Germania si muove perché è in difficoltà?
«Io posso dire con tristezza che i morti nel Mediterraneo erano stati sufficienti a svegliare
l’Europa ma non a determinare un’azione poderosa sulle frontiere. Ora si comprende che
l’Italia è soltanto luogo di transito, il vero approdo sono i Paesi del Nord. Ma le resistenze
non sono state soltanto dei tedeschi, anzi».
A chi si riferisce?
«Durante il vertice di luglio ho visto Francia e Germania fare la loro parte, mentre altri Stati
appena entrati nell’Unione hanno creato tanti problemi. Deve essere chiaro che far parte
dell’Ue garantisce vantaggi, ma richiede anche oneri e responsabilità».
Il presidente Renzi pone come priorità l’asilo europeo.
«È la strada giusta. Se c’è cittadinanza europea e libera circolazione ci deve essere il
diritto di asilo europeo che non si regala a nessuno che non lo meriti. L’obiettivo è quello di
impedire ai profughi di scegliersi il Paese dove andare, ma per raggiungerlo bisogna avere
una forte leadership politica: se si gioca a scaricare tutta la responsabilità sul Paese di
primo ingresso, alla fine non ci sono Stati capaci di trattenere entro i propri confini una
pressione epocale».
L’Italia è accusata di non essere in regola con fotosegnalamento e centri di
smistamento.
«L’intero accordo si fonda su solidarietà e responsabilità. Fare “hotspot” è responsabilità,
dividere i migranti è solidarietà. È inaccettabile affrontare subito l’intero carico di
responsabilità e ottenere a rate la solidarietà. Saremo responsabili nella misura e con la
stessa progressività con cui gli altri saranno solidali».
Cosa risponde al suo collega francese che chiede di sospendere Schengen?
«Il trattato è una conquista di libertà: se si ritiene che per vincere la paura bisogna
diminuire la libertà, ci troveremo tra qualche anno con paure peggiori avendo compresso
al libertà di circolazione».
Il ministro dell’Interno britannico annuncia che potrà rimanere nel Regno Unito solo
chi lavora.
«Un grave errore, che alimenta paure. Finora c’è stata l’illusione di pensare che l’Europa
non fosse un’area economica unica con reazioni elettorali uniche, ma fatta di tanti
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pezzettini, ognuno reattivo in modo diverso. Le proteste in Germania, i sondaggi inglesi
con la preoccupazione per l’immigrazione e la crescita di movimenti razzisti xenofobi in
Francia con Marine Le Pen e in Italia con Matteo Salvini hanno dimostrato che non è
così».
I centri di accoglienza italiani sono al limite. Come si affronta l’emergenza?
«Con un sistema strutturato che preveda l’ospitalità diffusa e l’ausilio degli enti locali per
evitare le reazioni violente come quelle degli ultimi mesi. Le procedure per i richiedenti
asilo sono più rapide e il ministro della Giustizia Andrea Orlando sta lavorando per snellire
la procedure sul giudizio di appello quando viene negato l’asilo. In questo modo possiamo
rimpatriare velocemente chi non ha diritto a rimanere».
Gli analisti prevedono migliaia di nuovi arrivi.
«Ho appena firmato un bando per altri 10 mila posti nel sistema Sprar: vuol dire che
finanzieremo i progetti di accoglienza dei Comuni per il 95 per cento dei costi».
E con le Regioni del Nord?
«Sono stato aggredito in modo cialtronesco e becero per un anno e mezzo come se il
problema dell’immigrazione mondiale fosse causa del ministro dell’Interno italiano. Ora
che interviene ancora una volta il Papa, c’è una sessione straordinaria dell’Onu e della Ue,
vengono coinvolti i ministri di Esteri, Difesa e Trasporti posso dire che ho resistito forte non
solo della buona coscienza, ma della oggettiva verità dei fatti che solo la malafede di
alcuni poteva negare o scaricare addosso a me».
Immigrazione, ma anche terrorismo con controlli sui treni che circolano nell’Ue. Il
rischio per l’Italia durante il Giubileo sarà più elevato?
«Il livello è già al massimo, ma naturalmente l’evento ci chiede un ulteriore impegno,
anche perché sarà una grande vetrina positiva dopo ultimi scandali. Posso comunque
assicurare che Roma non sarà militarizzata».
Il presidente Renzi annuncia la legge sulle unioni civili entro l’anno. Ncd la voterà?
«Noi siamo d’accordo con il rafforzamento dei diritti, ma diciamo no all’equiparazione con il
matrimonio, all’adozione, all’utero in affitto. Lavoreremo per l’intesa, ma non sono convinto
che riusciremo a trovarla. La legge comunque non era nel patto di governo, siamo liberi di
non votarla. Invece spingeremo al massimo per un “family act” con detrazioni e deduzioni
per sostegno alla natalità, all’accudimento dei figli, all’assistenza per parenti anziani e
malati».
Del 31/08/2015, pag. 2
Londra,pugno duro sui migranti europei “Qui
solo con un lavoro”
Il governo: “Da noi sono arrivati troppi stranieri.L’Ue cancelli
Schengen” Altre 7 vittime di un naufragio in Libia. Il Papa: “Basta alle
stragi di profughi”
DAL NOSTRO INVIATO
PIETRO DEL RE
LONDRA . Spiazzato dalle ultime cifre sui migranti giunti in Gran Bretagna, il governo
Cameron corre ai ripari applicando un giro di vite ai permessi d’ingresso e alle concessioni
di asilo politico. I dati pubblicati due giorni fa, che parlano di 300mila persone entrate nel
Paese tra marzo 2014 e marzo 2015, molte di più delle 100mila previste dal premier
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inglese, spingono Downing Street ad alzare un muro di nuove regole contro
l’immigrazione. Alcune di queste norme sono state annunciate ieri in una lettera scritta al
Sunday Times dal ministro dell’Interno britannico, Theresa May, la quale ne ha anche
approfittato per criticare aspramente Schengen, a suo avviso responsabile delle recenti
stragi: «L’accordo che consente di muoversi liberamente nell’Unione europea è la causa
della morte di centinaia di persone che scappano dalla Siria per finire nelle grinfie dei
trafficanti di esseri umani, proprio per questo va abolito».
Quanto alle nuove restrizioni che intende adottare Londra, prima tra tutte c’è lo stop allo
sbarco di europei alla ricerca di un posto di lavoro. A chi non avrà un contratto pronto al di
qua della Manica non sarà più permesso di entrare nel Regno. «Di persone senza lavoro
lo scorso anno dall’Ue ne sono arrivate 63mila, decisamente troppe», scrive sempre la
May, che punta anche il dito contro tutti quegli europei che si trasferiscono in Gran
Bretagna soltanto per approfittare degli assegni di disoccupazione o di aiuti alle famiglie. Il
ministro mette in guardia perfino gli studenti internazionali che frequentano le università
inglesi: «D’ora in poi, cominciate a considerare la vostra esperienza qui come
“temporanea”». Sempre la May, assieme ai suoi omologhi francese e tedesco, Bernard
Cazeneuve e Thomas de Maizière, ha chiesto ieri alla presidenza lussemburghese di
turno l’organizzazione di una riunione di emergenza dei ministri dell’Interno e della
Giustizia dell’Ue per stabilire le strategie su come fronteggiare la crisi dei migranti, che è
stata fissata per il 14 settembre. Londra, Parigi e Berlino vogliono anche che venga al più
presto stilata una lista dei “Paesi d’origine sicuri” per completare il regime di asilo comune,
proteggere i rifugiati e garantire il ritorno effettivo degli immigrati illegali nei luoghi di
provenienza. E sempre ieri, da Piazza San Pietro Papa Francesco ha rivolto un pressante
monito per arginare concretamente la tragedia in corso. Dopo l’Angelus, il Santo padre ha
chiesto con forza di fermare le stragi di migranti, che ha definito «crimini che offendono
l’intera famiglia umana». Il Papa ha poi ricordato le morti di tanti profughi e in particolare le
vittime ritrovate in un camion in Austria: «Purtroppo - ha detto - anche nei giorni scorsi
numerosi migranti hanno perso la vita nei loro terribili viaggi. Per tutti questi prego e invito
a pregare per le 71 vittime, tra cui 4 bambini, trovate in un camion sull’autostrada
Budapest-Vienna». Intanto, la cronaca riferisce di un nuovo naufragio davanti alle coste
libiche con almeno 7 cadaveri ritrovati sulle spiagge davanti a Khoms, un centinaio di
chilometri a est di Tripoli.
Del 31/08/2015, pag. 2
L'offensiva italiana «Ora diritto d'asilo
europeo»
Obiettivo è uniformare il sistema e archiviare Dublino. In autunno la
proposta della Commissione Ue sulla redistribuzione dei rifugiati
Marca Mangiella
Serve un diritto d'asilo europeo. L’idea circola da anni ma è stata sempre considerata un
tabù e finora ci si è limitati a ritoccare e armonizzare le regole nazionali. Dopo questa
tragica estate però l'Italia ha annunciato «un'offensiva politica e diplomatica» per i prossimi
mesi e la Commissione europea ha confermato di voler presentare in autunno la proposta
per un sistema di redistribuzione dei rifugiati, che ha già il sostegno della Germania, e che
di fatto rappresenta «un'eccezione» permanente al cosiddetto sistema di Dublino e il via
libera a un vero diritto d'asilo europeo, in cantiere per l'anno prossimo. «Stiamo creando
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progressivamente un sistema comune di asilo europeo dal 2008 - ha spiegato all'Unità
Natasha Bertaud, portavoce del commissario Ue per le Migrazioni Dimitris Avramopoulos abbiamo detto che nel 2016 rivedremo un pezzo di questa legislazione, le regole di
Dublino. Nel frattempo abbiamo proposto un sistema di riallocazione che è
essenzialmente un'eccezione a Dublino». Al centro della controversia sono le regole che
prendono il nome dalla capitale irlandese perché è lì che nel 1990 è stata firmata la
Convenzione di Dublino. Da quel momento in poi le diverse normative che hanno applicato
i principi della Convenzione sono state modificate più volte, fino all'ultimo regolamento
de126 giugno 2013, chiamato Regolamento di Dublino III che, si legge nel testo,
«stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per
l'esame di una domanda di protezione internazionale».
Il concetto giuridico di rifugiato è nato con la Convenzione di Ginevra del 1951, ma prima
delle regole di Dublino ogni Stato membro decideva per sé col risultato che chi scappava
dalle guerre poteva presentare domanda d'asilo in tutti i Paesi dell'Ue. Per questo è stato
introdotto con la Convenzione di Dublino il principio secondo cui lo Stato membro ha fatto
il proprio ingresso nell'Unione europea. Quindi, visto che la possibilità di vedersi accolta la
domanda d'asilo è molto differente da Paese a Paese, di fatto spetta ai rifugiati imbarcarsi
in pericolosi viaggi illegali per arrivare nello Stato membro prescelto e spetta a quello Stato
accollarsi i costi dell'accoglienza e della protezione internazionale. Il risultato di un simile
sistema, in un'epoca di conflitti, guerre ed esodi di massa, sono le stragi quasi quotidiane
acui abbiamo assistito quest'estate e lo scaricabarile di responsabilità tra gli Stati membri.
«Bisogna modificare norme concepite 25 anni fa - ha spiegato il ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni - introducendo un concetto rivoluzionario: i migranti non entrano più in Italia, in
Grecia, in Ungheria, o dove la geografia o la sorte li fanno arrivare, ma in Europa». Per il
capo della diplomazia italiana serve quindi «un diritto d'asilo europeo valido per tutti i
Paesi». Il giorno dopo è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ad annunciare dalle
colonne del Corriere della Sera che è arrivato il “momento giusto per lanciare un’offensiva
politica e diplomatica” in modo che “si scelga finalmente di superare Dublino e di avere
una politica di immigrazione europea, con un diritto d’asilo europeo”. Questa, ha spiegato
Renzi, sarà la battaglia dei prossimi mesi.
In realtà la battaglia è già cominciata in primavera quando, in seguito al naufragio costato
la vita a circa 750 migranti, il premier italiano ha chiesto un vertice Ue straordinario
sull'immigrazione che si è tenuto il23 aprile. Da quel momento in poi l'idea di un sistema di
quote obbligatorie per redistribuire i rifugiati tra tutti e 28 gli Stati membri dell'Ue, che
rappresenta la cancellazione del sistema di Dublino e la premessa di un sistema d'asilo
europeo, ha iniziato il suo cammino accidentato ma inesorabile. Il 13 maggio la
Commissione ha proposta lasua Agenda perle Migrazioni in cui si dice chiaramente che «il
meccanismo di ripartizione delle responsabilità per l'esame delle domande di asilo (il
cosiddetto `sistema Dublino') non funziona come dovrebbe». I;esecutivo comunitario ha
quindi proposto di introdurre in via sperimentale il sistema di quote per 60mila persone,
20mila da reinsediare dai campi profughi fuori i confini dell'Ue e 40mila da redistribuire tra
quelli già sbarcati in Grecia e lia. Una piccola cifra in confronto alle 300mila persone c e a
gennalo a agosto hanno attraversato il Mediterraneo per cercare rifugio in Europa. Per
quanto piccola però la cifra è risultata indigeribile agli Stati membri, che nel summit Ue di
giugno hanno voluto cambiare il sistema obbligatorio di redistribuzione con un sistema
"per consenso", cioè all'unanimità, col risultato di riuscire a trovare sistemazione solo per
32mila migranti da riallocare invece dei 40mila previsti. Insomma, l'esperimento è costato
la vita a migliaia di migranti ma ha funzionato alla perfezione: ora è chiaro a tutti che serve
un sistema obbligatorio di redistribuzione dei rifugiati e un diritto d'asilo europeo.
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Del 31/08/2015, pag. 2
Profughi, lavoro volontario «per favorire
l'integrazione»
Da Bari a Belluno progetti e iniziative per attività socialmente utili
Sono sempre di più i sindaci e i governatori che chiamano i richiedenti asilo a lavorare
volontariamente per le città che li ospitano. In nome della reciprocità, per facilitare
l'integrazione con le comunità che spesso li tollerano appena e a volte non li tollerano
affatto. E per venire incontro alla domanda di attività che viene dagli stessi profughi
parcheggiati per mesi nei centri di accoglienza in attesa dello status di rifugiato senza il
quale ogni lavoro retribuito è vietato. Con questa ratio, per favorire i rapporti tra migranti e
cittadinanza, anche il sindaco di Bari, Antonio Decaro si è mosso presso la Prefettura per
porre le basi del progetto. Dare una mano a manutenere e a pulire il verde urbano, le
spiagge, le piazze frequentate dagli stessi migranti. Attività da intraprendere dopo percorsi
di formazione. «La partecipazione è su base volontaria - ha chiarito Decaro - Ed è un
modo per stemperare il clima di intolleranza» che pure comincia a farsi breccia in una città
ospitale come Bari. Al centro Cara che ospita oltre 1200 persone sono stati presi i primi
contatti e la risposta è stata positiva, riferisce il direttore Angelo Colangelo: «Hanno voglia
di fare qualcosa per la città - spiega - sono stanchi di non fare nulla».
L'iniziativa non è inedita. Nel novembre scorso il dipartimento Immigrazione del Viminale
ha emanato una circolare per sollecitare i sindaci a coinvolgerei profughi in attività di
pubblica utilità. Da allora sono centinaia le iniziative, anche piccole o piccolissime. Una
realtà diffusa prevalentemente al centro Nord dove Comuni e Regioni hanno stipulato
protocolli con le Prefetture chiamando in causa associazioni come la Caritas, il Wwf,
cooperative sociali e associazioni di volontariato. Il Friuli Venezia Giulia è in campo da
mesi: «Stiamo spingendo sull'accoglienza diffusa», ha spiegato nei giorni scorsi la
presidente Debora Serracchiani. L'obiettivo «è coprire tutti i 216 Comuni del Friuli, e molti
hanno già una convenzione con la Regione affinché questi migranti possano restituire
l'ospitalità attraverso lavori per la comunità». L'Emilia Romagna ha firmato un protocollo
analogo proprio in questi giorni. Profughi al lavoro a Cuneo, a Pesaro, a Livorno, a Trento,
a Modena, a Savona, a Verona, nel Padovano, nelle Cinque Terre, a Ostiglia, l'elenco è
lunghissimo. Quasi ovunque prevale l'impiego per la manutenzione del verde pubblico, la
pulizia di spiagge e strade, interventi di decoro urbano. Ma non mancano esperienze come
quella di Belluno in cui ci sono progetti per attività nelle scuole o per fare compagnia agli
anziani. Diversa, ma simile, l'esperienza di Reggio Calabria: qui l'iniziativa l' hanno presa i
profughi che si sono messi a pulire strade e parchi: «È stato un gesto spontaneo per
dimostrare gratitudine alla città che li ospita», ha dichiarato il sindaco Giuseppe
Falcomatà. È una sorta di fase due dell'emergenza, una sfida per gli amministratori
chiamati a trovare una sintesi tra il dovere dell'accoglienza e le resistenze dei concittadini
che si sentono rassicurati da chissà quali minacce se vedono i profughi impegnati in
attività utili per la città. Ma non tutti sono d'accordo. A destra c'è la Lega che reclama quel
lavoro per gli italiani oppure, quando aderisce, lo fa al grido «basta ozio». A sinistra Sel
parla di sfruttamento. «È razzismo - afferma Pino Gesmundo segretario della Cgil di Bari Per dare risposte alle politiche di integrazione serve ben altro che mortificare nella propria
dignità uomini e donne che scappano dalle proprie terre per fame o guerre».
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Del 31/08/2015, pag. 1-6
I nuovi trafficanti.
Caricano i migranti diretti in Nord Europa, i viaggi fruttano 5mila euro.
Rischi? Quasi zero
Il network dei Tir così si arricchiscono gli
scafisti via terra
FRANCESCO VIVIANO
ALESSANDRA ZINITI
VIAGGIANO in mezzo a tir carichi di angurie, kiwi, bombole di gas, serramenti metallici.
Ma anche in automobili di improvvisati taxisti e in lussuosi van Mercedes o Fiat Ducato.
L’ultima tappa di un esodo infinito e che ormai, superata la roulette russa delle rotte in
mare o attraverso il deserto, sembra poca cosa: dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Puglia
dalla Serbia, Turchia, Grecia, Ungheria fino ai valichi di frontiera francesi e tedeschi. È un
vero e proprio network degli “scafisti d’asfalto”, quello che – per portare fino alla meta
finale le migliaia di migranti sbarcati sulle coste in Italia o che cercano di raggiungere
l’Europa via terra dall’est - ha arruolato negli ultimi mesi centinaia di passeur italiani, greci,
turchi, serbi, egiziani, eritrei, tunisini, meglio se incensurati, basta che abbiano un mezzo
capiente, che sia un minivan o un Tir, e soprattutto una patente per guidarlo.
Come Gianluca Giobbe, il camionista di Nuoro disoccupato arrestato qualche giorno fa in
Germania dove aveva appena trasportato una intera famiglia siriana che aveva pagato
diverse migliaia di dollari per oltrepassare il confineca. La moglie lo cercava da una
settimana, a lei aveva detto di andare in Germania a cercare lavoro ma Giobbe era già
tenuto d’occhio dalla polizia di Nuoro per i suoi contatti con le organizzazioni di trafficanti e
probabilmente di viaggi come quest’ultimo doveva averne fatti già altri. A lui, così come a
tutti gli altri, sarebbe andato un compenso da 3 a 5 mila euro, questa la cifra che –
secondo le più recenti indagini – gli organizzatori dei viaggi dei migranti assicurano ai
“passeur”, camionisti o taxisti che mettono a disposizione i loro mezzi e accettano anche
questo tipo di “clientela”.
Qualcun altro, come Massimo Greco, trentenne pescatore di Riposto, in provincia di
Catania, si prestava anche a fare il doppio servizio. Con il suo peschereccio era andato a
“recuperare” da una nave madre egiziana al largo delle coste ioniche un centinaio di
egiziani e di siriani e poi, a bordo di un Tir, li aveva portati fino al Nord Italia dove però si è
fatto arrestare dalla polizia beccandosi un’accusa di associazione per delinquere
finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È questo che gli autisti
ingaggiati dai trafficanti rischiano a fronte di un compenso di qualche migliaia di euro.
Quelli che partono dall’Italia sono quasi sempre “gestiti” dagli stessi trafficanti che
organizzano i viaggi dalla Libia, dalla Turchia, dall’ Egitto e dalla Grecia che hanno i loro
“corrispondenti” sparsi in tutta Europa e soprattutto nelle città o nei paesi vicini ai centri
d’accoglienza dove vengono ospitati migliaia di immigrati giunti a bordo di barconi. In
attesa dell’ultima tratta terrestre che dovrebbe portarli nei paesi del Nord Europa dove
molti hanno parenti o amici.
Mulubraham Gurum e la sua banda di eritrei, terminale siciliano dei boss che “lavorano”
dall’altra parte del Canale di Sicilia, gestivano direttamente dall’interno del Cara di Mineo
tutti i flussi di arrivo e ripartenza per le destinazioni finali. Localizzavano i loro “clienti” nei
vari centri di accoglienza in cui venivano smistati al loro sbarco dopo i soccorsi, andavano
a prelevarli con taxisti compiacenti e, in attesa di stiparli tra i carichi di Tir diretti al nord, li
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ospitavano in alcuni appartamenti di Catania e riuscivano persino a farli entrare
abusivamente al Cara approfittando di qualche giorno di vitto e alloggio gratis prima del
viaggio. Che avviene solo dopo l’arrivo dell’ultima tranche di pagamento. Paga meno,
anche meno di mille euro chi viaggia in condizioni di grande rischio come i 71 morti
ritrovati qualche giorno fa in Austria, paga di più, anche 1.500-2.000 euro a persona chi
(quasi sempre i siriani) trova passaggio in minivan o mezzi di “padroncini”.
«Dalle nostre indagini - spiega il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia, che
coordina il pool di magistrati che si occupano di immigrazione clandestinasono emersi i
contatti strettissimi tra gli scafisti libici ed egiziani con i tanti passeur che utilizzano i loro
mezzi. Molti sono stati arrestati e denunciati, ma moltissimi altri continuano a fare affari
d’oro ». «È un grande business europeo – spiega un investigatore che si allarga sempre di
più, ma mentre in Italia si indaga anche su questo fronte negli altri Paesi europei ci si limita
a fermi casuali di veicoli che appaiono sospetti.
E le tecniche di questi “scafisti di terra” si affinano sempre di più, utilizzano camion con
targhe italiane e vetture insospettabili, come regolari van autorizzati al trasporto di
persone». Tre giorni fa tre veicoli con targhe italiane, con alla guida cittadini serbi, sono
stati fermati nel sud dell’Ungheria in una strada isolata di campagna mentre trasportavano
migranti: un’automobile di lusso, un van ed un piccolo furgone che trasportavano in totale
81 migranti, 69 siriani e 12 iracheni. All’indomani della scoperta dei 71 migranti trovati
morti su un Tir in Austria un altro passeur rumeno che guidava un van con targa spagnola
con a bordo 26 persone è stato fermato dalla polizia austriaca vicino al confine con la
Germania». «Per me sono dei passeggeri come tanti altri. Mi pagano per fare un viaggio
ed io lo faccio - dice un “autista” che gira spesso attorno al Cara di Mineo - . Nessun
tassista, prima di far salire a bordo un cliente, gli chiede il certificato antimafia o il
permesso di soggiorno. L’unica mia irregolarità è quella di non essere un conducente
autorizzato per il trasporto di passeggeri, ma tocca arrangiarsi».
Del 31/08/2015, pag. 14
Fra Colombia e Venezuela scoppia la “guerra
del cibo”
Emiliano Guanella
Il fiume Tachira, al confine fra la regione colombiana di Santander e il Venezuela, è da
dieci giorni il crocevia di immigrati in fuga e teatro di blitz di polizia ed esercito.
Centinaia di colombiani lo attraversano a piedi, con l’acqua fino alla vita, caricando quello
che possono; vestiti, elettrodomestici, effetti personali. Lasciano le loro case, mentre il
ponte internazionale Simon Bolivar, principale arteria di comunicazione fra i due Paesi, è
chiuso.
Frontiere chiuse
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha chiuso parte della frontiera come risposta a
un conflitto a fuoco tra gruppi di paramilitari colombiani e poliziotti venezuelani nella selva
lungo il confine. Secondo Maduro, i colombiani starebbero fiancheggiando l’attività di
paramilitari e narcotrafficanti facilitando il contrabbando e il passaggio di droga in
Venezuela. Più di mille colombiani sono stati deportati, molti altri hanno preferito
andarsene da soli. A La Invasion, sulle rive del fiume, la polizia venezuelana è passata
casa per casa per controllare i documenti degli abitanti e ha lasciato una «D» dipinta sui
muri delle case da demolire. Da parte colombiana sono partite le proteste e l’ex presidente
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Alvaro Uribe si è recato sulla frontiera per manifestare la propria solidarietà ai deportati.
L’attuale presidente Juan Manuel Santos ha scelto toni più prudenti, richiamando
comunque il proprio ambasciatore a Caracas.
Fin dai tempi di Chavez le relazioni fra i due Paesi hanno vissuto fasi alterne, ma la crisi in
corso sembra la più grave degli ultimi anni. «Il popolo colombiano non è il responsabile di
questa situazione – ha detto Maduro –, ma dobbiamo proteggerci contro la mafia
paramilitare e di narcotrafficanti guidata dall’oligarchia colombiana che fa capo ad Alvaro
Uribe». In Venezuela si voterà a dicembre per le parlamentari e il Paese è in una grave
crisi, con l’inflazione alle stelle e i prodotti alimentari che scarseggiano. A causa del calo
del prezzo del petrolio, responsabile per il 90% del Pil nazionale, le entrate del governo
sono crollate, le importazioni diminuite e non c’è giorno senza attacchi a camion con
alimenti o a supermercati. Il governo di Maduro accusa i colombiani di «contrabbandare» il
40% degli alimenti dal Venezuela alla Colombia e scarica la colpa delle penurie sul vicino.
Per l’opposizione venezuelana, Maduro sta cercando un nemico esterno per addossargli
le responsabilità di una gestione disastrosa dell’economia e distogliere l’attenzione della
gente sui problemi di tutti i giorni. Bogotà teme ora un’ondata xenofoba, considerando che
in Venezuela vive quasi un milione di immigrati colombiani. Maduro ha chiarito che la
frontiera rimarrà chiusa «fino a quando questi signori non impareranno a rispettare la
legalità». E così, mentre i primi deportati costruiscono baracche dall’altra parte della
frontiera, sul fiume Tachira continua l’esodo di chi se ne va temendo tempi peggiori.
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SOCIETA’
Del 31/08/2015, pag. 25
Il nuovo welfare? Di condominio
Spese collettive, baby sitter e badanti in comune, biblioteche Nei palazzi
di Milano, Torino, Bologna, le famiglie si organizzano
Mauro Pianta
Il welfare pubblico, strangolato dalla crisi, fa sempre più fatica ad erogare servizi? Lo Stato
sociale scricchiola? E noi, cittadini, ce lo facciamo (un po’) in casa. Anzi: in condominio.
Nel Belpaese, infatti, cominciano a spuntare, per esempio, palazzi in cui le famiglie
assumono tutte insieme una sola badante o un’unica baby sitter, chiamata a suddividere le
sue ore di lavoro tra più nuclei familiari facendo così risparmiare ai condomini un bel po’ di
soldi. Oppure capita sempre più spesso di imbattersi in gruppi di inquilini che fanno la
spesa collettiva ai mercati generali, anche qui con un bel vantaggio economico. E poi ci
sono famiglie che nei palazzi organizzano doposcuola e ripetizioni per i ragazzi in
difficoltà, biblioteche, micronidi, laboratori. A volte da sole, con le proprie forze, in altri casi
unendole a quelle del privato sociale o del pubblico. In questo modo si creano anche
occasioni per socializzare, si costruisce un senso di comunità tra inquilini. Qualcuno li
chiama «condomini solidali»: luoghi in cui si sperimenta l’aiuto reciproco sul modello di
quel «buon vicinato» che la rarefazione dei rapporti familiari e la frantumazione sociale
hanno reso un pallido ricordo.
Risparmio
Confabitare, un’associazione di proprietari di immobili, è stata tra i primi in Italia a proporre
la badante di condominio e a «testarla» inizialmente a Bologna in 53 stabili. «Noi – spiega
il presidente Alberto Zanni – istruiamo le signore selezionate e ci occupiamo della parte
legale. Ogni anziano o famiglia paga solo l’effettivo “consumo” di ore: in media 250 euro al
mese per due ore di lavoro al giorno, con in più il vantaggio di averla sempre presente
all’interno del palazzo. Le badanti hanno la sicurezza di lavorare tutto il giorno senza
perdere tempo negli spostamenti».
Sempre a Bologna sono molto diffusi i gruppi di acquisto condominiali. «Abbiamo iniziato
un anno fa – racconta Mirca Degli Esposti, un alloggio in un palazzo in zona San Donato –
e devo dire che funziona. Io e mio marito raccogliamo le ordinazioni, andiamo in un centro
dove si vendono frutta e verdura all’ingrosso risparmiando così fino al 50 per cento. Il
clima nel palazzo è migliorato: c’è molto più dialogo».
Quartieri difficili
I condomini solidali possono avere ricadute positive anche nei quartieri difficili. E’ il caso
dell’edificio di via Padova 36, a Milano, dove un esperimento di housing sociale in un
immobile d’epoca recuperato, sta diventando un punto di riferimento della zona. «Qui –
spiega Rossella Sacco, gestore sociale – grazie alla collaborazione tra pubblico e privato
sociale abbiamo creato alloggi con affitti calmierati per persone in difficoltà e per famiglie
selezionate e formate che si adoperano per gestire un mini welfare e un sistema di aiuto
tra inquilini. A questa platea abitativa, formata da italiani e stranieri, viene così offerto
supporto allo studio per ragazzi, cene nei cortili, attività culturali, spazi commerciali equosolidali, mostre e presto lanceremo pure il cinema all’aperto».
Qualcosa del genere, già dal 2008, accade anche a Torino, nel quartiere Mirafiori Nord, al
4 di via Romolo Gessi. Ai piani alti ci sono gli anziani che abitano in modo permanente
perché beneficiari di un alloggio popolare. Dal secondo piano in giù, i «temporanei»:
persone in difficoltà segnalate dai servizi sociali e che risiederanno non oltre 18 mesi. A
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prendersi cura di loro sono gli «affidatari»: quattro famiglie volontarie che assistono gli
ospiti e li aiutano nel loro percorso di emancipazione sociale e lavorativa. «Un’avventura
molto faticosa – osserva Andrea Torra, referente del progetto -, ma incredibilmente
feconda ed educativa: vivere fianco a fianco e portare i pesi gli uni degli altri fa crescere
l’umanità di tutti noi».
La biblioteca
E nell’effervescenza creativa del fai-da-te condominiale spicca il caso del milanese
Roberto Chiapella, riparatore di antenne tv in pensione, che nel 2013 ha dato vita alla
prima biblioteca – di fatto pubblica – in un condominio privato, in via Rembrandt 12. «Una
sera – racconta – ho visto dei libri gettati nel cassonetto a due passi da casa. Ho avvertito
una stretta al cuore e mi è venuta l’idea di utilizzare la vecchia stanza del portiere per
farne una biblioteca». Inizialmente aperta solo al palazzo, poi per tutti. Adesso i volumi
sono oltre 5 mila. «Ma il libro – avverte Chiapella - è stato solo uno strumento. Il mio
obiettivo era creare relazioni, incentivare rapporti veri, magari partendo proprio da un
romanzo…».
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CULTURA E SCIENZA
Del 31/08/2015, pag. 1-46
È morto il grande neurologo e autore di bestseller da “Risvegli” a
“Allucinazioni”. Aveva raccontato la sua malattia con coraggio e lucidità
fino all’ultimo momento
Oliver Sacks
L’uomo che scambiò la scienza per una
poesia
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Confesso che la notizia della morte di Oliver Sacks mi ha colto impreparato. Non perché
non avessi letto i suoi recenti articoli sulla malattia terminale che gli era stata
diagnosticata, ma perché alcuni indizi mi lasciavano sperare che la sua fine non fosse così
vicina. Ad esempio, compiendo ottantadue anni a luglio, aveva detto di temere che non
sarebbe arrivato al suo «compleanno al polonio»: l’ottantaquattresimo, cioè. E si poteva
immaginare che questo significasse che i dottori gli avevano dato la speranza di vedere
l’ottantatreesimo, «al bismuto». Sacks aveva infatti l’abitudine di festeggiare i compleanni,
suoi e altrui, con regali legati all’elemento chimico corrispondente all’età. Questa era una
testimonianza del suo amore per la tavola periodica degli elementi, che gli spettatori del
film Risvegli (1990) ricorderanno di aver visto in evidenza sul muro della camera del
dottore interpretato da Robin Wiliams, e basato su di lui. Una copia formato tascabile della
tavola la teneva sempre nel portafoglio, e me la fece vedere orgoglioso una volta che ne
parlammo. Un’altra stava sulla tenda della doccia nel bagno del suo studio. E alle pareti
delle varie stanze c’erano “orologi chimici”, con le ore indicate non da numeri, ma dai
simboli dei corrispondenti elementi. La chimica era il suo vero amore, infatti. Se n’era
innamorato da ragazzo nei modi descritti in Zio Tungsteno (2001), che aveva appunto
come sottotitolo “memorie di un’infanzia chimica”: forse il suo libro più originale, che
alterna capitoli autobiografici ad altri di storia della chimica. Come mi disse una volta il suo
grande amico Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica, al quale quel libro era
dedicato, non ci sono altri esempi di quel genere scientifico-letterario, a parte forse Il
sistema periodico di Primo Levi (1975). E non lo sono certo Le affinità elettive (1809) di
Goethe, che sarà anche stato un gran letterato, ma ogni volta che parlava di scienza
avrebbe fatto meglio a tacere. Il fatto è che a Goethe mancava una qualità che Sacks
possedeva e ammirava: la professionalità, stimolata dalla modestia e acquistata con il
sudore. Ad esempio, una volta mi raccontò ammirato che, prima di recitare in Risvegli,
Robert De Niro passò vari giorni nell’ospedale psichiatrico dove Sacks lavorava, per
studiare da vicino il comportamento dei malati catatonici. E una sera a cena, chinandosi
per raccogliere il tovagliolo che gli era caduto, Sacks notò che l’attore teneva i piedi storti,
come se fosse già abbandonato inerme su una sedia a rotelle.
Anche lui aveva la stessa professionalità, quasi maniacale. Nel suo studio mostrava
orgogliosamente gli scaffali che contenevano le versioni originali dei suoi libri, spesso tre o
quattro volte più lunghe dell’edizione a stampa: a testimonianza di un metodo di scrittura
“per riduzione”, alla Hemingway, che salva e pubblica soltanto la punta di un iceberg
sommerso e scartato. Un giorno che gli parlai di un mio libriccino su Darwin, scritto dopo
aver letto le opere principali del grande naturalista, lui mi regalò una copia dell’articolo I
fiori di Darwin (2008), che aveva appena terminato per la New York Review of Books , e
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mi fece vergognare indicandomi un’intera scrivania traboccante dei misconosciuti libri di
Darwin sull’argomento, che per l’occasione aveva letto da cima a fondo.
Molti dei suoi libri prendevano spunto addirittura da una conoscenza personale delle
malattie trattate, forse stimolata da una certa dose di ipocondria. Così sono Emicrania
(1970), Su una gamba sola (1984), L’occhio della mente ( 2010) e Allucinazioni ( 2012),
che uniti a Vedere voci ( 1990) e L’isola dei senza colore (1996) costituiscono una specie
di enciclopedia universale dei sensi e delle loro disfunzioni.
Ma le opere che hanno raggiunto il pubblico più vasto sono i casi clinici descritti come se
fossero racconti letterari, in uno stile che aveva pochi predecessori, a parte forse William
James, ma ebbe molti successori, a partire da Vilayanur Ramachandran. Si tratta, oltre
che di Risvegli (1973), soprattutto de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello
(1985), che divenne un’opera di Michael Nyman (1986) e una pièce teatrale di Peter Brook
(1993). Queste opere, unite alle precedenti, hanno fatto di Sacks un vero fenomeno
mediatico. Molti anni fa Sacks e Hoffmann combinarono i rispettivi poteri di attrazione e
misero in piedi a New York un “caffè scientifico” al Greenwich Village. Da allora, una sera
al mese scienziati e umanisti si incontrano per sentire una conferenza- spettacolo su un
tema a cavallo tra le due culture. Ricordo che una sera, alla cena dopo l’evento, chiesi alla
persona vicino a me chi fosse il signore coi baffi che stava parlando all’altro lato del tavolo.
La risposta fu: «Boh, qualche premio Nobel». Si trattava effettivamente del biologo Harold
Varmus, e poiché c’era anche Hoffmann, ne approfittai per domandare se secondo loro le
leggi della fisica fossero sufficienti a determinare la struttura geometrica tridimensionale
delle molecole: l’immediata risposta del primo fu «ovviamente sì», e l’altrettanto immediata
risposta del secondo «ovviamente no», con gran divertimento dei presenti, Sacks
compreso. In realtà, mentre Hoffmann era sempre presente, Sacks partecipava
raramente. A parte i suoi impegni, evitava gli incontri pubblici anche per la sua proverbiale
timidezza, che unita alla patologia incapacità di riconoscere le facce lo metteva a disagio
di fronte alla gente. Ricordo che la prima volta che lo incontrai, il 25 settembre 2005, lui
stava appunto defilato e quasi spaurito, e fu impacciato nel parlare con uno sconosciuto.
L’ultima volta è stata ad agosto dello scorso anno, quando ancora non sapeva di avere il
cancro, ma si descriveva ormai come «mezzo sordo, mezzo cieco e mezzo zoppo». Gli
dissi che avevo appena letto Allucinazioni , e mi sarebbe piaciuto ci fossero stati più
riferimenti religiosi nel libro. Lui rispose che in genere evitava quel tipo di argomenti
sensibili, ma non aveva potuto trattenersi dallo stroncare il libro del neurobiologo Eben
Alexander sulle sue supposte esperienze di “quasi morte”, nell’articolo Vedere Dio nel
terzo millennio (2012). Quando gli chiesi se avrebbe avuto voglia di tornare in Italia, mi
rispose che gli sarebbe piaciuto andare all’acquario di Napoli. Ma non come uomo, bensì
come pesce: con i suoi problemi di deambulazione, di vista e di udito, sarebbe stata una
liberazione. E scherzava solo in parte, visto che nuotava ancora per un paio di chilometri
nell’Hudson. Sul divano aveva un centrino con un polpo ricamato, e quando gli chiesi
spiegazioni ricordò che i polpi hanno 5 miliardi di neuroni, a fronte dei nostri cento miliardi,
e sono animali intelligenti: per questo aveva smesso di mangiar-li, insieme a seppie e
calamari. Gli ho scritto l’ultima volta il 20 agosto per ringraziarlo del pezzo che era uscito
quella mattina su Repubblica , e più in generale per gli articoli sulla sua malattia. Gli dissi
che mi sembravano ancora più pregnanti degli scritti di Lucrezio o Marco Aurelio, perché
riuscivano a combinare il loro epicureo o stoico coraggio nei confronti della morte con il
suo appassionato amore per la vita. E azzardai la previsione, che qui ripeto, che possano
diventare il suo contributo più significativo alla nostra cultura, così incapace di affrontare la
morte.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 31/08/2015, pag. 8
La riforma
E’ trascorso mezzo anno dal varo dell’insieme di misure pensate per
rivitalizzare l’occupazione: un bilancio con luci ed ombre mentre
restano ancora al palo quattro decreti attuativi
Primi sei mesi di Jobs Act disoccupazione
giovanile ancora a quota record Ma crescono
i contratti stabili
VALENTINA CONTE
ROMA. Sei mesi di Jobs Act. O meglio, sei mesi con il nuovo contratto a tutele crescenti, il
cuore della riforma del lavoro del governo Renzi. Come vanno le cose? Non benissimo. Il
tasso di disoccupazione dei giovani è al massimo storico: 44,2%. Il tasso di occupazione
dei giovani è al minimo storico: 14,5%. Così anche in generale: giù l’occupazione al
55,8%, su la disoccupazione che ora viaggia al 12,7%, dopo aver sfiorato il 13% record a
novembre. Nel mese di giugno - ultimi dati Istat a disposizione, domani arrivano quelli di
luglio e del secondo trimestre si sono persi 40 mila posti sull’anno prima e aggiunti 85 mila
disoccupati. Questa la fotografia.
Demerito del Jobs Act? Difficile sostenerlo, con un Pil che si affaccia solo da qualche
mese al segno più, stagnando allo zero virgola (+0,2% nel secondo trimestre, +0,7%
atteso per l’anno). Consumi, investimenti, produttività: nulla tira. Non come dovrebbe per
rianimare il lavoro. Nessun demerito, dunque. Ma neanche rimedio, a leggere i dati, a sei
mesi dall’entrata in vigore del primo degli otto decreti attuativi (gli ultimi quattro sono attesi
in settimana). Era il 7 marzo scorso e in Italia nasceva il nuovo contratto a tempo
indeterminato senza articolo 18. Accompagnato da uno sgravio (già in vigore da gennaio)
senza precedenti: zero contributi e zero Irap. Eppure il quadro è quello dell’Istat.
Un quadro di stock: quanti occupati e disoccupati in un dato periodo. Spesso contrapposto
specie dalla comunicazione politica, se più favorevole - all’altro di flusso di Inps e ministero
del Lavoro che invece registrano contratti attivati e cessati. Nessun conflitto, entrambi
raccontano pezzi diversi della stessa storia. Se un giovane viene stabilizzato, dunque
passa da un contratto a termine al tutele crescenti, per ministero e Inps è un +1, mentre
per l’Istat è zero (lavorava prima e lavora ora). Dire dunque, come fatto dal ministero del
Lavoro la settimana scorsa ( pasticciando sui dati, poi corretti) che nei primi sette mesi
dell’anno sono stati creati 117 mila contratti a tempo indeterminato e 210 mila
trasformazioni ( il 40% in più sul 2014) non significa che il tasso di occupazione si
impenna. Piuttosto che il lavoro nuovo cambia pelle: un po’ meno precario, un po’ più
stabile (ma senza articolo 18). Non era questo però l’obiettivo del Jobs Act. «Renzi l’ha
lanciato dicendo: le imprese non hanno più alibi. Ma per assumere, non per creare
contratti meno precari», ragiona Michele Tiraboschi, ordinario di diritto del lavoro
all’università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico di Adapt. «Dopo quattro
leggi sul lavoro negli ultimi quattro anni, non se ne sentiva bisogno del Jobs Act.
L’emergenza era ed è aumentare l’occupazione. In Italia lavorano solo 55 persone su 100,
in Germania e Inghilterra 80. In questo, la riforma è fallita. Come pure sulla flexsecurity. La
promessa era: se perdi il posto, vieni ricollocato. Invece si è tolto l’articolo 18 senza
costruire la sicurezza sul mercato del lavoro. Vogliamo parlare dell’abuso di stage e lavoro
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nero? E poi l’imprenditore ora può fare quello che vuole: prende gli sgravi, licenzia
pagando quattro mensilità, controlla a distanza e demansiona ». Non la vede così il
senatore pd Pietro Ichino: «L’aumento dell’occupazione potrà venire solo da un aumento
degli investimenti - soprattutto esteri - e dei consumi, che nessuno può attendersi nel giro
di pochi mesi dall’entrata in vigore di metà della riforma. Riforma che sta mutando in
meglio la qualità dell’occupazione: per la prima volta, dopo due decenni di auspici e
discussioni, si sta facendo qualcosa di serio e di efficace per superare il dualismo tra
protetti e non protetti nel mercato del lavoro».
Critici i sindacati. Anche il più aperto, la Cisl che il 12 dicembre scorso si sottrasse allo
sciopero generale contro il Jobs Act, indetto da Cgil e Uil. «Aspettiamo al varco il governo
sulle politiche attive», sospende il giudizio Gigi Petteni. «Se perdo il lavoro, non devo
essere più solo. Su questo siamo preoccupati, visto che non si parla di risorse. Ma
possibile fare politiche attive senza soldi? ». In sintonia, Guglielmo Loy, Uil: «Oltre 11
miliardi per la decontribuzione, zero per le politiche attive.
Bene che si abbassi il costo del lavoro, ma così rimane solo la flessibilità in uscita. E
poi?». «L’unico effetto tangibile del Jobs Act - analizza Serena Sorrentino, Cgil - deriva dal
bonus previsto in legge di Stabilità. Dopodiché, la precarietà non si riduce: i contratti a
tempo indeterminato sono fermi al 15%, mentre 2 su 3 in media durano 4 giorni. Solo le
collaborazioni diminuiscono, ma quante finiscono nelle partite Iva? Non lo sappiamo,
perché nessuno le monitora. La Naspi poi penalizza i lavoratori discontinui, specie gli
stagionali. E i diritti di tutti sono ridotti. Ecco il Jobs Act».
Del 31/08/2015, pag. 25
LA SOLITUDINE DEL SINDACATO
ILVO DIAMANTI
MA A cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache
degli ultimi mesi.
DELLE ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con
frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio
Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: «Il sindacato in Italia è stato
mediamente un fattore di ritardo» che ha ostacolato «l’efficienza e la competitività
complessiva del Paese». Motivo della critica: la vicenda dell’Electrolux, dove i dipendenti
hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell’azienda, nonostante il rifiuto dei
rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il
sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri
leader, più “rappresentativi” di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in
conflitto con la Fiom, ha dichiarato che «il posto fisso non esiste più». E, implicitamente,
hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno,
spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di
peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl,
Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese. Conseguenti a uno stipendio salito,
negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri
dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco…) “esagerate”. Il segretario nazionale dei
pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l’anno. Tutto regolare,
sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi “magri” per i lavoratori. E i
pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista
veronese “colpevole” di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso – lui, non i
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dirigenti ultra pagati la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza,
vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di
militanza, comunica, pubblicamente: «Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione
alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho
conosciuto, perché ce n’è bisogno». Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale,
Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale
promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora,
Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto “mediatico”. Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il
gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di
credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota
di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13
punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è
passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d’opinione
peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia
verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D’altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego
privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti.
Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego
privato non sono facilmente verificabili. Tuttavia, ciò non dipende solo dall’in-capacità del
sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società.
Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati.
Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile.
Insomma, non c’è più “un” tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori
“atipici”. E “atopici”. Senza un “posto” fisso. Presso i quali il sindacato “attecchisce” a
fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il
ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo
indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il
16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia:
dal 10% al 36%. Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il
sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi
dirigenti. Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi. Perché il sindacato è “servito” a
tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi,
hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così.
Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei “diritti”, posta da un grande
leader sindacale come Bruno Trentin, – ha osservato Bruno Manghi – è «brandita per la
difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui». Ma a quel punto “i diritti”
perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli “esclusi”, ma anche
per il sindacato. Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il
“sindacato degli imprenditori” ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2%
registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione
“Confindustria” i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si
sono allargate anche all’interno. Molte imprese – soprattutto le più grandi - si “tutelano” e
si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. «Il tempo è
scaduto anche per Confindustria», ha affermato Alessandro Barilla due anni fa.
Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno. Perché, nell’epoca dei partiti
personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader “soli” e
da “soli”: la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i
cittadini ancora più “soli”. Più lontani dalla politica e dalle istituzioni. Così, senza
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mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore. Una
parola in-significante.
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