l`altro - Cinema Teatro Astra

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l`altro - Cinema Teatro Astra
l’altro
inema
09 suburra
STAGIONE 2015/2016
ANNO XXIV
cineforum
LUNEDÌ 30 NOVEMBRE ORE 20.45
MARTEDÌ 1 DICEMBRE ORE 21.00
MERCOLEDÌ 2 DICEMBRE ORE 21.15
di Stefano Sollima/Drammatico/italia/130’
Con Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola,
Alessandro Borghi, Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti,
Antonello Fassari, Jean-Hugues Anglade, Adamo Dionisi
Nell'antica Roma, la Suburra era il quartiere dove
il potere e la criminalità segretamente si incontravano. Il film è la storia di una grande speculazione
edilizia che trasformerà il litorale romano in una
nuova Las Vegas.
Suburra s. f. – Propr., nome proprio (Suburra, lat. Subura o
Suburra, di etimo ignoto) di una zona di Roma antica compresa tra i colli Quirinale, Viminale, Celio e Oppio, che alla fine
della repubblica era diventata un quartiere popolare di piccoli
commercianti, gente di malaffare e sede di postriboli; di qui la
parola è passata, in usi letter. o elevati, a indicare i quartieri più
malfamati di qualsiasi grande città, e la gente che vi abita.
Suburra – il crimine della Roma odierna. La malavita romana
si prepara a mettere le mani sull’affare del secolo: il Grande
Progetto, gigantesca speculazione edilizia nelle periferie Est e
Sud della capitale. L’affare coinvolge politicanti, alti prelati,
amministratori. Un piccolo spacciatore cerca di fare il salto di
qualità ricattando un personaggio troppo in alto. Ma a Roma
non c’è spazio per un cane sciolto come lui. Per via di una
rapida esecuzione avventata e incosciente Il Grande Progetto
rischia di saltare. Ecco perché deve scendere in campo il
Samurai, l’ultimo erede della vecchia Banda della Magliana:
un nazista convertito al crimine. La regia di Stefano Sollima
per Suburra è un concentrato di metafore visive, inquadrature
che fanno rinascere il cinema italiano e lo elevano verso
l’Olimpo che gli è dovuto. Nei 130 minuti di durata della
pellicola si possono scovare le analogie con i passati lavori
del regista ma, come lo stesso Sollima insegna, sembra di
avere davanti un prodotto non catalogabile in nessun paese
del mondo: italiano, europeo, inglese, americano, no. Suburra
è Cinema con la C maiuscola, a 360 gradi e senza etichette.
La fotografia di Paolo Carnera (già collaboratore di Sollima per
ACAB – All Cops Are Bastards per il quale ha ricevuto anche
una nomination ai David di Donatello e per Romanzo Criminale – La Serie) è cupa, grigia, un concentrato di male e oppressione sotto forma di immagini. L’incessante pioggia presente
in tutto il film, che come un orologio con i suoi ticchettii sottolinea i giorni che mancano all’Apocalisse, unita allo stile visivo
adottato da Carnera, non solo trasporta lo spettatore all’interno di un mondo attuale e estremamente veritiero ma fa vivere
Il tutto come se ci fosse una patina di polvere da sparo ancora
calda. Anche per le scene ambientate ad Ostia viene utilizzato
uno stile molto particolare, che rispetto a Roma trova respiro
in spazi molto più vasti ma comunque cupi, con agenti atmosferici marittimi che mostrano la loro presenza su uno schema
cromatico dettato prevalentemente dai toni freddi anche a
livello scenografico. Il soggetto del magistrato Giancarlo De
Cataldo presenta diverse analogie con i lavori passati sia di
Sollima che di De Cataldo stesso: è impossibile non fare paragoni con Romanzo Criminale (in particolare per una fredda e
drammatica esecuzione sul finale) di cui Suburra è il diretto
erede, sperando di vedere sul grande o piccolo schermo il
vero sequel delle vicende della banda della Magliana “nelle
mani giuste”. La struttura di Suburra è la naturale evoluzione di
quello che ha avuto inizio negli anni ’70 narrato nelle precedenti opere e può trovare una collocazione apocrifa come
capitolo conclusivo di una trilogia letteraria dedicata a Roma.
La recitazione del cast è totalmente eccelsa, non c’è un
personaggio che sia fuori posto, dai protagonisti che, seppur
facciano parte di una storia articolata e corale, rivelano uno
spessore recitativo e di evoluzione raro nel cinema italiano, fino
ai personaggi secondari e alle comparse. Il Samurai portato in
scena da Claudio Amendola è di una freddezza e paternità (in
particolare verso Roma) disarmante, esatta controparte di
Pierfrancesco Favino che ci mostra un lato oscuro a livello
politico forse ben peggiore di un regolamento di conti attuato
“alla vecchia maniera”. Elio Germano, Giulia Elettra Gorietti e
Adamo Dionisi fanno parte di un trittico bilanciato e con una
evoluzione totalmente completa senza lasciare nulla al caso.
Ma una delle vere rivelazioni di Suburra risiede nel personaggio
di Numero 8, Re di Ostia, interpretato da Alessandro Borghi:
un mix tra il Libanese e il Dandi, un personaggio tanto
carismatico quanto destinato a cadere inesorabilmente.
Luca Canale Brucculeri
via Roma 3/b, San Giovanni Lupatoto (Vr) - tel/fax 045 9250825 - [email protected] - www.cinemateatroastra.it
10 WOman in gold
di Simon Curtis/DRAMMATICO/USA, Gran Bretagna/109’
LUNEDÌ 7 DICEMBRE ORE 20.45
MARTEDÌ 8 DICEMBRE ORE 21.00
MERCOLEDÌ 9 DICEMBRE ORE 21.15
Con Helen Mirren, Ryan Reynolds, Katie Holmes,
Tatiana Maslany, Daniel Bruehl, Max Irons
Maria Altmann, è una donna ebrea fuggita da
Vienna poco dopo l'arrivo dei nazisti che saccheggiando la sua abitazione trafugarono un prezioso quadro di Gustav Klimt, la Donna in Oro, in
seguito restituito al governo Austriaco. Cinquanta
anni dopo la coraggiosa donna decide di sfidare
le autorità Austriache con l'aiuto di un giovane
avvocato per chiedere che le venga restituito ciò
che era suo.
Woman in Gold di Simon Curtis è la storia di un’ingiustizia che
trova il lieto fine. Il film si basa su fatti realmente accaduti che
vedono protagonisti l’ebrea Maria Altmann (Helen Mirren) e il
giovane avvocato Randy Shoenberg (Ryan Reynolds). A
sessant’anni dalla fuga di Maria dalla Vienna nazista, nel pieno
della Seconda Guerra Mondiale, la donna ormai anziana
intraprende un doloroso viaggio fisico ed emotivo nella sua
terra natale per recuperare i beni illecitamente sottratti dai
nazisti alla famiglia, tra cui il famoso quadro di Klimt raffigurante la zia Adele, dalla quale prende il nome “Adele Bloch-Bauer”. Nella famosa opera d’arte, successivamente rinominata
“La dama in oro”, l’amata zia veniva raffigurata come una
regina egiziana, adornata d’oro e di gioielli, tra cui un prezioso
collier, che durante le nozze tra la 21enne Maria Altmann con
l’aspirante cantante lirico Fritz Altmann passò nelle mani della
donna prima di essere trafugato dai soldati di Hitler, come
molte delle opere e dei gioielli presenti in casa Altmann. Con
la determinazione e l’ironia che caratterizzano il personaggio
portato in scena dal premio oscar Helen Mirren, lo spettatore
è accompagnato attraverso la dura battaglia legale che
porterà Maria e il giovane ma abile avvocato Randy dal cuore
dell’establishment austriaco fino alla Corte Suprema Americana [...]. Ma Woman in Gold racchiude molto di più di una
storia di restituzione di quadri sottratti illegalmente ad
un’importante famiglia ebrea di Vienna: riesce a trasmettere
con assoluta delicatezza il valore morale della restituzione,
che non rappresenta solo un possesso, una proprietà, ma
significa rendere giustizia ad una perdita emotiva e correggere
una grave ingiustizia. Ed è questo il motivo per cui Maria
Altmann decide di esporre il quadro alla Neue Galerie di New
York, perché la restituzione di quanto perso in termini di affetti,
luoghi e appartenenza si può avere con la legittimazione del
ricordo. In questo senso risultano emblematiche le parole che
pronuncia Helen Mirren in una delle primissime scene del film:
“la gente dimentica. Soprattutto i giovani”. Attraverso il
saccheggio e l’appropriazione di opere d’arte si ruba l’identità
e la libertà di un popolo, e la storia è piena di esempi di questo
genere, ahimè anche attuali. Questo sottolinea ancora di più
l’importanza del compito del cinema, ovvero quello di custodire un pezzo di storia e continuare a raccontarlo. In questo
senso Woman in Gold riesce nell’intento e arriva con tutta la
sua potenza e commozione al cuore degli spettatori. Un’altra
nota positiva del film è sicuramente la recitazione del premio
oscar Helen Mirren e Tatania Maslany, conosciuta al pubblico
giovanile per la serie tv Orphan Black.
Laura Siracusano
È la vera storia di Maria Altmann. Nata viennese nel 1916 e
morta negli Stati Uniti, di cui era diventata cittadina nel 1945,
alla bella età di 95 anni nel 2011. Ciò che non le aveva impedito anni prima, quando di anni ne aveva già tanti, di intraprendere con l'aiuto di un giovane avvocato anche lui di origine
ebreo-austriaca e di un giornalista, una apparentemente insormontabile sfida. Quella di recuperare dal riluttante e smemorato governo della repubblica austriaca alcuni dipinti Klimt
appartenuti alla sua famiglia ebrea, dal cui sterminio soltanto
lei si era salvata fuggendo in America, e di cui i nazisti si erano
impossessati. Sfida infine vinta e non in nome del valore
economico del "bottino". La categoria di appartenenza è
quella dell'opera edificante e pedagogica, povera di altri valori,
ma vale il biglietto la presenza di Helen Mirren, signora britannica della scena.
di Paolo D'Agostini La Repubblica
Sceneggiato a partire da una storia vera ma talmente affascinante da sembrare un romanzo, “Woman in gold” è il secondo
lungometraggio del britannico Simon Curtis dopo “Marilyn”.
Come per il biopic sulla settimana inglese della Monroe, Curtis
sembrasubireancoraunavoltal’attrazioneperpiccole/grandi
storie della Storia che si concentrano sull’intimo dell’essere
umano. Lo spunto gli è arrivato da un documentario sul “caso
Maria Altmann” e gran parte della documentazione ritrovata la
deve al suo incontro con il vero Randy Schönberg: tutto ciò si
evidenzia abbastanza bene in un film che trasuda di passione
dal punto di vista della regia. A catturare l’ attenzione è soprattutto una trama avvincente e ben raccontata. I temi affrontati
sono tanti ma sono quelli che d’altra parte appartengono alla
storia della Altmann: l’ identità, la memoria, la giustizia, l’
Olocausto e il nazismo, la lingua e cultura di appartenenza. Il
film si sviluppa dunque come un ritmico cammino verso la
scoperta della Verità e della Giustizia, senza dare nulla per
scontato e mantenendo il gusto della suspence fino alla fine.
Splendida come sempre è l’ interpretazione di Helen Mirren nel
ruolo della forte/fragile protagonista, mentre al suo fianco non
sfigura un bravo Ryan Raynolds. Interessante il lavoro svolto
sulle lingue (inglese e tedesco alternati), che rivestirono un
ruolo fondamentale per chi si trovò a fuggire dallo sterminio
decretato dai nazisti.
Anna Maria Pasetti
11 io che amo solo te
LUNEDÌ 14 DICEMBRE ORE 20.45
MARTEDÌ 15 DICEMBRE ORE 21.00
MERCOLEDÌ 16 DICEMBRE ORE 21.15
di Marco Ponti/commedia/italia/102’
Con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Michele Placido,
Luciana Littizzetto, Maria Pia Calzone, Eva Riccobono,
Eugenio Franceschini
Ninella ha cinquant'anni e un grande amore, don
Mimì, con cui non si è potuta sposare. Ma il destino le fa un regalo inaspettato: sua figlia si fidanza
proprio con il figlio dell'uomo che ha sempre
nozze. Il matrimonio di Chiara e Damiano si
trasforma così in un vero e proprio evento per
Polignano a Mare, paese bianco e arroccato in
uno degli angoli più magici della Puglia.
Damiano e Chiara sono in procinto di sposarsi nel loro paese
natale, Polignano a Mare. Quel matrimonio è il coronamento
di una storia d'amore, ma non necessariamente quella fra i
due ragazzi: il padre di Damiano, Mimì, e la madre di Chiara,
Ninella, erano infatti una coppia in gioventù, ma essendo il
fratello di Ninella, Franco, finito in galera per contrabbando
Don Mimì, il potente locale, non aveva più potuto sposare
Ninella, e aveva dovuto accontentarsi di Matilde, donna arida
ma di ottima famiglia. Quali saranno le coppie destinate a
rimanere insieme per la vita? E quanti altri segreti nascondono
le famiglie di Damiano e Chiara? Basato sul romanzo di Luca
Bianchini, Io che amo solo te è una commedia corale che
riesce a mantenere un buon equilibrio fra il tono e il ritmo
brillanti tipici del genere e quel fondo di dolorosa verità che
sottrae le caratterizzazioni al rischio di trasformarsi in macchiette. La forza del film è la recitazione di fuoriclasse come
Michele Placido e Maria Pia Calzone e di alcuni caratteristi di
razza: da Dario Bandiera nei panni del truccatore Pascal a Eva
Riccobono in quelli di Daniela fino ad Antonio Gerardi (Franco,
il fratello galeotto di Ninetta). Anche la sceneggiatura, del
regista Marco Ponti e dello stesso Bianchini coadiuvato da
Lucia Moisio, è più scorrevole e divertente della gran parte
delle commedie italiane contemporanee, e segue la falsariga
di Mine vaganti ) nel rappresentare una certa ipocrisia tutta
meridionale con tenerezza più che con riprovazione. Al centro
della trama c'è il tema dell'autenticità, sia quella all'interno dei
rapporti d'amore che quella individuale, e il film funziona particolarmente bene quando mette in relazione le difficoltà dei
personaggi nell'essere fedeli a se stessi con la continua pressione esterna perché ci si rappresenti in modo diverso da
come si è: anche in un paese che crede nelle radici i reality e
i social hanno fatto breccia, e dunque un matrimonio unisce la
tradizionale magnificenza delle celebrazioni meridionali con la
nuova necessità di trasformare ogni occasione pubblica in
uno show, secondo quel culto dell'apparenza che combina
l'ostentazione della "robba" di verghiana memoria con la
necessità contemporanea di trasformare ogni momento in
una foto (photoshoppata), un video (recitato), un post o un
tweet. La cinepresa di Ponti si muove con agilità, coadiuvata
dal montaggio veloce di Consuelo Catucci e dalla recitazione
corale di attori (tra cui il lupatotino Eugenio Franceschini)
che hanno fra loro una familiarità consolidata, come Scamar
cio e Chiatti o Scamarcio e Placido. E ci spinge a riflettere, con
leggerezza, su chi siamo e ciò che vogliamo davvero, al di là
delle nostre maschere e delle aspettative di chi ci sta intorno.
Paola Casella
«Venga Signora… così uniamo, finalmente, le famiglie», dice lo
showman alla madre di Chiara nel film Io che amo solo te. La
sequenza è la più coinvolgente dell’intera pellicola: Don Mimì e
Ninella, che sono stati divisi dall’illustre famiglia di lui a un
passo dalle nozze, si amano ancora. Durante il rinfresco nuziale dei rispettivi figli, si ritrovano magicamente in pista, a ballare
un lento. Le note e le parole sono quelle della canzone che dà
il titolo all’intero film e che è cantata splendidamente dall’artista salentina Alessandra Amoroso. Il pezzo, scritto da Sergio
Endrico, è un classico della musica italiana e ben si adatta alla
materia trattata nella pellicola, che racconta di un sentimento
atavico, reso magico, in Io che amo solo te, dal dolore della
perdita e dall’impossibilità di vivere la storia fra le pareti domestiche che possono tuttavia diventare soffocanti e impregnarsi
di abitudini. L’Amore vero trae forza dalla curiosità e dall’improvvisazione ed è pertanto innovativo, mai uguale a se stesso.
Il legame non vissuto è proprio l’asse portante dell’intera commedia sentimentale che si allontana per questo motivo dai
cliché dei film sui matrimoni. Siamo al Sud, precisamente in un
piccolo paese della Puglia, dove tutti conoscono tutti e dove la
lettera scarlatta dello scandalo pesa ancora come un macigno. Le nozze in Puglia, come in tutto il Mezzogiorno, sono un
evento quasi mondano, che coinvolge le rispettive famiglie
degli sposi, sempre attente a non fare brutta figura, altrimenti
la voce gira. Il ricevimento deve essere, dunque, sostanzioso e
non si deve badare ai costi. La sposa deve essere graziosa ma
non provocante. Le bomboniere raffinate e non misere. Le
case natie dei futuri coniugi si riempiono così di parenti e tra i
più insoddisfatti ci sono sempre loro: i familiari acquisiti, impersonati qui dalla simpatica zia venuta dal Nord per l’occasione
che ha le sembianze di una mai così contenuta Luciana Littizzetto. La giovane coppia di futuri sposi è in balia del conformismo che grossolanamente potremmo definire all’italiana. In
realtà, come si evince in tante commedie d’oltreoceano, ogni
mondo è paese e, dunque, cambiano le forme, ma le ossessioni di un matrimonio in divenire sono sempre le stesse.
Maria Ianniciello