Quale didattica dell`internamento dei militari italiani in

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Quale didattica dell`internamento dei militari italiani in
Alessandro Ferioli
Quale didattica dell’internamento
dei militari italiani in Germania?
Chi si occupa d’insegnamento della storia è da tempo consapevole che sia la didattica della disciplina, con le acquisizioni portate dalle riflessioni più moderne e innovative, sia gli studenti, protagonisti del processo d’insegnamento-apprendimento,
impongono alcune modificazioni al tradizionale modo d’insegnare la storia imperniato
sulla mera lezione frontale. Scopo delle presenti considerazioni è di analizzare le modalità e le strategie di collocazione della storia degli internati militari italiani nell’ambito
di una programmazione didattica disciplinare sensibile alle più mature esperienze, proponendo direzioni di ricerca e spunti di metodologia didattica a uso dei colleghi che prestano servizio nelle scuole di ogni ordine e grado oltre che degli allievi delle Scuole di
Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS).
TRA PASSATO E PRESENTE
Sappiamo che per rendere lo studio dei fatti storici “significativo”, ovvero per ancorarlo a conoscenze e idee comunemente presenti fra i giovani, occorre stabilire fin da subito un legame con l’attualità che intercetti esigenze, interessi e campi semantici propri
degli studenti. Conformemente alla lezione secondo cui è il presente a dare alle persone
quel po’ di curiosità che le induce a porsi domande e a voltarsi indietro per guardare al
passato, occorre individuare quei concetti, già noti al soggetto che apprende, i quali possano funzionare come “organizzatori anticipati”, ovverosia che entrando in sinergia con
quelli nuovi facilitino l’integrazione delle nuove conoscenze1. Lo storico stesso del resto,
come ricorda Massimo L. Salvadori, individua l’oggetto del suo studio muovendo da bisogni conoscitivi del presente, anche suoi propri personali, e al presente rapporta gli
scopi della sua attività storiografica:
“Ogni storia scritta nasce dagli interrogativi della nostra coscienza ed è quindi, in
senso generale, un processo di autocoscienza, inteso a rispondere alle questioni che il presente pone al passato e a cui il passato risponde mettendo a disposizione il suo archivio
di fatti e documenti da selezionare e interpretare. Si potrebbe altresì dire che la ricerca
storica è chiamata a soddisfare un’esigenza di costruzione di identità, la quale, attraverso
le sue espressioni, dà volto alla cultura e alla vita di un certo tempo”2.
Occorre perciò che anche l’approccio allo studio dell’internamento militare muova da
un’esigenza concreta e diffusa tra i giovani che sappia rispondere a precise curiosità sul
passato e miri al contempo a promuovere un interesse civico. Un primo spunto può es13
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sere rappresentato dall’educazione alla “pace”: così ha agito, in sicura prospettiva didattica, Lucia Araldi nel raccontare la storia del padre Giovanni, militare internato a
Dora, attraverso fonti testimoniali e documentali di grande interesse, in un volume che
muove proprio dall’esigenza di ricercare nel passato le motivazioni per una pacifica convivenza tra i popoli da perseguire e difendere oggi3.
Un ulteriore movente capace di attualizzare le vicende della deportazione è dato dai
procedimenti giudiziari che, anche recentemente, vedono imputati carcerieri e criminali
nazisti: è di questi giorni (febbraio 2008) la notizia dell’estradizione dal Canada di Michel “Misha” Seifert, il caporale delle SS condannato dalla giustizia italiana nel 2000 per
crimini di guerra compiuti a danno di migliaia di deportati nei Campi di Fossoli e Bolzano. Sapere che la giustizia può punire i colpevoli anche dopo decenni apre a riflessioni sulla responsabilità penale e sulle torture e i massacri che ancora oggi si
commettono nel mondo.
Altri spunti capaci di dare avvio all’interesse sulla storia degli internati possono essere tratti direttamente dalla Costituzione della Repubblica, che nasce da quell’opzione
democratica del popolo italiano affermata anche dai resistenti nei lager. Del resto l’insegnamento della storia è sempre stato, ed è ancora oggi, intimamente connesso all’educazione civica e la Costituzione è in tal senso il testo fondamentale da cui muovere
i passi per la formazione del cittadino nella scuola pubblica.
Ciò che è certo è che l’insegnante che si accinge a trattare l’internamento deve essere
consapevole di condurre i suoi studenti all’interno di un oggetto di studio che investe in
maniera fortissima l’etica, la morale e la politica, guardandosi da quella che oggi è la
sventura maggiore della didattica sulla deportazione in generale (e specialmente della
shoah): una “celebrazione” o “santificazione” sostanzialmente povera di contenuti disciplinari e incerta sulle finalità formative. Al contrario, il processo cognitivo in questo
caso coinvolge fortemente il mondo vitale degli allievi e li spinge a superare l’inveterata
passività scolastica per assumere nuove responsabilità morali e civili di fronte alla comunità cui appartengono.
Un’altra necessità comunemente riconosciuta nella didattica scolastica è quella di ancorare i fatti studiati alla realtà locale. Nel caso degli internati militari, provenienti da tutte
le regioni d’Italia, è assai facile ritrovare persone, memorie, documenti scritti e tracce materiali nel territorio della propria provincia o comune. Di certo il trascorrere del tempo
ha portato via molti veterani che avrebbero potuto dare grandi apporti alla divulgazione,
ma ha anche, paradossalmente, contribuito a fare maturare una nuova e particolare sensibilità sia nella società civile che nei reduci rimasti in vita. Talvolta la realtà locale può
anche offrire personalità, viventi o scomparse ma in ogni caso “dimenticate”, degne di
una particolare valorizzazione attraverso ricerche d’archivio: la ricostruzione della loro
storia, in sintonia con l’Amministrazione comunale e con i locali reparti delle Forze Armate, può portare al conferimento di un riconoscimento morale, a una dedicazione toponomastica o all’intitolazione di aule o edifici, con grande soddisfazione degli studenti
coinvolti.
Un altro spunto motivazionale proviene dal fatto che la storia dei militari internati è
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essenzialmente storia di giovani e come tale può essere proposta anche da un angolo visuale normalmente poco apprezzato in sede storiografica, ma che oggi è in progressiva
valutazione per il suo valore di “differenza di genere”, facendo sperare di coinvolgere più
da vicino le categorie mentali di nuove generazioni che appaiono sempre meno sedotte
dalla storia. Al contrario i giovani, a partire almeno dagli impulsi creativi illuministici,
dimostrano di portare con sé un’ideologia “giovanilistica” capace di forti slanci rinnovatori, tanto per la naturale attitudine giovanile ad abbracciare con appassionata adesione ogni speranza di costruzione di un mondo diverso e migliore rispetto a quello dei
padri; quanto per l’esigenza pratica di poggiare le concrete iniziative di rottura sull’entusiasmo morale, sul vigore fisico, sull’incosciente spensieratezza dei più giovani4.
Il circuito della deportazione in generale è popolato di giovani e, nonostante si tenda
a dimenticarlo, giovani – ventenni, trentenni – sono gli ufficiali italiani, freschi di studi
appena compiuti, che ricercano le motivazioni della resistenza nella cultura scolastica
(Dante, il risorgimento), nel mito della prima guerra mondiale, accomunati alla truppa
dagli affetti di una famiglia in costruzione, dall’ansia di un lavoro da riprendere, dalla ridefinizione di un’etica civile e dall’aspirazione a un futuro migliore. La scelta resistenziale degli internati militari, come assunzione di responsabilità di giovani, si pone come
un punto fermo nella storia dei giovani per quanto attiene i momenti d’impegno attivo
nella storia sociale e civile.
Spetta all’insegnante definire con molta chiarezza, in fase di programmazione didattica, gli obiettivi che intende raggiungere in termini di conoscenze disciplinari e competenze, anche in prospettiva interdisciplinare. Alcuni obiettivi cognitivi (conoscenze,
competenze, abilità) possono essere individuati nei seguenti: utilizzare correttamente e
propriamente il lessico specifico; leggere criticamente e comprendere documenti scritti
e iconografici dell’epoca, inquadrandoli nel loro contesto storico; individuare dalla fonte
tutti gli elementi significativi; leggere e comprendere criticamente testi storiografici, individuandone la tesi generale e gli altri elementi rilevanti; costruire mappe concettuali,
linee temporali e altri strumenti cognitivi; comparare documenti e testi storiografici e
stabilire connessioni logiche tra loro; coordinare documenti e testi storiografici in un
breve testo riassuntivo; cogliere la contemporaneità, i mutamenti, le permanenze; analizzare e sintetizzare; rielaborare in modo personale i contenuti, sviluppando criticamente
le questioni storiografiche proposte.
Gli obiettivi sopra indicati sono strettamente connessi ad almeno tre finalità più generali. La prima consiste nel fare acquisire conoscenze approfondite relative al concentrazionario nazista e alla resistenza italiana al nazi-fascismo nell’ambito della seconda
guerra mondiale. La seconda consiste nel fare acquisire un’apertura a determinate capacità operative, fornendo conoscenze, competenze e abilità che possano essere impiegate
in altre attività disciplinari scolastiche, culturali e di pensiero in generale, per consentire
l’elaborazione e l’utilizzo consapevole di strumenti concettuali per l’approccio ai più diversi problemi. La terza consiste nel fare acquisire un’apertura al presente, ovvero fornire conoscenze, competenze e abilità che permettano agli studenti di leggere il presente
e il passato secondo un rapporto di interazione reciproca, riconoscendo nel passato le
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matrici culturali di fatti, eventi, comportamenti e modi di pensare ancora oggi correnti
(quand’anche dissimulati o latenti) e compiendo riflessioni sui valori fondanti della nostra democrazia repubblicana.
Intrinsecamente legata alla strategia dei progetti, intesa come forma di sollecitazione
didattica funzionale al richiamo dell’energia degli allievi, è la strategia della motivazione, che pone nella particolare attrattiva dell’obiettivo finale (una mostra, uno spettacolo, una pubblicazione, un fumetto5) la spinta propulsiva intrinseca degli allievi,
predisponendoli positivamente alla situazione di insegnamento-apprendimento6. A trovarsi impegnata è anche e soprattutto, al di là dell’apporto individuale dei suoi insegnanti, l’intera istituzione scolastica, responsabile della prospettiva curricolare dei suoi
allievi (e in base alla legge sull’autonomia addirittura direttamente di una parte del curricolo), intesa come problematizzazione e riflessione sui saperi e sulla loro trasmissione.
Perciò, come osserva Massimo Baldacci, l’idea di curricolo si lega a quella di una progettualità formativa (la programmazione) caratterizzata da un’intenzionalità che attraversa sia la dimensione dei contenuti culturali, sia quella dei traguardi d’apprendimento,
sia quella degli itinerari didattici, e da una tensione verso la contestualizzazione del percorso formativo in rapporto alla singola e specifica scolaresca. In questa direzione, adottare un punto di vista curricolare significa razionalizzare l’intreccio tra concrete situazioni
educative, processi didattici e prodotti formativi, conferendo sistematicità e flessibilità
al lavoro scolastico7.
È infine appena il caso di ricordare che l’insegnante, nell’accingersi a un progetto riguardante gli internati militari, deve avere cura di documentarsi previamente sui contenuti e gli orientamenti storiografici sull’argomento, allo scopo di fornire informazioni
conformi alla storiografia più matura e accreditata e di segnalare correttamente agli studenti quelle banalizzazioni di cui di volta in volta si servirà per ragioni di semplificazione
didattica8.
LE FONTI E IL LORO UTILIZZO
Le vicende degli internati militari ben si prestano all’impiego delle diverse tipologie
di fonti di cui la ricerca storica si avvale9, nell’ambito di una didattica attiva, “per scoperta”, che trova il suo sbocco naturale nel “laboratorio di storia”10, la cui utilità è oggi
indiscussa (anche se poco praticata nell’insegnamento) allo scopo di fare acquisire agli
studenti la consapevolezza dei fondamenti epistemologici della disciplina, e quindi le
origini del sapere storico, nonché abilità “trasversali” spendibili in una qualunque attività intellettuale, quali competenze metodologiche e critiche sull’uso delle fonti e sulla
verifica della documentazione probatoria addotta a sostegno di un’argomentazione.
La modalità d’insegnamento-apprendimento “per scoperta” (discovery learning) trova
i suoi fondamenti nella teoria di Jerome Bruner, secondo il quale la “costruzione” della
conoscenza mobilita l’allievo nella maniera più attiva possibile, permettendogli di conseguire una comprensione più sicura e solida e rendendo la conoscenza permanente.
Questa metodologia si basa sul protagonismo dell’allievo nel suo stesso processo d’apprendimento, grazie a esperienze che accendono gli interessi e la curiosità personale,
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trovando un ancoraggio nelle idee e nei saperi di riferimento che già costituiscono patrimonio conoscitivo dell’allievo stesso11.
La didattica sugli internati può essere svolta attraverso differenti fonti di ricerca, secondo opportune graduazioni delle difficoltà in base all’età degli alunni, ma sempre con
una tematizzazione chiara e ristretta (un lavoro sulle fonti non può mai riguardare “tutto”)
e conformemente a un progetto chiaro e coerente sulle conoscenze e competenze da sviluppare che non sia però privo di un quadro storiografico adeguatamente assimilato.
Di ciascuna fonte è opportuno che gli studenti, con l’aiuto dell’insegnante, operino
una “schedatura” contenente le informazioni essenziali per contestualizzarla utilmente12.
È bene tenere conto che l’approccio a una fonte, nel nostro caso, non può mai essere soltanto meccanica, ma deve per forza di cose (anche a scapito di un margine di scientificità) muovere il sentimento degli studenti, i quali si dovranno accostare a essa in maniera
empatica: infatti diari, disegni realizzati nel lager, ricordi di un testimone, sono tutti documenti che i tedeschi non avrebbero voluto tramandare e che spesso furono conservati
a rischio della vita.
Di seguito indico alcune tipologie di fonti, da intendere come mera proposta tassonomica aperta a successivi ampliamenti e correzioni. Va specificato che una medesima
fonte può assumere classificazioni differenti a seconda dell’uso che ne è fatto e delle domande che il ricercatore le rivolge in relazione al problema di ricerca posto. Per esempio un diario coevo può essere, a seconda del punto di vista, sia fonte narrativa (per la
scrittura e le informazioni desumibili), sia fonte materiale (per ricavare quali oggetti possedevano gli internati): entrambe le visuali concorreranno poi alla ricerca delle motivazioni per le quali un certo numero di internati teneva un diario nel lager. Inoltre l’impiego
di una fonte dipende anche dalla “fantasia” dello storico e dalla sua capacità di reinventare di volta in volta la fonte stessa; come osserva Giovanni Greco, infatti, spesso la singolarità dello storico consiste nel recuperare ad originali prospettive, ai fini di nuove
tematiche, documenti la cui funzione sembrava già esaurita, dando spazio ad un metodo
che contenga una percentuale d’istinto e d’inventiva13.
Le tipologie ipotizzabili, dunque, sono le seguenti:
a) Ricerca su fonti edite: fonti narrative e giornalistiche. Tra le fonti edite occupano
un posto di primo piano alcuni “classici” della letteratura che hanno contribuito a determinare la notorietà delle vicende degli internati militari e la loro elevazione al rango di
epopea: in primo luogo il Diario clandestino di Guareschi, ma anche alcuni racconti di
Mario Rigoni Stern (in Aspettando l’alba e altri racconti) e il romanzo d’esordio di Oreste Del Buono (Racconto d’inverno). Il lager “dei letterati” non è ovviamente il lager
“degli storici”, ma piuttosto una rappresentazione in chiave estetica; tuttavia alcuni tra i
migliori scrittori di tali vicende provengono proprio dall’esperienza concentrazionaria e
le loro narrazioni, rientranti a pieno titolo sia nella memorialistica che nella letteratura,
sono considerate con molta attenzione dagli storici, pur con le passioni e le emozioni
che portano con sé, quali fonti d’indagine. Di seguito a questi si colloca una produzione
ormai notevole che possiamo suddividere per praticità in diari coevi all’internamento,
scritti nei lager su agendine o fogli di fortuna e poi pubblicati dopo il rimpatrio, e me17
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moriali successivi al rimpatrio: i primi ovviamente sono meno mediati, mentre nei secondi prevale in genere l’elaborazione pseudo-letteraria e la riflessione su un’esperienza
ormai conclusa (non di rado purtroppo inquinata dalla lettura di altri memoriali). All’insegnante tocca il compito di chiarire agli studenti le diversità insite nelle differenti tipologie testuali, affinché essi apprendano a soppesare nel modo più opportuno le fonti.
Altre fonti edite sono costituite dai giornali dell’epoca (della RSI, della clandestinità,
dell’immediato dopoguerra), disponibili in molte biblioteche in microfilm o in riproduzione anastatica: da essi si può andare alla ricerca di notizie sia sugli internati (poche) che
sulla vita quotidiana della popolazione italiana. Ovviamente la ricerca sul giornale presuppone una certa dimestichezza con il linguaggio giornalistico (e con i suoi limiti), con
gli espedienti grafici del mezzo di comunicazione e con le particolarità di una fonte che
segue il più delle volte un orientamento politico o economico e che è espressione di determinati gruppi di potere14.
b) Ricerca su fonti d’archivio o in ogni caso inedite. Vale anche qui la stessa distinzione tra diari coevi e memoriali posteriori, con l’avvertenza che le fonti inedite sono custodite presso archivi pubblici e privati. Per quanto riguarda i primi occorrerà fare
affidamento specialmente su quelli delle sedi nazionali e locali delle associazioni reducistiche (ANEI e ANRP soprattutto) e degli Istituti storici della resistenza o centri di documentazione similari, senza trascurare che anche certe associazioni d’Arma e di
Specialità, come ad esempio l’Associazione Nazionale Alpini, sono spesso ricche di documentazione. Una particolare importanza rivestono l’Archivio G. Guareschi di Roncole Verdi, in corso di ordinamento grazie anche alle risorse rese disponibili dal
centenario guareschiano, e il Centro Schiavi di Hitler di Cernobbio, che raccoglie il materiale della campagna di rivendicazione degli internati e deportati italiani, il fondo Claudio Sommaruga, l’archivio del GUISCo (Gruppo ufficiali italiani Straflager Colonia).
Per quanto riguarda archivi privati occorre invece la conoscenza personale dell’ex-internato o dei suoi familiari; nel caso in cui il protagonista fosse ancora vivo e in buona
salute potrebbe rendersi disponibile sia per la consultazione del suo materiale sia per una
testimonianza orale, per la quale si veda più avanti al punto c). È di tutta evidenza la funzione formativa dell’applicazione su fonti inedite ai fini di un maggiore e consapevole
coinvolgimento nella dimensione metodologica della ricerca.
c) Ricerca su fonti orali. Il “popolo” degli ex internati è in drastica diminuzione per
ovvi motivi anagrafici; tuttavia è ancora possibile incontrare veterani dei lager nazisti,
specialmente tra quelli più attivi nelle associazioni reducistiche o tra quelli che, avendo
pubblicato di recente i loro ricordi, sono fortemente motivati alla trasmissione della loro
esperienza. S’intende che il testimone, come del resto avviene anche nei memoriali scritti,
è portatore in maniera del tutto soggettiva della propria personale esperienza che si basa
essenzialmente sulle sue scelte (resistenza a oltranza, adesione al lavoro ecc.), sul grado
rivestito (le vicende degli ufficiali sono diverse da quelle dei sottufficiali e della truppa),
sul genere/i di lavoro svolto (meccanica, agricoltura, miniera ecc.) e sui campi di prigionia di cui ha avuto esperienza.
L’incontro con gli studenti può essere svolto in forma di conferenza/conversazione o
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in forma d’intervista (filmata, registrata, scritta). Sarebbe di estremo interesse potere disporre di diversi testimoni per valutare i differenti punti di vista e la maturazione dell’evento nel vissuto di ciascuno dal dopoguerra a oggi: un ex-internato resistente, un
“optante” (ovvero aderente alla RSI) e magari un ex-combattente della RSI. Poiché il testimone non è un oracolo dalla cui parola abbeverarsi, né un affabulatore dal quale lasciarsi trascinare al pianto, in tutti i casi, e soprattutto in quello dell’intervista,
l’insegnante dovrà avere già fornito agli studenti un quadro storico preciso, allo scopo di
consentire un ascolto consapevole e tale da provocare domande mirate, evitando così
quegli impieghi del tutto sbagliati del testimone che avvengono soprattutto quando ci si
attende da lui anche una lezione di storia. L’insegnante dovrà inoltre avere posto gli studenti nella condizione più favorevole per la comprensione dell’altro, cercando di farli ragionare al di fuori degli schemi concettuali odierni, distogliendoli dagli atteggiamenti
giustizialisti che troppo spesso ci tentano. Occorre prestare molta attenzione al testimone, poiché se è vero che la fonte orale è la più utilizzata nella scuola è altrettanto vero
che è tra quelle peggio gestite. Bisogna tenere conto in particolare che, come ci ricorda
una ricerca dell’IRRE Calabria, “il testimone che incontra i bambini non è solutore indiscusso di dubbi e problematiche, è uno scrigno narrativo che offre opportunità d’indagine e di esplorazione assolutamente variegate”. Ciò implica che la storia orale è una
fonte esclusiva, nel senso che prima che il testimone iniziasse la narrazione quella storia non esisteva; esisteva tutto: fatto, esperienza, testimone stesso, ma il fatto narrato, la
storia narrata, nasce nel momento in cui inizia la narrazione. È esclusiva perché ogni
volta cambia e cambia in funzione di una serie di variabili:
• ciò che si deve raccontare;
• ciò che l’intervistatore vuole sentire;
• come ha voglia di porsi l’intervistato;
• che rapporto c’è fra gli interlocutori;
• il modo in cui viene effettuata l’intervista;
• il luogo in cui viene effettuata l’intervista;
• cosa vuol far saper il testimone15.
Siccome poi i testimoni sono destinati, nonostante i debiti scongiuri, a scomparire
del tutto nel giro di pochi anni, sarebbe opportuno che le testimonianze fossero sempre
videoregistrate e raccolte nell’archivio della scuola e, in copia, in un apposito archivio
provinciale presso una scuola-polo designata allo scopo.
d) Ricerca su fonti visive: esame di filmati/documentari e visione critica di film. La
ricostruzione del periodo storico (il Ventennio fascista, la guerra, il primo dopoguerra)
è indispensabile per collocare la scelta degli internati militari nel suo contesto più corretto. La selezione delle fonti (documentari dell’Istituto Luce, film dell’epoca ecc.) può
illuminare alcuni aspetti della vita dei militari, effettivi o di leva, impegnando gli studenti in attività quali: mettere a confronto la retorica bellicistica del fascismo con la situazione sui vari fronti di guerra e all’8 settembre; fare emergere i tratti caratteristici
della formazione dei giovani nell’epoca fascista; analizzare criticamente un discorso
militarista del Duce o una parata militare. Sta all’insegnante svolgere azione di guida,
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pur senza esiti preconfezionati, alla scoperta da parte degli studenti di tutte le informazioni necessarie.
Il documentario resta una fonte di particolare importanza per cogliere i paesaggi, i
protagonisti grandi e piccoli della storia, le mode, le usanze dei popoli16. L’educazione
al linguaggio del documentario e alla decifrazione dei suoi messaggi impliciti, sia esso
d’epoca o realizzato più di recente, riguarda la selezione e organizzazione dei contenuti,
la scelta delle riprese e delle inquadrature, il montaggio, la spiegazione fuori campo,
l’accompagnamento musicale. Soprattutto il montaggio fa veramente coincidere il medium con il messaggio, svelandone le finalità pedagogiche; è il caso di un noto filmato
sui campi di sterminio:
“Per esempio, del filmato girato dagli inglesi a Bergen-Belsen nel 1945 esistono due
versioni, una per gli inglesi e una per i tedeschi; in particolare era stato realizzato un
montaggio per i tedeschi, in cui l’attenzione era fissata più sugli aguzzini che sulle vittime. E questo perché doveva funzionare come strumento pedagogico nei confronti della
società”17.
Il cinema, in forza della complessità del suo linguaggio visivo, parlato e musicale, si
è anche accreditato come uno tra i più efficaci veicoli di divulgazione storica (e pseudostorica) in generale. Giusta la definizione di “film storico” di Gianni Rondolino come
quei prodotti cinematografici che ricostruiscono il passato secondo determinati intendimenti e particolari accorgimenti tecnico-formali, in modo da fornire allo spettatore una
rappresentazione suggestiva di personaggi, ambienti, fatti e situazioni che afferiscono
alla storia18.
Ciò si è dimostrato vero specialmente riguardo ai temi legati al concentrazionario nazista: basti pensare all’impiego del film-documentario nel corso del processo di Norimberga e, qualche decennio più tardi, all’effetto che ebbe negli anni Settanta la messa in
onda negli Stati Uniti e in Europa dello sceneggiato Olocausto, tratto da un romanzo di
Gerald Green19, che indusse molti a un esame di coscienza e, in Germania, alla messa in
stato d’accusa di un’intera generazione da parte dei propri figli. Perciò il film assume il
ruolo, oltre che di strumento di divulgazione, anche di fonte storica a sua volta per la
comprensione dei punti di vista e delle sensibilità verso il concentrazionario da parte di
coloro che parteciparono alla realizzazione del film e di coloro che ne fruirono: si può
così, ad esempio, valutare la trasformazione dell’immagine dell’ufficiale tedesco dai film
del primo dopoguerra a quelli degli ultimi anni; parimenti si può osservare la tendenza
a sostituire la contrapposizione brutale “carnefice vs. vittima” a una maggiore complessità di rapporti che vede in scena, in qualità di protagonista, un “eroe salvifico” alla
Schindler, alla Perlasca o alla Palatucci (il che implica di necessità qualche interrogativo
anche sul negativo di questo, ovvero lo “spettatore” o “indifferente”)20.
Come sostiene Gian Piero Brunetta, la storia del cinema, pur nella sua legittima aspirazione a una propria identità e specificità e a una propria piena legittimazione scientifica, va anche vista e studiata – perché lo è, di fatto – come parte integrante della storia
della cultura, delle società e dell’immaginazione del XX secolo. Per cui non può prescindere dal dialogo sempre più ravvicinato con gli storici21.
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Oggi i palinsesti televisivi sono ricchi di proposte più o meno valide, specialmente all’approssimarsi del giorno della memoria; le videoteche scolastiche possiedono i migliori film sull’argomento e gli insegnanti inseriscono nelle programmazioni didattiche,
come un passaggio obbligato, la visione di un film sulla shoah. Il cinema quindi riprende
la sua funzione di “agente di storia”, per usare una nota espressione di Marc Ferro22,
nella misura in cui “i film suggestionano la vita degli spettatori, ne modellano la sensibilità, la coscienza, le idee, i comportamenti e ne modificano le abitudini, le mode, gli
approcci ideali e materiali alla vita”23.
In effetti il cinema svolge un ruolo importante nel processo d’insegnamento-apprendimento. La ricostruzione del periodo storico in cui si colloca l’8 settembre può essere
agevolata dalla potenza di suggestione del cinema, sempre però tenendo nel massimo
conto due elementi di giudizio fondamentali. Il primo è che un’opera di genio va giudicata principalmente secondo criteri estetici e non storiografici, rinunciando quindi alla
necessità della verosimiglianza storica come criterio di valutazione. Il secondo è che,
come opera complessa (opera di genio ma anche prodotto commerciale finalizzato a intercettare l’orizzonte d’attesa del pubblico), un film può essere portatore d’una particolare ideologia dell’autore o d’una certa posizione storiografica che, in casi estremi, prende
il sopravvento sulla verosimiglianza storica.
Ovviamente compito dell’insegnante è di attivare negli studenti le specifiche abilità
di visione critica del film, nell’ambito di una programmazione specifica, evitando sia
l’improvvisazione che il predominio del sentimento come sintomo di fruizione acritica
del prodotto cinematografico. Ciò presuppone come conseguenza necessaria la visione
di più film in forma integrale; il che può avvenire ulteriormente e preferibilmente, a mio
parere, in un cineforum funzionante in orario extrascolastico.
e) Ricerca su fonti visive: fotografie, cartoline, disegni ecc. L’educazione all’analisi
dell’immagine è molto carente nella nostra scuola e perciò è opportuno che percorsi specifici siano attivati molto presto, già nei primi anni di istruzione. Alcuni indirizzi scolastici comprendono nel curricolo discipline artistiche e grafiche che possono coinvolgere
particolari competenze tecnico-professionali degli studenti stimolando contributi più
consapevoli anche in prospettiva interdisciplinare. Ciò che resta sempre irrinunciabile,
nell’insegnamento della storia, è l’esigenza di trasmettere agli allievi la funzione della
fonte visiva nell’operazione storiografica24.
La storiografia sugli internati militari dispone di fonti fotografiche di particolare importanza: tra queste costituisce ancora documento di eccezionale valore l’album di Vittorio Vialli, nel quale l’autore raccolse una parte delle fotografie da lui scattate
clandestinamente nei lager e che oggi sono riproposte, assieme a molte altre di diversa
provenienza, nel volume curato da Adolfo Mignemi, che per la scientificità dell’inquadramento rappresenta una solida base di partenza per qualsiasi percorso didattico25.
Altrettanto importanti sono i disegni e gli schizzi eseguiti in diversi campi, spesso
con materiale di fortuna, da apprezzati pittori come Marcello Tomadini, Alessandro Berretti e Giuseppe Novello (raccolti in volumi monografici) e da altri artisti le cui opere
compaiono in volumi miscellanei o sono state riprodotte sulle pagine delle riviste di as21
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sociazioni reducistiche26.
Le domande da porre a queste fonti, che l’insegnante guiderà approntando specifiche
schede di analisi, variano significativamente a seconda dell’età degli alunni: nel caso di
bambini della scuola primaria, ad esempio, si può proporre una contestualizzazione generica per poi cercare di risalire ai sentimenti dei militari raffigurati e alle vicende da
loro vissute precedentemente e successivamente lo scatto della fotografia o la realizzazione del dipinto.
f) Ricerca mediante altre fonti. I manufatti e gli oggetti d’uso nel lager (gavette, posate, libri, materiali per scrittura, cartamoneta, lasciapassare ecc.) sono fonti per la ricostruzione delle condizioni di vita all’interno del lager. Le targhe e i monumenti sono
fonti per una ricostruzione della elaborazione della memoria ufficiale dell’internamento
e della specificità dell’internamento militare, mentre i figli degli ex-internati possono essere fonti “vive” per la ricostruzione della memoria familiare e privata dell’esperienza
concentrazionaria, vista nella dimensione degli affetti più intimi27. Fonti di particolare interesse, di recente valorizzate e studiate dall’Associazione Nazionale Radioamatori di
Carpi, sono le radio clandestine nei Campi: a partire dagli schemi tecnici, ricostruiti da
abili appassionati, è possibile ripercorrere, con materiali analoghi a quelli impiegati nei
lager, le fasi della realizzazione di una radio clandestina28.
Dopo aver elencato le diverse tipologie di fonti, vale la pena di aggiungere qualche
ulteriore osservazione sul loro uso. L’approccio alla fonte, anche in una didattica scolastica, deve sempre essere critico. Infatti il documento sottoposto all’inquisizione narrativa, […] calato nella dimensione multipla della polis contemporanea, rivela gli snodi, i
ritorni, gli accadimenti imprevisti, e soprattutto lascia intravedere l’altrove possibile, la
lettura della Storia non come testo reiterato ma come spazio aperto alla concreta opera
degli uomini29.
La ricerca e la selezione delle fonti da presentare agli studenti può avvenire essenzialmente nel web, negli archivi, nelle sedi delle associazioni combattentistiche e d’Arma.
Purtroppo la didattica sull’internamento dei militari è carente, per necessità di cose, sul
versante delle visite di studio, sia per il generale abbandono in cui versano i campi di prigionia sia per l’assenza di raccordo fra le associazioni reducistiche di ex-internati, poco
attive nel turismo culturale, e le autorità estere. Sono i promotori turistici più maturi i soggetti meglio indicati per la programmazione di “pacchetti” di viaggi culturali scolastici
nei quali trovino composizione, in unica proposta, la correttezza dei contenuti, la consapevolezza didattica e la professionalità specifica dell’organizzazione; infatti, come
scrive Renzo Garrone, le gite scolastiche mentre diventano un business enorme per l’industria turistica (una classe che si sposta insieme rappresenta per un operatore commerciale una ventina di clienti in un colpo solo, un gruppo) hanno bisogno di un
riorientamento, di una forte ridefinizione. Che va fatta partire da una seria critica dell’esistente, per potersi poi muovere in direzione di ipotesi più mature e conformi a quanto
spesso è gestibile con soddisfazione, che si concretizzino in modalità di viaggio qualitative e più responsabili30.
Esistono inoltre due ulteriori risorse che vanno valorizzate in maniera speciale. La
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Quale didattica dell’internamento
prima è costituita dai musei, dove gli studenti possono trovare reperti/fonti per la conoscenza storica convenientemente custoditi e spesso presentati nell’ambito di percorsi didattici specifici. Diventa così possibile utilizzare lo spazio museale (primo fra tutti il
Museo Nazionale dell’Internamento in Padova31) come vera e propria aula didattica decentrata, ovvero uno spazio didattico fuori-scuola condotto da personale qualificato; il
che, aggiunto all’attenzione per la singola fonte materiale, contribuisce a educare i giovani al rispetto e allo sviluppo del patrimonio documentale e più in generale alla tutela
dei beni culturali, in quanto la consapevolezza che un oggetto, un frammento, è una traccia storica che può diventare fonte storiografica se impiegato nel contesto di una ricerca
finalizzata, induce a una formazione più attenta verso le tracce della nostra storia.
La seconda risorsa a disposizione è rappresentata dalle famiglie degli studenti: succede spesso che tra i nonni ci sia un ex-internato, che a quel punto può diventare, accertata la disponibilità alla collaborazione, una preziosa fonte orale (o magari tramite per
l’acquisizione di altre fonti inedite, se possiede “ricordi” materiali della prigionia); l’effetto sull’insegnamento-apprendimento della storia sarà, in quel caso, che gli studenti
avranno compreso come la storia generale si leghi a quella del singolo, e come anche la
scuola possa costituire nel suo piccolo un luogo di ricerca capace di offrire un contributo
per l’emersione e l’utilizzo di fonti inedite. Addirittura, qualora emergano fonti sconosciute alla comunità scientifica (come è capitato più volte a chi scrive), quello che era un
semplice progetto didattico può trasformarsi in “caso di studio” capace di illuminare meglio, con un’indagine micro, anche il quadro generale macro. In quel caso occorre che
la scuola sappia valorizzare l’esperienza di ricerca dei suoi studenti attraverso l’allestimento di incontri con la società, dalla presentazione pubblica alla mostra, dalla realizzazione di un “quaderno” al ciclo di conferenze. Ciò presuppone la capacità della
dirigenza di interagire con le altre scuole e con le forze sociali ed economiche allo scopo
di intercettare sensibilità che si traducano in sostegno finanziario.
Anche delle fonti, inoltre, può essere detto ciò che il teorico dei mezzi di comunicazione di massa Marshall McLuhan sosteneva a proposito dei “media caldi”, che comportano un basso grado di partecipazione del pubblico, e di quelli “freddi”, capaci di
coinvolgere molto di piú gli astanti:
“C’è un principio base che distingue un medium ‘caldo’ come la radio o il cinema, da
un medium ‘freddo’ come il telefono o la TV. È caldo il medium che estende un unico
senso fino a un’‘alta definizione’: fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi
di dati. Dal punto di vista visivo, una fotografia è un fattore di ‘alta definizione’, mentre
un cartoon comporta una ‘bassa definizione’, in quanto contiene una quantità limitata di
informazioni visive. Il telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni, e altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in genere perché offre poco
ed esige un grosso contributo da parte dell’ascoltatore. Viceversa i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare; comportano perciò una
limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione
o di completamento da parte del pubblico”32.
23
Alessandro Ferioli
DIREZIONI DI RICERCA
La didattica scolastica sugli internati militari in Germania si presta a muoversi in diverse direzioni finalizzate a far risaltare determinati punti di vista, anche in prospettiva
pluridisciplinare, e a evidenziare di volta in volta differenti chiavi interpretative. Ciò è
fondamentale per evitare di scivolare nel patetico, con quella meccanica riproduzione
dell’“armamentario degli orrori” desunto dalla banalizzazione della shoah che, peraltro,
mal si adatta all’esperienza degli internati. Elenco di seguito alcune piste percorribili.
1) L’internamento dei militari italiani nel contesto delle deportazioni naziste. L’internamento dei nostri militari non può non essere considerato e valutato nel contesto più
ampio delle diverse deportazioni attuate dal regime nazista e cioè: quella degli ebrei,
degli zingari, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, dei pastori evangelici e dei sacerdoti cattolici, dei malati di mente, degli “asociali” (vagabondi, ladruncoli, ma anche
operai e impiegati accusati di scarso rendimento o d’insubordinazione), delle popolazioni dell’est e degli oppositori politici. Attraverso i deportati con le stellette il popolo
italiano, responsabile di avere tollerato con l’asse Roma-Berlino anche la logica del concentrazionario, può oggi dire di avere espiato la sua colpa storica proprio mercé l’attraversamento volontario dei lager nazisti di una massa quantitativamente importante e la
condivisione del sacrificio da parte dei loro familiari in Patria. Perciò scriveva a buon diritto Vittorio Emanuele Giuntella che l’internamento “fu per gli italiani anche, paradossalmente un ritorno, tragico e doloroso, eppure manzonianamente provvido, nella grande
famiglia dei popoli europei. Gli italiani nei lager ritrovarono quella identità comune europea dalla quale il fascismo aveva creduto di poterli separare. Questa almeno fu l’impressione provata da molti nel varcare la soglia del lager, quella, cioè, di essere finalmente
dalla parte giusta, di essere tra fratelli, anche se per essere riconosciuti fratelli dovettero
lungamente soffrire”33.
Perciò per molti internati (soprattutto per quelli provenienti dai fronti di guerra) il
“no” detto alle proposte tedesche di collaborazione valse anche come un rifiuto preciso
e consapevole del sistema che pretendeva lo sterminio degli ebrei e la sottomissione dei
popoli inferiori alla sedicente razza eletta. L’autore che ha espresso meglio di tutti l’appagamento provato nel trovarsi improvvisamente dalla parte degli oppressi è stato forse
Mario Rigoni Stern, nel racconto Aspettando l’alba, dove narra dei russi con cui aveva
fatto amicizia, i quali alla sua partenza intonano una canzone:
“Era una canzone di saluto per me, che contro di loro avevo combattuto ma che adesso,
per non essere ancora dalla parte del torto, stavo con loro rinchiuso nel Lager I/B”34.
Una ricerca sistematica di testi che metta nella dovuta evidenza questo aspetto di fraternità-solidarietà potrà risultare di grande utilità anche per quella prospettiva pedagogica
interculturale a cui ci richiama l’ingresso nell’Unione Europea delle popolazioni dell’Est che Hitler voleva ridurre in schiavitù. Rigoni è in effetti, dentro il lager, un uomo
in crisi d’identità che, consapevole d’essersi trovato sino a poche settimane prima dalla
parte dell’aggressore, sta cercando di ridefinire e cambiare la sua cultura attraverso la reciproca accettazione con gli altri prigionieri, in uno sforzo di avvicinarsi e intendersi e
arricchirsi gli uni con gli altri in pari dignità. Così l’identità del sottufficiale degli Alpini
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Quale didattica dell’internamento
si rimette in cammino mediante l’apertura a una comunicazione interattiva democratica
e dinamica, facente leva sulla condivisione di una comune umanità che rende l’uomo
degno in ragione della sua stessa natura.
Tra le uscite più recenti, che muovono nella medesima direzione, segnalo il memoriale di Luigi Baldan35, il quale ritrova nella prigionia proprio quell’identità europea dalla
quale i nazifascisti pretendevano di separare i propri popoli. All’interno del lager, infatti,
il giovane marinaio ha la conferma di ritrovarsi, pur nella diversità delle lingue, tra fratelli nella persecuzione; fa quindi amicizia coi russi, con i cechi e soprattutto con le ragazze ebree, alle quali fa arrivare cibo rubato a rischio della propria vita, stracci per
ripararsi dal freddo e notizie sull’andamento della guerra. Nell’aprile ’45, approfittando
dello sbandamento dei tedeschi ormai in rotta su tutti i fronti, Baldan fugge dal campo
di lavoro e ripara fortunosamente in Cecoslovacchia dove trova aiuto da parte della popolazione sino all’arrivo delle truppe sovietiche. Il lager, ma anche la guerra che obbliga
a viaggiare, diventano per l’uomo luoghi di costruzione di forme culturali in cui i diversi
retaggi possono confrontarsi.
2) L’internamento dei militari italiani nell’ambito delle diverse forme di resistenza
patriottica al nazi-fascismo. La lotta di liberazione degli italiani dal nazismo si svolse sostanzialmente nelle due forme seguenti:
– una resistenza intesa come insieme di attività cospirative e informative clandestine
sfocianti in vera e propria lotta armata patriottica contro un nemico-invasore (il terzo
Reich) e i suoi alleati italiani (la RSI o, se vogliamo, i residui fascisti), alla quale presero
parte attiva individui provenienti da ogni ceto sociale, compresi molti militari di carriera
e cittadini che alla data dell’8 settembre 1943 si trovavano a prestare servizio militare di
leva o di complemento, e che si concretizzò, sotto l’organizzazione e la direzione del
Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (CLNAI), nella cobelligeranza partigiana;
– una partecipazione militare, da parte di militari inquadrati in reparti regolari, nella
battaglia d’Italia al fianco delle armate Alleate in qualità di cobelligeranti.
Va detto inoltre che la lotta partigiana fu sostenuta da altre due componenti della resistenza, che la storiografia da qualche tempo sta prendendo in seria considerazione per
il determinante aiuto materiale e morale dato ai combattenti della libertà al rischio di
persecuzioni, arresti, distruzioni, deportazioni nei campi di sterminio e di prigionia.
Si tratta di:
– una sorta di seconda linea del fronte resistenziale costituita da attività compiute da
elementi della popolazione più o meno impegnati in raccolta di informazioni, custodia
di piccoli depositi d’armi, stampa clandestina, finanziamento economico, supporto logistico secondario, fiancheggiamento e sostegno vario;
– azioni resistenziali “non violente” o “umanitarie” a beneficio di partigiani, ebrei e
prigionieri di guerra alleati, di cui furono protagonisti le popolazioni delle campagne,
certi religiosi e certi elementi delle forze dell’ordine; tali azioni, che per lungo tempo furono interpretate come meri atti di carità slegati da un’autentica scelta di campo o, peggio ancora, annoverate tra i comportamenti ispirati all’attendismo, da qualche anno
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Alessandro Ferioli
risultano in forte rivalutazione: in quest’ottica va considerata la concessione, da parte
del Presidente della Repubblica, della Medaglia d’oro al Merito Civile a ecclesiastici
quale riconoscimento concreto “alla memoria” per il loro impegno resistenziale (analoga ricompensa è stata conferita anche a Comuni d’Italia particolarmente distintisi in
quel campo).
È difficile giudicare il peso che queste forme di resistenza ebbero nella sconfitta del
nazismo e dei residui fascisti in Italia e ancor più difficile è valutarne il peso nell’ambito
delle resistenze europee. Tuttavia esse ci furono e contribuirono senz’altro ad avvicinare
il popolo italiano a quelle nazioni liberaldemocratiche dalle quali il fascismo l’aveva allontanato.
Riferendosi alla guerra di liberazione e all’apporto a essa fornito dai militari, il colonnello Rinaldo Cruccu, capo dell’Ufficio Storico dell’Esercito, ebbe a scrivere già nel
1975: “Non c’è un solo momento e un solo aspetto di essa ove non siano stati presenti,
col loro apporto insostituibile, unità delle Forze Armate, uomini delle Forze Armate o da
esse provenienti. Non fu una presenza tardiva, sporadica ed episodica, ma immediata, costante e operante, una presenza consapevole, che si ispirava agli ideali del Primo Risorgimento, una presenza devota agli interessi del Paese e perciò portata ovunque,
semplicemente, come un normale dovere”36.
Eppure, nonostante l’importanza di tale partecipazione, la resistenza “con le stellette”
ha rivestito per lungo tempo nella storiografia un ruolo di secondo piano. Ciò, in sintesi,
si può attribuire sostanzialmente alla sopravalutazione culturale, editoriale e pubblicistica che ebbe sin dal dopoguerra, per evidenti motivi di parzialità politica, il contributo
fornito dai militanti dei partiti antifascisti; all’interesse delle diplomazie anglo-americane a conservare intenzionalmente un profilo basso dell’immagine delle rinate Forze Armate italiane; al livore che l’intellighenzia italiana ha per lungo tempo dimostrato e
ostentato nei confronti degli uomini in uniforme, soprattutto se di carriera; alla scarsa partecipazione che, con poche eccezioni, contrassegna le cerimonie celebranti il sacrificio
resistenziale delle Forze Armate; e infine, forse, anche allo scarso interesse dimostrato
in più circostanze dalle gerarchie militari che non di rado hanno relegato queste vicende
ai competenti Uffici storici anziché vivificarle nel vissuto dei reparti.
Invece la guerra condotta dai reparti regolari e la lotta delle bande partigiane hanno
un comune denominatore: la presenza dei militari, ovvero di cittadini in armi, evidente
ed esclusiva nel primo caso ma molto incisiva anche nel secondo. È questo un fatto storico normalmente passato sotto silenzio, ma che potrebbe ben fruttificare attraverso
un’adeguata riflessione sull’insieme delle varie modalità con cui le Forze Armate italiane, nazionali e di leva, seppero assolvere piuttosto compattamente al loro compito
principe: quello della difesa della patria.
Le stesse formazioni partigiane, per funzionare in piena efficienza, dovettero darsi
strutture di comando di tipo militare e stabilire rapporti, attraverso rischiose missioni di
collegamento in entrambe le direzioni, con il fronte Sud per riceverne ordini, rifornimenti e addestramento all’uso di armi ed esplosivi. Basti ricordare, a dimostrazione di
una solidarietà non solo materiale ma anche spirituale, l’inquadramento della Brigata
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Quale didattica dell’internamento
Patrioti della Majella nel Corpo d’Armata Polacco come unità tattica di combattimento
fino alla Linea Gotica.
Particolarmente significativa fu senz’altro anche la resistenza delle unità militari all’estero, già impiegate in attività di controguerriglia, che in pochi giorni presero l’assetto
di forze partigiane affiancando quelle locali. All’indomani dell’armistizio i tedeschi cercarono un po’ ovunque di disarmare le Grandi Unità italiane con l’inganno, per evitare
d’impegnarsi in combattimenti seri. Verbalmente e anche con accordi scritti, laddove vi
furono generali disposti a sottoscriverli, i tedeschi garantirono il rimpatrio dei militari italiani con la possibilità di conservare l’armamento leggero, mentre esigevano la consegna
delle artiglierie: le promesse sarebbero state sconfessate non appena si fosse presentata
l’occasione favorevole a consentire il disarmo degli italiani e la loro deportazione verso
i lager. Alle minacce dei germanici si aggiungevano due ulteriori problemi: in primo
luogo il possesso delle armi, benché consentisse agli italiani di difendersi, li rendeva tuttavia più esposti all’assalto di tedeschi e di partigiani locali nonché alle pressioni delle
missioni militari alleate; inoltre il fatto di combattere contro i tedeschi in assenza di una
dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania, che fu formalizzata soltanto il 13 ottobre, rendeva gl’italiani passibili di fucilazione in quanto combattenti irregolari (come
avvenne a Cefalonia, a Corfù, a Coo e a Lero).
In questa situazione vi furono unità i cui comandanti seppero nonostante tutto prendere decisioni risolute, dimostrando straordinarie capacità professionali e umane nel
coinvolgere ed entusiasmare i loro subordinati di tutti i gradi. Ad agevolarli in tale compito influì anche, dal basso, il sentimento di disagio dei militari di fronte alla loro condizione d’invasori di altri popoli che appariva così antitetica rispetto alla storia italiana
risorgimentale.
Ricorderemo qui soltanto alcuni casi: in primo luogo quello della Divisione Pinerolo
i cui appartenenti, dopo avere stipulato un patto di collaborazione militare con i rappresentanti delle organizzazioni partigiane greche, combatterono contro i tedeschi e proseguirono il loro contributo di lotta per la liberazione della Grecia nelle bande partigiane.
Altrettanto decisa fu la reazione delle divisioni stanziate in Montenegro. Il giorno 13,
al rapporto dei comandanti di divisione del XIV Corpo d’Armata i comandanti dell’Emilia, della Taurinense, della Ferrara e della Venezia si accordavano sul rifiuto di cedere le armi ai tedeschi. Nonostante la successiva defezione del grosso della Ferrara –
segno della volontarietà delle scelte di quei momenti – la Venezia e la Taurinense conservarono finché poterono i simboli di militarità: stellette, mostrine, gradi e distintivi divisionali. Dopo aver fronteggiato i tedeschi per alcune settimane in sanguinosi scontri e
vista l’impossibilità di raggiungere il mare per tentare il rimpatrio, gli italiani, già uniti
alla resistenza jugoslava, costituirono la Divisione partigiana Garibaldi: era il 2 dicembre 1943 e al nucleo originario formato dai superstiti della Venezia e della Taurinense si
erano ormai aggiunti finanzieri, carabinieri, reparti della Guardia alla Frontiera e della
CRI.
A Spalato, dopo l’inutile resistenza della Divisione Bergamo, terminata con l’eccidio
dei 3 generali e di 47 ufficiali, per iniziativa di 200 carabinieri divisionali prese vita il Bat27
Alessandro Ferioli
taglione Garibaldi che proseguì la lotta contro i tedeschi al fianco dei partigiani jugoslavi,
mentre a Lesno si formava il Battaglione Matteotti. Dopo la lotta in difesa della Bosnia
durante gli attacchi germanici del maggio-giugno 1944 e alla liberazione di Belgrado,
dall’unione dei reparti, ai quali si aggiunsero i battaglioni Mameli e Fratelli Bandiera,
fu costituita la Brigata d’Assalto Italia (poi elevata al rango divisionale).
Un’altra forma di resistenza, seppure meno nota, fu espressa dai “cooperatori”, ovvero i prigionieri di guerra italiani nelle mani degli angloamericani che scelsero di aiutare gli Alleati nella nuova lotta contro il comune nemico germanico come occasione
per manifestare concretamente in massa sia la loro contrarietà al nazifascismo sia il consenso alla scelta armistiziale del nuovo governo. Accettando, con quell’umiltà che le
contingenze imponevano, di portare il proprio contributo per la cacciata dei tedeschi dall’Italia e per la causa democratica, essi entrarono così nei battaglioni ISU (Italian Service
Unit) in Tunisia, in Algeria, in Marocco, negli USA, in Gran Bretagna e, dopo lo sbarco
in Europa, anche in Francia, partecipando alla riparazione di strade e ponti distrutti e al
trasporto di materiali e munizioni, fornendo il personale specializzato alle officine, ai
servizi infermieristici e alla gestione dei magazzini.
3) L’internamento dei militari italiani nel quadro delle prigionie dei militari italiani
nella seconda guerra mondiale. Al termine del conflitto, nel 1947, una relazione del Ministero dell’Assistenza Postbellica delineava un consuntivo della situazione degli oltre
1.450.000 militari italiani che, caduti in mano nemica sui vari fronti e nei più diversi
momenti, erano poi passati attraverso i campi di prigionia e di internamento sparsi in
tutto il mondo, in tutti i continenti e a tutte le latitudini, dalle Americhe alle isole Haway;
dalla Gran Bretagna ai territori di sovranità britannica dell’Africa, dell’Australia e dell’India; dalla Russia europea alle steppe siberiane; dai campi di morte di Germania, Polonia ed Austria all’inferno balcanico; dal cuore di Francia alle zone atlantiche e
mediterranee dell’Africa Settentrionale37.
È perciò di qualche utilità, nonostante la complessità del lavoro, una comparazione
delle diverse prigionie a partire dalla memorialistica e dalla documentazione già edita.
Un’attività di ricerca sulle condizioni di vita nei Campi di tutto il mondo, non preconfezionata e aperta a diversi possibili esiti, potrebbe mettere in luce la tendenza delle potenze
detentrici (totalitarie e democratiche) ad alleviare o accentuare i disagi e le sofferenze dei
prigionieri a seconda della loro disponibilità o meno alla collaborazione.
INTERDISCIPLINARITÀ
L’argomento si apre, inoltre, a interessanti prospettive pluridisciplinari. È il caso di
un modulo, proposto da chi scrive nell’ambito degli insegnamenti di storia e geografia,
avente come idea centrale quella di ripensare alle deportazioni della prima guerra mondiale (quella degli irredentisti trentini) e della seconda guerra mondiale (dei prigionieri
di guerra e deportati nei campi di concentramento nazisti e comunisti) alla luce della più
generale nozione di “viaggio”, nel tentativo di ritrovare nelle forme della deportazione
e nella sua memoria le connotazioni culturali, sociologiche e psicologiche del viaggio,
superando così il consueto inquadramento di tali vicende nel concetto di “migrazioni co28
Quale didattica dell’internamento
atte”38, accantonando gli aspetti più truci del lager, per proporre nuovi percorsi di lettura
e d’interpretazione di quegli eventi. Marco A. Villamira, in un suo saggio, sostiene la tesi
secondo cui il viaggio costituisce in sé una storia, di cui il viaggiatore è protagonista interpretando un ruolo carico di significati culturalmente definiti nel corso della storia
umana; così il viaggio stesso potrebbe essere interpretato come la narrazione della propria esistenza, della presenza dell’uomo al mondo. La nostra storia, secondo la più importante narrazione della cultura occidentale, nasce da un viaggio: l’allontanamento dal
Paradiso Terrestre per calcare gli avventurosi sentieri della Terra. Il viaggio è punizione,
prova, premio, espressione di ambizione, ricerca di conoscenza; l’Ulisse di Omero vaga
in attesa del favore degli Dei e del suo ritorno a casa, quello di Dante va in cerca della
conoscenza, i cavalieri erano alla ricerca del Santo Graal, gli aristocratici britannici di fine
Ottocento celebravano nel Grand Tour l’amore per la cultura classica e per la natura incontaminata39.
I temi sui quali un modulo così concepito può essere articolato sono pressapoco i seguenti:
– Il distacco e il viaggio. La partenza per affrontare un viaggio più o meno lungo è
sempre un momento difficile e qualche volta anche penoso; a maggior ragione ciò si verifica quando la partenza e il viaggio avvengono forzatamente, perché imposti da un’autorità di polizia o da militari armati o perché seguiti alla cattura sul campo di battaglia.
Lo scopo della prima parte del modulo è perciò di riconoscere caratteri comuni alle “partenze” e ai “viaggi d’andata”, riconducendoli a un paradigma archetipico.
– L’arrivo nel lager e la modificazione del modo di pensare. Nella seconda parte del
modulo si può rilevare come la dimensione dell’arrivo nel luogo di destinazione possa
ricondursi, anche per l’esperienza dei deportati così come per qualsiasi altra esperienza
di viaggio, a modelli archetipici di “arrivo”, implicanti determinati conflitti e cambiamenti: perciò il viaggio nei lager, al pari di tutti i viaggi, viene costantemente interiorizzato e rielaborato dai prigionieri (sia durante che dopo) facendo ricorso a tutti gli
strumenti culturali di cui sia il singolo soggetto che la comunità dispongono.
– Il ritorno. Come osserva anche Eric J. Leed40, il racconto del viaggiatore, sia all’andata che al ritorno, avviene sempre in un clima contrassegnato dalla duplice negatività del sospetto (per le possibili menzogne di cui egli sarebbe propenso a infarcire la
narrazione) e della noia o indifferenza per le storie di viaggio. Allo stesso modo il ritorno
dei reduci dai campi di prigionia avvenne in un’atmosfera di freddezza tale da segnare
ancor più di sofferenza e delusione il sacrificio di coloro che avevano patito anni d’internamento con l’unica colpa di essere stati mandati a combattere una guerra per il proprio paese; al contempo il ritorno per i reduci dai lager significò il superamento di un
nuovo “confine”, costituito dalla difficoltà di riprendere la vita quotidiana, di rientrare
nella normalità, di raccontare ciò che, in quei difficili anni del dopoguerra, non interessava o non poteva essere compreso.
Un’altra e diversa proposta può tentare di ripercorrere le vicende dell’internamento
militare attraverso un progetto didattico fortemente orientato in senso interculturale che,
fra le tante etnie e culture presenti all’interno del lager, ricostruisca sia lo “stereotipo” del
soldato italiano e dell’italiano tout-court per i tedeschi di quel periodo, sia il “pregiudi29
Alessandro Ferioli
zio” che portò a vedere nei perseguitati dal nazismo (italiani compresi) un pericolo costante per la sicurezza e la tranquillità del terzo Reich41. Se l’ostilità dei tedeschi nei confronti degl’Italiani non sfociò apertamente nel razzismo (come pure invece taluni hanno
con qualche esagerazione sostenuto), essa si nutrì di stereotipi e pregiudizi che in parte
risalivano alla prima guerra mondiale e in parte furono abilmente nutriti dalla stampa tedesca già nel corso della guerra e poi riaccesi dopo l’8 settembre 1943: fin dal 1942 l’immagine dell’Italia, “esacerbata da certi pregiudizi e stereotipi tradizionali”, si era andata
deteriorando e caricando di disprezzo; fu però in seguito all’armistizio che il governo
tedesco vietò ai mass-media persino l’uso del termine “truppe italiane”, riservando la
denominazione di truppe fasciste ai seguaci dell’Asse e coniando il neologismo sprezzante di Badoglioten per i fedeli al Re, segnati con il marchio di unsoldatisches Gesindel (canagliume imbelle). Questi stereotipi, benché grezzamente fomentati, non fecero
che accrescere l’ostilità del popolo tedesco nei confronti dell’Italia e degli Italiani, ormai
quotidianamente gratificati di tutti gli epiteti più indegni42.
Oggi chi educa, e specialmente in una nazione di forte immigrazione come la nostra,
deve misurarsi molto seriamente con i problemi legati alla convivenza di persone di etnie
e culture diverse, impegnandosi a fare conoscere e accettare le diversità attraverso comportamenti ispirati da intime convinzioni e a fare interagire persone portatrici di differenze legittime. Ciò trova spesso ostacoli nel “curriculum implicito” – ovvero quella
speciale individualità di cultura, ideologia ed esperienze che proviene dall’ambiente e dal
clima in cui ciascuno si è formato e che lo differenzia dagli altri – che cammina parallelamente con quello “esplicito”, condizionando in positivo o in negativo gli studenti.
In conclusione, al termine di questa rassegna sul possibile lavoro da mettere in cantiere, vale la pena di evidenziare ancora due punti nevralgici. Il primo è dato dalla complessità delle “dinamiche d’aula” sotto i profili situazionale, culturale e umano; una
complessità che l’insegnante è chiamato ad affrontare e gestire con una professionalità
che ha incidenze significative su qualsiasi progetto didattico e che fanno dello stesso
progetto tutt’altro che un prodotto già preconfezionato, ma anzi un canovaccio da rimodellare continuamente. Come ricorda Vanna Gherardi, le possibili dinamiche di insegnamento-apprendimento vedono interagire un insieme di componenti che vanno dai
contenuti di conoscenza, alle modalità in cui possono venire organizzati e presentati,
alle attività cognitive richieste all’allievo (leggere, studiare,…), alle caratteristiche individuali degli allievi con il loro sapere pregresso e il loro modo di conoscere, fino alla
dimensione culturale che attribuisce senso alle attività e a quella di contesto, percettivo
e sociale, che costituisce l’ambiente di apprendimento43.
Il secondo punto nevralgico è che i risultati migliori possono essere raggiunti soltanto nell’ambito di una rete di scuole. Il Regolamento sull’autonomia approvato con
DPR n. 275/1999 e successive modificazioni44 consente infatti, all’articolo 7, la possibilità per le istituzioni scolastiche di “promuovere accordi di rete o aderire ad essi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali”. Tra queste è espressamente prevista
l’istituzione di laboratori finalizzati fra le altre cose alla ricerca didattica e alla sperimentazione, nonché alla “documentazione, secondo procedure definite a livello nazionale
30
Quale didattica dell’internamento
per la più ampia circolazione, anche attraverso rete telematica, di ricerche, esperienze,
documenti e informazioni”, eventualmente stipulando convenzioni con università o con
istituzioni, enti e associazioni per la realizzazione degli obiettivi prefissati. In Italia esistono già esperienze molto positive e adeguatamente documentate (fra cui si segnalano
le iniziative delle scuole in rete di Nuoro45) che debbono essere riprodotte e implementate: da soli si fa ben poco.
1
D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi: Guida psicologica per gli insegnanti, Milano, Angeli,
1998.
2
M. L. Salvadori, Il Novecento: Un’introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 3.
3
L. Araldi, Educare alla pace, Fidenza, Mattioli 1885, 2002.
4
P. Sorcinelli e A. Varni, “Premessa”, Il secolo dei giovani: Le nuove generazioni e la storia del Novecento,
Roma, Donzelli, p. XI.
5
Segnalo il fumetto realizzato da alcuni studenti del Lycée-Collège de l’Abbaye de St-Maurice, ispirato al
Diario clandestino di Guareschi: A. Giroud, Groupe OC Collège de St-Maurice, D. Formaz, En attendant
Don Camillo: D’après le jurnal clandestin de Giovannino Guareschi, Martigny, Centre rhodanien d’impression, 2004.
6
G. Petter, La preparazione psicologica degli insegnanti, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 91 passim.
7
M. Baldacci, La didattica per moduli, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 15.
8
A. Ferioli, “Dentro i lager: Breve rassegna bibliografica sull’internamento dei militari italiani nei lager del
terzo Reich”, Archivio Trentino, n. 2 (2002).
9
“La denominazione di fonte con richiamo implicito allo sgorgare, al venire alla luce, al manifestarsi, appare particolarmente appropriata per indicare qualsiasi tipo di testimonianza, di prova, di resto, di traccia,
di sintomo o di indizio”. Così R. Dondarini, Per entrare nella storia: Guida allo studio, alla ricerca e all’insegnamento, Bologna, CLUEB, 1999, p. 101.
10
A. Brusa, Il laboratorio storico, Firenze, La Nuova Italia, 1991.
Sull’uso delle fonti nel laboratorio di storia cf. E. Rosso, Usare le fonti nella didattica: come, quando, perché, nel sito <http://digilander.libero.it/dibiasio.neoassunti/Scuola%20secondaria/Storia%20e%20filosofia/Usare%20le%20fonti.pdf>.
11
A. Cosentino, Costruttivismo e formazione: Proposte per lo sviluppo della professionalità del docente, Napoli, Liguori, 2002; Costruttivismo e scienze della formazione, a c. di R. Orru e D. Seddone, Milano, Unicopli, 2005.
12
Una proposta di schedatura è in I. Mattozzi, “Educazione all’uso delle fonti e curricolo di storia”, Storia,
Geografia, Studi Sociali nella scuola primaria, a c. di P. Roseti, Bologna, Nicola Milano Editore, 1992, pag.
55.
13
G. Greco, “Metodo storico e fonti”, Il diritto e il rovescio della storia: Orientamenti di metodologia e didattica delle scienze umane, a c. di G. Greco e D. Monda, Napoli, Liguori, 2006, p. 39.
14
N. Tranfaglia, “Il giornale”, Il mondo contemporaneo: Gli strumenti della ricerca: Questioni di metodo,
Vol. X, tomo 3, Firenze, La Nuova Italia, 1983.
31
Alessandro Ferioli
15
IRRE Calabria, L’ insegnamento della storia nel curriculo di base, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002,
p. 52.
16
R. Nepoti, Storia del documentario, Bologna, Patron, 1988.
17
G. Luzzatto Voghera, L’antisemitismo: Domande e risposte, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 133.
18
G. Rondolino, “Il cinema”, Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, a cura di G. de Luna, P. Ortoleva, M. Revelli, N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1983.
19
G. Green, Olocausto, Milano, Sperling & Kupfer, 1979.
20
Per analogia con il terzetto ricavabile dal saggio di R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori: La persecuzione degli ebrei: 1933-1945, Milano, Mondadori, 1994.
21
G. P. Brunetta, “Introduzione” a M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni: Come il cinema italiano ha
raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, Napoli, Liguori, p. 3-4. Del saggio di Melanco è fondamentale il cap. 1. Cf. inoltre: P. Ortoleva, “Il film e il programma televisivo come fonte storica”, La storia al cinema: Ricostruzioni del passato, interpretazione del presente, a c. di G. Miro Gori,
Città di Castello, Bulzoni, 1994.
22
M. Ferro, Cinéma et Histoire: Le Cinéma agent et source de l’histoire, Parigi, Denoël-Gonthier, 1977.
23
M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni: Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del
paesaggio dal sonoro ad oggi, Napoli, Liguori, p. 24.
24
A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine: La fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
25
V. Vialli, Ho scelto la prigionia: La resistenza dei soldati italiani deportati (1943-45), Sala Bolognese,
Forni, 1975 (2a ed. Roma, ANEI, 1983); Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania,
a c. di A. Mignemi, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
26
M. Tomadini, Venti mesi fra i reticolati, Vicenza, SAT, 1946; A. Berretti, Attenti al filo!, Genova, Libreria Italiana, 1946; G. Novello, Steppa e gabbia, Milano, Mondadori, 1957; La resistenza nei “lager” vissuta
e vista dai pittori, Roma, ANEI, 1979; L. Lisi, 8 settembre 1943-8 aprile 1945: Appunti di viaggio, s.l., Comune di Padova-ANEI, s.d.; A. Ferioli, “Il pittore dell’ospedale di Fullen”, Rassegna della Anrp, n. 5/6
(2007); Id., “Ettore Ponzi, pittore internato”, Rassegna della Anrp, n. 12 (2007).
27
Un utilizzo esemplare delle memorie familiari è in: Prigionieri senza tutela: Con occhi di figli racconti
di padri internati: IMI del Molise, a cura di E. Orlanducci, Roma, Edizioni ANRP, 2005.
28
Cf. il sito <www.radio-caterina.org>. Cf. inoltre A. Ferioli, “Caterina e le altre: L’epopea delle radio nei
campi di prigionia militari in Germania”, ScuolaOfficina, n. 1 (2006).
29
M. Marangoni, “Storie postmoderne”, Il diritto e il rovescio della storia: Orientamenti di metodologia e
didattica delle scienze umane, a c. di G. Greco e D. Monda, Napoli, Liguori, 2006, p. 95.
30
R. Garrone, Per un turismo scolastico nuovo e responsabile, Novara, De Agostini, 2002, p. 16.
31
Cf. la presentazione nel sito web <www.museodellinternamento.it>.
32
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 31-33.
33
V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Studium, Roma 1979, p. 106.
34
M. Rigoni Stern, Aspettando l’alba e altri racconti, Einaudi, Torino, 2004, p. 19.
35
L. Baldan, Lotta per sopravvivere: La mia resistenza non armata contro il nazifascismo, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2007.
36
R. Cruccu, “Le Forze Armate nella lotta per la liberazione”, Rivista Militare, n. 3 (1975).
37
Cit. in U. Cappuzzo, “Le condizioni dei prigionieri di guerra nei vari fronti”, I prigionieri e gli internati
militari italiani nella seconda guerra mondiale, a c. di R. Sicurezza, Roma, ANRP, 1995, p. 85.
38
P. Dagradi, Introduzione alla geografia umana, Bologna, Patron, 1982, p. 137 sg.
39
Psicologia del viaggio e del turismo, a c. di M. A. Villamira, Torino, UTET, 2001, p. 111-112.
40
E. J. Leed, La mente del viaggiatore: Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 135
passim.
41
Per i concetti in pedagogia cf.: F. Giustinelli, Razzismo, scuola, società: Le origini dell’intolleranza e del
pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1992.
32
Quale didattica dell’internamento
42
J. Petersen, “La Germania e il crollo del fascismo italiano nell’estate del 1943”, in La cobelligeranza italiana nella lotta di liberazione dell’Europa, Roma, Ministero della Difesa – Comitato storico Forze Armate
e guerra di liberazione, 1986.
43
V. Gherardi e M. Manini, Didattica generale, Bologna, CLUEB, 2001, p. 76-77.
44
DPR 8 marzo 1999, n. 275, “Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
45
Storia e memoria: Anno 2: Un esperimento di didattica della storia, a cura di C. R. Marchetti, Nuoro, Studio stampa, 2005; Le scuole in rete, Storia & memoria: Anno 3: Un esperimento di didattica della storia,
Nuoro, Studio stampa, 2007.
33