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STORIA BREVE DELLA STRADA E DEI TRASPORTI
L’ANTICHITA’
Riesce oggi impossibile pensare non soltanto ad un qualsiasi sistema di comunicazione, ma
addirittura al concetto stesso di civiltà, senza la ruota. Dagli utensili del vasaio all’orologio, dalla
locomotiva all’aereo, il moto rotatorio ci appare come elemento fondamentale di ogni attività
umana. L’invenzione della ruota costituì la risoluzione di uno dei più difficili problemi
dell’umanità. La ruota non si trova in natura: è una figura geometrica e come tale richiede, per
essere tradotta nella realtà, una matura riflessione.
L’invenzione della ruota si perde nella notte dei tempi: é probabilmente il risultato di lunghe
osservazioni e laboriosi tentativi di intere generazioni di uomini che acquistano sempre più
coscienza delle loro possibilità di costruirsi strumenti.
La prima ruota é costruita ad Ur, in Mesopotamia, intorno al 3250 a.C. per un uso
probabilmente artigianale. La ruota infatti serve inizialmente non a muovere slitte, bensì al vasaio
per produrre meccanicamente quello stesso vaso che prima, modellato a mano, gli costava molto
tempo e fatica. Con l’uso di un perno su di una ruota in movimento e aiutandosi con il palmo della
mano, il vasaio riesce a modellare vasi levigatissimi e perfettamente simmetrici. In seguito, la ruota
permette la costruzione del primo carro da guerra e il primo carro funebre.
Ma presto l’uomo capisce che può applicare la ruota al più antico mezzo di trasporto, la slitta
(primo veicolo terrestre, 5.000 a.C.). Dopo il 2000 a.C. la primitiva e rozza slitta su ruote evolve e
sempre in Mesopotamia, appaiono i primi carri a due e a quattro ruote con il cassone sormontato da
sponde. Fra il 2000 e il 1000 a.C. il carro inizia il suo lungo cammino per il mondo, lo ritroviamo
ovunque tra la valle dell’Indo e l’Egitto. A contatto con così varie e parallele civiltà il carro non può
non evolversi ulteriormente: infatti proprio in questo periodo assume le sue linee fondamentali. Con
poche, intelligenti aggiunte, lo si perfeziona in un comodo mezzo per il trasporto delle persone,
snellendolo ed alzandone i bordi anteriori.
L’invenzione della ruota, e conseguentemente l’adozione del carro, segna l’inizio di due importanti
rivoluzioni: il definitivo addomesticamento del cavallo e la creazione della strada, avvenimenti
che diedero un contributo essenziale allo sviluppo degli scambi commerciali e della civiltà in
genere.
Parliamo della comparsa della strada a superfici preparate, una delle più importanti conseguenze del
diffondersi del trasporto su ruote. Le prime strade sono costituite dalle piste che i grossi pachidermi
preistorici tracciano al loro passaggio nelle boscaglie. Lungo queste piste, che segnalano la presenza
della selvaggina, cioè del cibo, avvengono le battute dei cacciatori dell’antichità.
Intorno al 1100 a.C. abbiamo la prima testimonianza della costruzione organizzata di strade. Un re
assiro eterna in una epigrafe la propria riconoscenza all’esercito per aver scavato una strada con
picconi di bronzo e aver reso possibile il passaggio del suo cocchio e delle sue truppe. Un re
babilonese (670 a.C.) stabilisce che si debbano tracciare strade attraverso il regno onde rendere più
attivo il commercio con tutti i popoli vicini. Strade se ne costruiscono in Grecia e in Egitto; con un
sistema molto più organico ed organizzato, in Persia. I Persiani, infatti, coll’estendersi del loro
impero su gran parte del vicino Oriente, affrontano organicamente il problema delle strade in modo
da permettere ai loro funzionari un rapido collegamento con il potere centrale. Piste di terra battuta
o talvolta lastricate congiungono varie località: la più lunga unisce Susa, la capitale, a Sardi sul
Mare Egeo, superando una distanza di 2500 km. Corrieri del re percorrono normalmente l’intero
percorso in quindici giorni. Anche le strade persiane come quelle assire, babilonesi e britanniche
sono difese. Nel Medio Oriente persiano stazioni di sentinelle si trovano ogni 25 km. Sappiamo
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infine che corrieri a cavallo riescono a coprire 160 km al giorno sulla pista che congiunge Susa a
Babilonia. Si deve giungere a Napoleone per trovare corrieri più veloci!
Ma la più antica e sotto molti aspetti la più ammirevole rete stradale del mondo antico é
indubbiamente quella cinese. Già prima del 1000 a.C. tutto il Paese é collegato mediante strade
sorvegliate e ogni 20-25 km vi sono stazioni di posta con alloggiamento per i viaggiatori. Sotto la
dinastia Chou (1122-256 a.C.) si ha il primo esempio di codice della strada. Quegli imperatori sono
costretti ad emanare una serie di disposizioni intese a regolare il traffico agli incroci, a limitare la
velocità e ad imporre una scala uniforme di grandezza dei veicoli.
La rete stradale cinese costituisce un esempio unico nella storia dell’umanità e non ha riscontro che
nella perfetta organizzazione stradale degli Incas, di epoca molto posteriore. In Occidente, invece,
non esistettero prima dei Romani strade efficienti ed organicamente sviluppate.
Nessuna delle pur grandi civiltà mediterranee dell’antichità ebbe una vera, autentica politica
stradale ad eccezione di Roma. Il motivo risiede nel fatto che centro motore delle civiltà persiane,
assire, babilonesi ed egiziane era naturalmente il Mediterraneo, dall’Impero persiano ad Atene, da
Alessandria a Costantinopoli, e perciò la più naturale via di comunicazione apparve il mare. I
Romani invece furono i più grandi costruttori di strade che la storia antica annoveri unendo,
in una fitta trama, ogni località dell’Impero a Roma. Per oltre 500 anni della loro storia, dal 300 a.C.
al 250 d.C. costruiscono strade, sistematicamente, strade che si differenziano da tutte le altre
dell’antichità sia come grandiosità di concezione sia come abilità tecnica. L’ingegneria stradale
romana giunge ad un livello altissimo: lo dimostrano la via Appia, la via Flaminia e le tante altre
che costituiscono un efficientissimo sistema di collegamento tra il governo centrale e gli organi
amministrativi periferici, oltreché uno strumento insostituibile di scambi e di commerci. Una rete di
servizi, dislocati ogni sei o sedici miglia romane, sono al servizio esclusivo dei funzionari
governativi onde permettere loro di viaggiare con assoluta sicurezza e con la massima velocità.
Ogni sei miglia sono dislocate stazioni di posta per il cambio dei cavalli. Ogni venti-trenta miglia vi
sono ostelli dove i viaggiatori trovano di che rifocillarsi e un tetto per riposare; circondati da
palizzate e fossati, sono vere e proprie fortezze, poste nelle località più remote dell’Impero. Anche i
ponti romani, che a più di duemila anni di distanza resistono ancora all’azione delle intemperie e
sopportano egregiamente il peso ed il volume del traffico moderno, sono uno dei documenti più
importanti del genio architettonico dei romani.
L’ETA’ FEUDALE
I secoli che vanno dalla caduta dell’Impero Romano al 1000 – 1100 d.C. si sogliono denominare
prima età feudale. Essa é caratterizzata da un fenomeno in assoluto contrasto con l’epoca
precedente: la mancanza di strade. Le poche vie romane abbandonate a se stesse, cadono in
rovina. Gli antichi ponti, resi malsicuri dalle intemperie e dalle alluvioni, diventano impraticabili e
nessuno si preoccupa di riattivarli. Del resto non sono più così importanti: non esistono centri che
ragioni strategiche o commerciali impongano di collegare tra loro né esiste più una capitale.
Economia e difesa si spezzettano e ogni castello, ogni villaggio, ogni gruppo di capanne diventa
un mondo a sé, fine a se stesso. Non per questo la vita è statica. Contrariamente a quanto si può
supporre, l’Europa feudale é un enorme formicaio attraversata per ogni dove da re, cavalieri,
frati e avventurieri. La mancanza di strade, l’insicurezza, la scarsità di informazioni, le guerre, le
carestie, i contagi fanno sì che i viaggiatori seguano di volta in volta itinerari diversi, di villaggio in
villaggio, di casolare in casolare, da castello a castello. Nessuno può pensare di governare un regno
o una contea dal proprio palazzo; sarebbe stato il disgregamento della regione e la fine immediata
della propria autorità. Il mercante è costretto a vagabondare per vendere o acquistare i suoi prodotti,
non potendo mai trovare in un unico luogo sufficienti clienti per i suoi prodotti. Si viaggia a
cavallo o, molto più spesso, a piedi. Un buon camminatore, sufficientemente pratico dei luoghi,
percorre una quarantina di chilometri al giorno: le comunicazioni perciò sono assai lente.
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Improvvisamente, dopo il 1050, passata la grande paura dell’anno mille (che in realtà dura una
quindicina di anni data la scarsissima conoscenza del calendario ed il vago ed impreciso conteggio
degli anni) una ventata di rinnovamento, un nuovo ardore vitale scosse dalle fondamenta la
società europea. Si costruiscono, o si ricostruiscono, le strade principali; si innalzano ponti, prima in
legno, poi in pietra quindi in ferro; la moneta lentamente riprende l’antica posizione di dominatrice
degli scambi. Poco a poco il carro, sostituendo il mulo e il cavallo, torna ad essere il mezzo di
trasporto più comodo. Si tratta di rozzi cassoni trainati da buoi o da cavalli, i progressi non sono
molti rispetto agli antichi esemplari romani, ma lo spostamento delle merci e delle persone diventa
più agevole, più sicuro, più rapido. Le strade congiungono i popoli, aprono nuovi orizzonti: la
maggior disponibilità di braccia favorisce l’agricoltura e l’artigianato. Sorgono case, chiese,
castelli. Mute di cavalli di ricambio tornano ad attendere in ogni contrada principi e vassalli.
Apparvero le prime carrette postali. Ma la straordinaria ripresa del carro si deve soprattutto ad una
notevole innovazione nel sistema di traino. L’attacco mediante cinghie di cuoio applicate alle
spalle dell’animale, anziché al collo, la razionale distribuzione del peso, rendono infinitamente più
efficiente il traino, influendo positivamente sul rendimento dell’animale e quindi sulla sicurezza del
viaggio.
LA CARROZZA
Con il miglioramento delle strade, il carro medievale si trasforma e cominciano ad apparire (1300)
le prime eleganti carrette impiegate dall’alta nobiltà. Il cassone del carro, però, poggia ancora
direttamente sugli assi delle ruote e subisce continui scossoni che rendono estremamente scomodi i
viaggi. Solo verso la metà del 1400 giunge dall’Ungheria un nuovo tipo di carrozza, denominata
cocchio (da Kocsi, vicino a Buda), che presenta la “sospensione”, ossia la carrozzeria é sospesa al
telaio mediante catene e cinghie. L’innovazione, che costituisce la prima forma di comfort nei
viaggi su strada, ha enorme fortuna e contribuisce in misura notevole alla diffusione della carrozza.
Essa entra prepotentemente nella storia del costume e della moda dei secoli successivi (1500 e
1600). Si vedono carrozze intarsiate di argento e d’oro, rivestite internamente di velluti, damaschi,
tappeti di grande valore; altrettanta cura é posta nella scelta dei cavalli (equipaggi).
Nel 1600 le carrozze perdono lo sfarzo che le ha caratterizzate fino a quel momento, ma acquistano
in solidità, semplicità, funzionalità, e cominciano a diffondersi i prodotti dei carrozzai inglesi. I
celebri cab, leggeri, maneggevoli e confortevoli, si diffondono in tutti i Paesi d’Europa e
d’America. Intorno al 1670 acquista grande notorietà la “berlina”, carrozza a quattro ruote con
finestrini a vetri, chiamata così perché il modello originale era stato appositamente costruito per il
Principe Elettore di Brandeburgo, in occasione del suo viaggio a Berlino. Dalla fine del ‘700 a tutto
l’800 sono in uso molte carrozze, quasi tutte di origine inglese, come il “tilbury”, vettura molto
leggera a due posti; il “landau”, che prende il nome dalla carrozza costruita per i viaggi di re
Giuseppe da Vienna a Landau, in cui la sospensione a molle della carrozzeria é ricoperta da due
mantici apribili; l’Empire”, a forma di culla.
Viaggiare é comunque lento e faticoso. Nel 1600 per compiere un tragitto di 500 km occorre un
mese; un secolo dopo, due settimane. Da Parigi a Lione, km, 6 giorni; da New York a Philadelphia,
con una carrozza a quattro cavalli, 36 ore.
A Parigi, nel 1650, nasce il primo servizio regolare di vetture pubbliche a cavalli. L’iniziativa
era dovuta ad un certo Nicolas Sauvage che inaugura un servizio per il trasporto di passeggeri dalla
capitale al santuario di Saint-Fiacres de Brie. Le carrozze adibite a questo servizio si chiamano
appunto fiacres perché il Sauvage vi fa dipingere sopra l’immagine del santo, e con questo nome,
rimasto nell’uso (“fiaccheraio”) sono battezzate le vetture da piazza anche fuori dai confini della
Francia. Ben presto quindi lungo le principali strade d’Europa cominciano a comparire le stazioni
di posta, accoglienti edifici forniti di locanda e di stalla, in cui, come nell’antichità più remota, si
provvede al cambio dei cavalli, si permette una sosta ai viaggiatori per rifocillarsi e sgranchirsi le
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gambe, si consegna e si ritira la posta. Non sono certamente viaggi molto comodi, per le pessime
condizioni delle strade, la scomodità delle vetture, con poco spazio per i viaggiatori, la lentezza del
cammino. In più vi era un altro motivo di grande ansia e preoccupazione: il brigantaggio, una vera
e propria piaga sociale che sconsiglia i viaggi nelle contrade desertiche o malfamate, e che costringe
molto spesso le diligenze ad assoldare scorte armate con l’incarico di proteggere i passeggeri e il
carico dagli attacchi dei briganti.
Nonostante questi seri inconvenienti, le diligenze percorrono sempre più numerose le strade nel
mondo tanto che nel 1657 si impone il primo regolamento delle vetture da piazza. Cinque anni più
tardi (1662) appare, sempre a Parigi, il primo omnibus, grande carrozzone a più posti adibito al
servizio urbano, da un’idea di Blaise Pascal, ma non incontra successo. Mancainfatti ancora la
necessità di spostarsi all’interno delle città su percorsi fissi, perché ancora non esistono grandi
agglomerati industriali: l’idea attecchisce quando tutto questo si verifica, a partire da un secolo
dopo. Nel 1836, per esempio, 100.000 persone al giorno, a Parigi, utilizzano le carrozze omnibus, a
percorso fisso. Nel 1887, a Londra, si inaugura il primo metro elettrico.
Nel 1801, quasi centocinquanta anni dopo la sua comparsa in Francia, il “fiacre”, o vettura a nolo,
fa il suo ingresso ufficiale anche in Italia, a Milano, dove è aperta una rimessa di vetture a cavallo
che svolgono il servizio urbano. L’iniziativa ha successo e il “fiacre” si diffonde in breve tempo in
tutta la Penisola. Già alla fine del seicento é inventato il “differenziale” (il dispositivo che collega
l’albero di trasmissione ai semi assi e in curva aumenta il numero di giri delle ruote esterne) e di
vari ingegnosi sistemi di frenatura che migliorano il comfort e la tenuta delle vetture. Alla fine del
1700 migliorano anche le strade. L’ingegnere scozzese Mac Adam (1756-1836) inventa un nuovo
tipo di pavimentazione stradale che da lui prese il nome di “macadam” e che tuttora trova impiego
nella costruzione delle strade moderne. Mac Adam capisce che il grande nemico delle strade è
l’acqua. Per ovviare a questo inconveniente, stabilisce che le strade debbano essere leggermente più
alte del suolo circostante, e presentare una arcuatura “a schiena d’asino”, che permetta facilmente
il defluire dell’acqua piovana; inoltre usa nella pavimentazione un materiale ricavato dalla pietra
frantumata che offriva una maggiore resistenza all’usura provocata dagli agenti atmosferici.
Ma quando si impone all’attenzione dei governi il problema del radicale rinnovamento delle reti
stradali nazionali e sembra che nessun ostacolo impedisca ormai la massiccia espansione delle
diligenze e delle carrozze per le vie del mondo, cominciano a profilarsi sulla ribalta dell’attualità
alcuni strani e fragorosi veicoli, simili a carrozze ma sprovvisti di cavalli, che si muovono lungo
binari lasciando dietro di loro una grande nuvola di fumo. Sono le prime locomotive a vapore che si
sarebbero rivelate, in un tempo relativamente breve, le mortali nemiche delle gloriose carrozze a
cavalli.
LA LOCOMOTIVA
Già nel 1690 Denis Papin aveva realizzato la prima macchina a vapore. Nel 1769 il francese
Nicolas Cugnot costruisce un fardier a vapore, primo veicolo al mondo in cui, utilizzando l’energia
del vapore, il moto verticale dei pistoni si trasforma in moto circolare. In quegli anni sono tanti gli
scienziati che iniziano a progettare e a sperimentare a applicando i principi e sfruttando le scoperte
dei secoli precedenti sul vapore. Un tale Richard Trevithick, inglese, il giorno di Natale del 1800
aveva osato avventurarsi per le strade del suo villaggio con uno sbuffante e rumoroso veicolo
suscitando non soltanto il terrore dei concittadini ma attirandosi perfino sospetti di stregoneria.
L’inglese non si limita a questa apparizione: egli perfeziona la sua macchina e soprattutto ha l’idea,
nel 1808, di farla correre su rotaie (che erano state inventate per lo scorrimento dei vagoncini di
carbone all’interno delle miniere). Il trionfo di Trevithick é però breve: nessuno ripone fiducia in
quel mostro d’acciaio, troppo delicato, che perde pezzi e bulloni cammin facendo; che frantuma le
rotaie di legno ed ammorba l’aria con esalazioni di fumo. Ma il seme é gettato. Lord Rawnsworth,
un industriale tra i principali azionisti della miniera di Killingworth, nel Northumberland, decide di
finanziare un proprio operaio – un certo George Stephenson – quando questi gli propone nel 1814
di costruire una locomotiva. Si tratta di una locomotiva a vapore, la Blucher, del peso di 6
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tonnellate che compie le prove di collaudo trainando un carico di 30 tonnellate di carbone ad una
media di oltre 6 chilometri l’ora. Essa presenta una importante innovazione: tutte le ruote sono
collegate mediante catene, cosicché tutti gli assi partecipano alla trazione. In questo modo é risolto
il grande problema dell’aderenza ruote-binario che aveva afflitto i primi macchinari. L’anno
seguente, in una seconda locomotiva, Stephenson sostituisce le catene con un meccanismo di
collegamento realizzato con bielle. Nel 1823 il geniale inventore apre al servizio pubblico la linea
ferroviaria congiungente la cittadina di Stockton con il distretto minerario di Darlington. Si
costruisce una strada ferrata lunga 61 km. Il 25 settembre 1825, data memorabile nella storia dei
trasporti, il primo treno passeggeri della storia comincia a muoversi sbuffando e sferragliando
faticosamente tra la incredula ammirazione dei presenti, trainando trentacinque vecchie diligenze,
sei vagoni carichi di ferro e di carbone, ventun carrozze con quattrocento passeggeri, alla velocità di
venti chilometri all’ora. E’ un autentico trionfo, il cui clamore si diffonde in tutta l’Inghilterra e che
contribuisce a dissipare definitivamente tutte le incertezze che la locomotiva aveva sollevato al suo
apparire. Il 16 settembre 1830 è inaugurata la prima linea ferroviaria del mondo, la LiverpoolManchester. I tradizionali mezzi di trasporto subiscono, ad opera del “mostro infernale”, ossia
della ferrovia, un colpo mortale. Tanto per fare un esempio, delle trentacinque vetture a cavalli che
garantivano quotidianamente il collegamento tra le città di Liverpool e Manchester ne sopravvive
una sola. Le prime ferrovie sviluppano una velocità di circa 20 km/h, e sono dunque molto più
rapide delle carrozze di posta a cavalli. Certo, vi sono ostacoli di ogni genere e tenaci opposizioni
(per esempio da parte di coloro i cui terreni venivano espropriati, o degli esercenti i servizi a
cavallo). Ma nel 1850 la Francia ha già 4.000 km di strade ferrate, la Germania, 6.000, la Gran
Bretagna 10.500, gli Stati Uniti 15.000. La prima linea ferroviaria italiana è inaugurata il 3 ottobre
1939: collega Napoli con il porto di Granatello presso Portici, per una lunghezza di circa 8 km.
Questa realizzazione risveglia anche in Italia uno straordinario interesse verso il nuovo mezzo di
locomozione, e negli anni successivi sono costruiti molti altri tratti.. Le ferrovie in Italia sono però
realizzate senza una precisa ragione o funzione economica o politica: rappresentano soltanto un
costoso divertimento che serve a collegare le grandi città con celebri località di villeggiatura. E’
soltanto con la creazione della “Società delle Ferrovie Meridionali” che la situazione cambia
radicalmente. In pochi anni esse dotano di linee l’intero territorio della penisola e l’Italia può
contare su un sistema ferroviario moderno che collega rapidamente tutte le grandi città, superando
ostacoli naturali non indifferenti e recando un contributo incalcolabile alla effettiva unità
d’Italia. Alla fine del 1800, a Italia ormai da decenni unita, si scrisse: “Se il moto unitario del
1860…ha potuto avere consistenza e vitalità ciò è dovuto all’impulso di un fatto assolutamente
artificiale, all’efficacia di una causa esclusivamente tecnica: le ferrovie. Gli ingegneri, i costruttori e
gli operai valsero, per l’Unità d’Italia, non meno dei martiri, degli statisti e dei soldati”.
Negli Stati Uniti la diffusione delle ferrovie assume sviluppi giganteschi. Se in Europa le strade
ferrate servono ad accelerare gli scambi e ad incrementare i traffici, nel Nuovo Mondo
rappresentano l’inarrestabile marcia della civiltà che colonizza le sterminate pianure della prateria,
abitate soltanto da Indiani e percorse da immense mandrie di bisonti. La prima linea civile entra in
funzione nel 1830, la Baltimora-Ohio. Da allora la ferrovia si diffonde sul continente americano con
impressionante rapidità. Nel 1840 gli Stati uniti contano ben 4.500 km di binari; nel 1850, come si è
visto, 15.000 km, nel 1914 la rete ferroviaria americana ha raggiunto uno sviluppo complessivo di
415.000 km superando di gran lunga tutti i sistemi ferroviari europei, Russia compresa, messi
insieme. L’impresa più straordinaria é la costruzione della prima linea transcontinentale, terminata
il 10 maggio 1869. Arrivano anche i perfezionamenti. Il treno supera per la prima volta i 100 km/h
(1855); George Westinghouse inventa il freno ad aria compressa; George Pullman realizza delle
carrozze particolarmente lussuose e curate, che battezza con il suo nome.
Uno dei principali ostacoli alla diffusione della ferrovia è costituito dalla natura stessa, per
esempio le montagne. Soprattutto all’Italia, separata dal resto dell’Europa dall’imponente arco
alpino, si presenta con drammatica urgenza la necessità di collegare, attraverso un traforo, le sue
linee ferroviarie con quelle francesi, rischiando altrimenti l’isolamento economico commerciale. Un
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modesto funzionario doganale, certo Médail, profondo conoscitore delle Alpi Cozie, indica il punto
più adatto al traforo nel colle del Fréjus, tra Modane e Bardonecchia. L’opera é possibile grazie ad
una geniale invenzione italiana, la perforatrice ad aria compressa, ideata dagli ingegneri
Sommeiller, Grattoni e Grandis. I lavori durano tredici anni; la galleria, che costa la vita a 48
operai, é ultimata nel 1870. Dopo il Fréjus é la volta di un altro grande traforo alpino, quello del
San Gottardo, lungo 15 km, ultimato nel 1880. Infine nel 1898 iniziano gli scavi della galleria del
Sempione di oltre 19 km. Nel frattempo si procede all’elettrificazione delle ferrovie. Già intorno al
1880 in Germania e in America si studia la possibilità di utilizzare per la trazione ferroviaria
l’energia elettrica al posto del vapore; ciò avrebbe permesso un sensibile risparmio nelle spese di
produzione e di esercizio e al tempo stesso una riduzione del peso morto rappresentato dal motore
che nelle locomotive a vapore è praticamente il triplo dei motori elettrici. Le difficoltà non
mancano: infatti mentre per l’elettrificazione delle reti tramviarie urbane si giunge ad una rapida
soluzione adottando per l’alimentazione una corrente continua a tensione piuttosto bassa (500
volts), l’applicazione dello stesso tipo di corrente alle linee ferroviarie a lungo raggio fa registrare
un dispendio notevolissimo d’energia che rende proibitivo l’esercizio delle linee elettriche.
Inizialmente si adotta per l’alimentazione dei locomotori elettrici una corrente alternata (3000
volts), in seguito si privilegia la trazione mediante corrente continua a 3000 o 1500 volts.
Successivamente si impone il sistema di trazione mediante motori diesel – elettrici, cioè la
locomotiva è azionata da un motore diesel che produce l’energia elettrica con cui si alimentano i
motori di trazione.
LA BICICLETTA
Mentre si diffonde il treno, sulle strade d’Europa compare un nuovo singolare veicolo dalla forma
bizzarra che, nato inizialmente come hobby per eccentrici aristocratici, conquista ben presto il
favore popolare divenendo uno dei mezzi di locomozione più diffusi: la bicicletta. La prima
apparizione di un veicolo a cui si può attribuire il titolo di antenato diretto della bicicletta, avviene
tra il 1790 e il 1796, ad opera di un nobile francese, Mède de Sivrac, che si presenta un giorno a
Parigi a cavalcioni di una strana macchina a cui aveva dato il nome di “celerifero”. Si tratta di un
congegno costituito da due ruote in legno allineate, montate alle estremità di un travicello lungo
circa un metro, privo di manubrio e privo di pedali, per cui la velocità é impressa dal ciclista
mediante la spinta alternata dei piedi contro il terreno, come per un monopattino. Nel 1818 compare
un velocipede, battezzato draisina in onore del suo inventore (Karl Friedrich Drais) dotato di sellino
e soprattutto di un meccanismo di manovra che comanda la ruota anteriore. Nel 1855 un fabbro
ferraio francese (Ernest Michaux) ha l’idea di un poggiapiedi fissato alla ruota posteriore.
Trasferendo il poggiapiedi dalla ruota posteriore a quella anteriore nascono i pedali che Michaux
collega al mozzo della ruota. Qualche anno dopo il fabbro realizza anche una “michaudine”, ossia
un biciclo dalla ruota anteriore notevolmente più grande di quella posteriore, in modo da poter
ottenere un maggior sviluppo di percorso con ogni singola pedalata. L’Esposizione Internazionale
di Parigi del 1878 segna la grande occasione che permette al biciclo di oltrepassare l’interesse della
ristretta cerchia di appassionati per imporsi all’attenzione delle classi popolari. Ulteriore progresso
segna l’applicazione, da parte di John Boyd Dunlop, del pneumatico, perfezionato poi dai fratelli
Michelin che inventano quello smontabile (1891). Verso la fine dell’Ottocento inizia la
produzione industriale della bicicletta che ha ormai assunto la caratteristica forma che tuttora
conserva Si diffonde con grande velocità: i cinquemila ciclisti francesi del 1890 sono già diventati,
dieci anni dopo, dieci milioni. Da allora il singolare veicolo a pedali entra nella vita e nel costume
di ogni società moderna.
L’AUTOMOBILE
Rispondere alla domanda “chi ha inventato l’automobile?” è praticamente impossibile. Questa
meraviglia tecnica, che è diventata un elemento insostituibile della vita moderna, non è il
risultato di una singola e solitaria elaborazione tecnica, ma il risultato di un processo di ricerca che
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ha impegnato, nel corso dei secoli, i più brillanti ingegni della meccanica. L’aspirazione a creare un
carro capace di muoversi da sé, dunque a trazione meccanica, è antica come l’uomo, ma comincia a
presentarsi con insistenza verso la metà del Quattrocento. A quell’epoca infatti risalgono i primi
disegni di carri destinati ad utilizzare la energia del vento mediante ingegnosi meccanismi di
ventole collegate alle ruote. Un’altra geniale soluzione teorica di carro automotore appare in un
disegno di Leonardo: un carro a molle munito di un rudimentale tipo di differenziale. Tra il
Cinquecento e il Settecento innumerevoli ingegni si dedicarono con passione alla risoluzione dei
problemi della auto-trazione: basterà pensare a Gerolamo Cardano, il cui nome è legato alla
realizzazione del “giunto cardanico” che trasmette il moto tra assi concorrenti; Agostino Ramelli,
che costruisce numerose macchine da guerra, Giovanni Branca, che ha lasciato numerosi disegni di
carri a vento.
Dopo le fondamentali esperienze di Papin e Newcomen, costruttori delle prime macchine a vapore
atmosferiche (che utilizzano cioè alternativamente il vapore e la pressione atmosferica per azionare
il pistone), Giacomo Watt escogita un motore attivato esclusivamente dalla pressione del vapore.
Con la costruzione del “fardier”, realizzato nel 1769 dall’ingegnere francese Nicolas Cugnot,
primo interessante tentativo di locomozione stradale, si conclude la lunga preistoria
dell’automobile. Il triciclo di Cugnot, con la ruota anteriore direttrice e motrice, é dotato di una
caldaia a vapore che aziona due cilindri. Nelle prove su strada questo veicolo raggiunge la velocità
di 9,5 km/h, ma si rivela di scarsa autonomia (15 minuti). Nonostante questo inconveniente, la
difficoltà di guida e il considerevole peso del motore, il fardier di Cugnot dimostra definitivamente
al mondo la concreta possibilità della carrozza senza cavalli. Dopo Cugnot, le automobili a
vapore cominciano a moltiplicarsi per le strade di tutta Europa. Ma le vetture a vapore presentano
inconvenienti ineliminabili: anzitutto l’apparato motore, che richiede un tempo di avviamento
oscillante tra i 30 e i 120 minuti, occupa una parte considerevole di spazio, inoltre il notevole peso
ne limita grandemente il rendimento complessivo. L’interesse degli inventori si volge allora verso
motori attivati da gas o da elettricità; infine i loro sforzi si orientano sempre più verso il motore
“a scoppio”, o a combustione interna. Questo motore, a differenza di quello a vapore, sfrutta una
combustione che avviene nell’interno del cilindro. In questa combustione si sviluppa una grande
quantità di gas che premendo sul pistone lo mette in movimento. Il movimento rotatorio viene poi
comunicato all’albero motore mediante una biella. La priorità di intuizione e di realizzazione pratica
del nuovo motore si deve a due italiani, Pietro Barsanti e Felice Matteucci. Essi già nel 1853
concepiscono e nel 1856 realizzano un motore alimentato da una miscela di gas illuminanti ed aria,
ad un cilindro con raffreddamento ad acqua, 5Cv di potenza e che agisce in tre tempi: aspirazione
della miscela combustibile nel cilindro, scoppio provocato da una scintilla elettrica ed espulsione
dei gas combusti. Pur avendo avuto un grande successo, non sanno, o non riescono, a tutelare i loro
brevetti, ed in breve tempo i loro nomi sono dimenticati. Pochi anni dopo due tedeschi, Nicolas
Otto e Eugen Langen, realizzano un motore a scoppio, molto simile a quello di Barsanti –
Matteucci. Essi intuiscono l’importanza del motore a quattro tempi (attribuito al francese Beau de
Rochas, che lo costruisce per la prima volta nel 1862), ossia di un motore che funziona in quattro
fasi, aspirazione, compressione, accensione ed espulsione dei gas combusti, e lo diffondono in tutto
il mondo. Il primo ad applicarlo ad un veicolo, una specie di carretta assai rudimentale pare sia il
tedesco Siegfried Marcus. L’innovazione più notevole di questo veicolo riguarda il combustibile,
che non é più gas illuminante ma benzina. Da allora si diffonde l’uso della benzina, in virtù della
sua maggiore praticità. Nel 1885 due meccanici tedeschi, Karl Benz e Gottlieb Daimler, mettono a
punto i primi modelli di automobili con motori a benzina, che presto si diffondono in buona parte
del mondo. In Italia, tra i precursori contiamo Michele Lanza, che a Torino costruisce nel 1895 la
prima automobile italiana a quattro ruote, ed Enrico Bernardi, che a Verona l’anno prima (1894)
realizza il primo veicolo (a tre ruote) circolante in Italia.
Il mondo stava per conoscere un mezzo di trasporto rivoluzionario che avrebbe cambiato per
sempre il modo di vivere, modificato abitudini e ritmi secolari, avvicinato popoli, mescolato civiltà,
culture, usi e costumi, permesso trasmigrazioni dalle campagne alle città con grandi ripercussioni
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sociali, mutato in pochi anni il concetto di spazio e di tempo così come l’uomo li aveva concepiti
per millenni, velocizzato ogni gesto, ogni momento della vita quotidiana. Oggi siamo consapevoli
anche dei grandi problemi che l’automobile ha portato con sé: il traffico e l’inquinamento
innanzitutto. Alle generazioni future la grande sfida di risolvere questi problemi mantenendo intatta
la meravigliosa libertà che l’automobile ci ha regalato nel suo secolo di vita.
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